[Il 15 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Targetti. [...] «L'Italia è una Repubblica democratica», così dice l'articolo 1 del Progetto. È stato presentato da noi e dai comunisti un emendamento aggiuntivo inteso a specificare la natura di questa Repubblica: «Repubblica democratica di lavoratori».

Ricordo all'Assemblea che questa stessa proposta fu strenuamente sostenuta nella Commissione elaboratrice di questa prima parte della Costituzione, dai nostri colleghi onorevoli Basso, Togliatti e Mancini e ci corse poco che non raggiungesse la maggioranza. Io non facevo parte di quella Sottocommissione, ma, se ricordo bene, la formula «Repubblica democratica dei lavoratori» non passò, perché raccolse 7 voti contro 8: Non voglio dire quali rappresentanti della democrazia cristiana furono favorevoli a questa formula, perché non si sa mai quale servizio si rende a mettere troppo in rilievo il particolare atteggiamento di qualche appartenente a partito diverso dal nostro. Specialmente poi in questo momento in cui, a quanto ho letto stamani nel suo organo, anche la Democrazia cristiana si preoccupa non poco del formarsi di tendenze, se è vero che la Direzione del Partito è intervenuta a proibirne l'organizzazione.

Quindi io non faccio il nome di quei colleghi — ma lo dovrei fare a tutto loro onore — della Democrazia cristiana che si trovarono d'accordo con i rappresentanti del Partito socialista e comunista in questa specificazione di «Repubblica dei lavoratori».

Ma io non intendo svolgere ora il nostro emendamento. Richiamo più che altro l'attenzione dell'Assemblea sopra la portata, il significato politico e le conseguenze degli emendamenti, in senso contrario, presentati da altri colleghi, i quali vorrebbero che, non solo non si aggiungesse la specificazione «di lavoratori», ma che, nel secondo comma dell'articolo, non si dicesse neppure «la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Alcuni propongono di attribuire al lavoro un concorso nell'organizzazione della vita della Repubblica. Altro che concorso!

Altri vorrebbero affermare che il fondamento della Repubblica non sta nel lavoro, ma nella libertà e nel lavoro, mentre, poi, mettono da parte i lavoratori per sostituirli con i cittadini nell'indicare l'organizzazione del Paese.

Altro collega, di altro settore, propone di sopprimere senz'altro la parola «lavoro» con tutti i suoi derivati.

Per concludere su questo punto, per noi oggi non si tratta di un'affermazione di principî, quanto di una constatazione storica. Il nostro Paese se risorgerà, come vogliamo che risorga, come, nonostante tutto, sta risorgendo, se troverà, e la deve trovare, certezza di vita e di prosperità, sarà un Paese di lavoratori.

La fatica della ricostruzione sarà gigantesca. Diranno i credenti che richiederà un aiuto divino. Certo ci vorranno sforzi e fatiche, che il lavoro potrà compiere soltanto se avrà la certezza di non servire interessi egoistici, ma di giovare a tutti, alla collettività. Devono i lavoratori avere questa certezza e la sensazione che la Repubblica è cosa e casa loro.

Un accenno all'ultima parte dell'articolo 1°: «La sovranità emana dal popolo».

Alcuni colleghi non sono entusiasti in questo caso del verbo «emana». C'è chi propone «promana»; altri «risiede». È questione di forma.

Credo, piuttosto, dover richiamare l'attenzione sull'espressione «ed è esercitata, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Io non esiterei a togliere questa specificazione. Probabilmente essa è dovuta al ricordo dello strapotere della volontà statale sotto il nefasto regime fascista, e la soppressione di questa aggiunta potrebbe dare il sospetto, non di fascismo, venendo da parte nostra, ma di totalitarismo, di dittatura. Spettri, questi, che si evocano tanto di frequente! Quindi mi astengo dal proporne l'abolizione.

Ma, secondo me, occorre, se non altro dire: «La sovranità promana — o deriva — dal popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Altrimenti non si sa con precisione da chi questa sovranità viene esercitata, mentre dovrebbe risultar chiaro che viene esercitata dal popolo o direttamente o attraverso i suoi delegati, i suoi rappresentanti o, insomma, attraverso quegli organi e con quelle modalità e con quei mezzi che le leggi e la Costituzione dovranno determinare.

[...]

Ravagnan. [...] Ora, se noi siamo convinti, e, come io credo, se la grandissima maggioranza di questa Assemblea è convinta della necessità, della opportunità che solennemente la Carta costituzionale riconosca i diritti di libertà ed i diritti economici e sociali a tutti i cittadini, è logico che noi, definendo il carattere della Repubblica, dobbiamo definirlo francamente, correttamente una Repubblica democratica di lavoratori. Se ci limitassimo a definire semplicemente la Repubblica come una Repubblica democratica, metteremmo in ombra i diritti economici e sociali, cioè affermeremmo che la Repubblica non è altro che una Repubblica di democrazia formale, quale era lo Stato anteriore al fascismo.

Se vogliamo invece che i lavoratori siano ammessi nello Stato, che il lavoro abbia il primato nella Repubblica italiana, come deve essere in uno Stato moderno, è logico che in testa alla nostra Costituzione, noi francamente adottiamo la definizione di Repubblica democratica di lavoratori.

Le obiezioni mosse da taluni, cioè che questa definizione avrebbe un carattere restrittivo, ossia consacrerebbe una specie di privilegio di una parte dei cittadini soltanto, sono obiezioni che non reggono, poiché l'articolo 7, al primo comma, stabilisce l'eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione né di sesso, né di razza, né di nazionalità, né di condizioni economiche, né di opinioni politiche e religiose. Ecco quindi che questa definizione di Repubblica democratica di lavoratori non contiene né di più, né di meno di ciò che deve contenere e corrisponde al senso ed ai concetti fondamentali che ispirano gli articoli 6 e 7.

[...]

Condorelli. [...] Il principio informatore dello Stato democratico è consegnato principalmente all'articolo primo, il quale si apre con questa dichiarazione: «L'Italia è una Repubblica democratica».

La formulazione mi sembra inesatta: è prima di tutto generica. Non si è usata questa formula nelle altre Costituzioni. In queste si dice: lo Stato si regge a monarchia rappresentativa, o a Repubblica democratica e non che è quella o questa. Evidentemente l'esigenza dell'esattezza nella redazione di un testo legislativo è la prima. E qui non si tratta soltanto di esattezza linguistica, si tratta di esattezza tipicamente tecnica. Quell'«è» esprime un concetto di qualificazione.

L'Italia è qualificata come Repubblica democratica.

Già la qualificazione non è esatta, perché non definisce l'Italia.

L'Italia è una nazione, è una civiltà, è una storia.

Invece: «L'Italia si regge a Repubblica democratica» ha un significato anche profondamente politico, perché vi è scolpito il concetto di attività, di autogoverno, che è proprio dello Stato libero e democratico. Si pone che è l'Italia che regge se stessa.

A me sembra che la formulazione del progetto sia inesatta e che, da tutti i punti di vista, sia consigliabile sostituirla con l'altra, che io ho proposto: «L'Italia si regge a Repubblica democratica».

L'onorevole Crispo, nel suo intervento, ha proposto di aggiungere «parlamentare». Non credo che sia necessario, perché nella stessa Costituzione si dice di volere fare una repubblica parlamentare; infatti, nella parte seconda, che segue immediatamente, si dice di volere creare questo apparato parlamentare.

Sarà, dunque, questione di vedere se veramente un apparato di repubblica parlamentare si è formato nella seconda parte della Costituzione e, se non si è formato, di formarlo. Se fossero esatte le istanze mosse dall'onorevole Orlando nel suo magistrale intervento, dovremmo dire che una Repubblica parlamentare non è stata evidentemente avvisata dal progetto di Costituzione.

Allora, nulla varrebbe la definizione iniziale, se mancasse la sostanza là dove si crea l'apparato costituzionale.

Vi è poi la seconda parte di quest'articolo:

«La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Cosa vuol dire che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro?

Si è detto qui: una Repubblica senza lavoro non può sussistere; argomento indiscutibile.

Vi dico subito che io sento profondamente, non soltanto la nobiltà, ma la santità del lavoro, perché il più alto orgoglio della mia vita è di essere professore universitario, cioè un lavoratore che conosce l'aspra sudata e non remunerata fatica.

E l'altro orgoglio della mia vita è di non aver nulla, che non sia frutto del mio lavoro e del lavoro di mio padre.

Poi, io sento profondamente la santità del lavoro, perché sono cristiano e so che laborare est orare. Sento la nobiltà del lavoro perché sono italiano e so che il lavoro è l'unica ricchezza del nostro Paese, come ha dimostrato la tragedia in cui viviamo, nella quale, fra tanto disastro, si è verificato questo prodigio: che noi siamo ancora in qualche modo in piedi e che con la nostra lira si compra ancora qualche cosa. Questo è avvenuto perché la nostra economia è imperniata sul lavoro, che è una ricchezza che non si è potuta distruggere e non ci si è potuta espropriare. Si è verificato per la nostra famiglia nazionale quello che si verifica nelle famiglie di lavoratori che perdono il loro patrimonio: rimangono in una situazione presso a poco uguale, perché se manca il cespite patrimoniale, rimane il lavoro di cui vivono. Le famiglie, invece, che vivono di patrimonio, perduto questo, cadono anch'esse.

Per tutte queste ragioni io sento altamente la nobiltà e la santità del lavoro. Non sono dunque preconcetti che mi spingono a queste osservazioni.

Che cosa vuol dire, dicevo, che il lavoro è il fondamento della Repubblica? Si osservava: una Repubblica senza lavoro non può esistere. Indubbiamente. Ma ciò non vale ad identificare la Repubblica, perché non solo la Repubblica ma nessuna associazione umana si regge senza lavoro, soprattutto la società economica, la famiglia, il comune, la società internazionale di tutti gli uomini. Nessuna di queste forme si reggerebbe senza il lavoro.

Dunque il lavoro non identifica l'essenza della Repubblica in modo da poterne essere il fondamento. Ma poi, soprattutto, è da osservare che non si può dire che il lavoro sia da solo il fondamento della repubblica.

Abbiamo prima imparato e poi insegnato nelle università che gli elementi fondamentali, costitutivi dello Stato, e perciò anche della repubblica, sono tre: il popolo, il territorio, l'organizzazione giuridica. Qualcheduno aggiunge anche l'organizzazione dell'economia e del lavoro, e allora diventano quattro questi elementi fondamentali dello Stato.

Ma è chiaro che la parola «fondamento» non è stata usata in questo senso, direi, fisico, di base su cui consiste la Repubblica, ma in un senso deontologico, cioè nel senso di titolo che dà diritto a partecipare alla Repubblica. In questo senso il lavoro è stato chiamato fondamento della Repubblica: è il fondamento ideale, etico, giuridico. E allora se è così — ed è certo che è così, perché è chiarito dall'articolo 31 dello stesso progetto, là dove è affermato il dovere dei cittadini di partecipare all'organizzazione del Paese con una funzione che concorra allo sviluppo della società e si aggiunge che chi si sottrae a questo dovere è privato dei diritti politici — non c'è dubbio, o amici, che qui, non so se claris verbis o surrettiziamente, come diciamo noi giuristi, si è tentato di far rientrare dalla finestra quel che è uscito per la porta. Si voleva dire che la Repubblica italiana è la repubblica degli operai, dei contadini e degli intellettuali: si sono trovate opposizioni e si è escogitata quest'altra formula che vale perfettamente lo stesso. Ora se è stata questa la vostra intenzione, noi non possiamo essere d'accordo, e se non è stata questa la vostra intenzione, l'espressione che avete usato va modificata.

Il nostro dissenso è dunque necessario e irriducibile, perché siffatta repubblica non sarebbe una repubblica se, come dicevamo giorni addietro riecheggiando il dialogo ciceroniano De republica, la repubblica è la res populi, la res dunque di tutti i cittadini, nessuno escluso. E Cicerone ci insegnava che, quando la Repubblica diventa di parte, quando la Repubblica diventa disponibilità di una parte, o è amministrata nell'interesse di una parte, cessa di essere res publica, e diviene res privata, sia questa parte un monarca, o sia un'Assemblea, o sia anche una larga collettività, che non comprenda però tutta quanta la collettività politica.

Diventa comunque uno Stato di parte; ed è mirabile come il filosofo nostro tragga dallo stesso nome la legge deontologica dell'essenza della repubblica. Voi, lasciando invariata la formula del progetto, non avreste creato una repubblica e, tanto meno una repubblica democratica.

La Repubblica democratica è invece fondata sulla sovranità popolare. Io vi propongo questa formula: «La Repubblica italiana ha per fondamento la sovranità popolare». Io so che questa è un'espressione scientificamente discutibile, perché la scienza del diritto pubblico insegna che l'attributo della sovranità non appartiene ad una parte dello Stato o ad un elemento dello Stato, sia pure al popolo che può essere l'elemento principale. La sovranità è attributo dello Stato nella sua pienezza ed è soprattutto l'attributo dell'ordinamento giuridico, talché si potrebbe e si dovrebbe dire che sovrana in uno Stato è la legge.

Però l'espressione «sovranità popolare» ha un significato ormai acquisito alla storia. La sovranità popolare è un sistema di vita statale nel quale la volontà dello Stato vien formata dal popolo. Noi dunque, con questa espressione che, attraverso l'uso tradizionale, ha acquistato un significato ben fisso e stabile, affermiamo veramente ed integralmente la democraticità dello Stato.

Per altro, quando noi diciamo la partecipazione effettiva non dei lavoratori, ma dei cittadini, anzi io direi di «tutti i cittadini», all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, in fondo noi veniamo a riaffermare che si è cittadini attivi dello Stato in quanto si partecipa con la propria attività, o economica, o sociale, o morale, o politica, alla vita della collettività.

Solo a questo titolo si è cittadini dello Stato. No, no: togliete quell'espressione che creerebbe dei cittadini optimo iure e dei cittadini minoris iuris. E poi è un'espressione pericolosa che potrebbe sopprimere la libertà, nella quale io penso anche voi crediate. (Proteste a sinistra).

Pertini. Quell'«anche» è esagerato: ci siamo battuti venti anni per la libertà. Anche! Quale generosità!

Condorelli. Io penso che non ci sia aderenza nella vostra dottrina alla libertà, ma che ci sia aderenza nel vostro sentimento.

Ora, se conservassimo questa espressione, potremmo cadere in errori gravissimi. Perché voi dite: «Ma noi con questa espressione vogliamo raggiungere soltanto questo effetto: che i lavoratori siano immessi nella cittadella dello Stato, ma non che ne siano esclusi gli altri».

Ma guardate come può essere interpretata questa parola «lavoratori». Io vi porto l'esempio di un economista, non dell'avvenire, ma di oggi, uno dei più celebrati economisti di oggi — Pareto — che distingue le classi sociali in rapporto alle occupazioni, e fa una distinzione quadruplice: parla di occupazioni dirette a produrre beni economici o servizi; poi di occupazioni che producono indirettamente dei beni economici — e sarebbero appunto le occupazioni ausiliarie; probabilmente gli avvocati, nella migliore delle accezioni, potrebbero appartenere a questa categoria subliminale di lavoratori — poi c'è una terza categoria: gli oziosi; e infine una quarta, che sarebbe costituita da coloro che attraverso un'attività legale o illegale si impadroniscono dei beni altrui. Le prime due classi sono probabilmente di lavoratori; dico probabilmente, perché per la seconda si potrebbe discutere; ma gli oziosi non sono certamente dei lavoratori; e nessuno si sentirebbe di mettere fra i lavoratori coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.

Ora, lo sapete da chi è costituita la terza classe, quella degli oziosi? Da coloro che vivono di rendita e amministrano il loro patrimonio. Questi sono degli oziosi, in quanto traggono dal loro patrimonio qualche cosa di più, o molto di più, di quella che potrebbe essere la remunerazione della loro attività di amministratori. Quel di più che traggono li fa diventare degli oziosi, cioè dei non lavoratori. Nella quarta categoria, naturalmente, ci entrerebbero tutti i proprietari, perché, secondo la vostra dottrina, la proprietà è un mezzo attraverso il quale si espropria il lavoro degli altri.

Voi vedete, anche interpretando le cose alla luce del pensiero di un grande economista moderno, a che cosa si potrebbe arrivare. Ma poi, guardiamo anche soltanto alla prima categoria. Oggi sareste tutti pronti a dirmi che persone che rendono certi generi di servizi, che tutti consideriamo poco leciti e poco decenti, certamente non sono dei lavoratori. Come i sacerdoti, i religiosi, che pregano o che esercitano un ministero di assistenza spirituale, sono dei lavoratori, perché esercitano una funzione che concorre allo sviluppo della società. Ma lasciate che cambino queste posizioni mentali, che divenga comune un certo modo di pensare, che è affiorato in questa Assemblea, in questo dibattito, e allora vedrete che i sacerdoti, i religiosi, gli spirituali saranno messi subito al livello degli indovini, dei fattucchieri, degli stregoni, e perciò relegati senz'altro nella quarta categoria, di coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.

Voci a sinistra. No!, No!

Condorelli. Ma certamente sarebbe così! Noi consideriamo in questo modo gli stregoni delle tribù primitive, in quanto sappiamo che sono superstiziose le loro pratiche. Ma solo che prevalga l'opinione che anche la religione di Cristo è una superstizione (e non sarebbe la prima volta nella storia che si sono relegati senz'altro i religiosi, i sacerdoti, nella quarta categoria nella quale sono posti i parassiti, e non sarebbe la prima volta che si sentono chiamare parassiti i sacerdoti, i frati, i discepoli di San Francesco), e che le etere esercitano una funzione sociale, voi vedrete le etere entrare trionfanti nella prima categoria e le monache uscirne per passare nella quarta!

Ma, per niente hanno scritto gli studiosi! Per niente si insegna nelle Università! Ma non per il prevalere di formule trite, che se ebbero un significato in un certo momento storico, lo hanno totalmente perduto ora!...

Affermiamo che la nostra Repubblica è fondata sulla sovranità popolare e noi veramente avremo formulato ed affermato un principio democratico!

E nella ultima parte di questo articolo non si dica che la sovranità emana dal popolo o è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e della legge.

Si dica che il potere spetta al popolo ed è esercitato nelle forme e nei limiti, ecc., perché la sovranità popolare non è che una formula. Si può usare questa formula e non dare un briciolo di potere al popolo. Bisogna che il potere sia dato al popolo, che è la concretezza della società.

Una voce a sinistra. Il potere è un aspetto della sovranità.

Condorelli. Non è un aspetto della sovranità; il potere è il potere, e la sovranità è un attributo che si dà allo Stato e quindi anche ai poteri dello Stato.

Badate, da questo punto di vista credo di passarvi avanti.

Noi abbiamo premesso che il problema di cui ora ci interessiamo è un problema essenzialmente tecnico. Se avete voluto, come anche noi vogliamo, affermare il principio dello Stato democratico, voi dovete dire che esso è fondato sulla sovranità popolare e che il potere, e cioè la concretezza della sovranità, spetta al popolo.

Si è voluto, dicevo, creare lo Stato libero e formularne i principî. Lo Stato libero è Stato di diritto. Ciò è stato affermato acconciamente nell'ultima parte dell'articolo 1, dove si dice che la sovranità — io direi il potere — è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. E lo Stato di diritto è pienamente lo Stato di diritto quando esso è limitato non solo dal diritto interno, ma anche dal diritto esterno, cioè dal diritto internazionale. Avrete pertanto completa la figura dello Stato di diritto con l'articolo 3 delle disposizioni generali nel quale si dice che l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Nella formulazione, vi è qualche cosa di superfluo che può intorbidare: quella aggiunta, cioè: «generalmente riconosciuto».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti