[Il 17 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l'onorevole Benvenuti. Ne ha facoltà.

Benvenuti. Onorevoli colleghi, rileggo il testo dell'emendamento che avrò l'onore di svolgere dinanzi all'Assemblea:

«Sostituire l'articolo 6 col seguente:

«La Repubblica riconosce e garantisce l'autonomia, la libertà e la dignità della persona umana come diritti naturali e inalienabili.

«Essa riconosce e garantisce altresì i diritti essenziali delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità di ciascun uomo».

Premetto, onorevoli colleghi, che questo emendamento non rappresenta la presa di posizione di un partito; rappresenta la difesa di un patrimonio comune a tutti gli uomini liberi. Io levo la mia parola in difesa dei diritti naturali originari, inalienabili della persona umana. La mia difesa si riallaccia ad un'altra difesa dei diritti dell'uomo, svolta nel parlamento italiano. Dobbiamo risalire al novembre del 1925. Allora la stessa causa veniva sostenuta, non da un modesto Deputato, ma da un giurista insigne, da una splendida coscienza e da un inflessibile antifascista, il senatore Francesco Ruffini. È questa per me una ragione di conforto, in quanto conferma il mio convincimento di difendere una causa giusta. Riprendere la battaglia per i diritti dell'uomo è un dovere, data la formulazione dell'articolo 6 del testo costituzionale. Mi si consenta un richiamo ai precedenti della nostra discussione, discussione generale, e discussione della parte generale del progetto di Costituzione. Tutti gli oratori hanno rievocato le classiche dichiarazioni dei diritti dell'uomo; tutti le hanno considerate come acquisite al nostro patrimonio giuridico e morale; tutti hanno ritenuto che, dal 1700 in poi, noi abbiamo acquistato coscienza di nuovi diritti della persona umana, cioè di quelli che oggi noi chiamiamo i diritti sociali. Sostanzialmente, impostando il problema dei diritti sociali, noi abbiamo impostato nella Costituzione il problema della redenzione delle classi proletarie. Redemptio proletariorum: l'espressione non è mia, è di un grande pontefice. Essa significa che tutti gli uomini e in particolare tutti i cristiani (ed i cristiani non si esauriscono in una particolare formazione, poiché anzi il Messaggio cristiano vive e opera anche oltre i confini della Chiesa visibile) sono chiamati a collaborare alla creazione di un mondo nuovo e migliore ove regni la giustizia e la fraternità.

Per questo scopo, naturalmente, abbiamo dovuto procedere ad una specie di parziale demolizione del sistema del nostro diritto privato. Ciò abbiamo consacrato nel nostro progetto costituzionale: la proprietà vi è garantita, ma essa assomiglia ormai, più che ad un istituto di diritto privato, ad una cellula fondamentale d'una società solidaristica. E così procedendo il progetto costituzionale muove al superamento di altri ostacoli di diritto che potrebbero frapporsi alla realizzazione da un assetto nuovo. Ed ecco che un articolo autorizza dei limiti al diritto di proprietà, un altro parla della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende: e il tutto è coordinato verso un sistema di attuazioni di carattere sociale (lavoro, scuola, assistenza, ecc.), che potrà veramente mutare il volto delle società italiane.

E su tutto questo nessun disaccordo sostanziale è insorto. Vi sono è vero i problemi della formulazione. Quando, anziché limitarsi ad impedire allo Stato di invadere certe sfere inviolabili (come la libertà dei cittadini), ci si propone di ottenere dallo Stato l'esecuzione di certe posticce attività sociali, sorgano problemi delicati: problemi di rapporti fra potere legislativo e potere costituente, fra il programma sociale e l'attuale realtà economica. La buona volontà di tutti potrà superare questi problemi, e dal testo costituzionale potrà uscire un messaggio unanime di profonda, di intensa fraternità per tutti gli italiani.

Sennonché, a me non è parso, ascoltando i vari oratori, che la formulazione di questa fase di diritti nuovi dovesse significare l'oblio o la perdita, anche solo parziale, delle classiche libertà fondamentali, di quelli che si chiamano i diritti di libertà, proclamati nella seconda metà del 700 e formulati nelle famose dichiarazioni di diritti.

Sennonché, leggendo il testo dell'articolo 6 si ha la sensazione precisa che tutta la sostanza della dichiarazione dei diritti sia andata radicalmente perduta. Infatti, onorevoli colleghi, basta leggere l'articolo stesso per convincersene.

Qual era la sostanza delle vecchie dichiarazioni dei diritti? Era che i diritti fondamentali dell'uomo (libertà della persona, di coscienza, di espressione, di associazione, di partecipazione alla vita politica) venivano proclamati come diritti originari della persona umana, non conferiti dallo Stato, indipendenti dal diritto dello Stato, indipendenti dallo Stato come fonte di diritto.

Ecco perché allora furono chiamati diritti naturali.

Di tutto questo, onorevoli colleghi, non c'è più traccia nell'articolo 6; il quale garantisce i diritti essenziali degli individui, ma è tutt'altra cosa. Anche le costituzioni elargite dai sovrani del secolo scorso garantivano i diritti, ma non li riconoscevano.

Notasi bene che l'articolo usa bensì i termini «inviolabile e sacro», ma tutto è portato sul piano metafisico, astratto; tanto vero che, eccezione fatta per la famiglia e il lavoro, in tutti gli articoli nei quali è trattata la materia dei diritti non si usa mai il verbo «riconoscere». E la conferma di questa interpretazione la troviamo nel testo originario della Sottocommissione: dove la sostanza della dichiarazione era rimasta, perché si proclamava che la Costituzione «riconosce» e garantisce i «diritti inalienabili e sacri» dell'uomo come singolo e nelle formazioni sociali. Il testo originario conteneva dunque il riconoscimento dei diritti. La modificazione intervenuta sembra significare che non si è voluto riconoscere i diritti dell'uomo; ma si è voluta soltanto una semplice, vaga enunciazione di principio.

Vogliano darmi venia gli onorevoli colleghi: io sono un fanatico dei diritti dell'uomo. Forse la parola fanatico non è appropriata alla serenità di questa Assemblea. Dirò allora che sono un romantico dei diritti dell'uomo, e permettete, colla vostra indulgenza, che io faccia risuonare in quest'Aula il testo delle antiche, delle classiche dichiarazioni dei diritti dell'uomo, di quei documenti venerandi, augusti, che hanno creato la storia, e commosso tanti cuori.

La Costituzione americana dei 13 Stati dice: «Noi consideriamo come incontestabile ed evidente la seguente verità, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, e fra questi in primo luogo la vita, la libertà, la ricerca della felicità».

La Costituzione dello Stato di Virginia proclamava: «Tutti gli uomini sono di natura, ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati di cui, entrando nello stato di società, non possono privare o spogliare la loro personalità».

E negli articoli aggiuntivi della Costituzione federale si proclamava il concetto d'intangibilità dei diritti umani da parte del potere legislativo: «Il Congresso non farà legge alcuna per istituire una religione o per proibire o restringere la libertà di parola o il diritto del popolo di ordinarsi pacificamente».

Questi sono i testi fondamentali della Costituzione americana.

Passando poi alle dichiarazioni della Francia rivoluzionaria ritroviamo gli stessi concetti. «Il potere legislativo — stabilisce la Costituzione del 1791 — non potrà fare legge alcuna che porti attentato o metta ostacolo all'esercizio dei diritti naturali garantiti dalla Costituzione. Il Governo è costituito per garantire il godimento dei diritti naturali dell'uomo».

Onorevoli colleghi, di tutto questo non c'è più traccia nell'articolo 6. Anzi la storia dell'articolo dimostra che non si è voluto accedere al riconoscimento dei diritti dell'uomo come diritti originari e indipendenti dai poteri dello Stato.

Naturalmente, quando, dopo l'epoca rivoluzionaria, venne l'epoca del cesarismo, si spensero i diritti dell'uomo. Nella stessa Costituzione termidoriana, la dichiarazione dei diritti dell'uomo si attenua, è sommersa nella legislazione imperiale.

Risorge nel 1814, quando Luigi XVIII elargisce la nuova costituzione, la Costituzione «octroyée». In questa Costituzione i diritti dell'uomo sono garantiti, ma non riconosciuti nel loro valore e carattere originale. Tanto è vero, che quando nel 1830 sopravviene la monarchia di luglio, con la dichiarazione del 7 agosto 1830 la Camera dei Deputati pronunzia un voto perché venga abolito il preambolo della Carta costituzionale del 1814, ritenendo offensivo della dignità nazionale che venissero concessi ed elargiti ai francesi dei diritti che loro già appartenevano originariamente.

Vi chiedo, onorevoli colleghi, se la nostra sensibilità di uomini liberi debba essere inferiore a quella dei deputati francesi della Monarchia di luglio, o se non dobbiamo invece ritenere offensiva per la nostra dignità di uomini e di cittadini la formulazione dell'articolo 6, nella quale i diritti dell'uomo sembrano elargiti e non riconosciuti.

È proprio contro questa offesa ai diritti fondamentali che levò la sua parola, nel 1925, il senatore Francesco Ruffini. Allora, chi recalcitrava al riconoscimento dei diritti dell'uomo, come diritti originari e inalienabili, era il guardasigilli fascista onorevole Alfredo Rocco. E quella seduta è stata non soltanto uno scontro di due dottrine, ma di due uomini. Il senatore Ruffini polemizzò infatti personalmente col ministro Rocco, che a Perugia aveva pronunziato un discorso, contro il quale appunto il Ruffini insorgeva.

Anche la libertà — aveva detto Alfredo Rocco — è una concessione dello Stato; le libertà quindi, ove vengano riconosciute, non sono che un riflesso dei poteri dello Stato. Contro questa argomentazione di pura marca teutonica, il senatore Ruffini contrapponeva i diritti di libertà; egli contestava che i diritti di libertà potessero essere dei diritti riflessi di quelli dello Stato; e riaffermava solennemente l'intangibilità e l'imperscrittibilità dei diritti del cittadino, i quali scaturiscono dalla concezione più profonda e più moderna della dottrina dello Stato: il quale, prima di essere fonte di diritto, è ordinamento del diritto, di quel diritto che ha una sua origine autonoma.

Soltanto in un secondo tempo sopravviene la legge, come manifestazione secondaria e tardiva; e viene elaborata la norma scritta per opera dello Stato.

Questa era, onorevoli colleghi, la parola accorata del grande giurista, il quale lamentava allora che le vecchie screditate concezioni germaniche potessero tornare alla base del diritto costituzionale italiano. Oggi, onorevoli colleghi, di fronte alla trasformazione sostanziale del testo dell'articolo 6, dalla quale si rileva che si è espressamente voluto disconoscere i diritti dell'uomo come diritti originari indipendenti dallo Stato, viene fatto di chiedersi se il germanesimo, due volte sconfitto, non si annidi ancora nelle pieghe del nostro testo costituzionale, con le sue teorie liberticide e il suo fatale spirito di regresso.

È contro questa eventualità che io levo la mia parola, onorevoli colleghi. Possono sussistere dubbi giuridici circa l'ammissibilità dei diritti fondamentali dell'uomo come diritti autonomi, anziché come diritti dello Stato? Io non lo ritengo, onorevoli colleghi. Premetto che io credo nei diritti di natura: ciò fa parte della mia concezione cristiana e spiritualistica della vita, ma i diritti dell'uomo, come diritti precedenti a qualsiasi diritto codificato in qualsiasi Costituzione, emergono sul piano scientifico, sul piano della scienza del diritto, indipendentemente dalle concezioni del diritto naturale. Il concetto di diritto naturale ha questa caratteristica: basta dare una scorsa al diritto pubblico moderno per rendersene conto. La scienza del diritto pubblico, si può dire (press'a poco), dalla metà del secolo scorso ha dato battaglia contro il diritto naturale. Ma il diritto naturale scacciato dalla porta, è sempre regolarmente rientrato dalla finestra. Non vi nascondo, egregi colleghi, il mio stupore quando pochi giorni or sono ho sentito l'onorevole Orlando, il nostro così amato e insigne maestro, proclamare in quest'Aula: «Ma che cosa significa che la famiglia è un istituto di diritto naturale?» Io mi sono affrettato, onorevoli colleghi, a studiare la questione proprio sui testi dell'onorevole Orlando; e permettetemi che vi legga una considerazione contenuta in uno studio del 1933, intitolato: «Teorie giuridiche dello Stato». È da notare che opere ciclopiche come quella dell'onorevole Orlando possono presentare diverse maniere, proprio come i grandi pittori: può darsi che questa sia l'ultima maniera dell'onorevole Orlando. Comunque vi leggo il testo; allude espressamente alla famiglia. Scrive Orlando: «Nessuno può seriamente credere che se in Italia il padre ha il diritto e l'obbligo di educare la prole, ciò si debba agli articoli 225 e seguenti del Codice civile... Lo stesso deve dirsi in generale per tutto il diritto; e ciò importa che quando uno Stato positivo stabilisce il suo ordinamento, esso si muove entro limiti predeterminati dalle condizioni svariate e complesse della coscienza giuridica».

Qui, onorevoli colleghi, abbiamo la restaurazione del diritto naturale sulla forma positiva. Il concetto è evidente: prima dello Stato, indipendente dallo Stato, esiste un diritto acquisito dei cittadini, e della famiglia in particolare, che resiste al diritto dello Stato, di fronte al quale lo Stato non ha libertà di scelta; nel quale, quindi, il diritto dello Stato non può e non deve intervenire; e, ove lo faccia, lo farà in virtù della forza di coazione di cui è munito, ma violando il diritto. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, l'articolo 147 del Codice civile fascista, ove si diceva che l'educazione e la istruzione della prole devono essere conformi al sentimento nazionale fascista: il che significava che i genitori italiani, per essere in regola con la legge, dovevano educare i loro figliuoli a detestare la libertà e a servire l'oppressione. Queste sono le aberrazioni a cui può arrivare una legislazione, quando dimentichi che la famiglia è una società di diritto naturale.

Il concetto che il diritto naturale risorge in nuova forma nella scienza del diritto pubblico moderno è rilevato dallo stesso Orlando in altri casi, dove egli studia altri autori di diritto pubblico, i quali ripudiano il diritto naturale come introduzione del soprannaturale nella scienza, e poi ritornano a dire quello che le vecchie concezioni del diritto naturale già avevano rilevato, cioè che alla base della società e prima della società vi è una norma che regola le associazioni elementari dell'uomo e ne costituisce il diritto di fronte al quale lo Stato è originariamente limitato. Questo è il concetto moderno e scientifico dei diritti fondamentali dell'uomo e del cittadino.

Naturalmente, onorevoli colleghi, anche in Germania si è verificato questo fenomeno: cioè, appena è sorto l'astro bismarckiano questo ha trovato, come tutte le tirannidi, i suoi filosofi, i suoi teorici e i suoi giuristi. Ed abbiamo tutta la scuola classica del diritto germanico, i grandi autori, che sostenevano che di diritti dell'uomo, dell'individuo, non c'è neppure da discutere; tanto che uno di tali autori si scandalizzava, perché il diritto penale italiano tutela la libertà dei culti, e sosteneva che non si potesse parlare di questo tipo di libertà. Intanto si emettono cambiali e si fondano società anonime, in quanto lo Stato crea la rispettiva legge, e i diritti della persona, e la libertà di culto, e tutte le libertà sono ammesse nello stesso senso, cioè in quanto esistono le relative leggi dello Stato.

Ma la stessa Germania è andata liberandosi da questi funesti principî, e già alla fine dell'altra guerra e durante il periodo della Repubblica di Weimar, queste concezioni statolatriche erano in declino. Naturalmente, risorta la dittatura, arrivato al potere Hitler, si è avuta l'esasperazione della statolatria germanica. Se scorrete il diritto pubblico nazista, vedrete che non soltanto non sono considerati i diritti della persona, ma per tale concezione la persona isolata non esiste, esiste solo il diritto della comunità, il quale si riflette sulla persona.

Onorevoli colleghi, io vi chiedo se sia possibile che di fronte a questo problema, se cioè i diritti dell'uomo siano diritti originari o se debbano considerarsi come elargiti dallo Stato, la nostra Assemblea e il nostro testo costituzionale possano rimanere neutri.

In altre parole, tra l'emendamento proposto e il testo dell'articolo 6 come progettato, c'è la stessa distanza che esisteva fra la dottrina di Alfredo Rocco e la dottrina di Francesco Ruffini.

Riconosciamo che i diritti dell'uomo sono originari e non sono conferiti da questa Costituzione, o riteniamo che i diritti dell'uomo in tanto esistono in quanto esiste un testo positivo che li conferisce? Io non posso dubitare sulla scelta da parte dell'Assemblea a questo riguardo. In sostanza, noi cittadini dell'Italia libera, repubblicana, antifascista, non chiediamo la elargizione di una nuova Costituzione, di un nuovo Statuto, chiediamo che la Repubblica riconosca i nostri diritti come già a noi originariamente spettanti, e come diritti preesistenti allo Stato e non tali da trovare la loro fonte nella sua attività legislativa.

Notiamo poi l'assurdo di una Costituzione che concedesse ai cittadini italiani quei diritti di cui sono già titolari, in forza dello stesso diritto costituzionale positivo. Per ottenere i diritti fondamentali di libertà non abbiamo bisogno della nuova Costituzione.

Mi si consenta di rammentare il pensiero di Cavour, il quale fin dal marzo del 1848, in un articolo sul «Risorgimento», scriveva che i principî fondamentali stabiliti dallo Statuto dovevano considerarsi perpetui ed irrevocabili in questo senso: che quelle libertà potevano essere allargate, potenziate, meglio garantite, ma non mai limitate. Quindi, è in base al vecchio Statuto che i cittadini italiani hanno la facoltà di ritenere a sé acquistate le libertà fondamentali e di ritenersi lesi nel loro diritto acquisito qualora la Costituzione non riconosca loro ciò di cui sono già titolari.

Ma non è questo il problema: non è al diritto positivo che io mi rifaccio. Mi rifaccio ai principî: se i diritti di libertà sono stati concessi nel 1848 dal regno sardo e poi estesi a tutte le province annesse al Piemonte, oggi è la Repubblica che deve riconoscerli indipendentemente da qualsiasi concessione, come diritti nostri, intangibili, imprescrittibili ed inviolabili.

Ecco, onorevoli colleghi, lo spirito ed il concetto del mio emendamento. A questo punto il mio dire dovrebbe inoltrarsi in nuovi svolgimenti: dovrei cioè, rifacendomi a quanto ha proposto l'onorevole Calamandrei, illustrare la necessità di sottrarre a qualsiasi procedimento di revisione costituzionale i diritti fondamentali dell'uomo. Condivido pienamente quest'ordine di idee; ma non chiedo di svolgerlo qui, perché il tempo stringe, e questa non è ancora la sede opportuna.

Mi si consenta solo un'osservazione: non esitiamo, onorevoli colleghi, ad introdurre nella nostra Costituzione delle norme giuridiche nuove rispetto alle altre Costituzioni.

Permettete che vi rammenti quanto scriveva cinque o sei anni fa un grande maestro di diritto, il professore Francesco Carnelutti. Egli osservava che noi ci preoccupiamo, e giustamente, di estendere le nostre esportazioni: e rilevava in proposito che c'è una cosa che possiamo sempre esportare e che trova rispondenza nella nostra migliore tradizione: il diritto».

Onorevoli colleghi, affermiamo dunque i diritti dell'uomo, riconosciamoli, muniamoli di una tutela sempre più intensa ed efficace. Proclamiamo, coi nostri testi costituzionali e soprattutto coll'esempio, dinanzi al mondo i principî del vivere libero. Con questo non soltanto avrà la nostra giovane Repubblica restituita la persona umana al posto che le compete, cioè al più alto gradino nella scala dei valori, ma avrà reso un nobilissimo servigio alla causa sacra dell'umana libertà. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Fusco. Non essendo presente, s'intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto ha parlare l'onorevole Treves. Ne ha facoltà.

Treves. Onorevoli colleghi, forse non sarebbe soltanto un pedantesco ricordo di scuola inserire in questa discussione un precetto del Machiavelli, «quelle buone leggi e quelle buone armi» poste dal Fiorentino a fondamento di ogni vivere civile.

Ma io lo farò solo per dire quanto caduca sia la seconda parte del precetto machiavellico e come invece debbano rifulgere «le buone leggi» a dar vita e fondamento ad ogni ordinato vivere di cittadini. Specialmente questo precetto mi sembra valevole per noi, che in questa Aula cerchiamo appunto di creare quelle buone leggi su cui deve per sempre fondarsi la nostra nuova Repubblica italiana. Ma il ricordo machiavellico mi viene suggerito, per contrapposto alle buone armi, proprio da un articolo del progetto di Costituzione che ci sta di fronte, quell'articolo 4 su cui io vorrei soffermarmi un istante, l'articolo per cui appunto le buone leggi dovrebbero per sempre escludere il ricorso alle armi.

È un articolo, nel suo spirito almeno, cui noi attribuiamo un'importanza fondamentale. A noi sembra di vedere in esso — nel suo spirito, se non ancora nella sua lettera — uno dei fondamenti principali su cui costruire il nuovo edificio italiano.

Già l'articolo 4 ha dato luogo ad una discussione elevata ed interessante in questa Assemblea, già si sono manifestati alcuni dubbi, già si sono avute alcune proposte di revisione, di modificazione, di emendamenti, ed è su queste proposte, e soprattutto sullo spirito di esse e su questi emendamenti, che prima di entrare nel vivo dell'argomento io desidererei soffermarmi un istante.

L'onorevole Russo Perez, che mi dispiace di non vedere al suo banco, è stato forse l'unico che ha introdotto una nota discorde — non voglio certo dire una nota stonata — proponendo addirittura di sopprimere questo articolo, forse per la difficoltà in cui egli si era trovato di distinguere fra guerre giuste e guerre ingiuste.

Egli, in fondo, ci ha detto che sono giuste tutte le guerre che si vincono e sono ingiuste tutte le guerre che si perdono. Non vorrei, data appunto l'assenza dell'onorevole collega, discutere questa sua opinione, che evidentemente si presterebbe a parecchie considerazioni, e non voglio neanche che l'onorevole Russo Perez si affatichi a studiare dal Medioevo in poi tutte le opinioni avanzate da teologhi, da politici e da filosofi sulle guerre giuste e ingiuste.

Del resto, l'onorevole Russo Perez non ha forse molta speranza che la sua proposta di soppressione venga accettata, perché egli stesso, in via subordinata, ha proposto un emendamento, piuttosto generico, in cui si dice che l'Italia condanna il ricorso alle armi nelle controversie fra le nazioni. Noi ne apprezziamo senza dubbio lo spirito, ma la Costituzione non è una specie di libro della discrezione, una raccolta di precetti morali, per cui si condanna in astratto una determinata norma, un determinato modo di procedere. La Costituzione è la legge, anzi la legge fondamentale, che permette o non permette, e non giudica sulla bontà morale, sulla bontà in astratto di determinate norme.

Tuttavia l'opinione dell'onorevole Russo Perez è già un passo avanti su quella espressa dal suo collega di Gruppo, onorevole Bencivenga, che anche mi dispiace di non vedere in quel settore deserto che mi sta di fronte. L'onorevole Bencivenga è una nobile figura di soldato, ma ha portato qui nella sua analisi dell'articolo 4, collegato con altri articoli attinenti a materie militari, una mentalità appunto più da soldato che da legislatore, ed ha proposto, fra l'altro, la costituzione di un comitato di esperti, militari e di altre specialità, per disciplinare tutta questa materia della Costituzione. È una proposta che, se fosse accolta, probabilmente ci farebbe rimanere qui parecchi anni e non solo fino al 25 giugno. E poi io vorrei, col permesso degli onorevoli colleghi e senza la minima irriverenza per l'onorevole Bencivenga, ricordare al valoroso soldato un motto, del resto molto noto di un grande uomo politico francese, non di sinistra, il quale durante l'altra guerra sosteneva che «la guerra è una cosai un po' troppo seria per essere lasciata soltanto ai generali».

A noi preme quindi che questo argomento, che questo articolo della Costituzione, non sia specialmente affidato ai generali, ma se mai sia commesso alla coscienza civile di tutti i cittadini italiani. I generali spesso (sia detto, ancora una volta, senza la minima irriverenza personale per l'illustre collega che mi dispiace di non vedere qui) ragionano spesso della prossima guerra con la mentalità della guerra precedente e allora siamo veramente un po' fuori tema.

Anche l'onorevole Crispo si è voluto occupare di questo articolo ed ha suggerito una modificazione che ci trova più vicini, più consenzienti. In sostanza, l'onorevole Crispo propone di ritornare alla grande tradizione costituzionale francese in materia. Ed il suo emendamento riproduce, se non nella forma, nella sostanza, l'articolo 46 del primo progetto costituzionale francese che ritroviamo nel preambolo della Costituzione della repubblica francese. È esattamente lo stesso concetto, anche se forse la formula francese è leggermente migliore, sia nell'espressione che nella icasticità, poiché meglio afferma il concetto che la Repubblica francese non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo. È un concetto che ci piacerebbe di vedere affermato anche nella nostra Costituzione, perché purtroppo la storia recente prova che ci possono essere attentati alla libertà dei popoli anche senza giungere alla formale dichiarazione di guerra, e nei quali sono coinvolte le forze, anche se non legalmente le truppe, di altri Stati.

Ma noi, onorevoli colleghi, vorremmo qualche cosa di più in questo articolo 4; vorremmo un'affermazione più decisa. Noi auspicheremmo che l'Italia desse l'esempio con questo articolo di quel futuro diritto internazionale, e ancor più direi, costume democratico internazionale, che desideriamo possa un giorno reggere un mondo migliore e più giusto. Vorremmo vedere nell'articolo 4 incorporato il principio che la Repubblica non ricorrerà alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali. Se l'articolo 4 ha un senso, effettivamente esso deve superare questa astratta formulazione che condanna le guerre di conquista, specialmente in questa situazione politica e generale, specialmente dopo quello che è successo in questi ultimi anni, la tragedia di cui siamo ancora tutti pervasi e di cui ancora tutti soffriamo le conseguenze.

Io credo che dobbiamo affermare un principio più positivo, un principio valevole per oggi e per domani. È un principio, signori, che a noi di questo settore è molto caro, perché, veramente, risponde a tutta una tradizione del nostro partito. È un principio che da questi scanni i nostri padri e maggiori hanno sostenuto e difeso sin da prima dell'altra guerra mondiale. È un principio a cui noi teniamo a rimanere fedeli. Non è, come ci si potrebbe obiettare, un principio utopistico. Non si sorrida di questa nostra fiducia nella collaborazione, nell'arbitrato internazionale, non si ripeta quella posizione che era una volta, non troppo tempo fa, così diffusa — quella posizione per cui si sorrideva di compatimento e di superiorità di fronte al briandismo al locarnismo e al ginevrismo — sì, sorrisi che ci hanno purtroppo portati a conclusioni amare.

In quest'articolo noi vorremmo che fosse dalla Repubblica codificato che la guerra non deve essere strumento di risoluzione dei conflitti internazionali, un principio che veramente risponde a quella che è l'essenza della nostra nuova democrazia, quella democrazia che è sorta non da spiriti imbelli, ma proprio al contrario — detesto di fare retorica — dal grande apporto della guerra partigiana.

Anche le obiezioni che potrebbero venire da alcuni internazionalisti — per il principio cioè della bilateralità — non ci spaventano troppo, perché, oltre il diritto, a noi sembra che debba esistere anche la moralità internazionale: un principio che vorremmo vedere nettamente affermato nella Carta costituzionale della Repubblica italiana.

Nella situazione internazionale in cui viviamo, in questo urto di blocchi giganteschi in questo scatenarsi di sfiducia e di interessi reciproci, può essere un nobile compito, per noi italiani, proprio quello di parlare della ragione. E non si dica che con ciò si fa del donchisciottismo inutile; direi, se mai, signori, che così si applica il buon senso di Sancio Pancia, che è una cosa diversa.

Ma sento già sorgere e ritorcersi contro di me un'altra frase machiavellica, poiché ho avuto l'imprudenza di nominare il Segretario fiorentino all'inizio di questo mio intervento: il timore cioè che da noi si suggerisca la figura, e quindi la fine, dei profeti disarmati. Ebbene, signori, anche a questo punto io credo che potremmo ricordare i venti anni durante i quali hanno dominato i così detti profeti armati, profeti che non erano che profeti di menzogna ed armati, appunto, soltanto di menzogne, perché anche le millantate armi si sono fortunatamente spuntate contro l'armatura della coscienza civile del mondo. Su questo terreno dei profeti armati e dei profeti disarmati noi non parteggiamo né per gli uni né per gli altri; ma preferiamo parlare di cittadini veramente consci della loro funzione, in questo mondo in tumulto.

Non è disdicevole, nella nostra piena e riconquistata sovranità, io credo, di inserire questo principio di veramente illuminata democrazia nella nostra Carta fondamentale: principio, del resto, che mi sembra si compenetri perfettamente nella seconda parte dell'articolo 4, quella limitazione di sovranità necessaria, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, ad un'organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. In ogni modo, oltre la dizione formale, noi vorremmo che tale fosse lo spirito di questo articolo che, sul limitare della nostra Carta costituzionale, deve dare veramente il senso e la spiegazione della coscienza profonda del nostro popolo. Vorremmo che esso fosse un'affermazione positiva sul piano internazionale e un'effettiva garanzia di pace, di quella pace, mi si perdoni ancora il ricordo scolastico, che un poeta italiano vedeva sorgere con le ali candide dal sangue versato, ma senza saper rispondere all'angoscioso dubbio del «quando?». Ebbene, signori, forse, quando gli italiani, oltre che cittadini della Repubblica democratica dei lavoratori, si sentiranno anche effettivamente cittadini del mondo. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Mastino Gesumino. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l'onorevole Assennato. Ne ha facoltà.

Assennato. Onorevoli colleghi, desidero intrattenere brevemente l'Assemblea sugli articoli 3 e 4 del progetto di Costituzione. In realtà l'articolo 3 non si presta agevolmente a una discussione, in quanto che esso è stato approvato quasi all'unanimità dalla Commissione. Parmi però necessario sottolineare anche il fatto che l'articolo 3 sia stato approvato col pieno accordo di tutti, sia perché l'accordo va sempre in qualche modo celebrato, perché può determinare conseguenze utili anche per altre disposizioni, sia perché dopo 25 anni di dispregio di tutte le forme di solidarietà internazionale, di retorica, di supremazia di forze, di indifferenza verso forme di solidarietà, parmi che la dichiarazione formulata dall'articolo 3, contenente l'impegno di immettere nel proprio ordinamento giuridico interno le norme generalmente accettate dall'ordine giuridico internazionale, richieda una certa attenzione da parte dell'Assemblea per le conseguenze, anche di carattere pratico, che ne possono derivare, ma soprattutto per l'orientamento che deve generare nella educazione dei giovani.

Vi è qualche cosa di nuovo nell'articolo 3. Il diritto internazionale era concepito e lo è tutt'ora — non direi che si sia molto allontanato dalle forme originarie — come un complesso di norme giuridiche che determinano gli obblighi e i diritti delle classi dominanti, delle unità che compongono la comunità internazionale.

La rinunzia alla guerra, consacrata nell'articolo 4, non va intesa in senso pacifista assoluto, cioè nel senso di rinunzia al diritto ed al dovere di difesa del territorio, dell'indipendenza, della libertà, della Costituzione, ma come ripudio delle guerre di aggressione, di predominio, di compressione della libertà altrui.

Vi è nell'affermazione contenuta nell'articolo 4 qualcosa di nuovo, che, pur ripetendo formulazioni analoghe del Patto di Kellogg, della Costituzione di Weimar o di altre recenti, ha particolare significato per la nostra Costituzione, essendo stati, purtroppo, noi a fare uso ed abuso dell'elemento guerra nella vita tra i popoli. Il che mi porta a rievocare — e di questo dovrebbero prendere atto particolarmente alcuni, che vorrebbero riallacciarsi al passato — l'operato di Giolitti; il quale, ammaestrato dalla facilità con cui il sovrano era propenso ad apporre firme ad atti di dichiarazione di guerra, propose di riformare lo Statuto nel senso di togliere al sovrano la facoltà della dichiarazione di guerra; il che significa che egli, per la conoscenza dell'individuo, delle costumanze sue e della sua dinastia, aveva ben compreso quanto fosse pericoloso l'avere affidato le sorti del Paese a chi non si preoccupava di osservare le norme costituzionali, ma soltanto di trarre profitto dalla dichiarazione di guerra.

Questo non significa, però, che con grande entusiasmo si possa confidare nelle forze innovatrici di questo diritto internazionale, di cui nelle norme generali si fa cenno. Anzi, si potrebbe rievocare la favola di Fedro: Ovis et leo. Nella realtà il leo si fece capo di questa società e perdurano certamente gli elementi della favola di Fedro.

Vi sono, però, nuove correnti, che danno bene a sperare; e questa speranza è realizzata dal comune assenso d'ogni corrente nel dare il proprio voto ad un articolo così formulato.

Queste nuove correnti sono rappresentate dal fatto che nella comunità internazionale non sono presenti soltanto gli elementi che ho citati, ma ve ne sono altri: vi è una serie di Paesi socialisti, i quali portano all'ordinamento internazionale il tributo del loro ordinamento interno, poiché ogni ordinamento riflette la struttura della società di cui è espressione.

Questi Paesi socialisti portano nella comunità internazionale la voce delle classi lavoratrici; portano un tributo di nuova democrazia, di nuovi orientamenti, tanto è vero che deve essere stato accolto con plauso il tentativo, anche se non riuscito interamente, della Federazione mondiale dei sindacati di far parte dell'O.N.U., tentativo che se non è riuscito appieno, non è detto che per questo non abbia una certa influenza e non determini delle simpatie, non determini cioè un apporto maggiore di democrazia, con una più larga base che viene poi espressa nel nuovo ordinamento giuridico internazionale.

Vi è, naturalmente, negli articoli 3 e 4 del progetto un orientamento, una tendenza e un programma, tanto che forse ad alcuni sarebbe parso opportuno comprendere quella formulazione nel preambolo, come orientamento generico richiamato anche da altre Costituzioni, e con la significazione particolare per noi, dopo 20 anni di fascismo, di dare la certezza che la guerra non avrebbe fatto parte del nostro bagaglio politico, e che avremmo cercato di immettere nel nostro ordinamento quanto potevamo di meglio delle norme internazionali generalmente accettate.

Si è ritenuto meglio di procedere, non ad una formulazione generica, ma precisa, impegnativa che serva come programma, come tendenza, come orientamento. Certo queste norme non sono ancora ben consolidate nella coscienza dei popoli, e potranno trovare maggiore possibilità di successo quando i nuovi elementi che saranno immessi nella vita internazionale potranno dare un maggiore apporto.

In un volume, che è un monumento elevato a se stesso, uno storico inglese, dopo aver parlato delle miserie e delle grandezze del nostro Risorgimento, conclude quella storia italiana, un po' lontana ormai, affermando che all'Italia non è concesso di svolgere una politica internazionale di forza e una politica internazionale propria; ma ammonendo che essa però, se orientata verso una sana democrazia, può costituire in Europa l'elemento più decisivo ed importante per la vita pacifica del consorzio europeo.

Egli osservava, tuttavia, che questo compito richiedeva uomini più capaci, uomini del genio di Cavour.

A noi non interessa di indagare chi potrà essere quest'uomo, ma interessa di conoscere la corrente donde potrà venire questo nuovo contributo che l'Italia potrà dare certamente alla compagine internazionale.

Ebbene, esso non potrà provenire che dalle file del lavoro, della classe lavoratrice. È di lì, dalla più sana democrazia, che potrà venire un impulso maggiore per le opere di bene e di solidarietà. È dalle classi lavoratrici, nella loro marcia verso l'unica famiglia socialista, che potranno sorgere le fondamenta di una vita di pace e di tranquillità.

È per questo che il partito socialista dà la sua adesione incondizionata agli articoli 3 e 4, così come sono proposti nel progetto. (Applausi a sinistra).

Presidente Terracini. È iscritto, a parlare l'onorevole Froggio. Ne ha facoltà.

Froggio. Onorevoli colleghi, il nostro compito fondamentale, quali rappresentanti e in nome del popolo, è di dare la Costituzione al nostro Paese. Il mandato a noi conferito non è però un mandato generico: noi non possiamo dare una qualsiasi Costituzione, perché il popolo ha espresso in modo chiaro e preciso la sua volontà, specificandola in due direzioni. Ha dato un ordine quanto alla forma istituzionale: deve essere repubblica; ha dato un ordine quanto alla sostanza: deve essere democrazia.

E a me pare che queste due direttive abbiano uguale nobiltà e siano state circondate da uguale solennità. Hanno avuto entrambe pari solennità perché, se è vero che, quanto alla forma istituzionale, il popolo ha risposto con la solennità della manifestazione diretta del referendum, è pur vero, però, che, quanto alla sostanza, si è avuta l'unanimità assoluta.

Si è avuta unanimità assoluta, perché tutti i partiti si sono proclamati democratici ed hanno manifestato la volontà di costruire un sistema democratico. Il popolo dunque ha detto: do a voi, miei rappresentanti, la mia fiducia, perché voi facciate una democrazia.

E noi abbiamo sentito, e lo ha sentito la Commissione, che queste erano e sono le volontà fondamentali del popolo; lo ha sentito a tal punto che le ha segnate nelle prime parole di questo progetto della Carta costituzionale quando, nell'articolo primo, ha affermato e scritto: l'Italia è una Repubblica democratica.

Ma, nonostante queste specificazioni, nonostante queste due linee direttive, nonostante tutto ciò, noi non potremo fare, non dobbiamo fare una qualsiasi Costituzione repubblicana e democratica, perché la Costituzione non è un esercizio teorico, non è una costruzione ideale su un terreno ideale; è, e deve essere qualche cosa di concreto; deve essere una costruzione solida; deve, ancor più, essere una creatura viva. Non solo, ma deve esser capace di dar la vita, perché la Costituzione è premessa di storia futura, inserita nella realtà presente, guidata dalla storia passata.

La nostra Costituzione su quale realtà presente sorge? Essa sorge in un momento particolare, unico nella storia del nostro popolo; sorge dopo un'interruzione della continuità della vita democratica del nostro Paese. Sorge per restaurare. Non può far proseguire in una semplice continuazione di sviluppo, ma deve riconfermare, quasi fondare la democrazia in Italia.

Ma non ho detto che la nostra Costituzione sorga dopo una frattura della continuità della vita della democrazia: essa sorge soltanto dopo una interruzione, una parentesi, perché, se frattura vi fosse stata, se la democrazia fosse morta in Italia, non avrebbe potuto risorgere, e il nostro popolo non potrebbe oggi ridare a se stesso la forma del reggimento democratico.

C'è una prova, una prova nobilissima, una prova plastica di tutto ciò, ed è, se mi permettete, onorevoli colleghi, la presenza della nostra generazione, della generazione dei giovanissimi. Perché in quest'Aula siedono uomini che hanno conosciuto la democrazia e hanno vissuto quando l'Italia si reggeva a democrazia; siedono uomini che hanno raggiunto la maturità del loro pensiero e del loro essere, quando l'Italia aveva già perduta la sua forma democratica; siedono uomini, giovanissimi, gli ultimi venuti, che sono nati o che stavano appena per nascere alla vita, alla vita cosciente, quando già l'Italia non aveva più un reggimento democratico.

Noi non abbiamo conosciuto prima cosa fosse democrazia, non abbiamo vissuto mai prima d'ora in un reggimento di libertà e di democrazia. Questa deve essere una prova, una conferma, ed insieme una ragione di speranza e di certezza. La democrazia andrà innanzi non solo perché lo spirito non muore — e non può morire — ma perché già i suoi portatori nuovi si avanzano, sotto la guida degli antichi, a continuarne la fatica e a completarne l'opera.

Ma — è un dato di fatto che si deve imporre alla nostra intelligenza pensosa e alla nostra coscienza vigile — questa Costituzione sorge dopo un'interruzione della vita della democrazia in Italia. Interruzione, perché? Perché è avvenuta? Cosa insegna, cosa narra la storia recente e passata, che cosa dice a voi, che cosa dice a noi l'esperienza della vita vissuta? Dice che una democrazia ha sostanzialmente tre grandi pericoli contro di sé: la dittatura; la non realizzazione della democrazia; l'assenza del popolo.

E dunque, perché questa Costituzione, che noi siamo stati chiamati a comporre, possa essere veramente premessa di vita futura, occorre innanzitutto che essa sia ordinata in modo da impedire un'altra interruzione, che potrebbe essere una frattura, questa volta. Ecco ciò che mi pare debba essere la prima fondamentale preoccupazione: ordinarci in modo che dall'esperienza del passato la democrazia e la forma democratica e gli istituti in cui essa si regge siano garantiti contro i pericoli che l'esperienza e la storia indicano.

Gli articoli 6 e 7, come tutti gli articoli della Costituzione, devono concorrere a tale scopo. Ma io credo che questi articoli 6 e 7 non siano due articoli qualsiasi, ma siano il fondamento, la pietra angolare, come è stato detto, dell'ordinamento della nuova democrazia italiana. E allora la conclusione è questa: occorre che gli articoli 6 e 7 siano anche fondamento di presidio, basi di garanzia contro i pericoli che possano minacciare di morte la democrazia. E qual è il primo pericolo? È la dittatura: primo non soltanto in ordine cronologico, guardando all'indietro, ma primo per una sua intrinseca pericolosità; primo, perché la dittatura minaccia non una parte del bene, ma minaccia tutto il bene, minaccia di schiantare, quando trionfa, la democrazia.

È l'esperienza che ce lo insegna; lo insegna la storia, lo insegnano i ricordi. Se noi riportiamo la nostra mente e la nostra attenzione sull'idea della dittatura, non sorge in noi un concetto, con la definizione: definitio nominis — si perdoni una volta tanto un po' di latino anche a un democristiano — ma sorgono in noi due sensazioni, due riflessi di stato d'animo: noi sentiamo che la dittatura si associa ad una stasi e ad un turbine insieme. Ad una sensazione di stasi, di gelo, che raffredda, raffrena e fa spegnere la vita, ad una sensazione di turbine che schianta, travolgendola, la vita.

Potrebbe sembrar rettorica, e lo sarebbe se fossero parole, ma non lo è, perché è corredata da fatti; perché è un fatto quel livellamento continuo che spegne la persona umana; è un fatto che la vita di noi, di voi, di coloro, specialmente, che più hanno sofferto, ed ai quali io come giovane mi inchino con tutta riverenza, non conta nulla quando c'è la dittatura: c'è allora la possibilità di essere schiantati, e questo lo conosciamo così bene (e così anche la vita collettiva che risulta dalla vita di tutti, onorevole Li Causi), che sappiamo smascherare la dittatura; sappiamo cioè trovare, al di sotto della maschera, la realtà.

Lo sappiamo perché abbiamo sentito e partecipato al drammatico colloquio: da una parte la dottrina falsa, che cercava la giustificazione della dittatura (gli uomini, mi pare, non sono mai tanto malvagi da non cercare una giustificazione alla propria malvagità) e diceva: «Lo Stato è l'assoluto e tu, uomo, sei il relativo»; dall'altra parte l'uomo che rispondeva, con la sua esperienza diretta: «No, io non sono un relativo, io sono qualche cosa di concreto e di autonomo; io ho una dignità mia che è diversa, nella sua natura, dalla tua, o Stato, perché va oltre questa vita».

E continuava quella dottrina: «Se tu sei relativo, effimero, non puoi che realizzarti nello Stato», mentre la risposta ritornava incalzante come prima: «No, ho una mia autonomia, ho un mio fine da raggiungere»; e concludeva con la conclusione tragica e tremenda: «poiché tu sei uomo — l'effimero, ed io — lo Stato — sono l'eterno, poiché tu sei il contingente, la parte, ed io sono il tutto, tu devi servire a me e non io, Stato, devo servire a te». E l'uomo, l'uomo che vive e sente, rispondeva: «No, non è così, è lo Stato che deve servire all'uomo.».

Quando non bastava la dottrina, si passava agli argomenti della tentazione, si parlava di ordine: «Non hai l'ordine?». Si parlava di uguaglianza: «Ma non siete uguali?». Si parlava di pace. E la risposta era: «Non è uguaglianza un livellamento, non è ordine, non è pace: anzi, è una minaccia di guerra continua; è una guerra continua quella che si sente e si soffre».

E, se non bastava ancora questo, allora la maschera cadeva. Si passava ad altro argomento. Alla dittatura è connaturata, per la sua stessa essenza, la violenza. Le affermazioni erano chiare ed incalzanti: «Io sono il diritto», diceva allora lo Stato. E il cittadino rispondeva: «Tu sei il diritto, a patto che questo diritto sia tale nella sostanza; se no, sei legalità soltanto, quando giustizia non c'è».

Si affermava: «Io ho l'autorità!». «No, l'autorità è il potere esercitato per il bene, non per il male; tu hai l'arbitrio, in questo modo». Si affermava ancora: «Io ho la forza». E si rispondeva da parte dell'uomo libero: «No, hai la violenza; hai la violenza che può, sì, far tutto, meno che schiantarmi del tutto». È testimonianza di uomini che hanno risposto, non a parole, a questo tragico dialogo, ma con gli atti della loro vita, con i fatti; di uomini che hanno risposto affermando la verità in cui credettero e che gridarono alta, come quei primi grandi martiri della libertà, i martiri di quel cristianesimo che è presidio di libertà, quando, portati dinanzi ai carnefici che li minacciavano di morte, rispondevano: «Sì, puoi fare tutto di me, puoi anche uccidermi, ma non puoi farmi male».

È il pericolo è vivo; è sempre vivo, questo pericolo di un attacco, di una violenza alla democrazia da parte della dittatura, perché la dittatura assume forme, metodi diversi, subdoli alle volte. Si annida perfino in una democrazia. Si serve, per vivere, della stessa libertà concessa ai cittadini, agli uomini liberi; ne usa i mezzi, alcune volte; partecipa alla vita elettorale di un Paese; partecipa alla vita parlamentare: Hitler, il nazismo fecero così. Ma quando raggiunge il potere, cade la maschera. Allora finisce l'applicazione del metodo democratico e si passa ad un altro metodo; allora il potere diventa senza freno e senza limiti.

Mi si permetta di osservare che questi limiti io li intendo sostanzialmente in quella affermazione, creduta e vissuta, che la persona umana, che la sua dignità, la sua autonomia sono qualche cosa di sacro e di inviolabile. Non intendo parlare di limiti, come dire, parlamentari, ad esempio; non intendo parlare di minoranze, sebbene sia un dato di fatto che i movimenti a contenuto, a spinta totalitaria, raggiunto il potere, eliminano, presto o tardi, le minoranze. Non lo fanno perché esse possano essere d'intralcio, lo fanno perché non possono sopportare quella testimonianza viva della libertà insopprimibile; poiché è in contrasto con la loro stessa essenza il tollerare che altri uomini pensino, operino, si muovano in modo diverso, divergente dall'unica direzione segnata.

Non è dunque una ragione di paura, ma di essenza quella che li porta a ciò. Quindi il presidio è uno: confermare la persona umana sacra ed inviolabile. E che questo sia vero, lo si può attestare con le parole di un grande italiano, in cui tutti convenite, lo spero, e conveniamo. Mazzini afferma: «O dobbiamo obbedire a Dio, o servire gli uomini. Uno o più, non importa. Se non regna una Mente suprema, su tutte le menti umane, chi può salvarci dall'arbitrio dei nostri simili, quando si trovano più potenti di noi?».

Ed ecco perché gli articoli della nostra Costituzione affermano questi caratteri di sacro, di inviolabile, di autonomo, della persona umana.

Il secondo pericolo è la non realizzazione della democrazia. È stato osservato da un pensatore profondo che la tragedia delle democrazie moderne è quella di non aver realizzato integralmente la democrazia. Le cause anche qui possono essere false dottrine, come quelle che creano, che costruiscono una figura di uomo irreale, perfino mostruosa. Irreale è quel cittadino che non ha cuore, che non ha doveri, ma è soltanto formato da articoli e da forze, fuori della vita, senza legami, senza doveri. Se si aderisce a questa figura così delineata, si finisce col non realizzare, con l'annientare in se stessa l'essenza della democrazia; si finisce col far cadere la dignità, la libertà, l'eguaglianza, perché la miseria opprime, la forza opprime; le forze avverse, quelle che vogliono impedire, in qualsiasi modo, l'espressione della libertà e della dignità, trionfano.

Bisogna dunque che a garanzia vi sia una concezione rispondente alla natura dell'uomo; bisogna che al cittadino e all'uomo siano riconosciuti tutti i diritti che da questa natura discendono; bisogna che gli sia riconosciuto il diritto di potersi associare con tutti coloro ai quali è legato da vari legami, da tutti quei legami, che costituiscono l'intrecciarsi di vie e di relazioni fra gli uomini.

Ma la non realizzazione della democrazia può anche avvenire per un'altra causa: quella di una inesatta, incompleta o falsa concezione dello Stato, causa, che, in fondo, si lega alla prima, della falsa concezione dell'uomo o del cittadino. Ma può avvenire per un'altra causa, di natura diversa: per una deficienza di forze. Come nella dittatura si ha un eccesso di forze che sbocca nella violenza, così il fallimento della democrazia può avvenire per una deficienza di forze, che sbocca nella impotenza dello Stato. Lo Stato, dunque, deve non solo riconoscere prima e affermare poi i diritti fondamentali, ma deve garantirli e fare quanto è in esso perché quei principî e quei diritti si traducano in realtà concreta, siano vita reale per coloro che vivono in quel Paese e in quello Stato.

Lo Stato non ha soltanto doveri negativi — il lasciar fare, il lasciar correre — ma anche doveri positivi; ha limiti, ma anche specifiche funzioni. Per questo negli articoli 6 e 7 è affermato il principio che la Repubblica deve, per quanto ad essa compete, tradurre in atto i principî che riconosce ed i diritti che garantisce.

Il terzo pericolo per la democrazia è l'assenza del popolo. La democrazia è governo del popolo: la sostanza, la vita della democrazia è il popolo: dal popolo, del popolo, per il popolo. Quindi se il popolo non partecipa, la democrazia non nasce, o se è nata, muore. Cosa si può fare? Cosa può fare lo Stato? Lo Stato non può fare molto in questo. Lo Stato può cercare di richiamare al dovere di partecipazione, può e deve togliere tutti quegli impedimenti che possono ostacolare la partecipazione del popolo; ma la partecipazione del: popolo, in senso pieno, non dipende dallo Stato: dipende dal popolo stesso. Il popolo, è stato detto, «è un insieme di uomini uniti dalla forza delle stesse idee e degli stessi sentimenti, cioè dalla loro anima». Occorre che il popolo sia così, altrimenti è una massa. E dove è la massa non vive la democrazia; dove è la massa è il terreno propizio al sorgere della dittatura. Il popolo, per garantire la democrazia, deve saper distinguere il bene dal male, deve volere il bene, deve operare per il bene. Ed il nostro popolo che garanzia ci dà o ci ha dato contro quel pericolo? Ma il popolo dico — perdonate se sono stato forse lungo e frammentario — che garanzia, che prova ci ha dato di difendersi e di sapersi difendere da questo pericolo dell'assenza? Tutte le prove migliori: ha saputo distinguere fra il vero e il falso; allontanare da sé la tentazione della violenza, evitare gli eccessi, respingere ogni egoismo...

Presidente Terracini. Onorevole Froggio, l'avverto che lei ha già parlato mezz'ora.

Froggio. Me ne sono perfettamente reso conto, e perciò concludo, rilevando come il nostro popolo abbia dato la prova più completa di essere pienamente degno e di sostanzialmente volere un reggimento democratico.

Noi, in questa nostra Costituzione, facciamo la promessa di una garanzia. Il popolo ha dato la prova, ha dato già la sua garanzia; e, quando la garanzia si dà col sangue e col combattimento, essa, più che garanzia, diventa ed è consacrazione. La democrazia è stata consacrata in Italia non dalla Costituzione che è ancora da farsi, ma dal sacrificio del popolo. Non noi dunque dobbiamo consacrarla, ma è il popolo che l'ha consacrata; ed è per questo che a me pare ben si riferiscano a noi stessi ed al nostro momento le parole che Lincoln pronunciò sul campo di battaglia di Gettjsburg: «Ma noi in senso più alto non possiamo dedicare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo. I coraggiosi, e vivi e morti, che qui combatterono lo hanno consacrato assai più altamente di quanto non sia in potere nostro aggiungere o togliere. Il mondo si accorgerà appena, né a lungo si ricorderà, di quanto noi oggi diciamo: mai tuttavia potrà dimenticare quanto essi fecero. A noi che siamo vivi, tocca piuttosto venire qui dedicati: dedicati al lavoro non ultimato che coloro i quali qui combatterono sì avanti inoltrarono.

«Sta piuttosto a noi di venire, qui dedicati al gran compito che ancora ci resta innanzi; di derivare da questi morti onorati devozione accresciuta per la causa cui essi diedero la misura completa ed estrema della loro devozione: di decidere qui altamente che quei morti non siano invano morti; affinché questa nazione, sotto Iddio, conosca una seconda nascita di libertà, affinché il Governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra. (Applausi al centro).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

Valiani. Onorevoli colleghi, parlo per motivare le ragioni per cui il Partito d'azione vota in favore dell'emendamento proposto dagli onorevoli Nenni e Togliatti, che vuole, come primo articolo del progetto di Costituzione, la seguente dizione: «L'Italia è Repubblica democratica di lavoratori». Per quale ragione noi voteremo questo emendamento? Fondamentalmente, perché, a differenza delle parti successive del medesimo articolo 1, che pone invece postulati etici e sociali, i quali meglio avrebbero il loro posto in un preambolo, questa dizione «Repubblica democratica di lavoratori» pone un principio politico, il quale ha la sua storia politica ed è anche suscettibile di conseguenze giuridiche tali da doversi iscrivere in una Costituzione.

La Repubblica democratica dei lavoratori ha una storia nelle lotte politiche condotte dalle organizzazioni operaie, dai movimenti popolari, dai partiti di sinistra in tutti i Paesi europei dal 1848 fino ai nostri giorni. Dovunque la democrazia abbia fatto dei progressi, dovunque il movimento dei lavoratori, ed in generale i democratici-repubblicani conseguenti, si siano affermati come una forza politica, essi hanno posto questa esigenza di caratterizzare lo Stato democratico più coerente, cioè la Repubblica che poggia sui lavoratori.

Se guardiamo le battaglie che sostennero i democratici conseguenti in Francia, ancora alla fine del secolo scorso, poi in Spagna, in Italia stessa, se guardiamo alle tradizioni, alla lotta del movimento operaio per la democrazia, ancora prima del 1914 e successivamente, se guardiamo alla Germania e all'Austria, ai Paesi dell'Europa centrale, dappertutto questa idea politica della Repubblica democratica dei lavoratori o della Repubblica popolare, come in alcune Costituzioni dall'altro dopoguerra si espresse, è stata affermata.

Questa è un'idea politica, non un vago postulato etico, ma è necessario anche che sia tradotta in conseguenze giuridiche. Nel nostro progetto di Costituzione non si è immesso ancora — come a mio giudizio si deve immettere — questa dizione nella impostazione di alcuni degli organi, di alcune delle istituzioni della Repubblica stessa. Per esempio, per la seconda Camera si verrà ad una formulazione diversa di coloro che sono eleggibili a seconda che si sancisca o non si sancisca questo principio. Quando poi si verrà a discutere degli articoli relativi alla proprietà privata, alle sue garanzie, ai limiti che essa incontra nell'interesse generale della società, questa dizione di Repubblica democratica dei lavoratori sarà, o non sarà, il filo che ci dovrà orientare; significherà una presa di posizione all'inizio della Costituzione che può caratterizzare una parte notevole del resto della Costituzione medesima. Perciò, pur essendo ostili, come più tardi dirò, a varie affermazioni etiche che non trovano posto in un documento di diritto pubblico, quale deve essere fondamentalmente una Costituzione, noi difenderemo questa nozione preliminare e, per così dire, giudizio politico, preliminare, che l'Assemblea dà sul carattere, sugli scopi, sulla natura politica della nuova Repubblica e sulle forze che possono dirigerla, e domanderemo, come domandiamo a tutti i repubblicani coerenti, a qualsiasi partito appartengano, di votare a favore di questa dizione.

L'onorevole Togliatti ha notato come l'onorevole Orlando cercasse nella Costituzione qualche cosa che visibilmente mancava, cioè il soggetto, il sovrano. Io credo che la preoccupazione dell'onorevole Orlando fosse giusta. Nelle Costituzioni è implicito, è sottinteso un soggetto e, mentre nella monarchia costituzionale questo soggetto è evidentemente il sovrano per grazia di Dio e per volontà del popolo, nella Repubblica democratica invece soggetto può essere soltanto la forza politica che ha voluto la Repubblica e che è disposta a difenderla ad oltranza contro ogni e qualsiasi tentativo di restaurazione. Questa forza politica è nella dizione «Repubblica democratica dei lavoratori». Non basta in proposito richiamarsi alla volontà popolare, perché la volontà popolare caratterizza qualsiasi forma di Stato costituzionale, dalla monarchia costituzionale alla Repubblica conservatrice e alla Repubblica democratica.

Bisogna scegliere tra le varie forme di Stato costituzionale che si presentano davanti agli occhi nostri. La Repubblica democratica dei lavoratori qualifica una di queste forme; non è detto che la Repubblica democratica dei lavoratori debba necessariamente — come temono molti che avrebbero ragione di temerla, se questo fosse il pericolo che incombe su di noi — significare Governo di Assemblea. Io sarei contrario al Governo puro e semplice di Assemblea; soprattutto per l'incapacità sua di dare un reggimento durevole allo Stato. Le esperienze fatte col Governo di Assemblea non sono state mai felici in alcuna parte; tanto è vero che tale Governo non ha mai retto durevolmente.

Ma la Repubblica democratica dei lavoratori può essere costruita anche su un altro presupposto. Qualsiasi democrazia organizzata, anche il tipo di democrazia che corrisponde alla repubblica presidenziale (che sarà la proposta che noi faremo più in là), può entrare ed entra nel quadro della Repubblica democratica dei lavoratori.

Un esecutivo forte — quale che ne sia il modo di elezione — è possibile in una Repubblica democratica dei lavoratori, purché nelle autonomie popolari, che limitano ed insieme controllano l'esecutivo stesso e fissano la divisione dei poteri rispetto all'esecutivo, si garantisca la partecipazione del popolo lavoratore.

Perciò, mi pare che tutti i repubblicani coerenti, anche gli amici del partito repubblicano storico, i quali giustamente si preoccupano di non cadere sotto il cosiddetto «cesarismo di Parlamento», e vogliono larghe autonomie locali, possano, anzi credo, che debbano votare a favore di questo articolo. Perché la Repubblica democratica dei lavoratori ha questo significato, nel momento politico che attraversiamo: che non ci accontentiamo di istituire la Repubblica sulla carta, ma ci proponiamo di organizzare la Repubblica con le forze schieratesi a suo favore.

Si parla molto della inefficienza dei Governi tripartiti. In particolare, gli amici del partito repubblicano storico sono stati tra i primi a criticare la paralisi dei Governi di coalizione dopo la caduta del fascismo. Se pure si uscirà dai Governi di coalizione, come quello attuale, ibrido, il quale riunisce elementi che non sono stati ancora conciliati (lo possono essere, ma non lo sono stati ancora), non si uscirà da questo sistema, se non gli si contrapporrà un altro sistema, un altro schieramento politico, uno schieramento delle sinistre democratiche. Questo schieramento politico delle sinistre ha il suo presupposto nel voto che dobbiamo dare a favore della dizione «Repubblica democratica di lavoratori».

Un grande democratico, Jaurès, uomo di sinistra — la cui figura può essere rivendicata dai socialisti di tutte le tendenze, dal movimento operaio nel suo insieme, ma anche dai democratici repubblicani puri, perché l'obiettivo della sua vita era di conciliare il movimento repubblicano col movimento operaio; figura che può essere non antipatica alla parte repubblicana della Democrazia cristiana, perché, pur socialista, egli seppe valorizzare l'elemento cristiano, che esiste in fondo al movimento socialista dei lavoratori — Jaurès dunque, quando pose in Francia per la prima volta il problema del fronte delle sinistre per le elezioni del 1893, che dettero, con la vittoria delle sinistre, alla Repubblica il suo vero carattere democratico, diceva: «Checché se ne possa dire, oggi non si tratta tanto di difendere la Repubblica, ma di dirigerla e di organizzarla».

Mi pare che questo sia anche il nostro compito.

Se ci limitiamo semplicemente a difendere la Repubblica, con leggi di difesa, giuste, ma insufficienti — perché non è mai con un provvedimento di polizia che si risolve il problema d'un nuovo Stato — se ci limitiamo a difenderla, la perdiamo. Perché tutte le volte che le repubbliche democratiche si sono poste in posizione difensiva, sono state, alla fine, travolte.

Bisogna che la Repubblica si organizzi, ed a tale scopo bisogna che abbia una direzione bene identificata. Bisogna identificarne il principio nella Costituzione medesima, qualificandola come Repubblica democratica dei lavoratori.

Amici repubblicani storici e amici democristiani, se voi rifiutate questa direzione, vi mettete su un terreno sul quale soltanto la polizia sarà a vostra disposizione per la difesa dello Stato.

Se volete difendere la democrazia, dovete identificare lo Stato con le forze sociali qualificate in questo emendamento.

E vorrei invitare gli amici repubblicani storici e quelli che sono repubblicani nella Democrazia cristiana a tener presente che soltanto in questo modo, con questo voto, noi possiamo chiudere il capitolo della lotta antifascista, la quale si chiuderà soltanto allorché saremo riusciti a creare su basi solide il nuovo Stato. Altrimenti ci troveremo sempre davanti al pericolo di ricadere nel passato regime dispotico.

Si chiuderà la lotta antifascista soltanto quando le masse lavoratrici, che hanno combattuto nel modo più efficace, avranno la sensazione che il nuovo Stato è il loro Stato, non più quello della democrazia liberale. Questo aveva anch'esso i suoi pregi, i suoi meriti, che non disprezzeremo perché noi ne siamo figli; ma fu travolto dal fascismo. Non voglio cercare ora le responsabilità. Tutti i Paesi d'Europa furono travolti.

Se vogliamo creare un nuovo Stato che non si senta sempre in pericolo di essere travolto, dobbiamo dare ad esso un contenuto e delle garanzie giuridiche: innanzi tutto un principio ideale che lo metta al disopra, al di là della pura antitesi con la reazione e il fascismo, su un terreno su cui si possa costruire un solido edificio sociale.

Preso il problema da questo punto di vista, che è più importante e più elevato di quello che abbiamo dovuto adottare quando la nostra lotta era rivolta solo ad estirpare il fascismo, io credo che i deputati sinceramente repubblicani, a qualsiasi partito appartengano, dovrebbero votare secondo coscienza e non secondo le istruzioni del loro partito.

Benedetto Croce notava qui come sia importante che si voti secondo coscienza, in questo momento. Noi non chiederemo certamente all'onorevole Croce, che rappresenta un'altra forma di Stato, di votare per la Repubblica democratica dei lavoratori; ma possiamo chiederlo a tutti gli altri, ai democratici di tutti i banchi, e se essi lo voteranno, allora, sì, potremo uscire dalla coalizione ibrida di oggi, potremo creare una nuova coalizione, in cui possa avere la sua parte anche la Democrazia cristiana in quanto repubblicana (Commenti al centro).

Una nuova coalizione, dico, nella quale la Democrazia cristiana, o la parte repubblicana di essa si volga verso sinistra, come aveva preannunziato nel suo Consiglio nazionale del 1945, e come purtroppo non ha saputo affermarsi nei due anni successivi.

Mentre dunque noi voteremo per la dizione dell'emendamento presentato dagli amici del partito socialista italiano e di quello comunista e chiediamo a tutti i repubblicani di votare in questo senso, debbo criticare il capoverso successivo dell'articolo 1, il quale suona così: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Per questo secondo capoverso, debbo confessare che condivido gli argomenti degli avversari monarchici che lo prendono in giro e credo a ragione. Il lavoro è infatti il fondamento di ogni vita; e a tanto maggior ragione è il fondamento di ogni vita sociale, di ogni Stato, sia esso dispotico, repubblicano, monarchico o quello che volete.

Se voi volete fare un preambolo, si potrà trovare il modo di mettervi al centro quella che si chiama la filosofia del lavoro; ma, nell'articolo 1, questa dizione genera solo confusione.

E ancora vi dirò che la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, che è invece un'esigenza giusta e concreta, non trova, a mio parere, posto in questo articolo 1, perché non costituisce un principio giuridico e politico, ma è un obiettivo sociale concreto. Quando verremo a discutere dei consigli di gestione, per i quali noi voteremo, là evidentemente questa volontà di far partecipare tutti i lavoratori alla realtà economica del Paese potrà essere affermata.

Per il resto, questo è l'obiettivo che si possono porre i partiti politici che hanno l'ambizione di organizzare le masse lavoratrici e di portarle alla vita pubblica: quando è garantita la libertà di propaganda; la libertà di stampa, la libertà di organizzazione, quando, in seno alla fabbrica, è garantito il consiglio di fabbrica, il resto non dipende che dalla volontà pratica e dal successo che questa politica ha nella classe lavoratrice stessa.

Quindi, approvata la dizione «L'Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori», il successivo capoverso diventa pleonastico.

Non faccio qui una questione secondaria; almeno non mi pare. Credo che uno dei difetti fondamentali dell'antifascismo — difetto che noi scontiamo amaramente — fosse e sia quello di non aver tenuto e di non tenere presente l'importanza della chiara formulazione giuridica. Se l'epurazione è fallita, se l'amnistia ha dato risultati diversi da quelli di pacificazione che da essa ci si ripromettevano, ciò si deve, sì, a ragioni sociali e politiche complesse, che sono essenzialmente quelle di non aver potuto portare a termine in Italia la rivoluzione popolare, ma si deve anche alle incongruenze giuridiche di queste leggi stesse.

Io vi esorto perciò a non fare formulazioni incongruenti nella Carta costituzionale italiana.

Nell'articolo 6 — anch'esso formulato in modo confuso, ma che tuttavia esprime un principio generale giusto, cioè che la libertà e la dignità della persona umana, nonché l'interesse generale della società, dello Stato, sono principî filosofici ai quali si richiama la nuova Costituzione in questo articolo — sono comprese implicitamente, e si possono rendere più esplicite, le esigenze che hanno mosso i redattori del secondo capoverso dell'articolo primo. Rifacciamo l'articolo 6, in modo che sia chiaro che l'interesse generale della società è superiore ad ogni altro interesse particolaristico; e allora avremo dato alla Costituzione il suo nerbo.

E vengo all'articolo 4, a proposito del quale mi sono permesso di presentare un emendamento, di cui do lettura: cioè di sostituirlo col seguente: «L'Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e respinge ogni imperialismo e ogni adesione a blocchi imperialistici. Accetta e propugna, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, qualsiasi limitazione di sovranità, che sia necessaria ad un ordinamento internazionale di pace, di giustizia e di unione fra i popoli».

Perché questo cambiamento? Perché questa proposta? Intanto, perché, se si accetta la dizione per cui l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale, ci si riferisce a un documento internazionale, già esistente, e che l'Italia a suo tempo ha firmato, il Patto Briand-Kellogg del 1928, che conteneva questa dizione. E credo che rifarsi ad una tradizione politica internazionale — in un certo senso, di diritto internazionale — sia cosà utile, perché segna il cammino che noi dobbiamo percorrere, indica la critica alle deviazioni del passato, e dà un senso ben preciso alla nostra volontà di rinunciare alla guerra. Quando invece si dice: «L'Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli», si entra veramente in quel campo in cui si finisce sempre con lo stiracchiare i fatti, per dimostrare che si salvaguarda la libertà di un Paese intervenendo con le armi, o che viceversa la si salva non intervenendo. La storia recente è piena di contraddizioni in proposito.

Basti pensare soltanto all'ultimo grande fatto di politica internazionale: il messaggio di Truman, che pone le frontiere strategiche degli Stati Uniti in Grecia e in Turchia, allo scopo — come dice il Presidente americano — di difendere la libertà di quei popoli. Io potrei anche pensare che la libertà di quei popoli non si difende efficacemente inviando degli istruttori militari a sostegno di Governi che non sono né democratici e neppure liberali. (Applausi a sinistra).

Non so fino a che punto quei governi abbiano dietro di sé il consenso di una parte del popolo. Ho letto recentemente in un grande giornale americano, molto vicino al partito repubblicano, un resoconto della situazione in Grecia, che farebbe supporre come quel Governo poggi soltanto su una ristretta parte del popolo. Ma quale che sia la base popolare di questo Governo, è chiaro che esso, che pone limitazioni di ogni genere alla libertà di stampa e di organizzazione di una parte delle forze politiche del Paese, non può essere considerato come un Governo democratico liberale. Tuttavia si vuole intervenire in difesa della libertà di quei popoli. Si potrebbero citare altri esempi, presi da altre parti; esempi infiniti che sono tutti davanti alla nostra mente, a cominciare da quello sciagurato giorno in cui si intervenne in Etiopia, per sostenere — si diceva anche lì — una libertà del popolo etiopico. Certo, anche quello del Negus non era un esempio di Governo liberale. Da quel giorno ad oggi gli esempi sono numerosissimi e provano soltanto che questo articolo darà luogo sempre a tante interpretazioni quante saranno le forze politiche in contrasto fra loro.

Il patto Briand-Kellogg aveva invece il vantaggio di fissare un principio generale, generalissimo, sul quale non ci doveva essere discussione: qualunque paese avesse dichiarato la guerra e si fosse valso della guerra come strumento di politica internazionale, sarebbe stato un paese condannato dalla coscienza civile.

Ricordo che alcuni uomini politici di rango internazionale del tempo discussero a lungo sulla definizione dell'aggressore, riallacciandosi a quel patto, e quelle discussioni formano ormai un capitolo della storia del diritto internazionale, anche se non contengono precise norme di diritto pubblico internazionale, perché il fascismo lo impedì.

Quindi, con questa dizione noi ci riallacciamo ad una nobile tradizione politica e diamo alla nostra Costituzione un senso ben preciso ed una meta da raggiungere. Noi siamo incondizionatamente, e non soltanto in riferimento ad una certa interpretazione politica, per la rinunzia alla guerra. Se ci attaccheranno ci difenderemo, ma noi abbiamo il fermo proposito di non attaccare mai nessun altro popolo, sia esso un popolo retto con ordinamenti liberali o con altri ordinamenti. Non andremo più in Grecia né per battere Metaxas, né per difendere la libertà della Grecia contro il comunismo, come sostiene l'America.

Io chiedo che sia fatta questa modifica; la quale ne implica una successiva, cioè che noi dobbiamo respingere ogni imperialismo ed ogni adesione a blocchi imperialistici.

Presidente Terracini. Onorevole Valiani, la prego di concludere.

Valiani. Cercherò di essere breve; però faccio presente che un oratore dell'altra parte ha parlato l'altro ieri per un'ora e mezzo.

Respingere dunque ogni adesione a blocchi imperialistici. Mi pare sia necessario di formulare oggi questo concetto nella nuova Costituzione, se vogliamo che questa possa valere nella realtà dei decenni che ci stanno di fronte.

È chiaro che proprio oggi, più che mai, noi siamo sollecitati di aderire a blocchi; è chiaro che grosse pressioni sono esercitate sulla democrazia e sulla Repubblica italiana per portarla ad aderire ad un blocco o ad un altro, ed è chiaro che la politica estera della nostra Repubblica e la sorte dei nostri ordinamenti politici non potranno non risentire nei successivi anni della pressione che sarà esercitata su di noi per farci aderire ad un blocco.

Ma noi non dobbiamo aderire a nessun blocco, nemmeno se ci si presenterà come avente per corrispettivo allettamenti di carattere economico e finanziario. Gli italiani non devono modificare la loro volontà di non commettere più i tragici errori del passato recente.

Credo che rafforzeremo questa volontà, questa capacità di resistenza, se sapremo codificarla nella Costituzione medesima. Infine la dizione per cui si accetta, non la limitazione di sovranità eventualmente necessaria, ma qualsiasi limitazione di sovranità necessaria al sorgere di un ordinamento internazionale di unione tra i popoli, mi pare importante: perché anche qui si finirà, altrimenti, col tirare la corda in un senso o nell'altro per dimostrare che una certa limitazione di sovranità è necessaria e quell'altra no.

In realtà, se ci vogliamo porre ad una altezza ideale nel desiderio di pace, di unione, che esiste fra i popoli e che solo può impedire una nuova guerra, noi dobbiamo affermare qualsiasi limitazione. Quali che siano le limitazioni di sovranità, purché servano a cementare l'unione fra i popoli e in particolare l'unità europea, dobbiamo accettarle. Nella dizione attuale io ho l'impressione che si sia voluto mettere lo Stato italiano un po' sulla difensiva contro questo nuovo concetto dell'interesse comune mondiale, della sovranità mondiale, dell'unità europea e mondiale, che è il concetto nuovo della nostra epoca, il concetto informatore che trionferà, se l'umanità non vorrà distruggere se stessa nella barbarie.

Perciò chiedo il voto sull'emendamento che ho presentato. (Applausi a sinistra).

(La seduta sospesa alle 18,20, è ripresa alle 18,45).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Mancini. Ne ha facoltà.

Mancini. Dato il mio alto numero d'iscrizione, non speravo di parlare oggi; ma sono costretto a tenere la tribuna per l'assenza di tanti colleghi, i quali — purtroppo — sono decaduti dal diritto di parlare in questa Assemblea sull'argomento all'ordine del giorno.

Confesso lealmente che, parlare dopo tanta oratoria e tanta dottrina, è davvero cosa assai imbarazzante. Spero di vincere il disagio, cattivandomi la benevolenza dell'Assemblea con la brevità e con la rinunzia, senza rimpianto, a citazioni storiche o dottrinarie. Già basterebbe scorrere i resoconti del Parlamento Subalpino per avere la disinvolta possibilità di infarcire il discorso di virtuosità erudite.

Dirò la mia opinione, senza pretese e senza intolleranze, con grande sincerità, nella speranza e nell'augurio che venga accolta con la stessa serenità con la quale io la formulo. Mi consenta, onorevole Presidente, mi consentano, onorevoli colleghi, che, prima di esporre il mio punto di vista, formuli due premesse, una nei rapporti dell'Assemblea e l'altra nei rapporti della Commissione dei Settantacinque.

Nei rapporti dell'Assemblea: questo dibattito, diciamolo con soddisfazione, ne ha rialzato il tono ed il prestigio che, purtroppo, per vicende varie, era stato attenuato e qualche volta compromesso. Dirò di più: il Paese ha superato quell'apatia, che lo rendeva estraneo ai nostri lavori e si interessa ora di questi dibattiti con fervido sentimento di adesione, perché sente e pensa che l'Assemblea diventa davvero la Costituente d'Italia. La quale lavora con intelletto d'amore, a formulare quella Costituzione, che sarà la guida della Repubblica democratica italiana.

L'altra premessa riguarda la Commissione dei Settantacinque, alla quale ho anch'io l'alto e ambito onore di appartenere. Non è nostra colpa se non ebbimo la lusinga di vedere fra di noi gli onorevoli Nitti, Orlando, Benedetto Croce, impareggiabili nell'arte dello scrivere che potrebbero apprestarci, anche oggi, come un giorno Ferdinando Martini apprestò la sua eleganza stilistica nei riguardi di un Codice, che seppe risciacquare nell'Arno. Fummo presieduti in modo impareggiabile dall'onorevole Ruini e ci dividemmo in tre Sottocommissioni, una presieduta da un Comunista, l'attuale Presidente dell'Assemblea, l'altra da un socialista, l'onorevole Ghidini, e la terza dall'onorevole Tupini, democratico cristiano.

Non avevamo dinanzi a noi che il vuoto. Diciamolo apertamente: la Francia aveva nel suo attivo tredici Costituzioni, come abbiamo appreso dall'onorevole Nitti; ma, più di siffatte Costituzioni, aveva nel suo passato una filosofia, una tradizione, una rivoluzione. Noi avevamo soltanto quel Codice Albertino, che venne elargito ai sudditi del Piemonte e fu esteso alle altre province d'Italia, man, mano che esse, attraverso quella menzogna, che si chiamò il plebiscito, venivano annesse al Regno d'Italia. Avevamo però una fede, una grande fede, quella di dare al Paese un progetto di Costituzione, per cui potemmo; vincere tutte le prevenzioni della passione di parte e trovare nella discordia la concordia. E ci affiatammo in tal modo, parlo della prima Sottocommissione, della quale facevo parte, che ci lasciammo tutti con un pegno di stima, di affetto, di amicizia, che non si oblia. Naturalmente, non presumiamo di aver creato un capolavoro; abbiamo fatto del nostro meglio. Valgaci il grande amore e il lungo studio. Sta a voi, soltanto a voi, rendere questo nostro progetto perfetto, eliminarne le parti inutili, correggerlo, epurarlo, farne un'opera che sia degna di questa nuova Italia. Siete voi, soltanto, i nostri correttori; da voi aspettiamo le modifiche opportune e i suggerimenti del caso, onde questo progetto sia davvero una Costituzione degna del popolo italiano.

Comunque, vorrei dire che tale lavoro non è poi tanto brutto come lo si dipinge; giacché vi sono in esso alcune norme così elette, dal punto di vista giuridico, etico e sociale, da metterlo in condizioni vantaggiose nei confronti di altre Costituzioni.

Ciò premesso, intendo limitare il mio dire all'esame dei 7 articoli, che vanno sotto il titolo «Deposizioni generali». Farò l'esegesi di siffatti articoli per dedurne tre obiezioni: una in ordine al titolo da sostituire a quello di «Disposizioni generali»; un'altra riguardante il nome di battesimo di questa nostra Repubblica; una terza interessante questo così «bestemmiato e pianto» articolo sette. Questa mia esegesi avrà il merito della novità; poiché non seguirò l'esempio che mi è venuto dai precedenti oratori. Non riguarderò quindi gli articoli singolarmente, fermandomi alla proprietà delle parole, ed al valore lessicale delle espressioni. Riguarderò le disposizioni nel loro complesso, come un tutto organico, per sorprenderne quello spirito, che informa ed illumina tutto il resto del progetto; per illustrare quelle norme, che rappresentano i caposaldi di questa Costituzione; poiché soltanto da esse trarrò gli argomenti principali delle mie conclusioni.

La prima norma è informata ad un senso di umanità e di giustizia straordinario; un senso di umanità e di giustizia, che troviamo concretizzato nelle disposizioni di quei tali articoli, che apparentemente sembrano essere più adatti per codici particolari, come han sostenuto alcuni oratori, che si sono fermati soltanto alla parola, trascurando lo spirito della norma.

Un senso di umanità e di giustizia per cui si abolisce per sempre la pena di morte, si umanizza la pena ed il trattamento dei detenuti e si rivendica intero il diritto dei figli naturali.

Molte fiate già piansero i figli per le colpe dei padri.

Ma vi è di più.

Questo senso di giustizia arriva fino al punto di condannare la guerra. In proposito ho ascoltato il compagno onorevole Treves che, poco fa, notomizzava sottilizzando l'articolo 4, così preciso nella forma e nella sostanza.

L'articolo in parola deve essere riguardato in se stesso, nei rapporti delle altre Costituzioni ed in quello internazionale. Esso dichiara «la guerra al regno della guerra»; perché non solo rinunzia alla guerra di conquista, ma, nello stesso tempo, auspica qualche cosa di meglio: un'organizzazione internazionale, che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. Su tali parole io richiamo tutta l'attenzione dell'Assemblea e specialmente quella di coloro, i quali si sono fermati soltanto alle prime frasi dell'articolo trascurando quelle che esprimono il vero ed intimo concetto di coloro che hanno compilato l'articolo. La giustizia tra tutti i popoli uccide per sempre la guerra; perché quando, nel nuovo ciclo storico internazionale, la classe operaia diventerà la protagonista della storia, l'arco celeste della pace si profilerà sugli orizzonti di quei tali «confini scellerati» di cui cantava nell'Inno dei lavoratori un Uomo, il cui spirito è sempre presente in questa aula.

Come si vede è un'esigenza dell'umanità intera, che si è consacrata in questo articolo, della umanità insanguinata, e anelante alla pace fra le genti. Un secondo principio si è affermato in questi sette articoli: quello della sovranità popolare. Dobbiamo intenderci sulla parola sovranità e sulla parola popolo. Si tratta di due parole, che si sorprendono sulle labbra di tutti, come si sorprende sulle labbra di tutti la parola coscienza, mentre tanta gente volta spesso le spalle alla medesima. La parola sovranità in se stessa e nei rapporti dell'odierna vita reale racchiude un concetto di potenza. Il popolo oggi è il solo sovrano rispettato e temuto.

Ed a buon diritto, perché da solo si è conquistato il potere. Il popolo ha tolto agli usurpatori, cioè alla monarchia dei Sabaudi e a Palazzo Venezia, dove avea asilo la tirannia, la sovranità e l'ha fatta sua. Sovranità significa potere. Onde si dice bene quando si scrive, come si è scritto: il potere emana dal popolo, cioè «appartiene al popolo». Questo potere, nella nostra Costituzione, reclama due requisiti: un limite nelle forme della Costituzione e della legge; ed una sostanza concreta. Infatti il popolo lo esercita partecipando effettivamente all'organizzazione economica, sociale e politica del suo Paese.

Per noi «popolo» non vuol dire agglomerato indistinto e indifferenziato di gente povera o di gente da nulla: Popolo significa classe, qualificata dal lavoro, dal lavoro che solleva tutto il popolo e lo fa diventare l'artefice insonne del proprio destino.

La vecchia classe dirigente italiana storicamente è decaduta insieme con il fascismo, perché essa creò il fascismo, lo portò al Governo e ve lo mantenne per 20 anni fino alla disfatta. Onde oggi non ha più il diritto di rimanere al suo posto; ma il dovere indiscutibile di lasciare libero il passo alle nuove energie del lavoro, che si avanzano impavide per assumere la direzione dello Stato.

Se volessi ricordare e parafrasare un noto e storico motto di un Abate francese, direi che il quarto stato è niente. Ma sarà tutto domani con la partecipazione effettiva alla organizzazione politica, sociale ed economica dello Stato.

Sottolineo la parola: «effettiva». Il terzo principio, affermato in queste disposizioni generali, è quello dell'eguaglianza. Eguaglianza non dal punto di vista formale, legista, per cui nelle aule giudiziarie si legge il tabellino con la sigla: la legge è uguale per tutti; ma nel senso di una eguaglianza sostanziale, reale di tutti i cittadini. I quali sono uguali di fronte alla legge, non solo; ma di fronte all'ordine economico e sociale, che annulla ogni privilegio di nascita e di ricchezza.

In altri termini, un'eguaglianza ed una libertà, che non possono essere turbate dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Onde la bellezza di quell'imperativo, per cui la repubblica assume l'obbligo di intervenire per eliminare tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano la libertà, e l'eguaglianza fra i cittadini o impediscono lo sviluppo della personalità umana.

Il quarto principio ha importanza superiore agli altri tre. Esso ha due termini: il diritto al lavoro, ed il dovere del lavoro. Non si è compreso e non si comprende l'importanza di questa enunciazione. Si è parlato del lavoro, gli sono stati resi tutti gli omaggi e lanciati tutti i fiori, ma si sono ad arte dimenticati i lavoratori.

L'onorevole Condorelli, nel suo dotto discorso dell'altro ieri, ha affermato che il lavoro è la forza d'Italia, che esso è la base dell'economia italiana, che egli vive di lavoro, che il patrimonio della sua famiglia è frutto di lavoro. Ma ha taciuto di chi stenta la vita alla ricerca di lavoro è di chi ozia nell'opulenza della vita.

Quando lor signori si oppongono alla nostra definizione è perché prevale quella sensibilità di rango, che li tiene lontani da coloro che hanno le mani callose, le vesti a brandelli, e le carni con le stimmate degli agguati e delle insidie padronali. Si vede nel lavoratore la classe. Ebbene si erra quando alcuni si ostinano nella nomenclatura di «cittadino» e dei relativi dritti di esso. La Rivoluzione francese affermò i diritti del cittadino. La Rivoluzione russa ha affermato i diritti del produttore. La Costituzione italiana riconosce i diritti del lavoratore. Prima lavoratore e poi cittadino. È lo spirito di Giano de la Bella, che ritorna.

Il pio ed austero Giano de la Bella,

che i baron trasse a pettinare il lino.

Questo principio nuovo, che considera il lavoro umano non più come merce, che si scambia e che subisce le oscillazioni della richiesta e dell'offerta, ma come il più alto dei valori nella scala sociale ed il solo nella società odierna.

Da queste premesse, onorevoli colleghi, discendono tre conseguenze: la prima inficia il nome di disposizioni generali. Non si può intitolare questo capitolo «Disposizioni generali». La parola «disposizione» sa troppo di Codice, e la Costituzione non è un Codice.

Tutti i tecnici giuridici si mettano l'anima in pace. Questa Costituzione è la legge delle leggi, è la legge fondamentale, e basilare, che supera tutte le leggi. È una norma, cioè un comandamento. In quanto nella norma è compreso il principio e la disposizione, il diritto e la morale, il presente e l'avvenire. Credo perciò che questo capitolo debba essere intitolato «Norme generali», e la Repubblica definita: «Repubblica di lavoratori». Io non capisco perché tutti gli oppositori, che pur così eloquentemente hanno esaltato il lavoro, si sono poi tanto preoccupati di questa specificazione. Sospetto che si spaventino del significato politico del nome. Orbene, se essi davvero sentono nel profondo dell'animo la bellezza umana del lavoro, non dovrebbero spaventarsi nemmeno del suo significato politico.

Anzi, questa Italia, la cui economia si basa sul lavoro, questa grande proletaria, che non ha avuto e non ha altra forza se non quella delle braccia dei suoi figli e dell'intelletto dei suoi geni, che da Melchiorre Gioia ad Alessandro Volta crearono la civiltà nel mondo, quando finalmente può scegliersi liberamente una Costituzione ed un regime di popolo non può battezzarlo che con il nome che le viene dal passato, che le impone l'avvenire: quello di chi la onora e l'ha sempre onorata: il lavoratore.

Ma dalle mie premesse discende una incongruenza, ed un contrasto: la presenza nella Costituzione dell'articolo 7[1].

Ho il dovere di fare una dichiarazione: io non sono un intollerante. Non sono venuto al socialismo né attraverso la criminologia di Ferri, né attraverso «L'Asino» di Podrecca: Sono venuto al socialismo per un impulso di bene ratificato da una cultura marxista, che con lo studio e le sofferenze è diventata una fede. Io credo perciò che la mia opinione è quella di un uomo sereno, al di sopra di qualsiasi prevenzione, di un uomo che ricerca soltanto la verità, guardando i fatti e le cose dal punto di vista obiettivo.

L'articolo 7 riporta sulla ribalta della vita politica italiana la vecchia questione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Io vorrei che ognuno di noi si facesse un esame di coscienza, tranquillamente, senza passione di parte e senza desiderio di prevalenza o di imposizione. E vorrei che questo esame lo estendesse al Paese, al popolo, alle proprie masse. Diciamocelo senza sottintesi e senza lenocinî: è una questione superata. Stato e Chiesa, Stato laico, Stato confessionale, non hanno più risonanza. Sono differenziazioni dei nostri nonni, nei tempi del Parlamento Subalpino. Sono questioni superate per la semplice ragione che ognuno di noi sente di rimanere fermo e risoluto nella propria posizione, senza rischio, senza pericolo e senza interferenze con le posizioni avversarie. Da più tempo ci rispettiamo reciprocamente su tali posizioni ed il Paese ha preso atto di siffatto rispetto ed è passato all'ordine del giorno.

E l'ordine del giorno delle nostre masse ci fa sapere che sono ben altre le questioni, che tengono acceso e vigile l'animo dei lavoratori.

Il roveto non è più ardente. È spento, onorevole Marchesi.

Che volete che il popolo si interessi dei Patti lateranensi, che non conosce e che dovrebbe tenere soltanto in gran dispitto, perché firmati da Mussolini!! Io li ho letti soltanto quando si discusse la questione dinanzi alla prima Sottocommissione. Pensate sul serio che nel momento in cui tante doglianze e tante necessità rendono difficile la vita, possa il popolo affamato e disoccupato interessarsi dei Patti lateranensi? E allora per quale ragione nella nostra Costituzione, così attesa ed invocata, dovremmo riferirci a simili Patti, dai quali, nel momento della stipula, tutto il popolo rimase assente per volere del tiranno, che da essi ripetette un nuovo anelito di vita?

Presidente Terracini. Onorevole Mancini, permetta che le rammenti che il tempo è passato.

Mancini. Sto per finire, onorevole Presidente. Mi permetta però di osservare che essendo stato il solo fra trentadue colleghi che ha accettato l'invito di parlare, avrei diritto a qualche benevolenza, almeno di tempo.

Tonello. Gli altri hanno parlato un'ora; vada avanti!

Presidente Terracini. Se lei permette, onorevole Tonello, le discussioni le dirigo io.

Mancini. Sono dunque riferimenti che servono soltanto ad imprimere alla Costituzione il crisma di un partito. Comunque io non saprei, né potrei spiegarmi come possa conciliarsi il principio dell'eguaglianza del cittadino e della sovranità popolare con il contenuto politico, etico, giuridico dei Patti lateranensi. Io non sottilizzo fra ordine e ordinamento, dico soltanto che Stato e Chiesa sono due ordinamenti giuridici sovrani ed indipendenti nella loro sfera giurisdizionale e territoriale. Libera Chiesa nello Stato sovrano. Prima di finire, mi preme però notare: che nella Costituzione lo Stato italiano non aveva bisogno di affermare la sua sovranità e la sua indipendenza. Lo Stato italiano è espressione diretta del potere sovrano del popolo. È lo stato di fatto che diventa stato di diritto. Onde la sua sovranità e la sua indipendenza sono attributi sacri ed inviolabili. Sono presupposti, che non debbono essere formulati, perché senza di essi non si comprende la stessa Costituzione. Sono cose così evidenti, verità così semplici che balzano agli occhi di ognuno. Ma il richiamo è avvenuto per ben altra ragione. Per rilevare la sovranità e l'indipendenza della Chiesa e metterla sullo stesso piano della sovranità ed indipendenza dello Stato. Orbene, lo Stato può riconoscere l'indipendenza della Chiesa; ma non può riconoscere la sua sovranità quando si muove nella stessa giurisdizione territoriale. La Chiesa fuori del nostro territorio è un ordinamento sovrano come sono sovrani tutti gli Stati esteri ed essa è uno Stato estero; perché possiede il suo territorio, pur se ristretto e simbolico, ed i suoi ambasciatori, cioè i suoi «Nunzi».

L'onorevole Condorelli ammoniva pur lui che la questione era superata. Ma errava quando soggiungeva che dal punto di vista sostanziale lo Stato è separato dalla Chiesa, mentre dal punto di vista formale lo Stato concorda con la Chiesa. Lo Stato è sovrano e indipendente nella sua giurisdizione territoriale e non può concordare con nessuno; perché in politica la forma plasma la sostanza. Tirando le somme: io ho ascoltato con viva attenzione gli oppositori della nostra tesi e posso riassumere le loro posizioni in due punti: quieta non movere, cioè non turbare la pace religiosa conquistata dal popolo italiano. Secondo, raggiungere l'unità del popolo italiano per seguire l'onorevole Giordani. L'onorevole Tupini, nel suo bel discorso, ha parlato di quieta non movere. Io noto che in questa Assemblea l'onorevole Tupini mi è parso diverso da come si mostrò quale Presidente della prima Sottocommissione.

Tupini. Sono stato sempre coerente; e di una coerenza politica.

Mancini. Io sono amico e non da oggi dell'onorevole Tupini; ma il mio amico quale Presidente della prima Sottocommissione diede prova di saggezza, di tolleranza, di obiettività. È stato sempre quello che ha saputo avvicinare le opposte tendenze e trovare la parola più suggestiva per vincere le resistenze.

Qui, allorché egli ha parlato, ha mutato voce, atteggiamento, volto. Mi è sembrato un uomo che voleva imporre il crisma pontificio alla Costituzione. Sarei assai lieto se mi fossi sbagliato.

Siamo noi dunque che abbiamo turbato questa atmosfera tranquilla? Non l'avete increspata voi? Sei stato tu, amico Tupini, che sei andato oltre. Hai predicato bene, ma hai razzolato male, perché hai sommosso le acque immote di questa tolleranza reciproca.

Noi resistiamo al vostro atteggiamento. Intanto esiste l'anticlericalismo in quanto esiste il clericalismo. Ma non voglio pronunciare queste parole. Esse debbono essere cancellate per sempre. Io dico invece che in tanto esiste l'antitesi rappresentata da noi, in quanto esiste la tesi sostenuta ed imposta da voi. È la reazione alla vostra tesi, che provoca le nostre resistenze. Dirò di più, noi siamo di una rassegnazione e di una tolleranza esagerate che vi dovrebbero essere di sprone e di esempio per uscir fuor dal pelago alla riva. In ogni modo vorrei farvi osservare che, se voi vinceste con un piccolo scatto di voti, la vostra vittoria sarebbe peggio di una sconfitta, specie dal punto di vista internazionale. Voi mi comprendete.

Si parla poi di lacerazione religiosa in Italia. Ma io non ho vista mai turbata la pace religiosa, neppure nei tempi in cui fiorivano le associazioni del libero pensiero. Neanche allora ci fu una vera e propria lacerazione religiosa.

C'era qualche increspatura sulle acque trasparenti e niente più. Il popolo italiano ha saputo dare al suo sentimento religioso la saggezza luminosa della sua tradizione e della sua coscienza democratica. La pace religiosa potrebbe turbarsi con queste vostre intolleranze e queste lunghe discussioni. Fortunatamente il popolo non vi presta orecchio; perché ha una volontà orientata verso altre mete. Mentre la esasperazione intellettualistica danno Bisanzio, non Roma.

Allarmava l'onorevole Giordani l'altro ieri: l'unità del popolo italiano corre pericolo. Ma, l'unità del popolo italiano è rappresentata forse da questi ignorati Patti lateranensi? Rispondo subito con lo stesso argomento dell'onorevole Giordani. Egli si rivolse all'Assemblea dicendo: Voi vi sbagliate quando credete che la Chiesa siano i cardinali, i vescovi, i preti: niente di tutti questi. La Chiesa è la coscienza del credente e l'io del credente. Ne pigliamo atto e gli osserviamo: tutto ciò è vero nel campo della spiritualità, che nessuno vi tocca, perché vi abbiamo dato prove indubbie di rispettarlo. Ma se dal campo spirituale, si passa al campo dell'azione cattolica la Chiesa si trasforma in strumento di politica e la religione diventa tirannia spirituale più pericolosa di quella politica. La democrazia è contro tutte le dittature: dalla spirituale e religiosa alla politica.

Permettetemi, onorevoli oppositori, che io vi dica che non v'è cuore senza fede, non vi è intelletto, senza un'alta esigenza spirituale.

Voi avete il vostro martirologio; noi abbiamo il nostro! Voi avete una fede, onorevole Tupini; che ha l'ardire di squarciare i misteri augusti dell'al di là noi abbiamo una fede che ci dà la forza di vincere le ingiustizie e le miserie dell'al di qua.

Ma le nostre fedi non sono in antitesi, si completano, si integrano. Vanno oltre, si superano in una sola fede, una fede grande come il nostro dolore, una fede splendente come la nostra tradizione: la fede nel riscatto dell'Italia repubblicana. (Applausi a sinistra Congratulazioni).


 

[1] L'onorevole Mancini parla di «articolo 7» riferendosi all'articolo 5 del progetto, in quanto da alcuni deputati sono già stati presentati degli emendamenti volti a trasferire gli articoli 6 e 7 del progetto subito dopo l'articolo 1.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti