[Il 12 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Caccuri. [...] Per il sistema di scelta dei magistrati, a me sembra che il criterio del concorso sia la forma più democratica di scelta, poiché raggiunge lo scopo per la selezione tecnica su di un principio di eguaglianza; raggiunge lo scopo cioè di chiamare alle più importanti funzioni i più capaci, senza valutazione diverse dal merito e considerazioni di privilegi personali.
Sono però contrario all'immissione delle donne nella Magistratura.
È vero che esse hanno dato ottime prove in tanti uffici, ma l'arte del giudicare, oltre a richiedere particolari doti di equilibrio e di logica, richiede una costante serenità di giudizio che le donne, per ovvie ragioni fisiologiche e per naturali facoltà psicologiche, non possono avere, specie se si tien conto che normalmente in esse il sentimento prevale sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve avvenire il contrario.
Ritengo che si possa consentire alle donne di partecipare a limitate e determinate forme di giudizio nelle sezioni specializzate, ma non generalizzare fino al punto di consentire il libero accesso nella Magistratura.
[...]
Scalfaro. [...] Io penso che da nessuna parte si voglia tornare alla proposta che si è sentita ventilare, quella di avere dei magistrati eletti dal popolo. Spero che questo non venga proposto da alcuna parte, perché sarebbe in sostanza grave offesa ai principî di giustizia; e comunque, costituirebbe gravissimo pericolo allo svolgimento di una serena amministrazione della giustizia. Che, se è giusto che il popolo elegga i propri amministratori, i propri governanti, questo può fare scegliendo nel diverso schieramento politico, tra le varie tendenze, di rappresentanti delle diverse ideologie politiche. Tutto ciò non è possibile in tema di giustizia, che deve rimanere una e immutabile; né potrà mai esservi giustizia di destra, di centro o di sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualsiasi aggettivo: esso sarebbe «ladro». Esso verrebbe a privare del suo contenuto il sostantivo. La giustizia, come tale, non ha mai bisogno di essere affiancata da qualsiasi aggettivo; essa non può esser qualificata; la qualifica snatura la giustizia o, quanto meno, la presenta gravata di sospetti.
[...]
Vi è un altro problema che ha interessato e a volte turbato, in un modo che vorrei dire anche strano, l'Assemblea: è quello delle donne, vale a dire se esse debbano o meno entrare a far parte della Magistratura.
Lasciando quel che può essere il mio parere personale, di un giovane che sarebbe certo tacciato di mentalità del '700, io penso che l'articolo 48 da noi già votato, possa aver arato il terreno ed aperto la strada per la soluzione di un tale problema. Quando l'Assemblea ha dichiarato che «tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», è possibile che comunque il problema possa ritenersi, se non del tutto, quasi risolto. Si potrebbe obiettare che questo articolo è sotto il titolo dei Rapporti politici; comunque è stato scritto e non è facile ora andare a vedere le motivazioni che l'hanno determinato o le varie dichiarazioni di voto per cercar di restringere il più possibile il contenuto. Ormai è scritto.
Per questo ritengo che sia inutile la presentazione dell'emendamento che, firmato dall'onorevole Mattei Teresa e dalla collega Rossi Maria Maddalena dice: «le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura», ma che sia molto più saggio mantenere le parole del progetto, che portano con sé una grande saggezza, la quale, cioè, pur di fronte a questa uguaglianza, che io credo ancora voglia essere uguaglianza che non nega, ma presuppone le diversità nell'ordine di natura, abbia posto così un principio, abbia cioè detto che se la donna è uscita di casa per la vita politica, per la vita pubblica, comunque per un'attività che non sia quella sua primaria di maternità nella casa, la donna è chiamata ad essere «donna» in questa Assemblea come in ogni altra attività, ed è grande ed è a suo posto solo se è donna, perché solo in questo modo è madre di quella maternità spirituale, profonda, dolce e dolorosa insieme. Così potrà esser chiamata anche nella Magistratura, ma per portare questo suo palpito di maternità per cui in questo ufficio, in quell'incarico, sia necessario, o più opportuno che vi sia una donna. Ma ritengo comunque, che le doti altissime del suo animo dove prevale il sentimento che più è capace di renderla eroica, si confacciano alla specifica funzione del giudicare.
[...]
Gullo Fausto. [...] Ma, a mostrare quanto sia giusta la tesi che ha trovato la formulazione nel progetto, e quanto sia invece infondata e ingiustificata la richiesta della piena e assoluta indipendenza della Magistratura, soccorrono altre considerazioni, che riguardano più direttamente gli uomini che compongono l'ordine giudiziario.
Qui siamo di fronte alla parte più spinosa: quella appunto, come dicevo poc'anzi, che si è affacciata cento volte durante gli ottanta anni di vita unitaria italiana, e che non ha mai trovato l'adeguata sistemazione. Ebbene, bisogna affermare — per lo meno io l'affermo, perché sento che questa è la ragione che ha reso impossibile la soluzione del problema giudiziario finora, e la renderà impossibile sempre, se continuerà a persistere — bisogna affermare che la ragione è che il giudice non è tratto direttamente dal popolo.
Gli stessi magistrati sentono questa manchevolezza. Tanto la sentono, che, in uno stampato, che hanno fatto distribuire a tutti noi, essi, dopo aver affermato che «bisogna che la scelta avvenga solo a mezzo di concorso nazionale per esami» avvertono la necessità di aggiungere: «il che conferisce ai magistrati la qualità di rappresentanti, sia pure indiretti del popolo» Essi dunque sentono questa necessità: i giudici debbono essere rappresentanti del popolo. Ed è proprio qui la lacuna, qui il vizio del sistema. Il magistrato è ora avulso dal popolo. Egli non proviene direttamente da questa fonte; eppure ciò è quanto mai necessario in un regime di vera democrazia.
In realtà è veramente strano pensare che basti un concorso, per conferire questa rappresentanza. Ma, ripeto, è proprio qui la lacuna del sistema.
Che cos'è il concorso, questa fonte da cui i magistrati vengono tratti? Alcuni esami, e si può anche ammettere che siano esami difficili. Non sono, comunque, insuperabili, anche da chi non sia fornito di speciale intelligenza. Sappiamo tutti che cosa siano gli esami.
Ma, anche a considerare che il concorso sia uno strumento di cernita perfetto, è da chiedere: che cosa si accerta attraverso il concorso? Si accerta al massimo la capacità dottrinale. Ma basta esser colto per essere giudice? Basta avere — e magari l'avessero, dopo vinto il concorso — basta avere sul serio la capacità dottrinale, perché si possa essere un buon giudice? Può sul serio affermarsi che il concorso superato legittimi la presunzione di essere di fronte ad un giudice che sa amministrare giustizia?
Si accerta innanzi tutto, attraverso il concorso, per esempio, il carattere? E non è forse questa la prima dote del giudice, molto più che non sia la cultura? Non è forse necessario che il giudice abbia in sé il senso più vigile della propria dignità, che abbia in sé la volontà sempre ferma di difendere la propria indipendenza? Perché si potranno escogitare tutte le leggi che si vorranno, ma se non si ha l'uomo integro, che senta di dover difendere la sua dignità e la sua indipendenza contro tutto e contro tutti, il buon giudice non si avrà mai!
A tal proposito ritengo opportuno accennare ad un fatto, che concorre a mostrare che cosa possa voler dire incamminarsi verso la creazione d'una casta, di un ordine chiuso, e il fatto è il decisamente ostile atteggiamento che hanno assunto i magistrati di fronte al profilarsi della possibilità di fare ricorso ad una Magistratura elettiva.
E perché non dovrebbe pensarsi ad una Magistratura elettiva? Perché non dobbiamo affermare nella Costituzione (si intende, senza scendere a dettagli, che rimandiamo al legislatore venturo), perché non dobbiamo affermare nella Costituzione, che la Magistratura può anche avere come sua fonte la elezione?
Io ho letto quello che il collega Persico ha scritto (egli dice che il suo libro non lo ha letto nessuno, e non è vero), cioè che possa essere opportuno ricorrere al mezzo dell'elezione, almeno per i conciliatori ed i pretori.
Si obietta che si andrebbe incontro non si sa bene a quali inconvenienti.
Ma perché pensare che il popolo non sia capace di eleggere i suoi rappresentanti? e ciò dobbiamo dirlo proprio noi?
Ma perché questa ostilità preconcetta contro le elezioni? Non vi sono nazioni dove il giudice è eletto? All'inizio potrà esservi qualche deviazione; ma si può esser certi, che l'elettività rinnoverebbe profondamente, e ci fornirebbe un mezzo efficace per dare al problema giudiziario una soluzione adeguata ed efficace. Affermiamo dunque nella Costituzione che il magistrato possa essere elettivo! Il popolo saprà eleggere persone idonee e degne!
E, del resto, noi potremmo spianargli la via, richiedendo dagli eleggibili qualità che garantiscano della loro competenza e della loro capacità.
Abbiamo fiducia nel buon senso degli italiani; nella coscienza che essi avranno di eleggere i migliori. Noi otterremmo un altro risultato, che è di natura pratica, ma che non è meno interessante, ossia questo: che riducendo il numero dei magistrati veri e propri, appunto perché lasceremmo alla fonte elettiva i pretori e i conciliatori, lo Stato potrebbe andare incontro alle loro necessità in maniera più adeguata ed efficiente, assicurando loro un trattamento degno dell'alto ufficio. Come avviene in Inghilterra, dove il corpo vero dei magistrati è composto da poche centinaia di persone.
[...]
E insieme con questa necessità, ossia che venga abrogata la parte del progetto che si riferisce al divieto di appartenenza dei magistrati a partiti politici, io affermo un'altra necessità, che sia cioè consentito alla donna di essere giudice. Alessandro Dumas figlio, sostenitore eloquente del diritto delle donne ad essere immesse nella vita pubblica con tutte le prerogative degli uomini, con riferimento alla cruenta epopea napoleonica, disse da artista: «Quando passa un conquistatore e uccide alla madre un milione di figli, per questo fatto la donna acquista il diritto di partecipare al Governo politico della nazione». Che cosa avrebbe detto ora, quale accento avrebbe tratto dalla sua arte Alessandro Dumas, se avesse visto che alla madre è stato inferto uno strazio ancora più grande, nel momento in cui le è stato sulle sue stesse braccia ucciso il figlioletto poppante, travolto in una tempesta che ha atterrato tutti, vecchi, bambini, donne?
Non v'è una ragione sola che autorizzi ad affermare che la donna non debba avere una completa parità di diritti con gli uomini. Non v'è un motivo solo per dimostrare che la donna eserciti, meno bene dell'uomo, qualunque carica; potrà commettere degli errori, ma gli errori li commettono anche gli uomini. Non v'è quindi ragione, perché la donna non sia anch'essa ammessa all'esercizio della potestà giurisdizionale. Essa forse intenderà meglio di noi uomini tanti stati d'animo che a noi sfuggono, ma che invece sono appresi con quella più acuta sensibilità, che è propria della donna. La donna giudice intenderà più e meglio degli uomini ogni motivo di pietà e di sofferenza. Vi sono circostanze, fatti e sentimenti che noi uomini non sappiamo valutare pienamente così come possono e sanno le donne.
Io sentirei di affermare una inferiorità ingiustificabile, nel momento in cui, avendo dato alla donna tutti gli altri diritti, noi persistessimo a negare ad essa il diritto di essere giudice. (Approvazioni a sinistra).
A cura di Fabrizio Calzaretti