[L'8 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Ghidini. [...] Vi fu anche consenso pieno nell'assegnare al lavoro una dignità preminente su tutti gli altri coefficienti della vita nazionale.

Il lavoro è indubbiamente alla base dell'organizzazione, civile, politica e sociale del Paese e il testo lo afferma anche prima di scendere ai «Rapporti economici-sociali». Lo afferma nel primo articolo del Progetto di Costituzione: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Appunto in applicazione a di questo principio noi abbiamo affermato il diritto al lavoro. Abbiamo affermato questo diritto e contemporaneamente il dovere del lavoro, non come un dovere personale, ma come un dovere soprattutto sociale, perché è in virtù del lavoro di tutti che la società può vivere e prosperare.

Ma a questo dovere corrisponde il diritto del lavoro. Intanto io adempio a questo dovere in quanto abbia effettivamente il diritto di lavorare; diritto e dovere, in questo caso, sono termini correlativi, uno si lega indissolubilmente all'altro.

Ma a questo punto è nato il dissenso, anche in seno alla Sottocommissione, sebbene la grande maggioranza abbia deciso nel senso di affermare il diritto al lavoro. È nato da una concezione diversa su ciò che deve formare il testo e ciò che deve formare il preambolo, partendo dalla distinzione fra diritti e aspirazioni.

Non voglio tediare l'Assemblea ritornando sopra quanto è stato già detto. Io, per mio conto, sono di questa opinione: che ci troviamo effettivamente di fronte a dei diritti.

L'obiezione che si muove sotto il profilo giuridico è questa, sostanzialmente: si tratta di una pretesa che non può avere immediato soddisfacimento, che non può essere classificata tra le esigenze e i bisogni esigibili da parte dei cittadini, e se non è esigibile, non è nemmeno azionabile e, quindi, sfugge alla nozione del «diritto». Per conto nostro, la nozione del diritto è diversa. Siamo in materia di diritto pubblico, dove penso che il rigore sia minore che nel diritto privato. In verità vi sono dei diritti, tali senza contestazione, che almeno in certi periodi della vita nazionale, nostra e anche degli altri Paesi, non sono garantiti. Per esempio il diritto alla vita, alla inviolabilità del domicilio, il diritto alla integrità personale, al patrimonio, ecc., sono indiscutibilmente diritti e nessuno li contesta. Sono diritti consacrati nelle leggi e sono muniti di sanzione. Sono, quindi, indubbiamente dei diritti, eppure vi sono dei periodi nei quali essi non sono completamente, totalmente, interamente, ma solo parzialmente e scarsamente attuati. È storia di ieri la insufficienza delle forze dello Stato per impedire l'aggressione al diritto alla vita, all'integrità personale, alla difesa del patrimonio; diritti che sono tali anche verso lo Stato, perché lo Stato ha tra i suoi fini di tutelare la vita, gli averi, ecc., dei suoi consociati.

Ma una ragione anche più grave mi persuade che l'argomentazione contraria è soltanto capziosa, di una verità apparente, non reale. È lo stesso onorevole Calamandrei che ci ha aperto la strada. In una seduta delle nostre adunanze plenarie, egli aveva sostenuto che nel testo si devono collocare solo diritti completi e sanzionati; ma in una riunione successiva — forse cedendo alle lusinghe dell'onorevole Togliatti, come disse — parmi che si sia ricreduto, se è suo, come risulta, un ordine del giorno nel quale dopo di avere ribadito il concetto suesposto aggiunge, derogando dal principio: «Riconosco che, come speciale categoria dei diritti, trovi posto fra gli articoli della Costituzione l'enunciazione di quelle essenziali esigenze individuali e collettive, nel campo economico e sociale, che, se anche non raggiungono oggi la maturità dei diritti perfetti e attuali, si prestano per la loro concretezza, a diventare veri diritti sanzionati con leggi, impegnando in tal senso il legislatore futuro».

Ora io mi domando: quale altra esigenza, quale altro bisogno è maggiormente sentito dalla coscienza universale ed ha assunto una maggiore concretezza, di questo diritto al lavoro che oggi si vuol degradare passandolo al preambolo? Per conto mio, ritengo che se anche non fosse esatto ciò che penso e fossi vittima di un'allucinazione intellettuale deformatrice della verità, anche in questo caso, la tesi che professo rimane pur sempre la più giusta; non potendosi negare la esigibilità del diritto al lavoro, almeno sotto il profilo negativo.

La Costituzione è affidata all'avvenire. Non si può negare in modo assoluto che un giorno le forze regressive possano avere la prevalenza. Noi abbiamo il dovere di immaginare anche il peggio, anzi le leggi son fatte in previsione del peggio, perché se le cose dovessero sempre andare nel migliore dei modi, sarebbe perfettamente inutile che ci fossero dei codici e si formassero delle leggi. Ora, fate l'ipotesi che la nostra rappresentanza fosse completamente eliminata e sedessero in questa Camera solo rappresentanti della Nazione aventi un orientamento politico regressivo, e volessero formare una legge la quale contrastasse questi diritti al lavoro, li limitasse, o li annullasse. La Corte costituzionale dovrebbe dichiarare l'incostituzionalità di questa legge.

Sotto il profilo, almeno negativo, mi pare indubbio trattarsi di un diritto azionabile.

Non solo, e tutto concedendo, se anche fosse vero, secondo la tesi estrema avversaria, che il diritto al lavoro non è attuabile nella sua forma principale, resterebbe però sempre alla base di diritti sussidiari, di diritti sostitutivi, i quali sono di immediata attuabilità. Voglio parlare dei diritti alla retribuzione adeguata del lavoro, al riposo retribuito, alla assistenza sociale, alla previdenza e alla organizzazione sindacale, che difende i diritti del lavoro attraverso lo sciopero, la formazione dei contratti collettivi e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. Il diritto al lavoro, non è una trovata originale della Commissione dei 75, ma è una realtà obiettiva, una realtà del diritto, una realtà della coscienza universale. Buona parte delle Costituzioni degli altri Paesi hanno affermato il diritto al lavoro.

E finalmente, richiamo i colleghi a un argomento tratto dalla lettera della disposizione. È l'articolo 31. È bene leggerlo attentamente. Gli uomini di legge hanno fra le mani una bilancia per pesare le parole, una bilancia la quale ha una sensibilità che è ancora maggiore della famosa bilancia dell'orafo. L'articolo 31 dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Non dice nemmeno «assicura», nemmeno «garantisce». La parola «riconosce» è stata il frutto di una lunga ed elaborata discussione svoltasi dinanzi alla Commissione. In altri testi si dice «riconosce od assicura». Invece, ripeto, il nostro articolo 31 dice: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Badate a quest'ultima parte dell'articolo, colla quale si volle significare che l'obbligo dello Stato è di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro. Io credo che le censure che furono mosse siano più che altro il frutto di uno spirito accanitamente critico e anche di un certo pessimismo, perché se è vero che la legge costituzionale non è destinata soltanto a registrare le conquiste del passato, ma anche a segnare l'indirizzo per l'avvenire, è pessimistica la critica al «diritto del lavoro», fondata sulla pretesa impossibilità di assicurare in un domani più o meno prossimo il lavoro a tutti gli uomini di buona volontà.

[...]

Damiani. [...] «La Repubblica, è detto nell'articolo 30 provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro».

Va benissimo, il lavoro deve essere tutelato certamente. Articolo 31: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività ed una funzione, che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Questi due articoli vorrei metterli in confronto con l'articolo 36, che dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero».

Ora, sempre per quella franchezza che ogni deputato deve avere, io dico la mia opinione: l'articolo 30 stabilisce la tutela del lavoro, quindi lo Stato tutela i lavoratori. L'articolo 36 dice che tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero e quindi di tutelare, da se stessi, il proprio diritto. Ed allora se da una parte lo Stato dice al lavoratore: «io tutelo i tuoi diritti»; e d'altra parte gli dice: «nel caso che non riuscissi a tutelarli, sciopera e provvedi tu»; mi pare che lo Stato si contraddica o presupponga e confessi la sua debolezza. Quindi il diritto di sciopero non lo metterei come diritto fondamentale, ma lo tratterei nella legislazione ordinaria. È questa una parte che va riesaminata con cura.

Bisogna poi definire un po' anche la posizione di chi vive di rendita. Chi vive di rendita non esercita una attività non esercita nemmeno una funzione, a meno che non si voglia intenderlo come amministratore dei propri beni. Però bisognerà pure pronunciarsi su queste precisazioni, per evitare definizioni generiche che possano generare gravi incertezze.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti