[Il 5 settembre 1946 la seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sull'organizzazione costituzionale dello Stato.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della seduta.]

Bozzi. [...] il Governo deve avere la fiducia delle due Camere, ossia di quell'organo che si potrebbe chiamare l'Assemblea nazionale. L'idea dell'onorevole Mortati, che, per assicurare la stabilità del Governo, questo dovrebbe avere una durata minima, irriducibile — egli proponeva due anni, quasi come in un sistema direttoriale — non gli appare accettabile. La vera forza dell'esecutivo deve essere attinta dalla fiducia immanente espressa dal legislativo che detiene e manifesta la volontà popolare. Vi sono i pericoli delle crisi; ma le crisi artificiose si eliminano mediante altri congegni costituzionali, disciplinando, cioè, costituzionalmente l'istituto del voto di fiducia. In quasi tutte le Costituzioni del dopo-guerra vi è una disciplina del voto di fiducia, al fine di evitare le crisi di sorpresa, macchinate nei corridoi dei Parlamenti. Anche nella legge che governa la nostra Assemblea Costituente, all'articolo 3 vi è una certa disciplina, da tenere in considerazione, del voto di fiducia. In sostanza i principî fondamentali sono questi: che la mozione di sfiducia deve essere scritta e sottoscritta da un certo numero di Deputati e motivata; deve essere comunicata preventivamente a tutti i Deputati; deve venire in discussione dopo che i Deputati ne abbiano avuto conoscenza. La mozione di sfiducia, per determinare la caduta del Ministero dovrebbe conseguire una maggioranza qualificata. Si porrebbe così un freno alle crisi artificiose e si assumerebbero più nettamente le responsabilità di fronte al Paese. Si può pensare anche che, dopo un secondo voto di sfiducia, il Parlamento automaticamente si sciogliesse;

[...]

Patricolo osserva che dalle relazioni svolte ieri è stata posta in luce una questione fondamentale, cioè se la Costituzione debba ispirarsi o meno al concetto della divisione dei poteri dello Stato. È stato osservato che il Governo presidenziale porterebbe al grave inconveniente della divisione dei poteri, intesa non come divisione delle funzioni di ciascun potere, ma come esclusione di ogni intervento di un potere sull'altro.

Ora, quando si manifesta la preoccupazione che il potere esecutivo venga totalmente staccato dal potere legislativo e che non gli sia consentita la partecipazione alla funzione legislativa, si afferma un principio che urta con la divisione dei poteri, in quanto si teme che il potere esecutivo non abbia la funzione di legiferare. È vero che il potere esecutivo in determinate occasioni, anche per motivi di competenza, può convenientemente prendere l'iniziativa delle leggi, e che la divisione sembrerebbe portare all'inconveniente che il potere esecutivo non partecipasse all'iniziativa della legislazione. Ma iniziativa non è potere di legiferare. D'altra parte, quando si dice che il potere legislativo nella Repubblica presidenziale è separato dal potere esecutivo perché esso non ha la facoltà di rovesciare un governo in quanto manca della possibilità di dare un voto di sfiducia, si afferma cosa che trae origine da un errore di valutazione sulle funzioni del Parlamento.

E su questo vorrebbe richiamare l'attenzione.

A suo avviso il Parlamento, che è espressione della volontà popolare, ha innanzi tutto una funzione legislativa, quale espressione di uno dei poteri dello Stato, nel modo in cui sono stati finora considerati; ma ha anche una funzione strettamente politica di vigilanza e di controllo sui poteri statali, funzione che gli viene appunto dalla sua rappresentanza politica. Questo punto è necessario approfondire prima di procedere oltre nella discussione.

Quando si parla di maggiore o minore influenza del potere legislativo sull'esecutivo in relazione alla possibilità o meno di rovesciare un governo, non si tiene presente che questa non è funzione precipua del potere legislativo, ma di un'Assemblea che ha la rappresentanza politica del popolo. Quindi quando si dice che la Repubblica presidenziale impedisce al potere legislativo di partecipare attivamente a questo controllo del potere esecutivo si dice cosa inesatta, perché ciò che si impedisce al Parlamento è soltanto d'influire, col suo controllo, sul potere esecutivo, ciò che è costituzionalmente in tutti gli Stati democratici; senza con ciò coinvolgere la funzione legislativa del Parlamento.

Perciò ritiene che in una Costituzione democratica si debba tendere principalmente a limitare le possibilità del potere esecutivo di esorbitare dai limiti delle sue funzioni e competenze; mentre non deve preoccupare il fatto che il potere legislativo, rappresentato dai Deputati eletti dalla volontà popolare, possa avere una funzione di vigilanza e di controllo sugli altri poteri dello Stato.

Onde, mentre è da accettare come principio ormai acquisito alla scienza del diritto ed alla dottrina, quello della divisione dei poteri dello Stato, è anche da ammettere che questa divisione sia inerente alle funzioni degli organi dei vari poteri e non all'estensione delle attribuzioni politiche del Parlamento.

[...]

Tosato. [...] La contaminazione fra il governo presidenziale e il governo parlamentare dovrebbe avvenire nel senso di un potenziamento della figura del Presidente del Consiglio, il quale fosse espressione della volontà della Camera, ma avesse la effettiva possibilità di governare.

La soluzione che egli suggerisce, quindi, è questa: un Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo, che sia un elemento di moderazione, imparziale, cioè in possesso delle cosiddette funzioni neutre; ma che abbia, sia pure limitato con ogni avvedutezza, il potere, in determinati momenti, di dissoluzione delle Camere nel caso di gravi difficoltà fra governo e Camere stesse. Quanto al Capo del Governo, non ritiene essenziale, nella forma di governo parlamentare che la sua nomina debba esser fatta dal Capo dello Stato, ma la crede utile in Italia, per la situazione particolare in cui ci troviamo. All'inizio di ogni legislatura le due Camere dovrebbero riunirsi e designare il Presidente del Consiglio su una lista presentata dal Presidente della Repubblica, dopo le normali consultazioni degli esponenti della vita politica. Le consultazioni fatte dal Presidente della Repubblica dovrebbero servire appunto alla formazione della lista dei candidati alla Presidenza del Consiglio. Su questa lista le Camere dovrebbero votare, ed il candidato che ottenesse la maggioranza sarebbe designato Presidente del Consiglio e quindi nominato dal Presidente della Repubblica. (Può darsi che nessuno dei candidati ottenga la maggioranza ed allora — necessità fa legge — bisognerà fare in una seconda votazione utile anche la maggioranza relativa). Il Presidente così designato e successivamente nominato dal Presidente della Repubblica dovrebbe godere la fiducia parlamentare. Si potrebbe tuttavia accettare il principio che, una volta fatta questa designazione, il nuovo Presidente del Consiglio si presumesse assistito dalla fiducia parlamentare e quindi potesse senz'altro durare in carica finché la fiducia parlamentare non gli venisse meno. Per il voto di sfiducia dovrebbe richiedersi che sia presentata al Presidente della Repubblica una mozione di censura, firmata da almeno un terzo dei membri delle Camere, e motivata. Il Capo dello Stato dovrebbe quindi convocare le Camere, e se la mozione di sfiducia venisse approvata dalla maggioranza, il primo firmatario della mozione dovrebbe essere senz'altro considerato come Presidente designato al governo. Se fossero presentati più voti di sfiducia, si dovrebbe considerare come primo designato il primo firmatario della mozione che avesse ottenuta la maggioranza relativa; ma in questo caso il Presidente della Repubblica dovrebbe avere il potere di procedere allo scioglimento delle Camere.

[...]

Fabbri domanda se, fra gli eventuali espedienti per dare una certa stabilità al Governo, non sia il caso di codificare le modalità del voto di sfiducia. Pensa che sia difficile dare efficacia e conseguenze politiche ai rimedi cui accennavano gli onorevoli Mortati e Bozzi; ma si domanda: se, per esempio, fosse stabilito nella Costituzione che il voto di sfiducia al Governo in carica implichi automaticamente lo scioglimento di quello dei rami del Parlamento che il voto di sfiducia ha dato e l'obbligo da parte del Gabinetto in carica di fare le elezioni in base ad un programma, quale sarebbero le conseguenze riguardo alla stabilità del Governo?

Non vuol dire che sia questo il toccasana: ma qui si cercano dei rimedi di carattere legislativo; mentre il rimedio di una disciplina del voto di sfiducia, che implicasse come conseguenza di fatto la permanenza in carica del Governo che il voto di sfiducia ha avuto, va talmente contro il costume politico italiano, da infrangere ogni disciplina. Se, invece si stabilisse che il voto di sfiducia dato ad un ramo del Parlamento implica automaticamente lo scioglimento della Camera che lo ha emesso e quindi la consultazione popolare sul programma che il Governo sarebbe invitato ad esporre al Paese, si avrebbe una remora al voto di sfiducia infinitamente maggiore di quanto taluno possa pensare.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti