[L'11 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Preti. [...] Ed allora, checché dica il testo della Costituzione — giacché anche lo Statuto albertino certe cose non le prevedeva! — noi continueremo a procedere avanti per via di decreti legislativi e di decreti-legge.

Tale eventuale conclusione non ci deve certo spaventare per la violazione che ne verrebbe del principio della divisione dei poteri. È, infatti, pacifico che questo vecchio principio costituzionale è ormai più che superato dal punto di vista della dottrina oltre che sul piano della prassi. Il dogma della divisione dei poteri in Europa, era fondato sul presupposto di due diverse fonti del potere sovrano, il popolo e la monarchia; è morto perciò con la monarchia costituzionale. In un sistema moderno di democrazia parlamentare, qual è quello che noi abbiamo stabilito di adottare, l'autorità dello Stato ha una unica fonte di legittimazione: il corpo elettorale. Il corpo elettorale nomina il Parlamento; e il partito o la coalizione di partiti che in esso possiede la maggioranza acquistano il diritto di formare il Governo. In pratica il partito o i partiti dominanti delegano il Governo a dirigere la maggioranza parlamentare. Esso Governo perciò, di fatto, promuove anche l'attività legislativa, esercitando pure in questa sfera una funzione preminente. Prescindiamo, infatti, dall'involucro giuridico e guardiamo come funziona il meccanismo della democrazia parlamentare moderna! Basterà allora constatare che i progetti, salvo eccezioni rarissime, sono presentati dal Governo e che essi diventano leggi perché votati da quella maggioranza di cui il Governo è il comitato direttivo. Di qui è facile trarre le conclusioni.

In pratica, pertanto, la differenza fra il procedimento legislativo ed il procedimento per decreto è una sola. Quando si ricorre al procedimento per decreto, la minoranza non è messa nella condizione di discutere e di emendare; quando si ricorre per contro alla procedura legislativa, la minoranza può discutere i progetti ed ottenere, se non altro, degli emendamenti. Ed è assurdo perciò considerare ancora come un conflitto di poteri — cioè una contrapposizione tra un potere esecutivo ed un potere legislativo che, come tali, non esistono — quella che è semplicemente una contrapposizione tra la maggioranza parlamentare, la quale è nello stesso tempo anche Governo, e la minoranza la quale, non avendo parte nel Governo, può far sentire la sua voce semplicemente in seno all'Assemblea legislativa.

Orbene, noi siamo per la procedura legislativa, non in ossequio alla teoria della divisione dei poteri — che va accettata con molte riserve anche nella sua veste moderna di teoria della divisione delle funzioni — ma, dicevo, siamo per la procedura legislativa, in quanto, come democratici, intendiamo tutelare i diritti della minoranza, la cui azione risulterebbe necessariamente menomata se il Governo procedesse normalmente per via di decreti.

Ripeto, però, che la procedura legislativa non deve risultare troppo pesante, se si vuole evitare che il Governo sia forzato, anche contro la sua volontà, a ricorrere ai decreti legge e ai decreti legislativi.

Posto però che il Governo è arbitro della maggioranza parlamentare, trovo esagerata la diffidenza del progetto di Costituzione verso i decreti-legge ed i decreti legislativi. Non dobbiamo ignorare che ciò che stabilisce per decreto, il Governo riuscirebbe sempre ad imporlo anche al Parlamento attraverso la sua maggioranza, salvo qualche eventuale emendamento.

So che in sede di Commissione si è citato spesso l'esempio di Benito Mussolini: si è detto in sostanza che Mussolini ha stabilito la dittatura a colpi di decreto-legge. Questo è assolutamente inesatto! Mussolini, fino alle elezioni del 1924 ha fatto molti decreti-legge ma, vivaddio, allora vi era una Camera la quale, se non fosse stata d'accordo con Mussolini, avrebbe potuto provocare quel voto di sfiducia che non ha mai provocato; e dopo le elezioni del 1924, le quali hanno avuto l'esito noto proprio perché quel Parlamento aveva votato quella legge elettorale che tutti conoscono, Mussolini aveva la sua maggioranza in Parlamento. La minoranza avrebbe potuto protestare, ma io credo...

Fuschini. Lei dimentica una cosa: il delitto Matteotti e le sue conseguenze.

Preti. Qui c'è un equivoco. Intendo infatti dire questo: che Mussolini dopo le elezioni del 1924 non aveva bisogno di procedere per via di decreti-legge, perché rappresentando qui l'opposizione una piccola minoranza parlamentare, egli con la sua maggioranza avrebbe potuto ottenere con l'ordinaria legislazione quello stesso che otteneva attraverso i decreti-legge. E questo anche nel caso che avesse permesso alle minoranze di esercitare qualche funzione di critica parlamentare.

Solamente questo intendevo dire.

Buffoni. Il Parlamento era una farsa.

Preti. Appunto, siamo d'accordo. Mussolini aveva qui le sue comparse.

Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, non è problema, questo, di tanto interesse, da perdere ancora del tempo.

Priolo. Si tratta di precisazioni su di un periodo della nostra storia parlamentare.

[...]

Concordo anche con le considerazioni dell'onorevole Crispo e dell'onorevole Codacci Pisanelli in merito ai decreti-legge e in particolare sulla opportunità del decreto catenaccio. Posto, comunque, che decreti-legge vi saranno sempre, checché dovesse stabilire la Costituzione, meglio è disciplinarne fin d'ora l'uso attraverso la Carta costituzionale.

Non è dunque, onorevoli colleghi, per difetto di spirito democratico, ma perché siamo realisti, che noi siamo disposti a riconoscere, entro certi limiti, al Governo la facoltà di legiferare.

[...]

Clerici. [...] Ma vi è un'altra osservazione, sempre statistica e sempre sconfortante (e mi riferisco ancora al regime prefascista); cioè che il Governo in pratica è stato sempre più incontrollato in quella che è la sua tipica responsabilità verso le Camere, cioè per quanto riguarda i bilanci consuntivi, il che vuol dire che il Parlamento ha praticamente rinunziato alla sua precipua funzione, al suo tipico dovere, abdicando al controllo finanziario. Infatti i consuntivi 1905-1906 sono stati approvati con la legge 27 giugno 1909, n. 385; quelli dal 1906 al 1911 in blocco con la legge 14 marzo 1913; quelli del 1910-11 con la legge 19 giugno 1913; quello del 1911-12 con la legge 21 dicembre 1912; e tutti in blocco quelli dal 1912 al 1918, soltanto nel 1922. Il 21 dicembre del 1921 disse alla Camera l'allora Ministro del tesoro onorevole De Nava, parlando per l'esercizio provvisorio: «Mi sia lecito constatare che colla giornata di oggi, discutendosi il bilancio del tesoro, tutti i bilanci sono pronti. E questo fatto, lasciatemelo dire, non si era verificato da parecchi anni, anche prima della guerra». E poi? Poi venne il fascismo!

Insomma, la realtà è che neanche questa loro funzione fondamentale, l'approvazione dei bilanci, le Camere, sovraccariche di lavoro politico, hanno svolto.

Ora, io mi auguro una soluzione più radicale; e spero che i colleghi i quali parleranno dopo di me e con molta maggiore autorità di me, proporranno emendamenti atti a risolvere questo problema. Già in proposito venne presentato al Senato un progetto, mi pare nel 1922, dal senatore Scialoia e dal senatore Mortara e da altri 70 Senatori, al fine di temperare, se non di vietare del tutto, l'uso dei decreti-legge. Anzi l'abuso, quell'abuso (si pensi, in sette anni dal 1907 al 1913 il Governo emanò 30 decreti-legge ed invece 2800 dal 1914 al 1921) per cui la Corte di cassazione del Regno, allora a sezioni unite, emanò una memorabile sentenza, — il 24 gennaio 1922, Mortara estensore-presidente — che dichiarava illegale un decreto-legge. E vi fu allora l'inizio coraggioso di una revisione che il fascismo poi ha stroncato.

Possiamo facilmente prevedere, dunque, da una parte una quantità enorme di progetti di legge, che dovranno essere sottoposti alle Camere future per essere approvati (e non parlo di tutti i decreti legislativi, rispetto ai quali le Camere future non potranno che arrivare a una convalida generale, così come si fece per la legislazione 1915-1919 dopo l'altra guerra); dall'altra parte la impossibilità per i nostri successori di funzionare più attivamente di quanto si fa ora da noi e si fece dai nostri predecessori. Credo perciò che noi dovremo vedere se lo spirito della democrazia parlamentare non abbia bisogno e opportunità di forme nuove. In fin dei conti, noi siamo ancora tutti presso a poco legati nelle forme a quel delicatissimo regime che è sorto tra il 1740 e il 1800 in Inghilterra, quando si andava in portantina e col guardinfante; a quello che è lo spirito del regime parlamentare di allora o tutt'al più del tempo di Luigi Filippo. Ma da allora il mondo ha camminato.

Io credo che proprio in questo capitolo della formazione delle leggi noi dovremo proporci questo problema, risolvere con nuove forme l'antico e venerato principio parlamentare.

Concludendo, non basta statuire (come statuisce il progetto di Costituzione): il Governo non potrà fare leggi. Ma le potranno fare le Camere? Se non si troverà modo di distinguere leggi da leggi, se non si potranno affrontare e risolvere i problemi cui ho accennato, noi rischieremo di avere scritto nello Statuto fondamentale norme impossibili. Se facciamo una Costituzione che sappiamo a priori che è impossibile applicare, evidentemente non facciamo opera saggia.

E allora, per la salvaguardia dello spirito della Repubblica, credo che, al di sopra delle ideologie di partito, dovremo guardare le cose concretamente, dovremo guardare alle possibilità obiettive e vedere se il progetto non possa essere notevolmente migliorato. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti