[Il 26 marzo 1947 l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo primo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti civili».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Bettiol. [...] Altro principio fondamentale sancito in questa Costituzione è che la responsabilità ha carattere personale. Questo è importante, perché sottolinea la necessità che alla radice del reato, e quindi alla radice degli istituti fondamentali del diritto penale, debba essere ritrovato un atto cosciente e volontario.

Ma c'è anche un'altra esigenza sancita in questa disposizione dell'articolo 21: che la responsabilità deve essere per fatto personale, cioè che non possa essere attribuito un reato commesso da una persona ad un'altra, onde non si verifichi l'ipotesi di una responsabilità penale per fatto altrui e non più per fatto proprio.

Bisognerà cercare di armonizzare questa disposizione della responsabilità penale per fatto proprio con quella che potrà essere la responsabilità del direttore di stampa o di giornali per reati di stampa, onde la presunzione assoluta di colpa juris et de jure si trasformi in presunzione juris tantum.

Una parola sulla pena e poi ho finito. «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità»: così dice la Costituzione. Questo principio è nobilissimo; però mentre sono d'accordo nel principio qui affermato, non sono però d'accordo sull'inserimento nella Costituzione di quell'inciso che dice: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», primo perché nel campo penalistico le dottrine sono quanto mai diverse e in secondo luogo perché questo potrebbe dar luogo a pericolosi equivoci e da un lato i sostenitori dell'una corrente potrebbero trovarsi in contrasto con l'altra in sede di interpretazione. È auspicabile che a proposito di questo importantissimo argomento non ci sia questo pericolo di violenta scissura; ma deve restare però il principio che la pena deve umanizzarsi, che la pena, particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l'individuo. Dobbiamo sempre tener presente che anche nel più malvagio [...][i] riabilitato. Per questo occorre riformare il sistema carcerario in modo di non ostacolare la riabilitazione dell'individuo, in modo che possa, secondo gli uni emendarsi, secondo gli altri essere socialmente recuperato.

Sunt lacrymae rerum. E veramente è il pianto delle cose se si pensa alla situazione dei nostri stabilimenti carcerari, in cui, in condizioni inumane, trova esecuzione la pena. (Vivi applausi).

Una sola parola sulla pena di morte, il grande e lugubre argomento. Onorevoli colleghi, qui la questione è puramente politica e non scientifica. Non è scientifica perché dal punto di vista scientifico le opinioni in pro pareggiano le opinioni contro, e non vi è un'opinione che tagli la testa al toro per cui la pena di morte possa dirsi assolutamente fondata o infondata dal punto di vista scientifico. Malgrado l'opinione diversa che Paolo Rossi ha espresso nel suo bellissimo libro, il problema è insoluto, e forse insolubile.

Ma la questione s'inquadra nell'attuale momento storico e politico, onde, dopo l'inflazione della pena di morte, dopo l'inflazione per cui migliaia e milioni di individui sono morti e le loro ceneri sono ancora calde nei forni crematori, deve essere stabilito il principio che la Costituzione democratica del popolo italiano ripudia la pena di morte, ammettendola solo in casi del tutto eccezionali per quanto riguarda le leggi militari di guerra.

Faccio osservare che anche Cesare Beccaria, che può essere considerato antesignano dell'abolizione della pena di morte, ammise la possibilità di qualche eccezione per casi eccezionali. Ma deve trattarsi veramente di casi eccezionali, e non dobbiamo trovarci di fronte all'inflazione di decreti particolari, per i quali, dopo che nel 1944 fu abolita la pena di morte, essa è stata nuovamente introdotta tre o quattro volte.

[...]

Crispo. [...] Nell'articolo 21 è detto al primo capoverso: «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

Tale espressione vorrebbe essere diversa dall'altra per la quale si presume l'innocenza fino alla condanna definitiva. In sostanza, però, le due espressioni si equivalgono. Perché è chiaro che chi non può essere ritenuto colpevole si presume innocente. È questione, adunque, di parole: il concetto rimane identico.

Ora la formula per la quale «l'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva» è, per me, un errore, ed obbedisce soltanto alle esigenze d'uno strano romanticismo in questa materia.

È un errore, perché, se d'una presunzione si dovesse parlare, si dovrebbe presumere non l'innocenza, ma la colpevolezza.

Perché, veda, onorevole Tupini, e mi rivolgo a lei, perché ella mi onora di un'attenzione della quale le sono grato...

Tupini. Un'attenzione speciale.

Crispo. È norma generale di tutte le legislazioni penali che una denuncia deve essere archiviata se infondata. Ciò significa che, quando non viene archiviata, la denuncia non si può presumere infondata. Tutte le norme relative ai mandati o alle forme e ai modi di rinviare taluno a giudizio confermano questo concetto.

Si pensi, peraltro, ai casi di flagranza e di quasi flagranza, o a quelli della citazione diretta o della citazione direttissima, procedure che si osservano, quando vi sia o la confessione o una prova «evidente» tale da rendere inutile qualunque altra indagine.

Si può, per tali casi, dire che l'imputato si presume innocente, o non si dovrebbe dire piuttosto che si presume colpevole? Ora il mio pensiero è questo: che l'imputato non si presume colpevole, né innocente: è un indiziato, che la sentenza dichiarerà innocente o colpevole, e non c'è, pertanto, bisogno d'inserire nella Costituzione una formula irrilevante, e che, come dicevo, non aderisce alla realtà.

Vi sono, infine, casi nei quali la sentenza può affermare una responsabilità, e non condannare.

[...]

Crispo. Devo ricordare qualche caso in cui si ha bensì l'affermazione della responsabilità; ma non si ha la pronunzia della condanna. Ciò avviene quando si concede il perdono giudiziale, o quando si chiede l'esame di merito nelle ipotesi di cui all'articolo 152 del Codice, nel rito penale, e il giudice, pur riconoscendo una responsabilità penale, non condanna, ma dichiara estinto il reato, o quando, in seguito all'esame del merito, pur essendo evidente una responsabilità penale, si modifichi il titolo del reato, e si dichiari estinto il reato dichiarato sussistente.

Una osservazione devo fare a proposito del principio affermato nella Costituzione che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Se n'è occupato l'onorevole Bettiol, ma io non sono d'accordo con lui. Benedetto Croce, nel suo libro «Etica e politica», ha scritto essere del tutto vano discutere sul carattere utilitario o morale delle leggi, o di questa o quella legge. Lo stesso deve dirsi della pena: deterritio o emendatio?

Qui, accanto alla norma, si pone un concetto filosofico intorno al quale s'è svolta tutta una letteratura secolare. La pena obbedisce a due esigenze di difesa sociale: esigenza preventiva ed esigenza repressiva. Preventiva, perché altri non incorra nel delitto; repressiva, perché si abbia dai cittadini fiducia nell'intervento dello Stato. Può anche avvenire che la pena sia in funzione di controspinta psichica, e di emenda, sì che il condannato si astenga, per l'avvenire, dal ricadere nel reato, ma non si può in una Costituzione attribuire tale finalità alla pena, e sarà sufficiente dire che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso d'umanità.

Altrimenti si potrebbe giungere ad attribuire un fine di emenda anche alla pena di morte, e, difatti, qualcuno ha sostenuto, pensando ad un'emenda giovevole per l'al di là, che la pena di morte è emendatrice in quanta concilia con l'idea di Dio. È vano, adunque, pretendere di determinare il contenuto moralistico della pena. Sarebbe come affermare nella Costituzione che, per esempio, il matrimonio deve sempre intendersi come la compenetrazione di due anime, affermare che lo Stato esprime necessariamente l'idea morale d'una convivenza aumentata dallo spirito della solidarietà.

Quando, adunque, ci si pone il quesito se la pena possa avere o debba avere un contenuto moralistico, si può anche rispondere affermativamente, ma tale affermazione non deve essere contenuta nella Costituzione.

Del resto, una tale affermazione non potrebbe essere generalizzata, e sarebbe un errore e una ironia insieme, ove si pensasse al delinquente abituale o professionale o ai casi di recidiva reiterata.

Un'ultima osservazione, sulla pena di morte. D'accordo con voi, d'accordo con tutti, d'accordo, soprattutto, con le nostre tradizioni giuridiche che noi intendiamo rivendicare: d'accordo, nel senso che essa non deve essere contemplata nel nostro Codice. Intanto, la pena di morte è preveduta nell'articolo 4 della legge vaticana del 7 giugno 1929, e ciò rende anche più grave il contrasto tra la Costituzione e i Patti Lateranensi inseriti nella Costituzione stessa.

Tupini. Ma in Vaticano si applica il Codice Zanardelli che non prevede la pena di morte.

Crispo. No, onorevole Tupini: per il caso contemplato nell'articolo 4 si applica la pena di morte.

[...]

Preziosi. [...] Ancora qualche osservazione sull'articolo 21 il cui terzo comma suona: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Onorevoli colleghi, se rimanesse così come è stato configurato nel progetto della nostra Costituzione, questo comma indubbiamente risponderebbe alle esigenze della giustizia: ma esso deve naturalmente essere seguito da provvedimenti consequenziali. Ve lo accennava l'onorevole Crispo, ve lo diceva l'onorevole Carboni, ve lo aveva annunciato l'onorevole Bettiol ed è un po' il sentimento di tutti noi che viviamo a contatto con quella che è la miseria quotidiana del condannato e del giudicabile, cioè di colui che può essere assolto, e che tante volte viene assolto. Quando voi affermate nella Costituzione che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», non dovete solamente pensare al condannato; dovete pensare anche al giudicando; dovete pensare insomma che in Italia vi è un sistema carcerario che non so quanti epiteti di vergogna meriterebbe; vi è un sistema carcerario in Italia, non solo il più antiquato, ma il più vergognoso.

E qui debbo aggiungere che purtroppo molti dei presenti nell'Aula ne hanno fatto esperienza. Anche lei, onorevole Presidente, ha visto, soffrendo per la libertà del nostro Paese, come vergognoso sia il sistema carcerario vigente in Italia, per cui non vi è nessuna differenza fra il delinquente incallito e il colpevole occasionale e il detenuto politico tutti sono trattati alla stessa stregua; non vi è nessuna differenza fra colui il quale è stato incarcerato per motivi politici e colui che è stato incarcerato per un bieco assassinio. Ma, comunque, non voglio scendere a questi particolari che richiederebbero molto tempo. Nessuno di noi può precisare che il sistema carcerario italiano possa essere considerato modificato nella sua vergogna soltanto tenendo presente quel nuovo carcere costruito alle porte di Roma, a Ponte Mammolo, che dovrebbe costituire il modello delle carceri italiane. Sarebbe una ironia.

La verità, onorevoli colleghi, è che è necessario arrivare ad una soluzione di questo assillante problema sociale. Noi affermeremo veramente una grande idea, se diremo nella nostra Costituzione che il condannato deve essere trattato in modo tale da poter essere successivamente — se si tratta soprattutto di un delinquente occasionale — riassorbito dalla società; le carceri non debbono diventare le università del delitto, di tutti i delitti, ma debbono essere un luogo dove il reo possa racchiudersi in se stesso, pentirsi del delitto e trovare quelle possibilità, attraverso le innovazioni che si potrebbero apportare nel nuovo ordinamento carcerario, che non gli facciano invece — come avviene oggi — odiare la società che sembra far di tutto per respingerlo da sé.

Onorevoli colleghi, ho finito. Ricordiamo fra noi le pagine di Cesare Beccaria nella sua opera Dei delitti e delle pene e riconosciamo che quelle pagine formulano un augurio per noi stessi, per noi che siamo i nuovi legislatori di questa Italia rinata, di questa Italia sventurata ed eroica, ma libera e democratica. Il nostro dovere lo dobbiamo compiere al di sopra di ogni passione di parte, nell'interesse della libertà, nell'interesse e nella difesa dei diritti di ogni italiano. (Applausi).

[...]

Bellavista. [...] E mi associo anche all'inciso che riflette la emenda come scopo della pena e che vorrei eliminato.

Ora, in realtà, e per le ragioni da altri svolte, e perché la pena, come comunemente si ritiene e s'insegna, non ha un fine unico, ma ne raggiunge altri, sia per questa ragione, sia perché sonerebbe ironia, allo stato della nostra miseria carceraria, parlarne, come l'articolo 21 ne parla, bisognerebbe sopprimere, come si è detto, l'inciso; e mantenere soltanto il principio che le pene non debbono e non possono essere contrarie al senso di umanità.

Sulla pena di morte, onorevoli colleghi, sento doveroso ricordare che la Costituente si onora del nome di un deputato, l'onorevole Paolo Rossi che, all'indomani della promulgazione del Codice Rocco, in pieno regime fascista, scrisse un libro coraggioso: «La pena di morte e la sua critica» nel quale dimostra, anche scientificamente, come questa cosa orrenda fosse soprattutto una bestialità inutile. Noi dobbiamo ancorarci fermamente a questo principio, forse superando anche la limitazione di Beccaria, ma in ogni caso, ricordando, pure nella eccezionalità del diritto di guerra, che non deve ripetersi quella orrenda cosa, che è sì una consuetudine criminale, ma per la quale non c'è pena perché non c'è mai denuncia, che imbratta tanto spesso l'onore dei soldati di tutte le Nazioni, e si chiama la «decimazione». Noi dobbiamo chiaramente affermare che questo è vietato, che questo è un delitto. Che in circostanze estreme nelle quali la Patria è in pericolo si possa arrivare a questa accettata possibilità di errore giudiziario che è la pena di morte, sia: ma questa possibilità di errori sia ridotta al minimo attraverso la garanzia del regolare giudizio e che non sia lecito all'anima prava di un comandante battuto cercare nel sangue degli innocenti la giustificazione dei suoi errori o delle sue codardie! (Applausi).


 

[i] Per un errore nella composizione della stampa, manca una parte del testo.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti