[Il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Belotti. [...] Tutto il Titolo terzo del Progetto consacra e concreta il principio che alla base dell'ordine sociale, fonte e condizione di armonie economiche, va posto non il solo principio dell'utile, ma il preminente principio di giustizia.

Quando, come nel secolo della grande esperienza liberale, si esclude ogni arbitro, si abolisce ogni freno nella gara delle competizioni economiche, avviene l'inevitabile: vince il più forte. La neutralità dello Stato, in tal caso, è abdicazione e suicidio.

Ma c'è un articolo, onorevoli colleghi, c'è un articolo del Titolo III del Progetto, l'articolo 36, che io non esito a definire più liberale dei liberali. Esso, dettando testualmente: «tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero», sancisce una libertà di sciopero illimitata, senza temperamenti e senza disciplina di legge. È vero che nella relazione del Presidente della Commissione plenaria, onorevole Ruini, è affermato che «la dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi» perché «si è con ciò voluto affermare più vigorosamente, e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere alla sua applicazione».

Allora io mi chiedo e chiedo alla Commissione quali sono le ragioni per cui si è voluto deliberatamente escludere dal testo dell'articolo in esame questo esplicito rinvio alla legge, questo riferimento alla disciplina giuridica ordinaria. Faccio peraltro rilevare alla Commissione che, una volta varato l'articolo 36 così, com'è configurato nel Progetto, una qualunque limitazione all'esercizio del diritto di sciopero che il legislatore futuro ritenesse indispensabile, potrebbe, anzi, dovrebbe essere impugnata come incostituzionale avanti l'apposita Corte.

Non esiste, nel Progetto, alcun altro diritto di libertà proclamato senza limiti e senza condizioni come questo.

Non esiste, ch'io sappia alcun paradigma del genere in nessuna Costituzione democratica contemporanea. La stessa recentissima Costituzione francese ammette il diritto di sciopero, sì, ma «nell'ambito delle leggi che lo regolano». (Le droit de grève s'exerce dans le cadre des lois qui le réglementent).

L'antinomia tra libertà e autorità non può, non deve essere risolta con l'eliminazione di uno dei termini. La nostra Costituzione vuol rappresentare una soluzione dell'eterna antinomia, ma una soluzione in senso autenticamente democratico, che salvi la libertà individuale senza sopprimere l'autorità dello Stato, concepita come esigenza e come presidio del bene comune della collettività nazionale.

A nulla varrebbe, onorevoli colleghi, aver garantito nella Costituzione l'intervento dello Stato come arbitro superiore, nella contesa economica, a tutela degli economicamente deboli, quando a questi ultimi fosse contemporaneamente consentito il ricorso all'autodifesa, «senza eccezioni e limitazioni».

Onorevoli colleghi, io non ignoro che lo sciopero è stato un mezzo, una leva potentissima per la rivendicazione del diritto alla vita e per la elevazione dei ceti più umili.

È appunto per questo che, nonostante ogni contraria parvenza di diritto, sono contrario alla correlativa libertà di serrata, ossia alla rappresaglia dei datori di lavoro, i quali non sono sullo stesso piano dei lavoratori e combattono con armi impari, non per il diritto alla vita, e con potere di resistenza assolutamente non comparabile a quello dei lavoratori. Ammettere il diritto di serrata significa togliere all'impresa il carattere di fatto sociale, sancito nel progetto di Costituzione, e sottrarla, praticamente, all'obbligo di dare lavoro. L'unico vero diritto di resistenza da parte dei datori di lavoro si identifica col bene comune della collettività nazionale, quel bene comune che costituisce l'obiettivo principe, anzi, la ragion d'essere dello Stato. Ma non possiamo ignorare, per contro, che il bene comune costituisce un limite anche all'esercizio del diritto di sciopero. Per essere obiettivi bisogna riconoscere che anche lo stato di inferiorità e di miseria dei lavoratori è un danno per la collettività. Quando dico «un limite», non intendo dire «la confisca». C'è chi sostiene che ammettere lo sciopero significhi riconoscere implicitamente l'incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori e degli stessi datori di lavoro. C'è del vero in questa tesi.

In uno Stato perfetto — è fuori dubbio — non dovrebbero esserci scioperi. Per voi, onorevoli colleghi di parte comunista, lo Stato perfetto esiste: la Russia Sovietica: e là, infatti, lo sciopero è proibito.

Lo sciopero, nella storia, non figura come fine a se stesso: appare come azione strumentale di difesa e di conquista, in funzione degli interessi economici e sociali dei lavoratori organizzati. E questo suo carattere di strumentalità complica, in certo senso, il problema della sua impostazione dottrinaria; poiché, se lo sciopero non è lo scopo da raggiungere, ma un metodo di azione, altri metodi teoricamente idonei al conseguimento delle medesime finalità possono essere considerati in sua vece.

Il metodo pubblicistico presuppone la superiorità assoluta dello Stato sulle classi e postula la capacità dello Stato a dirigere la dinamica sociale, esercitando un intervento sovrano nei rapporti interclassistici. È il metodo fascista (e nazista), tendente a risolvere i conflitti sociali con un ferreo ordinamento giuridico, attraverso speciali organi rappresentativi e giurisdizionali (magistratura del lavoro).

La configurazione dello sciopero nell'ordinamento sovietico è affine solo in apparenza alla concezione fascista. In realtà, la fondamentale divergenza risiede nel fatto che lo Stato perfetto non è più fondato su una collaborazione interclassistica imposta dall'alto, ma sulla dittatura del proletariato.

Nella concezione marxista lo sciopero, come atto di guerra sociale, è ritenuto legittimo fino alla estromissione delle classi non proletarie. Una volta che lo Stato proletario ha riassunte in sé le funzioni dell'imprenditore, del capitalista e del datore di lavoro, lo sciopero viene ad essere fatalmente configurabile come un atto di ribellione, di disfattismo e di sabotaggio della produzione, base di potenza dello Stato proletario. Nell'ambito di una società marxista, è assurdo considerare più oltre lo sciopero come un diritto, come una conquista dei lavoratori.

I partiti marxisti considerano lo sciopero come efficacissimo metodo, come macchina rivoluzionaria, come strumento della lotta di classe nell'ambito della cosiddetta «società borghese», al fine specifico di operarne lo scardinamento.

In un ordinamento come quello configurato nella nostra Costituzione, che non è liberale in quanto prevede interventi statali nell'economia a salvaguardia del bene comune e dei diritti degli economicamente deboli, mentre la serrata diventa un controsenso, lo sciopero può essere, senza dubbio, uno stimolo efficace.

Ma, abbandonato a sé stesso, può costituire un pericolo di sovvertimento della struttura dello Stato e delle stesse garanzie sancite dalla Carta costituzionale.

Il riconoscimento del diritto di sciopero può a taluno fondatamente apparire come implicito riconoscimento che, nonostante il contenuto sociale della nostra Costituzione, lo Stato continuerà a soggiacere alla potenza capitalistica ed alla conseguente incapacità di rendere giustizia ai lavoratori.

Si può obiettare, a questo proposito, che pretendere l'intervento della burocrazia statale in ogni singolo caso di difesa del lavoratore o di una delle infinite categorie di lavoratori di fronte a ingordi datori di lavoro, può apparire eccessivo e comunque non intonato al proposito di snellire, anziché ingigantire, l'apparato burocratico per alleviarne la tradizionale lentezza funzionale. Comunque lo sciopero è e rimane un fatto patologico della vita economica e sociale. Le febbri e le convulsioni sociali sono indici di uno squilibrio che minaccia le stesse basi della convivenza civile. Non solo sulla febbre, ma soprattutto sullo squilibrio deve agire lo Stato. Il legislatore futuro, anche in relazione agli orientamenti internazionali in materia, deve poter disciplinare l'esercizio del diritto di sciopero, in relazione alla possibilità di rendere prontamente giustizia ai lavoratori. Anche per questo, l'ancoraggio del diritto di sciopero alla legge appare assolutamente indispensabile.

Un'altra notevole eccezione mossa alla possibilità e soprattutto all'efficacia di una disciplina giuridica dello sciopero, è che si tratta, nella fattispecie, di un atto, un rapporto di forza che è assurdo pretendere di contenere nell'ambito della legalità. Di diverso parere è stata la Costituente francese. Ma in questa tesi può esserci un equivoco. Non tutti gli scioperi degenerano in violenze alla proprietà e alle persone. Notiamo anzi che, col progredire della coscienza sindacale, della maturità civica e del senso di solidarietà, gli abusi non sono più così temibili come nel passato. Altro è l'uso ed altro l'abuso di un diritto.

Si discute, oggi, dai giuristi, se si tratti, nella fattispecie, a seconda dei casi, di illecito civile, laddove sia considerato penalmente non perseguibile, oppure, sempre a seconda dei casi, di libertà (anziché di diritto) di sciopero.

Anche in giurisprudenza è controverso se lo sciopero rappresenti effettivamente la violazione di un contratto (il contratto di lavoro), o non piuttosto una temporanea interruzione di lavoro che non costituisce, per sé, la rottura unilaterale di un impegno contrattuale consensualmente e bilateralmente stabilito. In realtà l'intenzione dall'operaio scioperante, di regola, non è di rompere ogni suo rapporto col datore di lavoro, per impegnarsi con la concorrenza. Tuttavia, anche se lo sciopero effettivamente rappresentasse, in determinati casi, una vera e propria rottura contrattuale, bisogna aver presente che di fronte al diritto di vivere con dignità di persona umana impallidisce ogni formula del diritto positivo. Sia che si tratti di «diritto di libertà», oppure di «diritto riflesso», ossia scaturente da un diritto violato, è il movente dello sciopero quello che permette di giudicare, volta a volta, della sua legittimità.

Ma una valutazione obiettiva non può essere fatta da una parte in causa. Di qui la necessità che il legislatore intervenga, prescrivendo per ogni caso modalità preventive e tentativi di conciliazione e di arbitrato. Io non condivido, onorevoli colleghi, né l'opinione di Achille Loria, secondo il quale lo sciopero «é un atto in ogni caso ed in ogni tempo appieno legittimo», né l'opposta concezione reazionaria, secondo la quale esso non sarebbe che «il parricida nato dalla libertà di lavoro».

Lo sciopero, infatti, non è che il diniego di prestare ad altri ciò che è proprio: l'operosità delle proprie braccia e della propria intelligenza. Se il rifiuto isolato del lavoro è un atto intrinsecamente lecito, non può divenire, per se stesso, illecito quando è collettivamente concertato e simultaneamente realizzato, perché il moltiplicarsi degli atti non muta la loro intrinseca natura.

Questa verità così elementare è stata negata dalla Rivoluzione Francese, che pure aveva innalzato sulle sue roventi bandiere il trittico rubato da Rousseau al messaggio cristiano: liberté, égalité, fraternité.

Una voce a sinistra. Non c'era la bandiera rossa allora: è venuta dopo.

Belotti. Il famoso decreto Le Chapelier, del 14 giugno 1791, stabiliva:

«Si des citoyens attachés aux mêmes professions, arts et métiers prenaient des délibérations, ou faisaient entre eux des conventions tendant à refuser de concert ou à n'accorder qu'à un prix déterminé le secours de leur, industrie ou de leur travaux, les dites délibérations et conventions sont déclarées inconstitutionnelles, attentatoires à la liberté et à la déclaration des droits de l'homme et de nul effet».

Questo decreto-capestro per la libertà di associazione, di coalizione e di sciopero, nato sotto l'insegna dalla liberté in odio ai vincolismi corporativi dell'Evo Medio, non ha potuto impedire, lungo l'Ottocento, che centinaia di milioni di lavoratori di ogni fede religiosa e di ogni opinione politica, fatti uniti e potenti dalle forze dell'associazione e della organizzazione, muovessero, attraverso una serie imponente di battaglie e di conquiste, verso il «risorgimento del lavoro», verso l'ideale della giustizia per il lavoro, inteso come nuovo protagonista della storia e come unità di misura del valore umano.

Certo, anche un atto individuale lecito, quando, simultaneamente compiuto da una collettività concertata, arreca un grave danno alla vita collettiva, può divenire illecito. Vedremo, alla fine, un'applicazione di questo principio. Ecco un altro motivo a favore dell'ancoraggio del diritto di sciopero alla legge.

Infine, l'esercizio, l'uso del diritto di sciopero può sconfinare nell'abuso, trasformandosi più o meno facilmente, a seconda del grado di incandescenza delle folle scioperanti esasperate dalla resistenza padronale, da diritto in vero e proprio delitto. Alludo al sabotaggio, al boicottaggio, alla violenta repressione del crumiraggio, alle multiformi esplosioni cui la belva umana, fatta cieca dall'odio, talvolta irresistibilmente s'abbandona.

È possibile pensare ad una neutralità della Repubblica Italiana, «Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1 della Costituzione), Repubblica che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), Repubblica che s'impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale dell'Italia» (art. 3), Repubblica che pone a base un'economia regolata da interventi statali (tutto il Titolo III), di fronte all'unica autodifesa di classe riconosciuta dalla Costituzione?

È possibile ammettere che, mentre folle di lavoratori scendono in campo, una Repubblica cosiffatta stia semplicemente ad attendere, come i Cesari nel circo, le sorti della lotta tra i gladiatori?

Io mi rifiuto di ammetterlo, onorevoli colleghi, e penso di non essere il solo in questa Assemblea. Scorrendo la lunga serie delle proposte di emendamento all'articolo 36, rilevo che molti colleghi affacciano una soluzione radicale del controverso problema, chiedendo la soppressione del lacunoso articolo, in armonia con lo sfortunato ordine del giorno della terza Sottocommissione, secondo il quale detta Sottocommissione, «ritenuto urgente e indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta Costituzionale». Io sono di diverso avviso. Si potrà discutere sulla libertà di sciopero, sui limiti e le forme di esercizio, ma, una volta ammesso il principio, non mi pare consigliabile ignorare completamente nella Costituzione un dato di fatto di tale importanza e pericolosità da costituire, se totalmente incontrollato, una seria minaccia per tutto il «piano regolatore» fissato nella Costituzione.

È di capitale importanza, a mio avviso, stabilire in via pregiudiziale che «il diritto di sciopero può essere esercitato solo nell'ambito delle leggi che lo regolano».

Ma il semplice rinvio alla legge, come nella Costituzione francese, non mi pare del tutto soddisfacente. Noi Costituenti abbiamo il compito e la responsabilità di tracciare le grandi direttrici, con la legge delle leggi, al futuro legislatore.

La prima Sottocommissione, presieduta dall'onorevole Tupini, aveva proposto, per l'articolo 36, un comma aggiuntivo (poi respinto dalla Commissione plenaria), del seguente tenore: «La legge regola le modalità di esercizio dello sciopero, unicamente per quanto attiene:

a) alla procedura di proclamazione;

b) all'esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;

c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva».

Nonostante che nella Commissione plenaria abbia prevalso la tesi del diritto di sciopero incondizionato, io rimango fermo nella fiducia che l'Assemblea vorrà riservare alle eccezioni a suo tempo sollevate dalla prima Sottocommissione e da me oggi modestamente ribadite, tutta la considerazione che esse meritano.

In particolare, ritengo che le invocate garanzie di carattere costituzionale debbano riguardare:

1°) la salvaguardia del metodo democratico nella decisione, in sede sindacale, di ricorso allo sciopero;

2°) il preventivo esperimento di tentativi di conciliazione e di arbitrato (non obbligatorio);

3°) la facoltà al futuro legislatore di stabilire delle particolari limitazioni all'esercizio del diritto di sciopero in momenti eccezionali per la vita della Nazione;

4°) la rinunzia all'esercizio del diritto di sciopero e il ricorso ad arbitrato obbligatorio per i pubblici funzionari e i lavoratori addetti ai servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva;

5°) il divieto di sciopero generale politico.

Mi limito, per difetto di tempo, ad un sobrio commento dei punti 1°), 4°) e 5°), in quanto il punto 2°) ha già trovato sviluppo nel mio discorso, e il punto 3°) è di una tale evidenza da rendere superfluo ogni commento.

La salvaguardia del metodo democratico nella decisione collettiva di ricorso allo sciopero dovrebbe consistere, a mio avviso, nella votazione libera e segreta degli iscritti ai sindacati di categoria regolarmente registrati. Sarebbe, inoltre, consigliabile la fissazione di una speciale maggioranza, in quanto la decisione verrebbe, in pratica, per forza di cose, ad essere ritenuta operante e vincolativa anche nei confronti dei non iscritti al sindacato. Il crumiraggio è un fenomeno che non può e non deve essere ignorato, perché incide direttamente sui diritti di libertà dei cittadini-lavoratori.

Onorevoli colleghi: la vexata quaestio della legittimità o non dello sciopero degli addetti ai servizi pubblici comunque essenziali alla vita collettiva, merita un attento riesame da parte della Assemblea.

L'onorevole Di Vittorio, relatore sul tema del diritto di sciopero in seno alla terza Sottocommissione, si è battuto con foga di sindacalista per la sua estensione tout-court a tutti i cittadini senza eccezione, e quindi anche agli addetti ai servizi essenziali alla collettività.

I suoi due maggiori cavalli di battaglia contro il diniego della libertà di sciopero ai funzionari addetti a tali servizi e contro il correlativo ricorso all'istituto dell'arbitrato obbligatorio, sono:

a) che non si deve creare una categoria di cittadini minorati rispetto a tutti gli altri;

b) che bisogna che lo Stato democratico dimostri fiducia nel senso di autodisciplina e di autolimitazione di tutte indistintamente le masse lavoratrici.

Onorevoli colleghi: a parte il fatto che io non vedo, forse, in tutta la sua portata, la minorazione dall'arbitrato obbligatorio, in quanto lo penso strumento di giustizia volto anche contro lo Stato quando esso si comporta verso i suoi più vicini collaboratori alla stessa guisa del più miope dei conservatori, mi permetto di sottoporre alla vostra considerazione questo quesito: «Nella peggiore delle ipotesi, è preferibile la minorazione di una ridotta aliquota di cittadini, o la (sia pure transitoria) paralisi funzionale dello Stato?».

La risposta non può essere dubbia.

L'opinione pubblica è spesso solidale con le folle di lavoratori che incrociano, fieri, le braccia, e sfidano la potenza padronale. Ma quando il turbine s'abbatte sulle ruote insostituibili paralizzando la vita sociale, le adesioni popolari svaniscono e i lavoratori di ogni categoria, sotto il peso delle conseguenze, tramutano l'osanna in imprecazione.

L'argomento che lo Stato deve limitarsi ad avere illimitata fiducia, a recitare l'atto di fede nei suoi collaboratori d'ogni ordine e grado burocratico, mi sembra suscettibile d'essere ritorto con facilità.

I funzionari, i lavoratori, i collaboratori per primi debbono aver fiducia nello Stato. Onorevoli colleghi di parte comunista, io sarei tentato di chiedervi: «Ma che aspettate ad aver fiducia in questa nostra giovane Repubblica Italiana «fondata sul lavoro»: aspettate forse che sia sovietizzata?» (Rumori Interruzioni all'estrema sinistra). L'ultima garanzia costituzionale dovrebbe consistere nell'espresso divieto dello sciopero, generale politico.

Già, solo a proposito dello sciopero generale come espressione di solidarietà economica tra lavoratori, la nota Rivista socialista Critica Sociale (giugno 1910), ammoniva:

«Tali scioperi, più che giovare agli scioperanti, li danneggiano, perché mutano gli operai solidali, che potrebbero sussidiare lo sciopero, in altrettanti concorrenti al sussidio di sciopero. Né è raro che gli scioperi di solidarietà giovino invece agli imprenditori che direttamente colpiscono, permettendo loro di smerciare, a prezzi rimuneratori, grosse riserve di merci invendute, il cui accumulo ne deprimeva il valore».

Onorevoli colleghi: ammettere la legalità dello sciopero generale politico significa rendere invalida, già in partenza, la nostra Costituzione, significa riconoscere ad una parte di cittadini il diritto di rendere carenti l'autorità, il prestigio, l'attività dello Stato e di ricorrere all'autogiustizia in materia non più sindacale, ma politica, ossia in una materia che, appunto perché tale, deve rimanere soggetta alla disciplina dello Stato.

Onorevoli colleghi; io credo che nessuno di noi faccia finta di credere alla Costituzione che stiamo elaborando e scavi, nel contempo, segretamente la fossa alla nostra comune fatica, alla nostra creatura destinata ad essere — speriamo per lungo tempo — custode e vindice della libertà democratica riconquistata, col suo martirio, dal popolo italiano! (Vivi applausi al centro Congratulazioni).

[...]

Murgia. Onorevoli colleghi, su questo titolo limiterò la mia discussione al problema dello sciopero; problema grave per la cui soluzione si esige il maggiore coraggio da parte dell'Assemblea. Il popolo italiano attende in questo momento che si dia una soluzione al problema; una soluzione che concilii le esigenze della giustizia con la necessaria autorità dello Stato. Io trovo il problema dello sciopero strettamente connesso al problema dello Stato e alla ragione stessa di essere dello Stato. Che cosa è infatti lo Stato? Quale è il suo fine? Lo Stato è un insieme di enti, di organi attraverso cui esplica la sua attività, attività che ha il fine di fornire la società di determinati servizi che vanno da quelli immediati, imprescindibili della vita fisica a quelli superiori della istruzione, della sicurezza e della giustizia. Ma cotesta attività, a sua volta, è esplicata da un determinato numero di persone, numero relativamente piccolo, in una nazione come la nostra, dove poche centinaia di migliaia di persone sono al servizio di 45 milioni di cittadini. È chiaro che ove la loro attività si arresti, si arresta la vita stessa dello Stato. Per un momento cioè lo Stato scompare e riappare la umanità in cui la società organizzata non esisteva appunto perché non esisteva lo Stato.

Lo Stato ha, perciò, due doveri fondamentali: uno verso la società alla quale in nessun momento, mai, deve fare mancare i servizi indispensabili alla sua vita; l'altro verso il personale preposto alla sua attività; dovere che si concreta nell'assicurare a tale personale un adeguato trattamento economico. Ma accade talvolta ai dipendenti dello Stato quel che più spesso accade ai dipendenti delle imprese private: sorgono controversie per le mutate condizioni di vita, si chiedono aumenti di stipendi o di salari. E se lo Stato o le imprese resistono, eccoci alla vertenza. Come risolverla? In un modo solo: con giustizia!

Ma è qui che il problema diventa drammatico perché esso si identifica in un conflitto fra la Giustizia e la Forza per il mezzo di risoluzione adoperato: lo sciopero.

Vediamo ora quale è il fine dello sciopero. Dovrebbe essere la rivendicazione di un diritto economico, un mezzo per ottenere giustizia. Ma se questo è il solo e vero fine — e non dovrebbe esservene un altro — noi diciamo: se fosse possibile trovare un altro mezzo diverso dallo sciopero che procurasse giustizia senza i danni dello sciopero, è logico che noi cotesto mezzo dovremmo preferire. Quali obiezioni infatti si potrebbero ragionevolmente muovere? Non c'è altra alternativa: o affermare che non si ha fiducia in nessun altro mezzo all'infuori dello sciopero, o confessare che i fini che si perseguono con esso sono anche di altra natura.

Ma poiché è ovvio che non si confesseranno mai cotesti altri fini, si affermerà che non si ha fiducia in alcun organo di giustizia della società. Sennonché è troppo evidente la non serietà di cotesta affermazione. Sarebbe seria infatti solo se si pretendesse che il collegio dei giudici di tale organo fosse costituito da datori di lavoro o comunque appartenenti a categorie interessate. Ma poiché questo non è, come si potrebbe sostenere con serietà che nel nostro Paese che, fra l'altro, è il più povero di capitalisti e di ricchi — in quanto ben pochi possono vivere senza lavorare o senza integrare col lavoro altri redditi naturali — non sarebbe possibile costituire un collegio di galantuomini, di uomini d'onore, capaci di rendere un equo giudizio? Non sarebbe questo un insulto all'onore di tutto un popolo e ai suoi magistrati che hanno una tradizione di gloriosa probità? Se adunque cotesta possibilità c'è, la logica impone che la risoluzione delle vertenze sindacali debba essere sottratta all'arbitrio delle parti e non debba avvenire altrimenti che attraverso un organo di giustizia, da creare appositamente, vietando i mezzi di reciproca offesa e difesa così dannosi economicamente e così antigiuridici quali sono lo sciopero e la serrata, che devono essere cancellati dal progetto di Costituzione.

Eppure, nonostante quanto ho detto, per quanto sembri strano, oggi l'articolo 36, se non si creasse un organo di giustizia sindacale non potrebbe essere cancellato o quanto meno la sua cancellazione non sarebbe pienamente, per tutti i casi, giustificata. Oggi lo sciopero appare legittimo; ma perché? Per due ragioni: primo, perché non esiste una legge positiva che lo vieti, secondo, per una ragione più sostanziale e cioè perché non esiste nella nostra società un organo di giustizia statale per la risoluzione delle vertenze sindacali. Avviene perciò che i lavoratori si trovino, per questo aspetto, nelle condizioni in cui si trovavano gli individui per la risoluzione delle loro vertenze private quando non esisteva ancora lo Stato, quando non esistevano i tribunali, per cui erano costretti a farsi giustizia da sé. Si può dire che la ragione più forte che ha determinato la creazione dello Stato è stata senza dubbio la esigenza di far cessare la giustizia privata, causa di tanto danno e di tanto dolore alla prima umanità!

Ma oggi può lo Stato, di fronte a vertenze che investono interessi di centinaia di migliaia di lavoratori incrociare le braccia e assistere impassibili a queste immense rivolte che sommuovono da cima a fondo la sua stessa vita? Io dico di no. Lo Stato che è stato costretto, per mantenere la pace, a istituire organi di giustizia per le vertenze individuali private e persino per le vertenze fra gli impiegati e la pubblica Amministrazione, a maggior ragione deve creare un organo di giustizia che sia alto sopra l'interesse delle parti per la risoluzione delle vertenze collettive.

La missione suprema dello Stato secondo Platone è la giustizia; la giustizia intesa come armonia la quale nei rapporti sociali consiste nel componimento dei contrasti che sorgono dal seno stesso della vita la quale nel suo divenire non è altro che perpetuo contrasto, perpetuo componimento di essi e perpetuo rinascente contrasto verso forme di vita sempre più alte. E questa è anche oggi la missione ideale e sarà sempre la missione eterna dello Stato. Ove da essa si devii, si devia dalla grande luminosa strada maestra; se si contende allo Stato il diritto che esso solo, sovranamente, ha di rendere giustizia e tale diritto si arroghino i cittadini od altri enti che rappresentino organizzazioni collettive, si intacca il principio che impera su tutto il diritto: cioè che è vietato a tutti farsi ragione da sé. E lo sciopero, che cosa è? Forse un organo di giustizia! È un mezzo di farsi ragione da sé come lo è la serrata che ugualmente condanno. (Rumori).

Una voce a sinistra. Vada a parlare così nelle fabbriche.

Murgia. Nelle fabbriche andate voi a parlare per mettere concordia!

Una voce a sinistra. Demagoghi in piazza e qui reazionari.

Murgia. Lei non ha nemmeno il senso della dignità di quest'aula... (Rumori). I demagoghi siete voi e da comizio rionale per giunta. (Rumori).

Presidente Terracini. Onorevole Murgia, non esprima giudizi sui suoi colleghi.

Murgia. È l'interruttore che deve avere il massimo rispetto per l'oratore che parla.

Presidente Terracini. Hanno interrotto, ma non hanno adoperato fino a questo momento espressioni offensive. Si sono limitati...

Una voce a destra. Si sono limitati a chiamarlo reazionario. Cosa volete di più?

Presidente Terracini. Si sono limitati a far presente al collega che parla che egli non conosceva l'ambiente di fabbrica. Questa è l'osservazione che io ho udito, e che tutti hanno udito.

Micheli. Non è stato così, signor Presidente. Io ero vicino, e posso affermare che è stata un'altra l'intonazione che ha dato il collega che ha interrotto.

Presidente Terracini. La risposta è stata esagerata. Il richiamarsi alla mancanza di dignità di tutto un settore di questa Assemblea mi pare sia stata una ritorsione esagerata.

Micheli. Effettivamente aveva detto dell'altro.

Presidente Terracini. Onorevole Murgia, riprenda il suo discorso.

Murgia. Dopo quanto ho detto, quale deve essere dunque la decisione della nostra Assemblea sull'articolo 36? In esso il diritto di sciopero è affermato in tutta la sua assolutezza; comprende cioè non solo il diritto di sciopero dei lavoratori delle imprese private, ma anche quello dei pubblici impiegati, dei servizi pubblici, di pubblica utilità e persino lo sciopero generale politico. Fermiamo un momento la nostra attenzione sulla portata di tale articolo.

Cominciamo dallo sciopero degli statali. Ammettere che è lecito il diritto di sciopero da parte degli statali e addetti ai servizi pubblici significa ammettere che è lecito da parte di mezzo milione di persone privare una Nazione di 45 milioni di cittadini dei beni indispensabili alla sua vita a cominciare dall'acqua che beviamo — pensate a uno sciopero dei fontanieri — della luce — pensate a uno sciopero degli elettricisti — della difesa e incolumità individuale dei cittadini e della tutela dei loro diritti — pensate a uno sciopero degli agenti della forza pubblica e dei funzionari della giustizia e tanti altri addetti a indispensabili servizi — sarebbe insomma il caos e la fine dello Stato. (Interruzioni a sinistra — Commenti).

Quindi non so se vi possa essere una persona che sostenga con serietà che da parte del personale dello Stato e di altri servizi pubblici si possa, per un momento solo, pensare a una follia criminale di quel genere (Rumori vivissimi a sinistra) come si possa privare la collettività di servizi che debbono esserle costantemente assicurati: diversamente è la fine dello Stato.

Assurdo quindi e come tale inammissibile lo sciopero degli statali.

E lo sciopero politico? È ovvio, esso è ancora più assurdo, più dannoso, senza ombra di giustificazione per difesa di diritti di classe, più dannoso perché comprende non solo gli statali, ma tutti indistintamente i lavoratori statali e non statali. Non ho fatto una affermazione gratuita interpretando così l'articolo 36 come comprensivo anche dello sciopero politico. Non prevedevo che avrei dovuto parlare questa sera perché il mio nome era il 22° della lista degli inscritti a parlare e non ho qua, perciò, né appunti né la relazione dell'onorevole Di Vittorio circa lo sciopero, relazione dove si afferma la legittimità dello sciopero politico. Qui è dunque non solo svelato, ma affermato nel modo più crudo il motivo di quel dubbio che esprimevo all'inizio della mia discussione e cioè che lo sciopero non viene usato come solo mezzo per risolvere e difendere interessi di categoria, ma come mezzo di forza per risolvere con la forza vertenze anche di altra natura. (Rumori vivissimi).

Quindi se questo sciopero dovesse essere dichiarato legittimo ciò significherebbe che è legittimo da parte anche dei più indispensabili dipendenti statali non solo interrompere la funzione dello Stato, ma privare lo Stato dei mezzi più diretti della sua difesa. Immaginate uno sciopero degli agenti della forza pubblica — che pure sono compresi fra gli statali — ed immaginate che vengano attaccati i poteri dello Stato. Chi li difenderà? Quei mezzi non verrebbero adoperati a difesa dello Stato ma per abbattere lo Stato! (Rumori vivissimi Interruzioni all'estrema sinistra).

Presidente Terracini. Onorevole Murgia, prosegua il suo discorso. Il suo compito non è di rispondere ad ogni interruzione. L'interruzione può recare disturbo ma non costituisce un impegno a rispondere. A quanto pare, l'onorevole Murgia ritiene che ogni obiezione debba ricevere la sua risposta, tanto è vero che quando non riesce a cogliere il significato delle interruzioni, si ferma e chiede che gli si ripeta. Mi pare che questo sia un modo di svolgimento dei suoi concetti che non ne facilita la comprensione, ed è per questo che la consiglierei, onorevole Murgia, quando non riesce a cogliere le interruzioni, di proseguire nel suo discorso. È implicito che le interruzioni in genere devono essere evitate. Ma a questo proposito mi pare che nessun settore dell'Assemblea abbia il diritto di fare rimproveri speciali ad altri.

Murgia. Continuando, io vorrei, se il tempo me lo consentisse, fermarmi ancora su questo importantissimo punto per dimostrare che anche lo Stato ultramoderno — quale è definito lo Stato sovietico — condannava, e condanna lo sciopero; sciopero che fino al 1927 era punito con la morte! (Vivissime interruzioni a sinistra). E se voi, dell'estrema sinistra, doveste conquistare il potere, voi per primi abolireste il cosidetto diritto di sciopero! (Interruzioni a sinistra Approvazioni a destra).

Sì, onorevoli colleghi, non credo, perché mi sembra troppo ovvio, di dover illustrare ulteriormente questi concetti. Le forze che sono preposte all'ordine della società devono essere costantemente poste sotto la diretta ed esclusiva autorità dello Stato, del Capo dello Stato, del Capo del Governo e di tutte le altre autorità e non già della Confederazione generale del lavoro. Diversamente è la fine inevitabile dell'ordine e il caos in un Nazione civile. (Interruzioni a sinistra).

Detto questo che cosa dunque sostituire allo sciopero e alla serrata? Per tutte le vertenze come ho detto prima, la soluzione logica, razionale, dovrebbe essere la creazione d'un organo di giustizia statale. È questo, allo stato attuale, possibile per tutti i lavoratori? Per ragioni contingenti, in questo momento, per tutti, no. Ma deve essere istituito per tutti gli statali e per gli addetti ai servizi pubblici. In ogni caso, in via subordinata, deve essere istituito quanto meno un arbitrato obbligatorio le cui decisioni siano vincolatrici per le parti. Ad esso devono essere sottoposte — essendo vietato lo sciopero — le loro vertenze. Ma quali devono essere accolte? Tutte le richieste o solo quelle giuste? È ovvio, solo quelle giuste. E il giudice? Il giudice non può essere né la parte interessata, né i datori di lavoro, né i lavoratori, né i loro rappresentanti, che sono costituiti dagli organi sindacali. La giustizia, da quando esiste il mondo, è concepita come qualche cosa che trascende gli interessi e i contrasti delle parti e li compone ed è augusta e rispettabile perché pura di interessi e di frodi.

Per questo noi postuliamo, in questo momento in cui lo Stato è sbattuto dai flutti di continui scioperi che rendono impossibile la vita e ci procurano il disprezzo o per lo meno la diffidenza dello straniero (Interruzioni vivissime a sinistra), che ci nega i mezzi per la nostra indispensabile ripresa (Interruzioni a sinistra), la creazione di una Costituzione sulle cui basi lo Stato sia stabile e saldo. Diversamente la Costituzione non sarà longeva, sarà una Costituzione che avrà i giorni contati, i giorni che saranno decretati dalla Confederazione generale del lavoro la quale potrà stabilire a suo senno la data in cui questo Stato deve essere spazzato. (Vivi applausi a destra e al centro Interruzioni e commenti a sinistra).

Giannini. Non si può nemmeno applaudire? Imparate qualche cosa! (Accenna a sinistra).

Murgia. Fermo restando quanto ho detto circa lo sciopero degli statali e il modo di risolvere legalmente le loro vertenze, vediamo quale atteggiamento debba tenere lo Stato nei confronti dei lavoratori non addetti ai servizi pubblici. È ammessa l'astensione pura e semplice dal lavoro? Io dico che questo è il diritto primo ed eterno dell'uomo che lo porta dalla nascita, è coevo della sua esistenza; ma nello sciopero noi distinguiamo due momenti; uno iniziale, pacifico che dura finché durano i mezzi economici per sostenere cotesta astensione, mezzi modesti, necessariamente modesti per un lavoratore, esauriti i quali si ha l'alternativa inesorabile: o arrendersi e riprendere il lavoro, o l'insurrezione violenta. Triste alternativa perché qualche volta ciò significa arrendersi alla ingiustizia, ma, non essendovi un organo di giustizia, non c'è via di scampo. E allora dicevo, quale deve essere l'atteggiamento dello Stato? Deve reprimere la violenza o lasciare che essa faccia le sue vittime? Quale è il compito essenziale, naturale, dello Stato? È il mantenimento della pace sociale; diversamente esso perde il diritto e la ragione di essere. Ma come, con che mezzi interverrà lo Stato?

Finché si tratta di una infrazione ad una legge civile o penale da parte dell'individuo singolo o di un piccolo gruppo di individui, esso ha la forza di dominare e signoreggiare la situazione; ma di fronte a uno sciopero gigantesco che mobiliti centinaia di migliaia o milioni di lavoratori, lo Stato, di fronte alla violenza ha indubbiamente il diritto, anzi il dovere di reprimerla, ma ha la forza per farlo? Questo è il punto. La forza, signori, lo Stato non l'ha. Quindi come vi sono nella scienza del diritto penale quelli che si chiamano i reati di pericolo, qui vi è una ipotesi anche più grave; lo Stato deve essere lungimirante e su questa materia non occorre esserlo troppo per ipotizzare una situazione del genere. Lo Stato, in previsione di questo fatto, deve premunirsi dalla violenza e renderne il verificarsi impossibile. Se manca a cotesto dovere, manca al principale dovere verso la società che lo ha espresso e che da essa è concettualmente distinto. Lo Stato deve fare giustizia per i lavoratori? Sì — questa è una esigenza suprema ed inderogabile perché risponde al bisogno più profondo dello spirito umano — ma per soddisfarla deve creare un organo di giustizia, è indispensabile ed inevitabile che questo crei: chiamatelo arbitrato o tribunale del lavoro...

Una voce a sinistra. Tribunale speciale. (Rumori).

Murgia. Quella è una specialità vostra. (Rumori vivissimi).

Giannini. Tribunale del lavoro, non tribunale speciale.

Murgia. È difficile continuare con questi rumori. Noi qui discutiamo dello sciopero da un punto di vista razionale, non politico per quanto con la politica esso sia strettamente connesso.

È necessario, affinché la Costituzione possa avere una base salda, che sia rimossa questa mina formidabile che è insediata nella Costituzione come il suo nemico e che è costituita dallo sciopero che potrebbe far saltare lo Stato.

Onorevoli colleghi, avviandomi alla conclusione, non è possibile immaginare né al presente, né nel futuro una convivenza pacifica ed ordinata, se non rimuoviamo questo ostacolo fondamentale. Unitamente al collega ed amico onorevole Belotti, abbiamo formulato un emendamento che, se contiene il divieto assoluto di sciopero degli statali, addetti ai servizi pubblici e sciopero generale politico imponendo la risoluzione delle vertenza con arbitrato obbligatorio, per gli altri lavoratori subordina lo sciopero alla sua approvazione a maggioranza di due terzi da parte dei votanti e con sistema di votazione libera e segreta (Rumori a sinistra); esigenza questa che è legittimata dal fatto che non solo in questo modo s'interpreta genuinamente la volontà dei lavoratori inscritti al sindacato, ma anche dal fatto che gli inscritti rappresentano sì e no il quarto dei lavoratori d'Italia.

Quindi, poiché lo sciopero ha forza praticamente vincolatrice ed obbligatoria anche nei confronti degli altri tre quarti degli inscritti, è necessario che da parte dei votanti vi sia una maggioranza dell'ampiezza predetta. Così, in questo modo, non si viene a disconoscere con l'emendamento il principio dello sciopero, che in linea di massima io non ammetto — parlo a nome mio personale e non del gruppo cui appartengo — nemmeno per i lavoratori delle aziende private, ma al quale accedo come ripiego; sì, solo come ripiego perché uno sciopero deciso anche a maggioranza dei due terzi dimostra solo che è voluto da tale maggioranza, ma non dimostra con ciò necessariamente che sia giusto. La giustizia è un'altra cosa. Ragioni di prudenza, però, in questo momento di esasperazione resa più acuta dal moltiplicarsi delle difficoltà, consigliano che non si arrivi a un divieto assoluto di sciopero per tutti, perché ciò potrebbe destare una troppo ampia rivolta e anche perché, oltre che per le predette ragioni, non si vuole, da parte di certi settori, andare contro le aspirazioni buone o non buone di una classe che deve dare il voto domani.

Quindi limitatamente a questa categoria di lavoratori è opportuno onorevoli colleghi che voi accogliate la proposta contenuta nell'emendamento che, mentre non intacca il principio dello sciopero porta un contributo alla necessaria armonia e concordia sociale, indispensabile per la nostra rinascita, ed evita quei potenti contrasti che potrebbero mettere in forse la vita dello Stato. (Vivi applausi al centro e a destra).

[...]

Tega. [...] Il diritto di organizzazione e quello di sciopero, superato il periodo della incomprensione e della contestazione furibonda da parte di tutti i ceti, fin dal 1904 si erano conquistati ormai la cittadinanza nella vita politica e sociale del nostro Paese. E pure nel 1916, in piena guerra, quando cioè i lavoratori compivano il massimo sforzo e il più grande sacrificio per difendere il territorio nazionale minacciato e per assicurare la vita economica della Nazione, il Governo, che allora era più che mai l'espressione della classe dominante e ne interpretava pedissequamente i propositi reazionari, volle approfittare del momento in cui la forza prevaleva sul diritto, per ordinare che fosse negato il sussidio alle famiglie dei richiamati alle armi, i cui membri risultassero iscritti alle organizzazioni operaie.

Non è solo un mio ricordo personale, ma qui in quest'aula sono tuttora molti vecchi ed autorevoli parlamentari che ricorderanno al pari di me la tempestosa discussione che ne seguì, e nella quale l'appassionata protesta dell'onorevole Modigliani ebbe ragione sulle reticenti e cavillose giustificazioni del Governo.

Non è dunque ozioso e inutile l'inserimento di questi articoli nel testo della Costituzione della Repubblica italiana, non solo perché una eventuale offensiva contro il movimento operaio sia considerata un delitto contro la maestà della legge fondamentale dello Stato, ma anche e soprattutto perché questi diritti, una volta codificati, rendono più pensosi e consapevoli — e lo dovrebbe considerare l'oratore che mi ha preceduto — coloro i quali, dal loro riconoscimento ed esercizio traggono la ragione prima della loro permanente attività e responsabilità nella vita della Nazione e nell'accordo che devono recare al consolidamento e sviluppo della collettività sociale. E voi avete pronunciato delle parole violente, avete espresso dei dubbi catastrofici, addirittura apocalittici. Signori, voi avete visto invece, e varie volte avete potuto constatare in questo travagliatissimo periodo di emergenza, quante volte la Confederazione generale italiana del lavoro, appunto perché ha ormai la piena consapevolezza di essere parte integrante della Nazione, ha saputo e potuto trattenere e imbrigliare manifestazioni che, pur essendo giustificate dalla situazione veramente critica e intollerabile di varie categorie di lavoratori, costituivano tuttavia un pericolo al processo di faticosa ricostruzione della vita politica ed economica del nostro Paese. (Interruzioni a destra).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti