[Il 5 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Tupini. [...] Ma la libertà e la dignità dell'uomo non saranno mai sicure se non si darà al lavoro la preminenza su ogni altro valore economico e se il lavoro non sarà il fondamento stesso della Repubblica. Né qui si deve intendere il solo lavoro manuale, alla stregua di una concezione piatta e materialistica della vita: l'articolo primo, infatti, si integra con l'articolo 31, in cui il lavoro è considerato come condizione dei diritti politici e in cui si precisa che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività e una funzione che non è quella onorevole Calamandrei, del dolce far niente, ma di concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della Società. È lavoratore, dunque, per una espressa norma statutaria, non solo l'operaio manuale, l'artigiano, ma anche il maestro, ma anche il sacerdote, ma anche il missionario: chiunque concorra alla potenza della tecnica e della cultura, della civiltà e della morale italiana, comprese anche, onorevole Lucifero, le cosiddette suore di clausura che, secondo la legge divina della compensazione, pregano e con le loro preghiere ristabiliscono l'equilibrio turbato dai nostri e dai vostri peccati. (Applausi al centro Interruzioni a destra Commenti a sinistra).

[...]

Mastrojanni. [...] l'articolo primo parla della Repubblica italiana, che «ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo articolo primo rappresenta la soddisfazione parziale di una proposta specificamente espressa dal partito comunista.

L'onorevole Togliatti propose, che venisse definita l'Italia come una Repubblica democratica di lavoratori; io stesso in sede di discussione davanti la prima Sottocommissione feci garbatamente rilevare che la Repubblica rappresenta lo Stato e la Nazione, rappresenta tutti i suoi consociati, rappresenta le creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza, le quali, per lo stesso fatto naturale di essere stati immessi nella società umana, hanno diritto di asilo e di rispetto da parte di tutti i consociati.

Definire una Repubblica, definire uno Stato, attraverso una caratteristica, che rappresenta, sì, la più nobile delle manifestazioni della vita umana, il lavoro, ma escludere coloro che non possono essere identificati in questa nobilissima categoria (che noi esaltiamo e nella quale noi riconosciamo gli attributi più elevati dell'umanità); definire una Repubblica, attraverso la circoscritta denominazione dei lavoratori, sembrava a noi, così come sembra, escludere dal consorzio umano coloro che, per ipotesi, non avessero la possibilità di essere annoverati fra i lavoratori.

Si desistette da questa caratteristica particolaristica, ma, scendendo nella subordinata, si volle affermare il principio in modo generico nell'articolo 1, ma in modo preciso e ben definito nell'articolo 31; talché, quanto noi avevamo osservato come non opportuno nell'articolo 1, trova la sua sede nell'articolo 31, il quale recita:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività con una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

«L'adempimento di questo dovere è condizione per l'esercizio dei diritti politici».

Onorevoli colleghi, come vedete, se è vero che l'Italia è definita Repubblica democratica, è innegabile che in essa hanno diritto di asilo solamente coloro che sono lavoratori, ed essendo lavoratori hanno l'obbligo dell'adempimento di determinati doveri, per potere partecipare alla gestione della cosa pubblica.

Ed allora, o signori, torto aveva Aristotele che definì l'uomo animale politico; torto quando egli pensò che l'uomo, per sua stessa natura politico, avesse diritto di partecipare nell'umano consorzio e nell'umana politica società, se noi ci arroghiamo il diritto di escludere dal consorzio umano il consociato, che per sua stessa natura, individuo politico non è identificato come lavoratore.

È vero che la formula di Stalin è: «Chi non lavora non ha diritto di mangiare», formula che, sotto un certo aspetto, si attribuiva anche a San Paolo, il quale, peraltro, pur esaltando il lavoro, affermava il principio, per cui omnis auctoritas omnis potestas a Deo, quasi per significare che l'autorità, qualunque ne sia l'investitura trova fondamento nella divinità.

Di conseguenza: anche se questa autorità personifichi una dittatura. Se il concetto di lavoro è connesso con quella di dittatura, perché con la dittatura sola può il lavoro realizzare i suoi diritti economici e morali, noi dissentiamo e decisamente da queste formulazioni particolaristiche, le quali incrinano e vulnerano quelli che sono i diritti essenziali, sacri, inalienabili, imprescrittibili, della persona umana.

[...]

Noi abbiamo affermato in Costituzione il diritto, ed altresì il dovere, del lavoro. Mi sono domandato e domando, onorevoli colleghi, qual è la ragione per far presumere che si vuol quasi coartare l'umana personalità per l'esercizio di una attività lavorativa concreta che deve rispondere a finalità determinate, quando, da che mondo è mondo, il popolo italiano si è differenziato e si differenzia, fra tutti i popoli del mondo, per la sua parsimonia, per la sua laboriosità, per la sua inventiva, per la sua intelligenza spontanea per la sua ansia nella ricerca di un lavoro qualsiasi. Perché, domando, di fronte ad un popolo così meravigliosamente caratterizzato, che ha tradizioni politiche, storiche, etniche e culturali, per cui non è a dubitare della sua laboriosità, per quale ragione, ripeto, noi abbiamo voluto imporre in una Costituzione il dovere al lavoro, quando noi sappiamo per il presente e per il futuro che finché i ristretti confini della nostra Patria non ci consentono purtroppo di dare a tutti lavoro proficuo, noi dobbiamo ricorrere all'unica valvola di sicurezza, che è quella dell'emigrazione. Essa d'altra parte, considerata sotto determinati riflessi, costituisce anch'essa ragione di onore per l'Italia e il lavoratore italiano, perché attraverso l'emigrazione, le spiccate qualità morali e di intelligenza dei nostri lavoratori, espandiamo per il mondo (come fino ad oggi abbiamo fatto) la civiltà italiana, la civiltà latina.

Onorevoli colleghi, il dovere al lavoro a noi sembra un pleonasmo ed un pericolo: è un pericolo perché se domani, per dannata ipotesi, dovesse prevalere un orientamento politico, basato sopra una ideologia economica od una teoria materialistica, e dovesse il legislatore, nella indagine interpretativa di questa Costituzione, identificare il concetto di lavoratore, pure non contrastando quanto in Costituzione è detto, nel senso che per lavoro si intende non lo sforzo materiale dei muscoli solamente, ma anche qualunque attività spirituale, tuttavia, fra le attività spirituali potrebbe anche esistere una gamma di proporzioni e di successioni, talché quegli che oggi — filosofo meditativo o sacerdote contemplativo — può rappresentare una attività lavorativa socialmente apprezzabile e socialmente utile, potrebbe essere domani non più annoverato fra i lavoratori, perché non economicamente valutabile, non socialmente utile.

Il sacerdote contemplativo, che oggi può essere annoverato fra i lavoratori che hanno diritto di partecipare alla gestione della cosa pubblica, potrebbe domani essere considerato soltanto da chi ha particolare sensibilità e adeguata preparazione spirituale, ma non da chi, concependo la vita attraverso il materialismo economico, deve necessariamente ripudiare tutto quanto non risulta economicamente valutabile. I diritti sacri, individuali, imprescrittibili e inalienabili sarebbero quindi facilmente, ma costituzionalmente, violentati e soppressi.

[...]

Laconi. [...] Ma vi è una parte più importante e più discussa fra questi diritti nuovi che noi dobbiamo affermare nella nuova Costituzione, ed è quella che concerne il diritto del lavoro; il diritto al lavoro appunto, il diritto ad una retribuzione adeguata, il diritto al riposo, all'assistenza, all'assicurazione; diritti che per la prima volta si trovano affermati in un documento costituzionale italiano, e non soltanto italiano.

La libertà delle organizzazioni sindacali, il riconoscimento della loro personalità giuridica, la validità dei contratti collettivi, il diritto di sciopero: questo è il contenuto della parte che concerne i diritti, dei cittadini in ordine ai rapporti economici.

Che valore hanno queste affermazioni? Molti hanno osservato che affermazioni di questo genere, nella situazione presente del nostro Paese, non possono avere altro che un vago valore programmatico.

Taluno ha obiettato che da molte parti e da uomini che hanno avuto esperienza di Costituzioni moderne si è osservato che le Costituzioni non sono programmi e che non conviene quindi introdurre nelle Costituzioni elementi programmatici che le facciano deviare dalla loro natura e dalla loro funzione normale. Ma io penso, onorevole Bozzi e onorevole Calamandrei, che non si tratti di elementi puramente ideali e vagamente programmatici che noi inseriamo nella nuova Costituzione italiana. Io credo che non siano dei principî e delle affermazioni che si possano affidare ad un preambolo, onorevole Mastrojanni, per rinviarle ad una lontana attuazione, quando «le condizioni del nostro Paese saranno mature».

Credo che non si tratti di questo, ma che si tratti di ben altro. L'affermazione di questi diritti oggi nella Carta Costituzionale italiana ha, per le masse lavoratrici d'Italia, un valore preciso. Nel corpo della Costituzione italiana questa parte oggi costituisce un documento a sé: la Carta dei lavoratori italiani, onorevoli colleghi.

Io so che qualcuno potrà ironizzare sul fatto che io non usi la denominazione «Carta del Lavoro»; qualcuno potrà ironizzare su questo, ma io non ho alcuna esitazione ad usare un termine mistificato dal fascismo, ed usarlo nel suo significato vero e nella sua reale portata, oggi che la democrazia italiana si trova in grado di affermare la libertà dei lavoratori e di riconoscere i diritti del lavoro in una Carta costituzionale.

Quale valore ha questa Carta, che significato, che portata può avere oggi nel corpo della Costituzione italiana introdurre una Carta che riguardi i lavoratori, che concerna i loro diritti? Molti hanno parlato di compromesso, ed hanno detto che si tratta soltanto di tendenze diverse tra diversi partiti che son dovuti giungere ad un punto medio, ad una soluzione che riscuotesse il consenso di una maggioranza. Questo è vero, ma non è un fatto negativo; è un fatto altamente positivo.

Se oggi questi principî, queste affermazioni hanno un valore ed hanno un significato nella nostra Carta costituzionale, è in quanto dietro di essi vi è un patto fra forze sociali e politiche che si impegnano, nel corso della vita del nostro Paese, a realizzare questi principî, a rendere effettivi questi diritti.

In questo senso è possibile l'affermazione di diritti e di principî che non possono trovare immediata garanzia, nel senso che non si tratta soltanto di speranze — come l'onorevole Tupini ha voluto benevolmente dire — ma di impegni, di impegni che sono stati assunti dai grandi partiti di massa, allorquando si sono presentati alle masse elettorali, allorquando hanno detto alle masse lavoratrici: «Noi siamo il vostro partito». Allora, onorevoli colleghi, questi impegni sono stati presi, non più tra il popolo da un lato ed il sovrano assoluto dall'altro, per riuscire a strappare determinate concessioni e determinate garanzie, ma fra gruppi e gruppi sociali, fra partiti e partiti. Questi impegni sono stati presi e, inserendoli nel quadro della nuova Costituzione italiana, noi diamo una garanzia al popolo che essi non sono cosa vana, che non sono state parole sparse al vento in un momento di eccitazione o per scopi di propaganda elettorale, ma propositi sinceri che noi abbiamo ferma intenzione di tradurre in atto.

Io penso, quindi, che sia del tutto assurdo pensare ad uno spostamento di questa parte verso il preambolo. Penso che essa debba rimanere nel luogo che attualmente ha, e debba anzi acquistare un distacco ed un rilievo maggiori di quello che oggi non abbia.

Si è osservato che, comunque, anche se questa parte rimarrà al suo luogo, anche se l'affermazione di questi principî e di questi diritti verrà fatta nella Costituzione italiana, con tutto ciò mancano garanzie, mancano sanzioni. Domani, qualcuno diceva, quando i lavoratori italiani fiduciosi e creduli si presenteranno a chiedere che vengano attuati, che vengano tradotti in pratica i diritti affermati sulla Carta, essi rimarranno delusi perché lo Stato non potrà garantire nulla.

Questo è vero. Noi non siamo in grado oggi di stabilire delle garanzie e delle sanzioni per la realizzazione e la concretizzazione di questi diritti; ma qualcosa possiamo fare: noi possiamo fissare i principî, possiamo stabilire le direttive entro le quali dovrà orientarsi il legislatore di domani, possiamo aprire la strada a questo legislatore, togliere alcuni limiti alla sua azione. In questo senso possiamo introdurre alcuni elementi di una economia nuova, possiamo predisporre l'intervento dello Stato nella vita economica, possiamo prevedere la necessità e la facoltà per lo Stato di attuare determinati piani generali che possano coordinare le diverse attività economiche secondo un'unica direttiva e rivolgere l'attività produttiva del Paese verso gli interessi delle grandi masse lavoratrici. Noi possiamo, introdurre nel corpo della Costituzione la facoltà per lo Stato di nazionalizzare le grandi imprese che rivestono ormai il carattere di monopolio di fatto o che interessano servizi essenziali per la collettività; noi possiamo introdurre la possibilità per il legislatore futuro di stabilire determinati limiti alla grande proprietà terriera, di abolire il latifondo. Ma non solo possiamo fare questo; possiamo — e già ve ne è cenno nel progetto di Costituzione — prevedere gli organi attraverso i quali lo Stato potrà concretare queste riforme e potrà attuare questi piani. È in questo senso che, nel progetto di Costituzione, si parla di Consigli di gestione, in questo senso si parla di cooperative, in questo senso, da parte del Relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, fu presentata la proposta d'introdurre nell'ordinamento del nostro Stato un Consiglio del lavoro, in cui le diverse categorie che partecipano al ciclo produttivo intervengano in proporzione della loro rilevanza numerica, in proporzione del loro peso effettivo nella vita della Nazione.

Capua. Torniamo alle Corporazioni! (Commenti).

Laconi. Ella non ha ragione di parlare di questioni corporative. Gli amici della sua parte hanno sostenuto tale indirizzo nel corso della discussione e lo hanno costantemente affermato. Il principio corporativo è legato ad altro. È legato intanto alla pariteticità delle rappresentanze, che in questo momento io escludevo, se ella è stato attento alle mie parole; è legato anche ad un criterio non democratico, come lei sa, perché la rappresentanza non era elettiva; ed è legato soprattutto alle funzioni che a questi organi si danno. Quando noi parliamo di un Consiglio del lavoro, noi non vogliamo privare la rappresentanza politica della sua funzione e dei suoi poteri; noi vogliamo soltanto affiancare il legislatore con organi che gli portino la voce viva degli interessi delle grandi masse e gli facciano sapere quali sono le istanze e le esigenze che egli deve soddisfare. In questo senso noi abbiamo proposto un Consiglio del lavoro come organo di Collaborazione col Governo e di controllo da parte dei lavoratori dell'opera e dell'attività del Governo e delle Assemblee legislative. Sono questi indubbiamente elementi nuovi, elementi di una nuova economia che si trovano fatalmente in contraddizione con la vecchia. Indubbiamente ha ragione l'onorevole Calamandrei quando, leggendo passo per passo, comma per comma, un medesimo articolo, vi trova insieme principî che si riferiscono a concezioni diverse e che egli ha provato in dottrine economiche diverse. Ma questa contraddizione è nella vita e nella realtà italiana di oggi. Il problema è questo, onorevole Calamandrei: vi è oggi in Italia la possibilità di introdurre determinati elementi di una economia pianificata, coordinata in modo da poter venire incontro alle necessità delle grandi masse lavoratrici, rispettando i metodi della democrazia, rispettando la libertà?

Se questo non è possibile, ci troveremmo nella situazione che diceva l'onorevole Bozzi, dispersi fra due mondi senza avere possibilità di soluzione, senza trovare una via di uscita? Noi pensiamo di no. Noi pensiamo che non vi sia una assoluta opposizione tra questi due mondi; che non siano necessari fatalmente l'urto, lo scontro, il caos. Pensiamo che si possa attuare una rivoluzione sociale ed economica attraverso metodi pacifici e democratici. In questa fiducia confortateci, non scoraggiateci.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti