[Il 31 luglio 1946 la seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sulle autonomie locali.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

La Rocca. [...] In materia finanziaria, l'onorevole Einaudi non vuole le imposte indirette perché impacciano i traffici. Ma se si ammettono le imposte dirette, allo Stato che resta? In ogni caso, si badi a non costringere il contribuente a pagare due o tre volte.

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Einaudi in materia finanziaria non crede esista una soluzione unica, la quale possa soddisfare alla necessità di dare, sia alla provincia, per coloro che vogliono mantenerla, sia alla regione, per coloro che vogliono crearla, una finanza che non abbia bisogno di altri enti maggiori o minori. E crede che sia impossibile trovare questa soluzione, in quanto ciò condurrebbe a ricorrere ad espedienti che si sono adottati già tante volte nella storia, ma che non hanno mai dato risultati soddisfacenti. Vi sono stati luoghi e tempi nei quali l'ente intermedio (chiamiamolo regione) viveva dei contributi dei comuni (nel Regno di Napoli, prima del 1860, qualche cosa di simile si è verificato); ma il risultato fu sempre che la regione, ente intermedio, viveva una vita meschina, in quanto nasceva necessariamente la gara al peggio fra i comuni che avrebbero dovuto dare il contributo necessario per far vivere l'ente intermedio. Tutti i comuni facevano a gara per dimostrare la loro povertà, la loro incapacità a dare. Il risultato che si aveva, e che si avrebbe di nuovo se si applicasse il sistema dei contributi pagati dal comune, sarebbe l'impossibilità della vita finanziaria della regione. Lo stesso dicasi del sistema opposto di far vivere l'ente intermedio mediante il contributo dello Stato. È un sistema che è stato qualche volta anch'esso applicato, ma ha sempre prodotto la corruzione politica. Se la regione deve vivere del contributo dello Stato, si faranno vivere quelle regioni che hanno maggiore influenza politica e quindi vi saranno sempre regioni arretrate che si troveranno in condizioni sfavorevoli. Per conseguenza crede che l'esperienza dimostri che la regione non possa vivere con il sistema finanziario dei contributi, sia che questi partano dall'ente minore, il comune, sia che partano dall'ente maggiore, lo Stato. Quindi necessità di fatto che l'ente intermedio abbia una finanza, che si potrebbe chiamare propria se, invece di essere chiamata propria, non dovesse essere chiamata finanza in partecipazione con gli altri enti: il comune e lo Stato.

La ragione per cui non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla regione sta nel fatto che in sostanza la materia imponibile è una sola: il reddito del contribuente. Questo reddito si potrà afferrare all'origine, quando entra nel bilancio del contribuente, o quando, sotto forma di consumi, esce dal bilancio del contribuente; ma fuori del reddito non esistono altre materie imponibili. Quindi necessità tecnica, di fatto, che la regione ricorra alla medesima materia imponibile a cui forzatamente debbono ricorrere lo Stato ed i comuni. Si tratterà di trovare metodi di compartecipazione della regione a quest'unica materia imponibile, che è il reddito del contribuente, che siano meglio adatti alla regione medesima, lasciando allo Stato e rispettivamente al comune quelle altre parti di reddito che siano meglio adatte l'uno alla natura unitaria dello Stato, l'altro alla natura piccola, locale del comune.

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Ma la regione dovrà, come la provincia oggi, avere un suo campo tributario che si rivolga soprattutto alle imposte dirette.

Oggi la provincia ha funzioni sue proprie molto limitate e che si riferiscono ai manicomi, brefotrofi e strade. Queste funzioni danno luogo alle spese obbligatorie e, in relazione a queste spese, ad un sistema tributario. Ma la regione non si potrà contentare di queste funzioni così limitate; dovrà avere funzioni più importanti e più larghe, a cui dovranno corrispondere delle imposte a più larga base. Non sarà possibile accontentarsi dei centesimi tradizionali sulle imposte sui terreni e fabbricati, ma bisognerà dare sotto forma di centesimi addizionali, il diritto di imporre più largamente sulle industrie, sui commerci e sulle professioni. In realtà questa imposta non è altro che una parte della imposta di ricchezza mobile con qualche piccola esclusione per le categorie A, C e D. Siccome è impossibile tecnicamente concedere ai comuni il diritto di sovraimposizione sulla imposta di ricchezza mobile (perché ha un campo di applicazione che va al di là del comune), si è creato il succedaneo della sovrimposta all'imposta di ricchezza mobile, che si chiama imposta sulle industrie, i commerci e le professioni, ma che non è nient'altro che una forma particolare di sovrimposta applicata alle necessità del caso. Forse bisognerà dare qualche cos'altro, ma il nucleo fondamentale della forma che dovrà assumere la finanza regionale sarà quello della sovraimposizione sui redditi che si formano nell'ambito della provincia. Rimane il quesito se alla regione debba essere dato anche un diritto di sovraimposizione sull'imposta personale che da noi oggi si chiama imposta complementare progressiva sul reddito per lo Stato e imposta di famiglia per i comuni. Non si può, a priori, negare alla regione anche il diritto di sovrimporre su questa fonte, nei limiti consentiti dalla sua natura territoriale.

Nello Stato si è creata una imposta complementare progressiva sul reddito, perché lo Stato non poteva limitare la sua potestà di imposta soltanto a quei redditi che nascevano nel territorio dei singoli comuni, come erano le imposte sui terreni e fabbricati, ma doveva allargare la sua capacità di imposta a tutti i redditi nascenti nello Stato, ed anche a quelli nascenti fuori dello Stato. La nostra imposta progressiva teoricamente colpisce tutti i redditi che il cittadino, persona fisica, riceve in Italia, sia che i redditi si producano in tutto lo Stato italiano od anche all'infuori dello Stato italiano, in quanto dei redditi nascenti fuori dello Stato italiano si abbia qualche notizia diretta, cioè che questi redditi siano importati e goduti nello Stato. È lo Stato che ha questa capacità di imposizione a titolo di imposta progressiva, perché è soltanto lo Stato che ha i mezzi di accertamento per scoprire il reddito dovunque esso sia sorto.

Né il comune né la provincia o regione hanno la possibilità di conoscere il reddito sorto all'infuori dei loro confini e si può inoltre fondatamente dubitare se abbiano ragione di colpirlo. Può derivarne una lotta fra i singoli comuni e le singole regioni o province. Ogni ente locale deve avere una certa potestà di colpire il reddito personale che sorge ed è attinente, per l'origine e per il consumo, al proprio territorio. Ma perché dovrebbe colpire anche i redditi che nascono fuori del suo territorio, con il pericolo di una doppia tassazione, con la necessità poi di risolvere a posteriori i conflitti che possono sorgere con altri comuni o con altre regioni? È bene quindi che la legislazione ponga a priori dei limiti ai comuni ed alle province, per impedire che comuni e province colpiscano, come materia di tassazione personale, redditi che hanno avuto origine o in qualche modo si consumano fuori dai limiti del comune e della provincia. In fondo, in maniera imperfetta, empirica, il legislatore italiano aveva tentato di risolvere questi problemi per i comuni con una imposta sul valore locativo e con una imposta di famiglia. Erano certamente degli strumenti, dal punto di vista degli accertamenti, imperfetti; ma non si può dire che l'idea che li informava fosse errata. Si diceva che il comune ha il diritto di imporre sul reddito personale complessivo del contribuente quando tale reddito del contribuente ha una qualche attinenza col comune; di qui l'imposta sul valore locativo. Anche l'imposta di famiglia, così come era stata costruita in origine, aveva tratto al reddito goduto, visibile della famiglia in quella certa località; materia imponibile che non era quella del reddito tassato dall'imposta complementare complessiva sul reddito appartenente allo Stato. Lo Stato deve abbracciare tutto. Lo Stato, se ci riesce, deve abbracciare anche ciò che nasce fuori dai confini dello Stato medesimo e che poi, in qualche modo, rientra e viene goduto dentro lo Stato. Ma perché la regione dovrebbe violare l'eguale diritto di altri comuni o di altre regioni? Quindi occorre che il reddito, nelle sue varie trasformazioni, abbia acquistato una fisionomia locale, regionale e che il comune e la regione tassino quel reddito in quanto esso abbia questa configurazione comunale o regionale.

[...]

Per far sì che ognuno degli enti tassati abbia la sua parte, ma che non ecceda un certo livello, si sono adoperati in Italia mezzi ben noti: il legislatore ha stabilito un limite massimo; ma comuni e province dopo averlo raggiunto, hanno dichiarato che non potevano vivere, e allora si è creato un secondo limite a cui sollecitamente tutti i comuni sono arrivati; e, allorché se ne è creato un terzo, questo è stato subito raggiunto dalla totalità dei comuni. È un sistema che non funziona, perché crea negli amministratori dei comuni e delle province la tendenza ad ottenere l'autorizzazione ad arrivare fino al limite massimo stabilito; essi finiscono per concepire il raggiungimento dell'ultimo limite di tassazione come una cosa naturale; come un diritto di proprietà. L'amministratore del comune concepisce il diritto di giungere fino ad un certo limite come un dovere di giungervi, tanto più che la spinta a spendere c'è sempre, quando esiste la possibilità di tassare. In tal modo si arriverebbe anche al quarto e al quinto limite se ci fossero.

Si era immaginato di trovare un freno nel senso che l'eccedenza oltre il limite dovesse essere autorizzata con una legge speciale; ma la sola conseguenza di questo è stata la moltiplicazione dei disegni di legge per la fissazione dei limiti. La verità è che un rimedio veramente efficace per tutti i casi non esiste.

In Inghilterra si segue un sistema che sembra funzioni meno male, e che ha già avuto una sua tecnica legislativa: il sistema che le autorizzazioni ad una maggiore imposta siano collegate con speciali esigenze, per cui il comune, la contea, la parrocchia, ecc., chiedono l'autorizzazione ad aumentare le loro imposte in relazione a qualche spesa che deve essere fatta.

È da vedere, però, se questo sistema può essere applicato in Italia. Certamente, conviene cercar di regolare la materia nel senso che il forte sostenga il debole; che la provincia o la regione ricca sostenga la provincia o la regione povera, attraverso il fondo generale delle imposte statali. Ma è dubbio se lo Stato accentratore, quale è esistito finora, sia il più adatto ad adempiere a queste necessità, perché le province che hanno un maggiore peso elettorale, cioè quelle più popolose, hanno una forza preponderante e finiscono per soverchiare le province più povere, cioè meno popolose. Il sistema delle autonomie rende le regioni meno asservite allo Stato e capaci di far sentire meglio la propria voce.

In Svizzera la Confederazione interviene a favore dei singoli Cantoni e soprattutto a favore dei Cantoni alpestri, più poveri, che hanno minore capacità finanziaria e non possono coi propri mezzi adempiere ai servizi richiesti per mettersi alla pari con i Cantoni più ricchi, nei quali è accentrata l'industria. Non per questo le regioni povere non hanno diritto ad essere aiutate; questi aiuti si chiamano rivendicazioni. Un Cantone povero, il quale ha bisogno di ferrovie, di scuole, ecc., e che si trova al di sotto del minimo necessario per sostenere quelle spese, rivendica dalla Confederazione un contributo sancito dalla legge. In Italia il contributo potrebbe essere dato dallo Stato, dalla provincia o dalla regione all'ente minore.

In vari modi si può concepire il limite: al comune che non abbia raggiunto il limite dell'imponibile lo Stato può imporre anzitutto di raggiungerlo, per aiutarlo, se necessario, quando l'avrà raggiunto. Al comune che abbia superato quel limite potrà imporre di mettersi in regola riducendo le aliquote, salvo a aiutarlo quando si sarà messo in regola, affinché possa adempiere alle sue funzioni che con i suoi mezzi non può adempiere.

Non è un sistema che possa funzionare con semplicità; ma la materia tributaria non è semplice, anzi tende a diventare sempre più complicata, per la diversificazione dell'economia e per il fatto che il contribuente può ricavare i propri redditi da fonti di natura diversa e situate in località diverse.

Entro i limiti delle necessità tecniche, si possono fissare dunque per la finanza regionale e locale alcune idee fondamentali.

Circa l'esclusione delle imposte che, se fossero applicate dagli enti locali, creerebbero barriere tra comune e comune, non si tratta di pericoli immaginari. Ricorda un bellissimo articolo in cui Giuseppe Prato denunziò i dazi protettivi creati in Italia all'ombra dei dazi comunali sui consumi. Con i dazi si erano create delle vere e proprie barriere, che non rendevano nulla ai comuni, ma proteggevano l'interesse degli industriali risiedenti nella cerchia murata della città a danno degli altri industriali, i quali esercitavano la loro industria, magari a due passi fuori della cinta daziaria. Si deve impedire che il territorio nazionale diventi una specie di quadro bizzarro di tanti Stati, separati economicamente ed operanti contro le esigenze della economia nazionale.

Altre idee fondamentali sono: partecipazione degli enti locali, comuni e regioni, alle imposte reali, in quanto queste abbiano attinenza con le località; partecipazione anche alle imposte personali, in quanto queste assumano la forma dell'imposta sul reddito consumato, perché il reddito consumato necessariamente ha un'attinenza con il luogo dove è consumato; e finalmente collaborazione o aiuto del forte al debole, attraverso lo Stato, collaborazione realizzata non per arbitrio, ma sulla base di leggi; cosicché l'Ente locale possa rivendicare un suo diritto dimostrando di trovarsi nelle condizioni richieste dalla legge.

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Bulloni. [...] osserva che l'autonomia politica ed amministrativa reclama necessariamente l'autonomia finanziaria: la regione deve avere un bilancio proprio che non deve formare oggetto di un capitolo speciale del bilancio dello Stato. Saranno gli esperti a dar pratica attuazione a questa autonomia, ma qui si deve affermare il principio della autonomia finanziaria della regione. La costituzione potrà rimandare per questa parte ad una legge costituzionale finanziaria che sia in armonia con la riforma tributaria generale del Paese.

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Fabbri. [...] Ritiene assurda la pretesa di sottrarre la regione a qualunque ingerenza da parte dello Stato. Pensa che si debba avere una dotazione specifica di pertinenza della regione; e non avrebbe, ad esempio, alcuna difficoltà a stabilire fin da ora che la totalità delle tre imposte dirette fondamentali: terreni, fabbricati, ricchezza mobile, fosse interamente devoluta ai comuni e alla regione, salvo a stabilire la ripartizione tra i servizi comunali e i servizi della regione. Ma è ben lontano dal ritenere che vi possa essere sovranità o potestà legislativa della regione in ordine a queste imposte: l'aliquota massima e minima, con una leggera oscillazione fra minimo e massimo, deve essere stabilita dalla legge dello Stato, perché una regione potrebbe trovare conveniente un'aliquota più favorevole, per esempio, di ricchezza mobile, per attirare l'impianto di nuove industrie nel suo territorio, per fare particolari facilitazioni a impianti commerciali, ecc.; ma fondamentalmente il regime tributario deve essere unitario; e poiché non v'è che il reddito che si possa colpire, non possono e non debbono appartenere alla facoltà normativa della regione, entro i limiti della legge generale dello Stato, se non i redditi insottraibili al concetto territoriale.

Un altro concetto fondamentale che, a suo avviso, dovrebbe essere sancito nella Carta Costituzionale è che soltanto per legge si possano determinare le regioni, i loro confini, i capoluoghi. Ciò non dovrebbe significare che le regioni vengano poi sottratte ad ogni forma di controllo e di aderenza alla politica generale dello Stato. Così come vi è ora una Direzione generale della finanza locale, potrà esservi una Direzione generale della finanza regionale, alla quale dovrebbe fra l'altro essere attribuito il compito della integrazione del bilancio annuale dello Stato, con quella azione compensativa che, avendo il significato di solidarietà nazionale, è da tutti auspicata, ma che alcuni commissari vorrebbero realizzare attraverso stanze di compensazione fra regioni povere e regioni ricche. Dovrebbe, in altre parole, realizzarsi tale compensazione attraverso la distribuzione tra le varie regioni, tenendo presenti le necessità di quelle più povere, delle risorse del bilancio dello Stato.

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Presidente Terracini. [...] Altro punto da considerare è quello della finanza regionale, e taluno ha detto che questo problema è bene trattarlo, ma non è necessario approfondirlo ora, perché occorre anzitutto procedere ad una riorganizzazione generale del sistema tributario dello Stato. Crede, comunque, che si dovrà dare una indicazione del modo in cui dovrebbe essere attuata l'organizzazione tributaria generale dello Stato italiano. Così, se nella Costituzione, quando si parla della regione, non si dicesse già qualche cosa sui fondamenti che debbono regolare il bilancio della regione, si lascerebbe incompiuta quell'opera che alla Sottocommissione è stata affidata.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti