La nascita della Costituzione

Relazioni e proposte presentate nella Commissione per la Costituzione
II Sottocommissione

 

RELAZIONE

del deputato LA ROCCA VINCENZO

SUL

POTERE ESECUTIVO

 

Questo note si riferiscono ad atti o a funzioni, attribuiti finora al potere esecutivo, e che hanno rilievo costituzionale: le decisioni della guerra e della pace; l'approvazione dei trattati; il comando delle forze armate; l'esercizio della potestà di clemenza; i provvedimenti di eccezione, dettati dalla necessità, come lo stato d'assedio.

Naturalmente, si parte dalla premessa che il principio della divisione o della separazione dei poteri è superato.

Questa teorica ha avuto la sua ragion d'essere e il suo compito progressivo quando si è trattato di difendere i diritti dei cittadini e le libertà politiche di fronte all'onnipotenza del sovrano: quando, cioè, nel periodo di transizione dalla monarchia assoluta alla democrazia liberale, occorreva garantire le conquiste realizzate, limitando le sfere di potestà e ponendo dei freni ai residui dell'esecutivo monarchico, che aveva l'impronta della tirannide.

Le Costituzioni del secolo XVIII e degl'inizi del XIX erano, pertanto, fondate sul dogma di Montesquieu: che, in un buon ordinamento statale, il potere attribuito a un'autorità deve trovare un limite nel potere di un'altra autorità, in modo che l'un potere arresti l'altro, evitando che la suprema forza di governo sia concentrata nelle mani di un solo individuo o di un solo corpo.

Questo era detto «equilibrio dei poteri» e veniva presentato come baluardo di libere istituzioni e forza motrice del progresso.

La pratica ha dimostrato, invece, che l'equilibrio non ha garentite le libertà.

Dall'esperienze bonapartiste a quelle fasciste, si è visto che, per la tutela di particolari interessi, economici e politici, gli scarponi dei generali hanno spezzate le tavole delle leggi; e i cittadini sono stati spogliati dei loro diritti, le tribune parlamentari sono state abbattute e soppresse le libertà; e, all'ombra della separazione dei poteri, l'Esecutivo ha imbavagliato il Legislativo e poi lo ha strangolato, cioè la critica delle armi si è sostituita all'arma della critica e le Nazioni non hanno avuto che disastri e catene e, alla fine, sono rientrate nei loro diritti per la porta della sciagura.

Ma, oltre i germi di conflitti esistenti in una concezione anteriore alla democrazia moderna e chiaramente rivelati dalla storia di molti paesi, il principio della separazione è artificiale e anacronistico, mirando a rappresentare lo Stato come una sovrapposizione di organi quasi indipendenti gli uni dagli altri e che, pur lavorando alla stessa opera generale, farebbero ciascuno operazioni essenzialmente diverse e avrebbero ciascuno una sfera d'azione propria, dalla quale ogni altro potere sarebbe escluso, mentre il Legislativo e l'Esecutivo sono intimamente legati e solidali, formano le due ruote di una stessa macchina, sì che, ove i loro movimenti non si accordino, tutta la macchina non funziona.

In sostanza, la vecchia teorica costituisce il nocciolo ideologico della monarchia costituzionale, cioè del compromesso tra diritto divino e sovranità popolare; e, se, da un lato, ha lo scopo di proteggere, in un certo senso, l'individuo contro l'arbitrio del potere, dall'altro, non apre la strada ad una schietta democrazia, ma tende a conservare al Capo dello Stato, eliminato a metà dalla legislazione per effetto del movimento popolare, la possibilità di esercitare un potere proprio nel campo esecutivo.

Quanto alla struttura dello Stato, bisogna riconoscere nettamente, nella Carta costituzionale, il principio che nella Repubblica italiana, unitaria, indivisibile, democratica, la radice della sovranità sta esclusivamente nel popolo; che, perciò, nella nostra Repubblica, la sovranità appartiene al popolo e a nessun altro e dal popolo emana tutto il potere.

In conseguenza, la sovranità popolare viene esercitata con poteri, — legislativo, esecutivo, giudiziario, — i quali, provenendo dalla stessa unica fonte, non sono divisi, né separati, né opposti, ma ripartiti in modo razionale fra organi chiamati ad attuare la medesima volontà: quella del popolo, liberamente espressa, conformemente alle leggi e alla Costituzione.

E l'Assemblea Nazionale dev'essere, più che un corpo che parla soltanto ed elabora norme giuridiche, un corpo che parla e agisce, che decide e sorveglia sull'osservanza delle sue decisioni: organo supremo della Repubblica, espressione diretta della sovranità popolare, che esercita il potere legislativo, senza deleghe di sorta ad altri, e detiene tutto il controllo politico.

* * *

Ciò posto, per gli atti o per le funzioni di cui si discorre in queste note, la concezione che sta alla base degli articoli 5 e 8 dello Statuto Albertino, dev'essere spazzata via e definitivamente seppellita.

Non è possibile ammettere che il popolo perda la corona della sua sovranità, quando ne ha maggiore bisogno: che, nelle questioni più importanti e più gravi, continui a trovarsi dinanzi ai fatti compiuti, senza essere interrogato: che subisca patti e condizioni o venga trascinato in avvenimenti, in cui sono in gioco il suo sangue, i suoi beni e il suo futuro, senza aver modo di esprimersi, di sostenere il suo reale interesse e dichiarare la sua volontà.

In proposito, alcuni pubblicisti hanno proposto che, nella situazione attuale, il nostro paese, per mostrare la sua ferma decisione di rompere con un passato che ci ha portati alla catastrofe, e liquidare i residui dell'ideologia imperialista, che vive d'intrighi e di rapine e ci ha fruttata la disfatta, affermasse la rinunzia, da parte sua, alla guerra come strumento di politica nazionale, sull'esempio della Costituzione spagnuola del 1931 e di quella giapponese.

Ma un tale principio, rispondente, del resto, alle tradizioni del pensiero italiano e alle profonde aspirazioni del popolo, potrebbe apparire una soverchia restrizione della libertà d'azione dello Stato e una diminuzione del suo diritto sovrano.

La Commissione, in seduta plenaria, e l'Assemblea decideranno sulla opportunità di fissare nel testo costituzionale una norma di condotta già accolta dalla Repubblica francese: il proposito, cioè, dell'Italia democratica di non combattere alcuna guerra a scopo di conquista, di non adoperare le sue forze contro la libertà di un altro popolo, di conformarsi alle regole del diritto internazionale e consentire, con riserva di reciprocità, alle limitazioni di sovranità necessarie all'organizzazione e alla difesa della pace.

In ogni caso, la competenza a deliberare sulla guerra e sulla pace dev'essere sottratta all'Esecutivo e attribuita al Parlamento, il quale, esprimendo in maniera diretta la volontà popolare, è il solo organo che possa giudicare al riguardo, a prescindere dal fatto che si tratta di una materia destinata a produrre effetti nell'ordinamento interno dello Stato od in quello internazionale.

Occorre, dunque, riconoscere in primo luogo, e senza equivoci, che il decidere della guerra o della pace spetta al popolo nel suo insieme, per il tramite dei suoi rappresentanti all'Assemblea, sul binario della Costituzione sovietica del 1936 (artt. 14 e 31), di quella jugoslava (artt. 44 e 50), di quella francese (art. 8), stabilendo, in secondo luogo, se la vera e propria dichiarazione, di guerra ad esempio, debba avvenire per legge, come nella Costituzione di Weimar (art. 45), essere devoluta direttamente al Parlamento, come nella Costituzione nord-americana (art. 1, sez. 8) e in quella turca del 1924 (art. 26), o attribuita invece al Capo dello Stato, (che, in linea di principio, rappresenta la Nazione all'estero), ma dopo l'approvazione esplicita e preventiva degli organi parlamentari, secondo il sistema seguito da molte Costituzioni dell'altro dopo guerra (austriaca, articolo 38; cecoslovacca, art. 64; finlandese, art. 33; polacca, art. 50: ecc.).

* * *

Per quanto riguarda i trattati in generale, e quelli internazionali in ispecie, è da escludersi la possibilità di una stipulazione senza il previo consenso del Parlamento.

Non si discute sul carattere essenzialmente esecutivo della funzione per cui lo Stato entra e si mantiene in rapporti con gli altri soggetti della comunità internazionale, anche quando, con l'esercizio di tale funzione, lo Stato concorre a costituire, con la stipulazione di un trattato, l'ordinamento giuridico di questa comunità.

Ma se il Capo dello Stato, individuo o corpo collegiale, per il fatto che rappresenta, dal punto di vista internazionale, il proprio Stato (jus repraesentationis omnimodae), dichiara all'estero la volontà del paese, non ha, per altro, la competenza di costituire questa volontà, spettando essa unicamente al popolo nel suo complesso, per via degli uomini investiti della sua fiducia.

È noto che nella formazione dei trattati, a parte procedure speciali, si hanno diversi momenti: il negoziato, condotto dai plenipotenziari o da altri organi; la conclusione, consistente nell'accordo raggiunto dai negoziatori, ma che non è ancora l'atto che pone in essere il trattato, e la ratifica e la stipulazione: la prima essendo la volontà stessa dello Stato di formare il trattato e la seconda integrandosi nello scambio e nel deposito delle ratifiche.

Il fulcro della questione è nell'abolire il sistema, corrispondente più o meno intieramente a quello inglese, adottato da un gran numero di Costituzioni, compresa l'italiana, e inspirato al criterio che il Capo dello Stato è competente a stipulare qualsiasi trattato, anche senza il previo consenso delle Camere o di altri corpi, esclusi i trattati i quali importano un onere finanziario o variazioni territoriali, per oneri finanziari intendendosi nuove spese attuali, future o eventuali, e per variazioni territoriali (acquisti, perdite, scambi) intendendosi le variazioni dei territori dello Stato o nuovi confini.

Non occorre ricordare che la Costituzione svizzera sancisce la nullità di un trattato, ratificato dal Consiglio federale senza la favorevole deliberazione dell'Assemblea, e, in certi casi, senza il risultato positivo di un referendum popolare. E tutti sanno che, negli S.U.A., i trattati non possono essere ratificati dal Presidente, se prima non ricevono l'approvazione del Senato con la maggioranza dei due terzi dei senatori votanti.

In base al concetto esposto, se il Capo dello Stato è competente a ratificare i trattati, tale competenza è subordinata sempre alla previa autorizzazione del Parlamento sul testo definitivo, cioè al trattato perfetto nella sua redazione, ma non ratificato, per i trattati di pace, di collaborazione politica (di organizzazione internazionale, di confederazione, di unione, di consultazione, ecc.) e di collaborazione militare (alleanze, ecc.), per i trattati che importano variazioni al territorio dello Stato, in senso largo, e quindi comprensivo delle colonie e dei possedimenti, come per quelli che importano onere alle finanze e implicano o presuppongono per l'esecuzione l'emanazione o la modifica di norme legislative.

La storia insegna quanto sia pericoloso consentire all'Esecutivo di concludere, spesso in segreto, trattati che impegnano la vita della Nazione, con la riserva d'informarne le Camere appena l'interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, cioè appena garbi all'Esecutivo e quando al popolo non resta che sopportare il giogo o tagliare il nodo scorsoio con la spada della rivolta.

* * *

Il problema del comando delle forze armate, variamente risoluto nei singoli ordinamenti, è complesso e delicato, per la potestà:

di chiamare alle armi i cittadini sottoposti ad obblighi militari;

di emanare norme regolamentari e provvedimenti relativi all'organizzazione dell'esercito;

di nominare e revocare gli alti gradi, disporre in merito alla carriera, determinare i servizi, esigere la prestazione del giuramento di fedeltà, ecc.;

di ordinare la mobilitazione militare, generale o parziale, in caso di guerra o di pericolo di guerra, e quella civile, per il funzionamento delle attività nazionali, la requisizione di servizi, individuali o collettivi, e di beni, mobili e immobili, di cittadini, di associazioni, di enti, ecc.;

d'imporre obblighi e restrizioni con bandi che hanno forza di legge;

di dirigere la condotta della guerra, ecc.

Si ammette, di solito, che il Capo dello Stato disponga delle forze armate.

Così, nella Costituzione degli S.U.A. (art. 2, sez. 2), nella norma britannica, nella Costituzione di Weimar (art. 47), in quella francese (art. 50), ecc.

Ma il Comando delle forze armate attribuito, puramente e semplicemente, al Capo dello Stato è una mazza di ferro nelle mani dell'Esecutivo.

Alla luce dei fatti, e in molti paesi, l'esercito non è stato se non lo strumento per l'attuazione di una data politica, fuori e dentro i confini nazionali, ed è servito spesse più contro il nemico interno che quello esterno.

Alla stregua dell'esperienza di molte nazioni, l'esercito è diventato, troppe volte, un bastone nel pugno delle cricche reazionarie, il servo degl'interessi di alcuni gruppi politici e sociali dominanti, il carnefice della libertà del popolo. Esso ha avute due funzioni essenziali: quella di tenere a freno, insieme con la polizia, la maggioranza sfruttata e oppressa, e quella di estendere il territorio nazionale a spese di altri Stati o di difendere il territorio nazionale dagli attacchi esterni.

In proposito, non occorre citare esempi, che si possono facilmente trarre dalla storia di mezza Europa.

In attesa che l'esercito si confonda col popolo in armi, bisogna porre sul vertice delle forze armate il suggello di una reale democrazia, e circondare il comando di queste forze di ogni possibile barriera, ad impedire che esse vengano adoperate al servizio d'interessi egoistici e particolari, fondamentalmente contrari a quelli generali della Nazione, sopratutto per impedire che le armi destinate, in astratto, a tutelare i diritti civili, politici, economici, siano rivolte, in taluni momenti, a ostacolare appunto l'esercizio di tali diritti.

Nella Costituzione sovietica, in base agli articoli 14 e 31, la direzione delle forze armate spetta al Consiglio Supremo; e il Presidium subordinato gerarchicamente al Consiglio, nomina e revoca il Comando, come ordina la mobilitazione generale e parziale.

Nella Costituzione jugoslava, la Skupcina popolare nomina il Comando Supremo dell'esercito, che dirige tutte le forze armate.

Nella Carta italiana, tenendo conto che dichiarazioni di principio a sostegno della sovranità del popolo non oppongono alcun muro alle usurpazioni del potere, bisogna sancire la norma che l'Assemblea Nazionale approva preventivamente, cioè avanti la ratifica, la nomina e la destituzione dell'Alto Comando delle forze armate e ordina la mobilitazione, militare e civile.

* * *

In merito alla potestà di clemenza, che adempie a esigenze politiche e sociali dovunque riconosciute, il criterio da seguire è quello adottato da quasi tutte le Costituzioni moderne: vale a dire che il Capo dello Stato esercita il diritto di grazia, — e in ciò resta immutato il sistema dello Statuto Albertino — e il Parlamento, come supremo organo politico e come unico organo legislativo della Repubblica, concede con una legge l'amnistia.

La facoltà di clemenza, che è rinunzia dello Stato alla potestà di punire, che è intervento dello Stato ad attenuare, a fermare o ad annullare la punizione del reato, ha la sua radice di legittimità nell'essere un supplementum justitiae, una valvola di sicurezza del diritto, un mezzo politico di pacificazione in determinati periodi di crisi o di tensione sociale.

Sebbene questo jus aggratiandi sia stato combattuto da molti scrittori, da Beccaria e Filangieri a Kant, Feurbach, Bentham, ecc. come un istituto in contrasto con le necessità della giustizia, esso opera, in qualunque forma si manifesti, da supremo moderatore delle forze della legge e del giudicato; e la storia del diritto lo mostra costantemente, fin dai tempi remoti, sotto la forma dell'extinctio accusationis, cioè dell'amnistia, come oblio generale, e sotto la forma particolare di condono totale o parziale della pena inflitta per condanna dal giudice.

Nel nostro diritto pubblico, dove la lettera dell'articolo 8 dello Statuto considerava soltanto la potestà di grazia e di commutazione delle pene, facendone una prerogativa del monarca, quale capo del potere esecutivo, l'indulgentia ha tre forme speciali: l'amnistia, che sospende l'esecuzione di una legge penale, estinguendo l'azione già promossa o da promuoversi e le pene inflitte per reati determinati; l'indulto, che è una grazia generale, applicata all'universalità dei cittadini, per certi reati e certe pene, e non abolisce l'azione penale, ma solo estingue o attenua le pene inflitte con sentenze passate in cosa giudicata; e la grazia, che condona, commuta o riduce le pene irrevocabilmente pronunziate.

In altri termini, l'amnistia, atto politico consigliato dal pubblico interesse, contempla i fatti in se stessi: ed estingue l'azione penale per i fatti non ancora giudicati, e per quelli definitivamente giudicati abolisce in toto la pena e gli effetti penali della condanna.

Essa, che si concreta nella potestà di sospendere l'applicabilità di una o più norme penali rispetto a un periodo di tempo già trascorso, toglie, ipso iure, ai fatti che prevede, e rispetto al tempo che abbraccia, il carattere di reati.

È, in senso materiale, una legge transitoria, la quale scrimina, nei confronti del passato, alcuni fatti, che costituiscono reati per la legge ordinaria; e li scrimina senza badare a chi ne sia imputato o imputabile, o a chi ne porti la pena: li dichiara non punibili esclusivamente perché toglie loro l'essenza giuridica penale, in modo che è del tutto inutile ogni ricerca sulla imputabilità.

La grazia ha carattere personale, perché riguarda gl'individui. In senso proprio e ristretto, essa condona, in tutto o in parte, o commuta la pena inflitta a una persona. Modifica, al pari dell'indulto, la condanna quanto alla pena, che viene tolta o ridotta o commutata; ma, al pari dell'indulto, non toglie la nota di reità derivante dalla sentenza del giudice: non estingue il reato né la condanna.

L'indulto ha comune con l'amnistia il carattere, per cui la sua forza si dirige a un numero indeterminato di persone; ha comune con l'amnistia l'applicabilità senza distinzione di persone, ma, giuridicamente, appartiene alla categoria delle grazie, perché non ha efficacia abolitiva dell'azione penale.

È il condono totale o parziale della pena, o la commutazione della stessa, per una serie di reati determinata nel decreto.

L'indulto, pertanto, è un atto amministrativo straordinario, e, precisamente, un ordine di non eseguire, in tutto o in parte, o a quel modo, la pena già inflitta con sentenza passata in giudicato.

È un atto di clemenza, che non cancella il reato, non abolisce l'azione penale, non distrugge certi effetti giuridici della condanna.

Nel nostro diritto pubblico, la grazia in senso stretto era, come già si è detto, un attributo del Capo dello Stato.

Per l'amnistia, invece, la cui efficacia è generale e diversa, si affermava, da tempo, la necessità, riconosciuta da altre Costituzioni, che essa provenga dal potere legislativo.

Fin dal 1920 un progetto ministeriale del governo Nitti (guardasigilli Mortara) rivendicava al Parlamento la facoltà di concedere l'amnistia, per il rispetto dei principî democratici, per l'importanza politica dell'atto, per il suo carattere di generalità e di astrattezza, per la natura stessa del provvedimento, che consiste, come si è visto, nella sospensione dell'osservanza di una legge penale.

All'esercizio della grazia, che può essere un utile rimedio a sospetti di errori giudiziari, ad eccessivi rigori di pena, ad ingiustizie prevalse nell'esame di dati reati; che non presuppone una valutazione d'ordine generale e di carattere esclusivamente politico, ma richiede la considerazione del caso individuale e l'accertamento degli elementi sull'opportunità o meno della concessione; all'esercizio della grazia non si presta la struttura dell'Assemblea legislativa.

Dice la relazione sul progetto ministeriale del 1920. «Poiché il concedere amnistie è funzione eminentemente politica, giova che l'esercizio diretto della medesima sia ripreso dal Parlamento. Solo in tal guisa sarà data al popolo la più completa guarentigia non solo intorno alle ragioni di opportunità politica e di utilità sociale del provvedimento, ma altresì intorno alla giusta estensione di esso a casi e categorie di fatti che veramente si coordinano alle ragioni di opportunità e di utilità che ne costituiscono il presupposto».

E, dopo aver chiarito che l'amnistia è atto di funzione legislativa delegata all'autorità esecutiva, la relazione conclude proponendo di revocare la detta delegazione legislativa e di avocare la concessione delle amnistie all'organo a cui ne appartiene naturalmente il potere.

Tale conclusione, già maturata nella coscienza politica e giuridica italiana, e conforme, del resto, alla norma sancita in altre moderne Costituzioni, da quella di Weimar alla sovietica, da quella jugoslava alla francese, ecc. è da accettarsi pienamente.

* * *

Il campo delle misure eccezionali, di quelle adottate solitamente in nome della legge di necessità, per la tutela dell'ordine pubblico, per la sicurezza dello Stato, ecc., è un campo irto di pericoli; e può diventare il terreno dell'arbitrio.

Di qua, il bisogno di circondare di solide garanzie la potestà di emanare provvedimenti speciali, che, nel linguaggio dei fatti, rischiano di tradursi in attentati alla libertà e ai diritti fondamentali dei cittadini.

Al riguardo, lo Statuto taceva, se bene vietasse, con una disposizione categorica, al Capo dello Stato di sospendere le leggi, per il triste ricordo della monarchia francese che, nel periodo della Restaurazione, dietro il paravento della ragione di Stato, era passata sul cadavere della libertà.

Ma, in Italia, la pratica riconobbe all'Esecutivo facoltà eccezionali, sul fondamento delle parole di Cavour che le leggi non provvedono a tutti i casi possibili e che, ove si verifichino eventualità, non previste dal legislatore e che richiedono una tutela urgente, i depositari del potere debbono avere il coraggio di allontanarsi dalle formalità prescritte dalle leggi.

Così, nell'orbita delle misure eccezionali, ha posto radici il sistema dei fatti compiuti, col suggello d'una giurisprudenza parlamentare, che, in materia di restrizioni alla legge fondamentale, dimenticava, oltre l'esempio belga, la prassi dell'Inghilterra, dove la sospensione dell'Habeas corpus non può avvenire senza l'autorità del Legislativo.

Accadeva, naturalmente, in Italia, che, da parte della Corona, si rinunziava all'esercizio del diritto di necessità, proprio quando, nel supremo interesse della Nazione, sarebbe stato il caso di ricorrervi.

A questo modo le forze della reazione marciarono senza ostacolo sulla Capitale; e, violando, col consenso del re, le norme statutarie, stabilirono quella dittatura terroristica, che ha coperto di rovine il paese.

Giova, pertanto, colmare la lacuna esistita finora, dare una base organica ai provvedimenti per le circostanze di eccezione, fissare i limiti e segnare la sfera di potestà per tali misure straordinarie, senza cadere in una casistica, che sarebbe impossibile, ma badando ad evitare gli abusi e, sopra tutto, le minacce del dispotismo:

In sostanza, le facoltà eccezionali si restringono alla proclamazione dello stato d'assedio, che, nel silenzio dello Statuto, non rispondeva alle garanzie di un ordinamento costituzionale, pur essendosi dimostrato, in varie tappe, il forcipe che aiutò a nascere, sotto l'insegna monarchica, lo Stato unitario.

In linea di principio, il meglio sarebbe che un atto di tale gravità, come il proclamare lo stato d'assedio, cioè il mettere le baionette all'ordine del giorno, fosse attribuito alla competenza del Parlamento, che, per la sua essenza, è l'organo politico più idoneo a giudicare tra le supreme esigenze della difesa interna e della sicurezza generale e le libertà e i diritti dei cittadini.

Ma è chiaro intendere che certi pericoli sorgono all'improvviso e non aspettano; che, per la salute pubblica, occorre provvedere con rapidità e con energia, e non si ha modo né tempo di convocare le Camere, se non sono riunite, e sollecitarne le decisioni.

D'altra parte, non conviene affidare ad un uomo solo, al Capo dello Stato, misure discrezionali, che riguardano da vicino l'esercizio dei diritti fondamentali.

In conseguenza, il Presidente della Repubblica dovrà procedere all'esame della situazione con il Consiglio della Repubblica e, constatate la necessità e l'urgenza di una misura straordinaria a garanzia della vita del paese, potrà emanare l'ordine marziale, imposto dalla realtà del momento, ossia, potrà proclamare lo stato d'assedio, totale o parziale, con l'approvazione espressa del Consiglio della Repubblica.

Inducono a queste cautele le lezioni dell'esperienza e l'obbligo di difendere l'avvenire contro i pericoli di un ritorno offensivo del passato, comunque travestito e mascherato.

La Costituzione di Weimar, per esempio, attribuiva, con gli articoli 47 e 48, al Presidente del Reich il comando supremo di tutta la forza pubblica, l'impiego di questa forza contro i Länder che non adempivano ai doveri imposti dalla Costituzione, e poteri di eccezione, in caso di grave turbamento dell'ordine pubblico, consistenti nell'uso della forza armata e nella sospensione di alcuni diritti fondamentali.

I risultati si conoscono.

La legge della Germania parve ridursi nei periodi di crisi più acuta, all'applicazione degli articoli 47 e 48, che annientavano il resto della Costituzione.

E i dottrinari di Weimar si affaticarono, in ultima analisi, a gittare il ponte che dal semi-assolutismo degli Hohenzollern portò al dispotismo e alla barbarie di Hitler.

Il criterio informatore di queste note è semplice; e nasce dalle aspirazioni profonde di tutto il popolo e dalle necessità del paese.

Si tratta di sbarrare il passo a qualsiasi regime di conservazione sociale e di tirannide reazionaria, che ci precipiterebbe, un'altra volta, nella fossa di ieri.

Le formule costituzionali non rappresentano talismani di sicurezza per le libertà politiche e i diritti dei cittadini.

È ovvio che non si respinge la violenza ingiusta con un pezzo di carta.

Ma l'interesse generale della Nazione deve prevalere su quello particolare delle categorie e dei gruppi, in concreto, nei fatti e non a parole; e la sovranità popolare deve trasformarsi in una realtà vivente e non essere soltanto una frase.

Ove la Costituzione abbia le stimmate di una democrazia così concepita, offra una base solida per l'attuazione di taluni principî e ponga intorno agli organi e agli istituti che essa crea tutte le possibili garanzie, ha assolto al suo compito.

Il resto spetta al paese.

* * *

Per tradurre in norme positive le tesi indicate, si propone la formulazione seguente:

Art. ...

L'Assemblea Nazionale decide le questioni di guerra e di pace; approva, per la ratifica, i trattati con gli altri Stati; nomina e revoca il Comando supremo delle forze armate; ordina la mobilitazione totale o parziale; concede l'amnistia.

Art. ...

Il Presidente della Repubblica, col consenso del Consiglio della Repubblica, proclama lo stato d'assedio, motivandone la necessità.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti