[Il 18 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Gullo Fausto. [...] La Commissione ha pensato ad un ordinamento di carattere regionale, ma anche qui vien fuori il compromesso e un compromesso strano, perché il progetto pensa che sia sufficiente, perché si abbia un'Assemblea elettiva di tipo regionalistico, segnare in una norma che i rappresentanti debbono essere nati o domiciliati nella Regione. Norma quanto mai strana, della quale non si riesce ad intendere il significato.

Quasi non sia concepibile, come invece è nel fatto — che parecchi, per esempio, dei più appassionati meridionalisti non sono del Mezzogiorno d'Italia, ma di altre regioni. Senza dire che, di fronte a quell'esigenza unitaria che deve essere alla base di tutto l'ordinamento dello Stato, non è né opportuno né simpatico porre questa limitazione.

Ma basta poi ciò a creare un'Assemblea politica di tipo regionalistico? E, nel porre tale domanda, ho presente l'altra norma che fissa cinque rappresentanti per ogni Regione, oltre quelli eletti dai Consigli regionali in proporzione degli abitanti.

Come si manifesta questo speciale carattere che si vuole imprimere alla Camera dei Senatori?

È opportuno a questo proposito ricordare che nello stesso progetto è detto che anche i senatori, come i deputati, rappresentano non il collegio che li elegge, ma tutta la Nazione. E allora?

Qualche oratore, ricordo l'onorevole Piccioni, ha parlato della opportunità che si dia al Senato un altro carattere, un carattere di rappresentanza di categorie, a base di interessi. Ma, sia il Senato a carattere regionalistico, sia a carattere rappresentativo di categorie di interessi, sorge qui un problema che non si è affrontato e che è questo: non v'è, in una democrazia parlamentare, possibilità per un'Assemblea politica, quale è la Camera dei deputati e quale si vorrebbe che fosse il Senato, che non sorga dal popolo indiscriminatamente considerato.

Quando si crea una qualche discriminazione e in base ad essa si istituisce un'Assemblea di tipo regionalistico oppure di tipo, diciamo così, corporativistico, si farà tutto meno che una Assemblea politica, si snaturerà il concetto stesso di sovranità, che non può non identificarsi nel popolo indiscriminatamente inteso.

Con ciò non si vuol negare l'esistenza dei contrastanti interessi, i quali hanno il loro proprio campo d'azione al di fuori dell'Assemblea, nelle varie organizzazioni, operaie, padronali, professionali, ecc. L'Assemblea politica, nel momento in cui viene costituita, vuol essere qualche cosa che trascende i singoli interessi, siano essi di carattere regionalistico o professionale. Non è concepibile un'Assemblea politica che si informi a criteri particolaristici. Ma il più grave è che, essendosi voluto fare del Senato, nonostante tutto, un'Assemblea politica, si è riconosciuto anche a questa Assemblea la possibilità e la facoltà di concedere o non concedere la fiducia al Governo. Col progetto, insomma, vengono concessi pari diritti alla Camera dei deputati e a quella dei senatori.

[...]

Presidente Targetti. Essendo stati illustrati i vari ordini del giorno, ha facoltà di parlare uno dei Relatori, l'onorevole Mortati.

Mortati, Relatore. Parlo come correlatore della Commissione dei Settantacinque sul titolo dedicato al Parlamento, allo scopo di formulare alcune osservazioni sui rilievi che sono stati mossi qui, in sede di discussione generale, a questa parte del progetto, e per accennare io stesso ad alcune critiche, naturalmente uniformandomi allo spirito del progetto, al quale ho dato la mia opera e la mia approvazione.

[...]

Ora, posti i termini della questione della seconda Camera nel modo che ho fatto, come si deve risolvere il quesito proposto sulla più piena ed integrale forma di rappresentanza politica? Attraverso quali mezzi si ritiene di poter realizzare in effetti tale pienezza di rappresentanza? Basta una sola Camera ad esprimerla? Che una sola Camera non basti si potrebbe desumere anche dal semplice fatto della riforma regionale; riforma che è stata ormai approvata dall'Assemblea e che deve essere presa come base per derivarne tutte quelle ulteriori conseguenze che in essa sono implicite, soprattutto con riferimento all'organizzazione del potere legislativo.

La riforma regionale non sarebbe infatti completa, essa anzi sarebbe, a mio avviso, frustrata nei motivi e negli intendimenti che ne hanno informato l'istituzione, sarebbe deviata dalle finalità politiche che l'hanno promossa, se non trovasse il suo svolgimento e la sua più propria applicazione nell'ordinamento del Parlamento, nel dar vita ad una forma specifica di rappresentanza politica.

Questa esigenza è stata ieri molto perspicuamente affermata dall'onorevole Condorelli ed io credo opportuno ora ribadirla, ponendo in più chiaro rilievo questa necessità di trasportare negli organi costituzionali del potere legislativo un riflesso dell'ordinamento regionale.

È questo, onorevoli colleghi, uno dei punti meno compresi, forse anche da alcuni di coloro che hanno voluto la riforma regionale, ma tuttavia dei più essenziali per la vitalità del sistema posto in essere: ed è per questa ragione che io ritengo opportuno soffermarmici brevemente. Con la creazione delle Regioni non si sono infatti voluti tanto risolvere dei problemi generici di educazione politica o di garanzia delle libertà. Sono questi dei fini importanti indubbiamente, ma non sono, a mio avviso, gli essenziali della riforma regionale.

Con tale riforma si è invece soprattutto inteso di promuovere e sollecitare l'organizzazione dei grandi gruppi di interessi omogenei nel loro interno dal punto di vista territoriale e sociale, e differenziati dagli altri per le diverse condizioni storiche, geografiche, economiche, allo scopo di far pervenire le voci più chiare e genuine di questi interessi all'atto delle deliberazioni di politica generale, sicché tali deliberazioni risultassero il più possibile aderenti alla varietà dei bisogni reali di tutta la società.

E, nel promuovere l'attuazione di tale intento, si è voluto tenere presente sopratutto il Mezzogiorno, la parte d'Italia cioè meno progredita rispetto alle altre, onde sollecitare in essa una più efficiente coscienza politica, ed in tal modo dare ad essa maggior peso nell'attività statale.

Messi in chiaro tali intenti, è facile comprendere come siano state cagione di sorpresa e siano apparse frutto di incomprensione le accuse che alla riforma regionale sono venute da uomini politici del Sud — ricordo, fra le altre, quella mossa dall'onorevole Gullo — secondo cui quella riforma veniva a seppellire le speranze del Mezzogiorno e veniva a negare o a compromettere gli affidamenti di soluzione del problema meridionale.

Deve invece essere riaffermato che chi ha patrocinato la riforma non è mai caduto nell'errore di ritenere che il problema meridionale si dovesse risolvere nell'ambito delle singole Regioni cui viene concessa l'autonomia. Noi sappiamo bene che i problemi meridionali si possono risolvere solo sul piano nazionale, nell'ambito della politica generale dello Stato, in occasione delle decisioni in materia di politica doganale, tributaria, agraria, dei trasporti, degli scambi internazionali, della stessa politica estera.

Ma, appunto per questo, noi pensiamo che sia necessario conferire alle Regioni più arretrate la possibilità di raggiungere, attraverso l'organizzazione regionale, una coscienza più piena dei loro problemi, dei loro bisogni unitariamente intesi, per poterli rappresentare al centro con quella maggior forza che viene dalla loro visione integrale e dalla loro organizzazione.

Donde l'esigenza di dare alle Regioni una voce specifica nel Parlamento, di fare cioè delle Regioni non già delle pure e semplici circoscrizioni elettorali, bensì un centro unitario di interessi organizzati da far valere unitariamente ed in modo istituzionale. Donde ancora quelle altre particolarità organizzative che appaiono nel progetto che, anche dalle finalità che si sono chiarite, possono lasciare perplessi. Così si dica della correzione all'equivalenza dei suffragi, che si è voluta realizzare attraverso l'attribuzione di un numero fisso di senatori per ogni Regione, all'infuori della loro consistenza demografica, correzione che dai suoi proponenti è stata pensata appunto in funzione del potenziamento politico del Mezzogiorno meno esteso e meno popoloso del Nord. Sicché, se è apparso spiegabile l'intervento di alcuni comunisti contro il Senato regionale, è stato invece ragione di sorpresa vedere un autonomista e un meridionalista come l'onorevole Lussu muovere in breccia contro di esso, negando così questa prima ed essenziale funzione che un Senato regionale può esercitare in Italia, per conseguire una maggiore perequazione di trattamento, ed una più rapida valorizzazione politica del Sud.

Le osservazioni fatte in principio a proposito dell'organizzazione dello Stato federale confermano quanto adesso ho detto per le Regioni, essendovi piena analogia fra i due casi; essendo cioè, pur nella differenza dei due tipi di ordinamento, comune l'esigenza ad una specifica rappresentanza degli interessi differenziati, cui si conferisce un proprio rilievo costituzionale. Ma ora è da chiedersi: potrebbe attuarsi efficacemente tale collegamento organico fra Regioni e Stato se le Regioni intervenissero negli organi centrali come entità indifferenziate? L'esigenza che si è prospettata non sarebbe che assai imperfettamente soddisfatta se la rappresentanza regionale non riflettesse l'effettivo aspetto economico-sociale delle singole Regioni, le articolazioni e nervature di ognuna di esse, se non ne riflettesse la fisionomia specifica.

Posto il caposaldo del Senato regionale, sono dati anche certi elementi più specifici per la soluzione del problema della sua composizione e della sua differenziazione dalla prima Camera. Il punto di vista assunto consente di mostrare la incongruità delle proposte che sono state fatte per attuare questa differenziazione. Tale incongruità si palesa chiaramente per quanto riguarda il collegio uninominale, che viene raccogliendo suffragi anche da parte di alcuni settori di questa Camera, da cui non si sarebbero sospettate iniziative di questo genere. Il collegio uninominale, dal punto di vista territoriale, è troppo ristretto per poter fornire la base per una rappresentanza di interessi locali; evidentemente esso non potrebbe portare al Parlamento che voci di interessi troppo ristretti per assumere rilevanza politica. D'altra parte, le speranze riposte da alcuni nel ritorno al collegio uninominale sembrano anacronistiche, perché le benemerenze attribuite ad esso sono da limitare al funzionamento passato, mentre si deve tenere conto della enorme trasformazione che si è venuta verificando nella organizzazione della vita politica, e che farebbe funzionare il sistema uninominale in un modo completamente diverso da quello esperimentato nel secolo scorso, o ai primi di questo.

[...]

Quanto si è detto sulla struttura da dare all'ordinamento bicamerale e circa i fini integrativi della rappresentanza da assegnare alla seconda Camera vale a giustificare il perché di certe affermazioni che si leggono nella Costituzione; e anzitutto vale a giustificare il perché della parità delle due Camere. La parità è suggerita, e vorrei dire, imposta, dalle esigenze che si sono dette. Una Camera regionale, che deve riflettere gli interessi regionali nella varietà dei loro aspetti, non potrebbe realizzare i compiti che sono ad essa assegnati se non fosse posta in condizioni di parità rispetto all'altra. Parità imposta dall'uguale efficacia rappresentativa, che deriva alle due Camere dalla uguale origine popolare, dal carattere di reciproca integrazione che esse vengono a rivestire. Non sarebbe possibile predeterminare a priori un loro diverso peso politico. Questa diversità potrà affermarsi attraverso la prassi avvenire, che potrà precisamente determinare in modo stabile, o di volta in volta, una maggiore influenza dell'una rispetto all'altra e quindi corrispondentemente una maggiore remissività dell'una all'altra. Ma pregiudicare la questione, cioè volere a priori imporre un peso diverso, significa precludere possibilità di svolgimento utili, derivabili da questa posizione di originaria parità giuridica delle due Camere.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti