La nascita della Costituzione

Relazioni e proposte presentate nella Commissione per la Costituzione
III Sottocommissione

 

RELAZIONE

del deputato DOMINEDÒ FRANCESCO

SU

L'ORDINAMENTO DELL'IMPRESA

 

1. — Il tema dell'impresa costituisce un angolo visuale di singolare rilievo per determinare l'impronta che una Carta costituzionale è atta a lasciare nella storia di un popolo.

Proprietà e impresa si pongono come due aspetti di un solo fatto sociale, la prima rappresentando il momento statico della disponibilità dei beni, la seconda il momento dinamico. E i vari atteggiamenti che l'una e l'altra concretamente possono assumere, dalla proprietà privata a quella nazionalizzata, dall'impresa individuale a quella collettiva, stanno a significare il riflesso che l'evoluzione sociale è destinata ad esercitare nell'ambito della Costituzione, specchio naturale del progresso di un ordinamento.

Due rilievi preliminari infatti qui convengono. Il primo è che l'efficacia creativa di una Carta non può prescindere dalla realtà storica, acquistando una concretezza che è in ragione della sua aderenza alla vita. A differenza di quanto afferma la relazione Togliatti, una Costituzione non può rappresentare che la proiezione della coscienza nazionale in un determinato momento della sua storia. Vero è che tale proiezione non esclude, anzi presuppone, una conoscenza delle più sicure aspirazioni dell'anima popolare, ma necessità vuole che tali aspirazioni, per quanto incompiutamente espresse, stiano sempre sul piano della realtà, se non si vuole cadere in fallaci anticipazioni o inchinarsi a miti preconcetti. Sotto tale aspetto è sempre vera la differenza che corre fra una costituzione e un programma, quella esprimendo le esigenze del presente, questo essendo rivolto al futuro.

Il secondo rilievo, logicamente connesso al precedente, è poi questo: che in regime di libertà una Carta, per rispondere alla sua funzione costituzionale, non deve rappresentare la prevalenza di ideologie di natura particolaristica, bensì costituire un equilibrio organico fra le tendenze medie, storicamente dominanti. Nessuna corrente sociale può sovrapporsi alle altre, se si vorrà fare opera di sintesi, espressione di vita. Questa appare la sola via per intendere il senso di grandezza spirante da una costituzione, destinata a segnare il dominio della ragione nella lotta politica.

2. — Stando a questi criteri, l'ordinamento dell'impresa dovrebbe snodarsi attraverso la naturale trafila della sua evoluzione, movendo dalla considerazione della tradizionale impresa individualistica, da armonizzare nella nuova struttura dell'aggregato sociale, per giungere sino alle ultime ipotesi di impresa collettivista, che possono esercitare una forza di suggestione nel mondo contemporaneo.

Punto di partenza di ogni disciplina appare pertanto il riconoscimento di un'esigenza essenziale: la libertà dell'iniziativa economica. Se è vero che l'uomo sta al centro della vita associata, come causa prima e scopo ultimo, ne deriva che lo Stato, necessario tutore del diritto, non può di regola trasformarsi in assuntore dell'economia, se non in quanto la iniziativa privata risulti inadeguata al fine o non rispondente all'interesse pubblico. Ma sino a tale limite, ed entro queste rigorose condizioni, risponde a legge di natura porre come regola l'opera dell'uomo, fonte di energia e molla di progresso. Non si disconoscono con ciò gli aspetti corali della civiltà moderna, ma si rivendica alla personalità umana il titolo di protagonista della storia. Come già osservava il laburista Morrison, non v'è sufficiente motivo per impedire che l'intrapresa privata faccia fin che può, a vantaggio di tutti: il riconoscimento della capacità creativa della persona è segno di libertà civile, dal momento che l'uomo porta in se stesso il crisma della socialità.

3. — Non siamo dunque dinanzi ad un problema di principio, bensì di limiti.

Come il riconoscimento della proprietà privata, espressione insopprimibile della personalità umana, trova il proprio presupposto nella funzione sociale che l'uso dei beni è chiamato ad assolvere, così il diritto all'impresa incontra un limite invalicabile nella funzione di utilità generale che anche la gestione individuale è tenuta ad attuare. Se è vero, come la stessa relazione Pesenti riconosce, che la produzione serve all'uomo e non l'uomo alla produzione, ne deriva sì la legittima pretesa dell'uomo di gestire la produzione, ma a patto che ciò risponda ad un tempo al benessere sociale, senza ledere il diritto naturale di altri uomini, utenti o lavoratori, la cui sicurezza libertà e dignità va costituzionalmente garentita.

Ecco i limiti in atto: onde il discorso qui si dilata in quello del controllo sociale sulla vita economica. A proposito del quale conviene osservare fin d'ora che nella società moderna non si tratta né di irrigidirsi in un incontrollato regime di iniziativa, né di tendere verso un livellatore sistema di interventi: posizioni che, per il loro stesso estremismo, impedirebbero di mirare al vero obbiettivo del domani, consistente probabilmente nel trarre il massimo di vantaggio sociale così dall'iniziativa privata come dall'intervento pubblico, quella sorreggendo con questo, in una nuova sintesi della tradizionale antitesi, composta in una visione organica.

4. — Giungiamo quindi all'ipotesi in cui un'impresa a carattere pubblico, gestita direttamente o indirettamente dalla collettività ovvero sottoposta a controllo, possa sovrapporsi all'impresa privata.

Non si esclude, né si paventa questa eventualità: la si invoca anzi come rispondente a giustizia, tutte le volte che, in difetto di altra soluzione, le esigenze del bene comune strettamente impongano che la collettività richiami a sé quelle funzioni cui il singolo non riesca da solo con vantaggio a rispondere. In tal caso la regola dell'iniziativa non può non subire eccezioni profonde. Al soggetto di diritto privato è destinato a subentrare un soggetto di diritto pubblico. All'interesse immediato del singolo succede una finalità nuova, per cui il processo produttivo e distributivo di beni o servigi, andando a beneficio diretto della stessa collettività cui l'impresa è devoluta, esclude uno scopo lucrativo dell'individuo.

Che gli ordinamenti contemporanei siano chiaramente incamminati su questa strada, sembra superfluo sottolineare. Nel corso di tale processo l'Italia non appare seconda, né alla Francia democratica, né all'Inghilterra laburista o ad altre nazioni di tendenza socialista. Il nostro paese, cui sono dovute storiche esperienze di socializzazione, dal disegno di legge Majorana del 1903 sulla municipalizzazione dei pubblici servizi a quello Gianturco del 1907 sull'esercizio di Stato delle ferrovie, occupa oggi posti di avanguardia, sia con la creazione di istituti di interesse nazionale nel settore del credito o in quello minerario, sia con il controllo industriale da parte dello Stato mediante partecipazioni azionarie o forme miste di società concessionarie o sovvenzionate. Ma, se competerà alla legge meglio determinare le modalità attraverso cui potrà in avvenire svolgersi il complesso fenomeno della socializzazione, spetta invece alla Costituzione segnare le linee maestre entro cui tale disciplina dovrà attuarsi.

Due vie qui si presentano: l'una analitica, l'altra sintetica. Se si volessero specificare i vari presupposti che legittimano il processo di socializzazione, occorrerebbe far capo a concetti di ordine qualitativo e non quantitativo, tenendo presenti più ipotesi, fra cui dominanti quelle nelle quali l'impresa, per il fatto di concernere servigi pubblici essenziali o di costituire strumento di monopolio individuale, trascende l'ordine privato sì da toccare l'interesse diretto e preminente della collettività: in tali casi non è concepibile che si formi o perduri una situazione di privilegio dell'uomo sull'uomo o dell'individuo di fronte allo Stato.

Se invece si volesse esprimere un criterio sintetico, anche allo scopo di evitare una casistica necessariamente incompiuta, basterebbe far capo al concetto sovrastante del bene comune, idoneo, per la sua stessa forza comprensiva, ad abbracciare con precisione le complesse esigenze di ordine tecnico, economico e sociale, solamente in vista delle quali può imporsi, in determinato momento, il passaggio dalle forme di economia privata a quelle pubbliche.

Nel testo di una Costituzione, naturalmente destinata a predisporre le riforme speciali, converrebbe infine precisare due concetti: l'uno che potrebbe dirsi restrittivo, l'altro estensivo. Il primo è che ogni devoluzione di attività economica dal singolo alla collettività deve venire sottratta alla discrezionalità del potere esecutivo per essere accompagnata dalle garenzie della legge. Il secondo è che, stando ai dati della esperienza, può essere più utile che la devoluzione, secondo le esigenze del caso, avvenga ora in una forma o nell'altra, diretta o indiretta, ovvero nei confronti di questo o di quel soggetto, dalla collettività nazionale a quella regionale o municipale, dallo Stato ad altri enti pubblici: sotto tale aspetto sembra opportuno che la Costituzione, pur fissando le direttive, lasci la via aperta alla legge, contemplando il fenomeno della socializzazione sotto la terminologia generale della impresa pubblica ovvero collettiva, rispettivamente contrapposta a quella privata o individuale.

5. — Ma non basta questo dualismo. Fra le figure dell'impresa a base individuale ovvero collettiva può inserirsi un'ipotesi intermedia, perché atta a collocarsi fra le prime due come tertium genus: l'impresa in forma cooperativa.

Questa, se poggia sull'iniziativa individuale dei compartecipi, si risolve tuttavia in un esercizio collettivo, mirando a sostituire allo scopo di lucro dell'impresa capitalistica una diversa finalità distributiva, per cui destinari dei beni o dei servigi diventano gli stessi soggetti della gestione, lavoratori o utenti, immessi nella comproprietà dell'impresa. Si prospetta così una forma di economia associata, movente dall'autogoverno delle categorie e mirante sul piano economico alla eliminazione degli intermediari, nonché sul piano sociale all'incontro fra le classi. Ne deriva un'ipotesi che potrebbe dirsi di socializzazione privata, volontaria e non coatta, nascente per negozio anziché per legge, in armonia di quanto intravedeva lo stesso Proudhon a proposito di una socializzazione da attuarsi contrattualmente.

Posta su questo piano, la cooperazione diventa ben degna di essere menzionata in una Carta costituzionale, quale strumento di evoluzione dalla civiltà capitalistica, secondo quanto auspica anche la relazione Canevari; ma ciò a patto che essa risponda effettivamente ad una funzione mutualistica, che risulti idonea a vivere di vita propria, che non si presti a maschera di formazioni fittizie o fraudolente. Sembra chiaro che a questo fine la legge dovrà sagacemente svincolare la società cooperativa dai più ristretti schemi della disciplina civilistica, per conferirle il respiro adeguato ad una funzione che ha ormai rotto l'involucro della società privata. Le agevolazioni che potranno essere introdotte dall'ordinamento giuridico, allo scopo di favorire gli sviluppi del cooperativismo, dovranno tendere non già a creare situazioni parassitarie o di privilegio, bensì a ristabilire un equilibrio turbato nella concorrenza dell'impresa cooperativa o artigiana verso quella capitalistica.

Tali innovazioni troveranno peraltro il loro naturale contrappeso nel futuro congegno dei controlli di merito, che converrà deferire non tanto allo Stato, assuntore dei controlli di legalità, quanto ad organi collegiali rappresentativi della stessa vita cooperativistica, utilizzando forse l'esperienza austriaca sulle funzioni revisionali e quella americana sugli enti fiduciari. Il problema dei rapporti fra Stato ed economia potrà così essere risolto, ancora una volta, contemperando libertà e socialità: non forme compressive di statalismo, bensì sano decentramento economico, da armonizzarsi con un'organica concezione del decentramento amministrativo.

6. — Nella trilogia in cui tende in tal modo a svolgersi un ordinamento moderno dell'impresa, meriterebbe ancora considerazione un tema di particolare rilievo: quello della partecipazione dei lavoratori alla vita dell'azienda.

Le tendenze verso il partecipazionismo, pur potendo riguardare imprese private e pubbliche, assumono particolare risalto nell'ambito dell'impresa a base individualistica, dove stanno a significare il grado di socialità che questa è atta a realizzare, aprendo l'accesso a quelle forze del lavoro che dell'azienda sono fondamento e nerbo. Ma per giudicare del fenomeno in sede di Costituzione, conviene tener conto della diversa realtà che può essere contenuta in una espressione non univoca.

Di partecipazione può essenzialmente parlarsi in un triplice senso: in relazione alla titolarità dell'impresa, all'esercizio, agli utili.

Sotto il primo aspetto, non potrebbe che essere favorito, almeno in linea di tendenza e con le opportune cautele, un graduale processo di elevazione del lavoro sino alla comproprietà dell'azienda. Lo strumento dell'azionariato nel settore industriale e l'istituto del riscatto in agricoltura stanno a dimostrare le possibilità di tradurre in atto l'idea. Trasformare i proletari in proprietari: ecco una mèta che nessun progressismo sociale può omettere, se non smentendo se stesso.

Più delicato ancora, sebbene più contingente, è forse il discorso in tema di partecipazione dei lavoratori all'esercizio dell'impresa. La proposta di contemplare nella Carta costituzionale i consigli di gestione, concepiti come organismi paritetici di lavoratori e datori di lavoro con funzioni vincolanti, urta contro l'obiezione di principio che l'unità dell'impresa non può consentire il coevo funzionamento di più organi deliberativi, quali un consiglio di amministrazione il cui potere sia equilibrato dalla correlativa responsabilità, e insieme un consiglio di gestione che tenda naturalmente a sovrapporvisi: e ciò per l'inconciliabilità, logica e pratica, dell'esercizio di due poteri dove uno solo è il comando. Non sia senza significato ricordare che la riforma del 1934 alla Costituzione sovietica, secondo la esperienza quivi fatta sui consigli di gestione, ne contempla la soppressione, almeno nei termini ora sostanzialmente enunciati. Non si vuole con ciò escludere la possibilità di una diversa soluzione del problema. L'esigenza di dar luogo ad una rappresentanza del lavoro nell'esercizio dell'azienda è forse armonizzabile con la necessità di preservare il potere direttivo dell'imprenditore responsabile: e ciò attraverso più vie contemporanee, tanto più efficaci quanto più organicamente considerate, apparendo esse destinate ad integrarsi vicendevolmente, non già ad essere viste l'una avulsa dall'altra, per comodità dialettica che tradisce la vita. Basti infatti pensare a due ipotesi: la possibilità di un'opportuna immissione delle forze rappresentative del lavoro nello stesso organo responsabile della amministrazione, e la contemporanea costituzione di organismi collaterali di efficienza, aventi funzioni di consulenza tecnica, secondo quanto ammonisce l'esperienza dei comitati misti di produzione nell'ordinamento anglo-americano.

Infine, come ultimo punto, resterebbe la partecipazione del lavoratore agli utili dell'impresa. Non si pretende considerare questa ipotesi quale strumento primario o meta ultima nella lotta per la redenzione degli umili. Ma si pensa che l'idea della cointeressenza possa tuttora offrire delle possibilità feconde, soprattutto se vista in rapporto di interdipendenza con altre forme di partecipazione. Né vale obbiettare che il sistema sia atto a determinare quasi un fenomeno di imborghesimento della classe lavoratrice, incrinandone l'unità e legandola alle sorti dell'azienda capitalistica. A tacere altro, l'obbiezione peserebbe solamente nel caso in cui noi mirassimo ad una esasperazione piuttosto che ad un superamento della lotta fra le classi. Ma essa si spunta per chi concepisca anche la cointeressenza come strumento di miglioramento sociale, e quindi la inquadri in un più vasto processo, culminante non in sistemi di statizzazioni livellatrici, bensì nelle più alte forme di elevazione del lavoro, atto domani ad essere immesso nella titolarità stessa dell'impresa col nuovo ruolo di compartecipe del processo produttivo, protagonista del proprio destino.

* * *

Se si volessero tradurre i principî in norme, converrebbe anzitutto sgomberare il terreno considerando in sede separata il fenomeno della partecipazione che, per il particolarismo cui dà luogo, appare meritevole di essere disciplinato in successive riforme, mentre la Carta costituzionale dovrebbe limitarsi a riconoscere il diritto del lavoro di partecipare alla vita dell'azienda nelle forme che saranno stabilite per legge.

Concentrato così il problema normativo negli aspetti essenziali dell'organizzazione dell'impresa, sembrerebbe opportuno affermare come punto di partenza il riconoscimento della libertà d'iniziativa, per scendere quindi alla disciplina costituzionale della triplice forma di impresa, individuale, cooperativa e collettiva.

Di qui la proposta del seguente articolo:

«L'iniziativa privata è libera. Le imprese economiche possono essere individuali, cooperative, collettive.

«L'impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

«L'impresa cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita per legge. Lo Stato ne agevola l'incremento con i mezzi più idonei.

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge, previo indennizzo del titolare, devolve l'impresa, in forme di esercizio diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti