[Il 13 dicembre 1946 la seconda Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sul potere giudiziario.

È in discussione l'articolo 1 della proposta del Relatore Calamandrei, così formulato:

«Il potere giudiziario appartiene esclusivamente allo Stato, che lo esercita a mezzo di giudici indipendenti, istituiti e ordinati secondo le norme della presente Costituzione e della legge sull'ordinamento giudiziario. Le sentenze e gli altri provvedimenti dei giudici sono resi in nome della Repubblica.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici, nella sezione degli articoli non entrati in Costituzione, per il testo completo della discussione.]

Il Presidente Conti propone di passare alla ultima parte dell'articolo 1, relativa alla intestazione delle sentenze, su cui si potrà più facilmente raggiungere l'accordo, per ritornare poi alla prima parte.

(Così rimane stabilito).

Targetti propone di sopprimere l'inciso «e gli altri provvedimenti», secondo il quale dovrebbero essere pronunziate in nome della Repubblica anche le ordinanze dei giudici, per esempio, che ammettono o non ammettono prove testimoniali. Poiché anche in precedenza tali ordinanze non erano emanate in nome del Re, non vede perché si dovrebbe ora dar loro la solennità di intestarle in nome della Repubblica.

Calamandrei, Relatore, precisa che l'inciso, richiamato dall'onorevole Targetti, si riferisce a quei provvedimenti che, pur non essendo sentenze, devono essere forniti della formula esecutiva.

Castiglia, Relatore, ritiene che si potrebbe rimandare al Codice di procedura l'elencazione dei provvedimenti che devono essere pronunziati in nome della Repubblica.

Cappi crede che potrebbe superarsi ogni preoccupazione, sopprimendo l'ultimo periodo e formulando così l'articolo: «Il potere giudiziario appartiene allo Stato che lo esercita in nome della Repubblica, per mezzo di giudici indipendenti, ecc.». Si affermerebbe con ciò il principio che lo Stato esercita il potere giudiziario in nome della Repubblica e si rinvierebbe al Codice di procedura il compito di stabilire i provvedimenti che dovranno essere muniti di intestazione.

Targetti dichiara che, se la sua proposta può dare luogo a eccessive complicazioni, è disposto anche a ritirarla.

Il Presidente Conti ritiene che la dizione potrebbe essere lasciata inalterata. Al momento in cui dovrà compilarsi il Codice di procedura, potrà essere richiamato il verbale della presente riunione, dal quale risulterà che dovranno essere pronunziate in nome della Repubblica le sentenze e gli altri provvedimenti che per il passato erano pronunziati in nome del Re.

Bozzi crede che, se si facesse cenno soltanto delle sentenze, sarebbe eliminata ogni questione, ritenendo logico che gli altri provvedimenti per i quali è necessaria la formula esecutiva avranno la stessa intestazione delle sentenze.

Bulloni invece della parola «resi», direbbe «emessi».

Targetti preferisce il termine: «pronunciati».

Calamandrei, Relatore, accetta il termine «pronunciati», nonché la soppressione delle parole: «e gli altri provvedimenti».

Leone Giovanni, Relatore, propone la dizione: «Le sentenze vengono pronunziate in nome della legge». Gli sembra che di fronte al cittadino la legge costituisca qualche cosa di più augusto che non la forma statale, la quale nella coscienza dei cittadini potrebbe anche essere discussa. Per questa sua maggiore portata vincolante, il richiamo alla legge è più efficace del richiamo alla forma dello Stato. Ritiene poi che in questo campo si dovrebbe quanto più possibile allontanarsi da quella forma che era una impostazione della istituzione monarchica a tipo feudale, nel senso di non ripetere «la Repubblica» in tutte le espressioni in cui il vecchio Statuto richiamava «il Re».

Il Presidente Conti è favorevole alla formula dell'onorevole Leone.

Mannironi propone la seguente formula, nella quale ha cercato di sintetizzare vari articoli: «Il potere giudiziario, che deriva dalla sovranità dello Stato e che è indipendente da ogni altro suo potere, applica e interpreta imparzialmente la legge per mezzo dei giudici con sentenze e provvedimenti resi ed eseguiti in nome della legge stessa».

Targetti, da un punto di vista politico, preferirebbe la dizione: «Le sentenze sono pronunciate in nome della Repubblica».

Ravagnan è d'accordo con l'onorevole Targetti, ritenendo che dovrebbe essere eliminata qualsiasi forma che potrebbe far pensare ad un agnosticismo, per quanto riguarda la forma dello Stato.

Calamandrei, Relatore, alla giustificazione politica dell'onorevole Targetti, unisce una ragione di carattere giuridico. Quando i giudici pronunciano una sentenza, la pronunciano in nome di un ente avente una personalità giuridica, come è la Repubblica o lo Stato. La frase «in nome della legge» è invece solo un modo di dire che, dal punto di vista giuridico, non ha alcun significato, perché la legge non è un mandante. Quindi può, se mai, accettare si dica che le sentenze sono pronunciate in nome dello Stato, ma non in nome della legge.

Leone Giovanni, Relatore, riconosce che il riferimento alla legge non ha alcun carattere concreto; ma crede che serva a conferire maggiore solennità ad alcuni atti processuali ed esecutivi in cui è necessario far sentire la forza della legge. Poiché non è necessario risalire, attraverso l'intestazione, ad un ente concreto, sarebbe indifferente dire che le sentenze siano pronunziate in nome dello Stato, o della Repubblica, o della legge; che se si volesse comunque, nelle intestazioni delle sentenze, riferirsi ad un ente concreto, si dovrebbe dire: «In nome del Presidente della Repubblica». Ma la formula di intestazione degli atti deve essere solamente qualche cosa di simbolico; e perciò egli reputa opportuno far sentire che l'imperativo della legge è al di sopra della forma istituzionale.

Bozzi, a solo titolo di precisazione, ricorda che attualmente le sentenze si emanano in nome del popolo. Si è voluta fare così una personificazione dell'ente, in nome del quale si pronunciano le sentenze.

Cappi propone che si adotti la formula: «Le sentenze sono pronunciate in nome del popolo».

Il Presidente Conti pone in votazione l'emendamento dell'onorevole Leone:

«Le sentenze sono pronunciate in nome della legge».

(Non è approvato).

Mette ai voti l'emendamento dell'onorevole Cappi:

«Le sentenze sono pronunciate in nome del popolo».

(È approvato).

Riapre la discussione sulla prima parte dell'articolo.

Cappi chiede all'onorevole Calamandrei se ritenga indispensabile la frase: «indipendenti, istituiti e ordinati secondo le norme della presente Costituzione e della legge sull'ordinamento giudiziario».

Calamandrei, Relatore, risponde che ritiene necessaria la parola «indipendenti», per affermare il principale carattere dei giudici, mentre l'espressione successiva serve ad evitare, come è stato fatto in altri progetti, di dover scendere ad una enumerazione dettagliata degli organi del potere giudiziario.

Il Presidente Conti propone di sopprimere la parola «indipendenti», in quanto il concetto dell'indipendenza del giudice è affermato nel successivo articolo 2. Sopprimerebbe anche l'aggettivo «ordinati», sembrandogli sufficiente il termine «istituiti».

[...]

Il Presidente Conti apre la discussione sull'articolo 2 del progetto Calamandrei, così formulato:

«Indipendenza funzionale dei giudici.

I giudici, nell'esercizio delle loro funzioni, dipendono soltanto dalla legge, che essi interpretano ed applicano al caso concreto secondo la loro coscienza, in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione.

La stessa indipendenza hanno i magistrati del Pubblico Ministero nell'esercizio dell'azione penale e delle altre funzioni ad essi demandate dalla legge».

Avverte che tale articolo corrisponde alla prima parte dell'articolo 1 del progetto Leone:

«Il potere giudiziario provvede alla interpretazione e applicazione del diritto»;

e agli articoli 1 e 2 del progetto Patricolo:

«Art. 1. — Il potere giudiziario è indipendente da ogni altro potere dello Stato».

«Art. 2. — Il potere giudiziario provvede all'attuazione della giustizia, sia nella fase istruttoria e del giudizio, sia in quella esecutiva».

Calamandrei, Relatore, osserva che, mentre nell'articolo 1 dell'onorevole Patricolo si afferma in modo generico l'indipendenza del potere giudiziario, nella sua formula si sancisce il principio assai più preciso della indipendenza del giudice nell'esercizio delle sue funzioni. Nota poi che in nessuna delle altre due formulazioni si fa riferimento al controllo che deve essere esercitato dal giudice circa la conformità della legge alla Costituzione. Il suo articolo, inoltre, per comprenderne la portata, deve essere messo in relazione con il successivo articolo 3, che deferisce al solo potere legislativo l'interpretazione delle leggi con efficacia generale ed astratta, e alla sola Suprema Corte costituzionale la dichiarazione di incostituzionalità delle leggi, pure con efficacia generale ed astratta. Messa a confronto l'espressione del suo articolo: «I giudici dipendono soltanto dalla legge che essi interpretano ed applicano al caso concreto secondo la loro coscienza», con la dizione adottata negli altri due progetti, gli sembra che, anche tecnicamente, la sua formula sia la più esatta, e che sia, in particolare, troppo vago parlare di «attuazione della giustizia», come è detto nell'articolo 2 dell'onorevole Patricolo. Il giudice deve applicare la legge, che è astratta, al caso concreto ed il verbo «applicare» ha un significato tecnico che si riferisce all'opera del giudice, sia nella fase di cognizione che in quella di esecuzione.

Leone Giovanni, Relatore, nota che il nucleo principale del suo articolo 1: «Il potere giudiziario provvede alla interpretazione ed applicazione del diritto», sostanzialmente è conforme al concetto dell'onorevole Calamandrei, con il quale concorda nel ritenere che la formula del progetto Patricolo sia da scartare, come troppo scolastica ed empirica.

Circa l'affermazione della dipendenza del giudice soltanto dalla legge, osserva che, sebbene sia compresa in quasi tutte le Costituzioni, essa è piuttosto negativa che positiva, nel senso che pone la non dipendenza da altri organi. Questa affermazione non gli sembra, poi, tale da richiedere una statuizione nella Costituzione, perché la dipendenza dalla legge è di tutti i cittadini in generale e quindi del magistrato in particolare. Perciò l'espressione deve considerarsi superflua, tranne che non la si ritenga necessaria per adeguarsi alle altre Costituzioni; ciò che, tuttavia, avrebbe un valore assai discutibile.

Ritiene del pari inopportuno il richiamo alla conformità della legge alla Costituzione, in primo luogo perché è implicito che possano considerarsi come vincolanti solo le leggi che entrino nell'ambito della costituzionalità, ed in secondo luogo perché gli sembra che in tal modo si entri nell'argomento relativo alla Suprema Corte costituzionale e ai modi con cui i giudici possono denunziare ad essa i conflitti tra legge e Costituzione.

Per quanto concerne l'articolo 3, riconosce esatto il principio contenuto nel primo comma, relativo alla competenza esclusiva del potere legislativo in materia di interpretazione delle leggi con efficacia generale ed astratta, ma ritiene che esso potrebbe essere rimandato alla seconda Sottocommissione, che si occupa di quel potere. Riconosce altresì l'esattezza del secondo comma, ma esprime l'avviso che l'argomento dovrebbe essere esaminato in sede di discussione della Suprema Corte costituzionale.

Circa il secondo comma dell'articolo 2, ritiene che debba essere esaminato a parte, in quanto comporta un problema centrale di notevole importanza, vale a dire se il Pubblico Ministero debba essere dipendente dal potere legislativo o da quello esecutivo.

Bozzi è d'accordo con l'onorevole Calamandrei circa l'affermazione di principio che i giudici dipendono soltanto dalla legge; ciò che, a suo giudizio, costituisce non una affermazione simbolica, ma un principio sostanziale di grande valore. Sopprimerebbe però la espressione: «in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione», in relazione alla quale si dovrebbe affrontare un problema molto grave, cioè se il giudice, trovandosi di fronte ad una norma che ritenga incostituzionale, possa non applicare la legge, prendendo così una decisione che abbia valore solo nell'ambito delle parti, ovvero debba sospendere il giudizio e rinviare il processo. Ritiene che, fino a quando non si sia deciso se il giudice debba seguire l'una o l'altra via, non si possa pregiudicare il problema.

Per quanto riguarda l'articolo 3 condivide le osservazioni dell'onorevole Leone.

Targetti concorda con gli onorevoli Leone e Bozzi, nel senso di togliere al giudice di merito la facoltà di apprezzamento della conformità della norma alla Costituzione. In pratica crede che diversamente si verificherebbero inconvenienti gravissimi, per cui anche un vicepretore potrebbe da solo dichiarare la incostituzionalità di una legge.

Sebbene il principio che «i giudici nell'esercizio delle loro funzioni dipendono soltanto dalla legge» sia stato inserito in altre Costituzioni, crede che la dizione, presa in senso letterale e logico, abbia un significato abbastanza discutibile, perché, se si vuole intendere che i giudici debbono rispettare la legge, è superfluo, in quanto tutti i cittadini sono tenuti a rispettare le leggi. Propone perciò la seguente formulazione: «Nell'esercizio delle loro funzioni il magistrato e il pubblico ministero ubbidiscono soltanto alla legge e alla loro coscienza».

Calamandrei, Relatore, è d'accordo per il rinvio del primo comma dell'articolo 3 alla seconda Sottocommissione e del secondo comma di tale articolo alla discussione sulla Suprema Corte costituzionale. Accetta parimenti di eliminare nel primo comma dell'articolo 2 le parole: «in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione», avvertendo però che, se al problema circa la pronuncia della incostituzionalità delle leggi sarà data una soluzione conforme alle sue proposte, proporrà di ripristinare l'inciso a cui adesso rinuncia.

Ritiene invece che sia necessario affermare, contrariamente al parere dell'onorevole Leone, il principio della dipendenza del giudice dalla legge, che ha una grande importanza anche pratica, in relazione particolarmente a quegli ordinamenti giudiziari in cui il giudice non è vincolato dalla legge, ma decide soltanto caso per caso. Cita l'esempio di quello che avveniva nei primi anni della rivoluzione russa, in cui la norma giudiziaria nasceva di volta in volta ed il giudice, operaio o contadino, era scelto non per la sua cultura giuridica, ma per la sua sensibilità politica e per la sua coscienza proletaria.

Per quanto concerne la formula proposta dall'onorevole Targetti, fa rilevare che chi obbedisce è colui a cui la legge impone di tenere un certo comportamento, mentre il giudice, come tale, non deve obbedire alla legge, ma deve applicarla nei riguardi dell'imputato o delle parti.

Targetti voleva riferirsi all'obbligo del giudice di applicare la legge secondo la legge stessa.

Leone Giovanni, Relatore, essendosi convinto delle osservazioni dell'onorevole Calamandrei, accetta la sua formula, anche se un po' vaga e solenne. Sopprimerebbe però le parole: «nell'esercizio delle loro funzioni», che gli sembra restringano il concetto della indipendenza del giudice.

Calamandrei, Relatore, spiega che l'indipendenza del giudice deve affermarsi nel momento in cui questi esplica la sua funzione; ma per tutto il resto egli è soggetto agli obblighi del suo ufficio.

Leone Giovanni, Relatore, ritiene che si potrebbe usare la seguente dizione:

«I giudici interpretano ed applicano il diritto e la legge e non dipendono che da essa».

Bulloni esprime l'avviso che la dipendenza del giudice dalla legge debba avere anche un limite, il quale non può essere altro che quello stabilito dalla costituzionalità della legge. Per questo motivo ritiene che debba essere mantenuto l'ultimo inciso del primo comma, in modo che la coscienza del giudice si sentirà vincolata alla legge soltanto quando egli avverta che è conforme alla Costituzione.

Propone il seguente emendamento formale:

«I giudici, nell'esercizio delle loro funzioni, dipendono soltanto dalla legge, che essi interpretano e applicano secondo coscienza, in quanto conforme alla Costituzione».

Ravagnan è favorevole allo spirito della formulazione Calamandrei e pensa che il concetto della dipendenza dei giudici soltanto dalla legge debba essere mantenuto ed anzi rafforzato. Però, invece delle parole «secondo la loro coscienza», direbbe più semplicemente «secondo coscienza», volendo alludere alla coscienza generale, mentre l'aggettivo possessivo potrebbe far pensare che il giudizio sulla interpretazione ed applicazione della legge venga lasciato all'apprezzamento individuale del magistrato.

È d'accordo per eliminare le parole «in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione», perché il controllo da parte del giudice non potrebbe essere di merito, ma solo formale.

Mannironi semplificherebbe la formula nella seguente maniera: «I giudici, nell'esercizio delle loro funzioni, dipendono solo dalla legge che applicano al caso concreto». Sopprimerebbe le parole «secondo la loro coscienza», che devono intendersi sottintese, e l'ultimo inciso, che farebbe sorgere un problema assai delicato, attribuendo ai giudici un compito che sarebbe bene non fosse loro demandato.

Il Presidente Conti crede che possa rimaner deciso fin d'ora che dell'articolo 3 si rinvia alla seconda Sottocommissione il primo comma e si sospende la discussione del secondo.

(Così rimane stabilito).

Per quanto riguarda l'articolo 2, mette ai voti l'emendamento dell'onorevole Targetti:

«Nell'esercizio delle loro funzioni i giudici e i magistrati del pubblico ministero obbediscono soltanto alla legge e alla loro coscienza».

(Non è approvato).

Fa presente che dovrebbe ora votarsi l'emendamento dell'onorevole Bulloni. Poiché lo stesso relatore Calamandrei e quasi tutti i componenti della Sezione sono d'accordo che la questione della conformità della legge alla Costituzione dovrà essere riesaminata quando si discuterà della suprema Corte costituzionale, prega l'onorevole Bulloni di volervi rinunziare.

Bulloni non insiste sul suo emendamento.

Il Presidente Conti mette allora ai voti la formula Calamandrei, così come risulta in seguito alle successive proposte di modificazioni che sono state proposte:

«I giudici, nell'esercizio delle loro funzioni, dipendono soltanto dalla legge che interpretano e applicano secondo coscienza».

(È approvata).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti