[Il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

[...]

Apro la discussione generale sul Titolo terzo: «Rapporti economici».

Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Malvestiti. Ne ha facoltà.

Malvestiti. Onorevoli colleghi, non è ormai una affermazione peregrina dire che il terzo Titolo del progetto di Costituzione, che tratta dei rapporti economici, ne è la parte più nuova, più moderna, direi addirittura più rivoluzionaria, senza paura della definizione, perché sono le cose che importano e non i nomi delle cose.

E poi, se è vero che le Costituzioni nascono nei momenti drammatici della vita dei popoli, vuol dire anche che risolvono una soluzione di continuità, che gettano un ponte fra un passato, davanti al quale si è aperta una voragine, e un avvenire che già urge coi suoi palpiti di luce.

Davanti alle Costituzioni dell'Ottocento l'uomo del nostro tempo si pone alcuni interrogativi, che sono un grande e tragico processo a tutta una civiltà. Con un enorme stupore egli si chiede come è potuto avvenire che le grandi parole di libertà, di uguaglianza, di fraternità, riecheggiate nelle aule più solenni, promesse dalla labbra più degne, garantite dalla più sicura volontà, santificata con una così vasta testimonianza di sangue, non abbiano risparmiato all'Europa e al mondo — non abbiamo risparmiato all'uomo — l'orrore, la contraddizione, l'infamia della prima e della seconda guerra europea: e come necessitino di essere ancora proclamate e difese come preziosi, ma fragilissimi beni.

Domande alle quali noi stessi stiamo dando una risposta concreta e costruttiva con questa nostra Costituzione, che dovrà dire sino a che punto la nostra critica è stata severa, onesta, disinteressata: se abbiamo avuto il coraggio della diagnosi e se abbiamo il coraggio della cura.

E mi permetta qui di ricordare che molto grave è stata l'accusa mossa dall'onorevole Togliatti nella seduta dell'11 marzo, proprio a proposito del Titolo che stiamo esaminando, quando non ha temuto di dire che si è talvolta seguito il metodo del compromesso deteriore, lavorando non più sulle idee e sui principî, ma sulle parole, togliendo una parola per metterne un'altra la quale direbbe approssimativamente lo stesso, ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in un altro modo: sostituendo, insomma, la confusione alla chiarezza. «Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali — ha detto testualmente l'onorevole Togliatti — sono stati rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale».

Io non so sino a che punto tutto questo risponda alla più precisa verità — perché v'è anche un metodo di solliciter doucement les textes che forse l'onorevole Togliatti non ignora —; ma so che v'è almeno una condizione alla quale dobbiamo obbedire, se siamo degli uomini politici cui il Paese ha affidato un grande compito; se siamo dei galantuomini: ed è di sapere che cosa vogliamo.

Su una constatazione noi dobbiamo almeno essere d'accordo: che il divorzio fra politica ed economia è assurdo: che il sistema economico deve creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica; che le prerogative individuali sono illusorie per chi non è in grado di risolvere il problema del pane quotidiano.

Processo al capitalismo? Direi qualche cosa di più: direi processo ad una libertà che della vera libertà non aveva che un volto menzognero, perché aveva soltanto garantito la libera sopraffazione gabellata per libera concorrenza; lo sfruttamento tra le classi e tra i popoli; l'insopportabile costo umano della produzione; il caos dei prezzi.

Ora, si può, sia pure benevolmente, sorridere del candido richiamo del nostro La Pira al carattere cristiano della nostra Costituzione; ma non si deve dimenticare che il processo al liberalismo, alla sua filosofia e alle sue origini storiche — il processo che noi stessi stiamo facendo e che dobbiamo portare fino in fondo — è stato inventato alcuni secoli or sono — dai giorni stessi di Lutero — dalla Chiesa cattolica.

E permettetemi anche di dire che si capirà poco della Democrazia cristiana — il che potrebbe non essere un gran male — ma si capirà ancor meno del nostro tempo — il che, più ancora che un delitto, è un errore — se non ci si renderà conto che la democrazia cristiana in tutto il mondo, forte delle sue tradizioni e della sua dottrina sociale, non ritiene affatto che non si debba tentare di raddrizzare l'ingiustizia sociale con altri mezzi che non siano la carità e rifiuta nel modo più sicuro, più perentorio, più impegnativo, di essere l'estremo baluardo del privilegio economico.

Dunque, prima di tutto, il processo alla falsa libertà — dico a ragion veduta, falsa più che incompleta — e il processo al feudalesimo economico che garantisce il carattere beneficamente e pacificamente rivoluzionario della nostra Carta costituzionale.

Quali sono gli aspetti basilari del capitalismo? L'appropriazione privata dei mezzi di produzione, la concorrenza e la ricerca del profitto.

L'economia politica arriva ad alcune conclusioni universali: che l'utilità marginale determina l'impiego più economico dei beni e dello stesso lavoro, e che in un'economia di mercato i prezzi rappresentano il vero valore delle cose e dei servizi.

Da queste premesse alla conclusione che, dunque, il processo di distribuzione e di ripartizione risulta equo, il passo è sin troppo breve.

Gli economisti non contestano che il profitto sorge dalla potenza produttiva del lavoro, ma affermano che la ripartizione non è un aspetto della produzione.

Vi è un grosso equivoco all'origine filosofica delle loro ricerche, ed è quel loro credere all'ordine naturale delle cose, quel giurare sulla «natura» ignorandone il Creatore e l'Ordinatore, e i suoi moniti e le sue leggi. Quando si troveranno alle prese coi moralisti, essi ripeteranno sempre con mite, ma invincibile ostinazione, il loro «eppur si muove». Partiti da alcune affrettate ipotesi, arrivano rapidamente a constatazioni d'uniformità che sono confortate dall'esperienza; queste constatazioni di uniformità sono leggi; queste leggi sono dunque della natura. Lo stesso Marx, che pur pretende di postulare un elemento di giustizia assolutamente estraneo alle sue premesse filosofiche, non riesce a liberarsi dal feticismo del fatto: è l'economia a schiavi che genera una certa religione, una certa morale, un certo diritto, una certa politica; non sono la religione, la morale, il diritto, la politica che determinano o che trasformano alla radice la economia a schiavi. Primum purgari gridano gli economisti; la vostra legge morale ha torto se il fatto le dà torto; in ogni caso è un elemento estraneo, disturbatore. Non vedono che la legge economica è dell'uomo e che, se l'uomo tende sempre più ad assomigliare al brutale manichino dell'egoismo — l'homo oeconomicus — teorizzato ed isolato dalle necessità dell'indagine; se le deduzioni teoretiche sono confortate dall'esperienza, ciò vuol soltanto dire che questa esperienza si riferisce a un mondo — il nostro, mondo — completamente sradicato dalla sua matrice cristiana. Soltanto, o quasi soltanto, lo Stuart Mill, fra gli economisti liberali, si avvede che almeno le leggi della distribuzione sono dovute in parte alle istituzioni degli uomini, ed avverte che i lavoratori non sarebbero disposti a consentire più a lungo a spaccare legna e ad attingere acqua per il servizio e beneficio di altri, e che sarebbero «via via meno disposti a cooperare come agenti subordinati in un qualsiasi lavoro, il cui risultato non li interessi». Vero è che gli economisti moderni, ed in modo vivacissimo il Pareto, rifuggono dalla precettistica, affermando che soltanto i fatti e le loro relazioni interessano la scienza.

Il Del Vecchio, autentica tempra di studioso, butterà addirittura a mare le «premesse arbitrarie», come necessarie ai sistemi elementari; si insegna apoditticamente ai fanciulli che il calore dilata i corpi: «quando si passa allo studio superiore della fisica si dice che esiste un certo rapporto fra il calore e la dilatazione e si determina questo effetto, mentre negli elementari non avviene». Ancora il Del Vecchio ricorda che, mentre «la storia economica pareva l'imitata a confermare la teoria oppure costretta a negarla», nei nuovi economisti «il dato fondamentale (è) che il fatto studiato nell'economia è il fatto storico e che il mezzo per studiarlo è appunto la teoria costruita in modo conforme a questa natura dell'oggetto studiato». Non vi è scienza economica se non là dove sia «raggiunto il contatto immediato della realtà concreta coi nostri strumenti d'osservazione: strumenti che, dall'analisi statistica all'induzione matematica, permettono la rappresentazione dell'equilibrio generale e la fissazione di «costanti verificate sperimentalmente dentro certi limiti e costituite da combinazione di movimenti secolari, ciclici e minori (Del Vecchio)». Siamo alla dinamica economica, alla determinazione statistica di certe tendenze «prescindendo da ogni presupposto psicologico ed astratto».

La scienza ha dunque enormemente camminato, ma rapidamente, molto più rapidamente ha camminato la vita. La vita è andata ben oltre le previsioni degli economisti, e se lo stesso Pareto ha «seguito la via dell'analogia con le scienze delle religioni, del linguaggio, della politica, ed ha costruito una dinamica sociale e non economica, integrando la teoria statica dell'economia con quella dinamica della sociologia (Del Vecchio)», non è forse tanto perché al punto in cui era arrivato gli mancassero gli strumenti di osservazione o gli facesse difetto l'impeto dell'ingegno, quanto perché ha probabilmente avvertito che la ricerca aveva proprio con lui esaurito un ciclo e che altre influenze, altri rapporti andavano cercati, definiti, misurati.

Si avvertiva ormai una certa vischiosità della ricerca nei confronti del fenomeno completo: la brama insaziata dell'uomo moderno ha fatto saltare tutte le antiche ipotesi ed ha posto la scienza in flagrante e costante delitto di ritardo: quanto meno l'ha costretta ad ammutolire, a distinguersi troppo radicalmente dalla politica economica, a chiudersi in una orgogliosa verginità speculativa, a ripetere la desolata constatazione che, in una famosa polemica con l'Agnelli, faceva più di dieci anni or sono il senatore Einaudi: che cioè a tutt'altri che agli economisti era ormai dato di additare, una meta e di dire agli uomini una parola di vita. Ma esaminiamo ciò da vicino.

Al centro del sistema era, premessa fondamentale e necessaria, il principio della concorrenza. L'optimum sociale, e quindi, in definitiva la giustificazione dell'individualismo economico, derivava soprattutto da ciò, che l'automatismo della concorrenza eguaglia il saggio del profitto e tende a ridurlo al punto di coincidenza col costo di produzione.

Il famoso Sherman Anti-Trust Act del 1890 era un prodotto legislativo tipico altrettanto dell'universalità di una opinione che la scienza difendeva e propagandava con zelo instancabile, quanto di quella vischiosità, di quel ritardo della scienza stessa sul fatto concreto che mi sono permesso di segnalare. Si combatte il sindacato industriale perché si crede, non senza ragione, che questo complesso economico alteri in modo fortemente sensibile la curva dell'offerta e della domanda: ma ciò non toglie che proprio l'America sia diventata la patria classica dei cartelli, dei trust, delle holding. Davanti al fatto, innegabile ed indomabile, la scienza comincia a chiedersi se la formazione del prezzo in regime di coalizione è un'ipotesi eccezionale rispetto alla libera concorrenza (Barone); trova che il trust riduce il costo di produzione, ma deve pur accorgersi che lucra a proprio profitto tal risparmio, non solo, ma che comunque i ribassi di prezzo sono inferiori a quelli che si avrebbero con la concorrenza: una spiegazione soddisfacente non è data che dall'esame dell'incidenza del progresso tecnico nel processo produttivo.

La prevalenza del capitale fisso sul capitale circolante priva le imprese di elasticità e di capacità di adattamento; rende sempre più difficile il trasferimento di capitali fissi da un'impresa all'altra: quindi l'associazione per la difesa del profitto. Sembra, ad uno sguardo superficiale, che il trust possa con maggiore consapevolezza studiare il mercato e quindi adattare la produzione al consumo ed evitare o almeno attenuare le crisi; errore: le crisi si manifestano con maggiore ampiezza proprio nei paesi controllati dai trust. Si è osservato che proprio le imprese meglio attrezzate tecnicamente resistono meno bene alla crisi: le troppo pesanti quote di ammortamento e di spese generali, dovute ai costosissimi impianti, impediscono un ribasso sensibile del prezzo unitario dei prodotti, mentre d'altra parte questo stesso ribasso non incontrerebbe un potere di acquisto adeguato. La durata delle crisi verrebbe aggravata non solo dalle incompressibilità dei costi, ma altresì dal pauroso depauperamento delle masse. Un'immagine impressionante è data dal Cailleaux: cinque operai farebbero oggi il lavoro di quattromila nel 1865, all'epoca del traforo del canale di Suez. Si sostituiscono, insomma, con progressione geometrica, dei dividendi dei salari: i dividendi cercano a loro volta un impiego immediato proprio di quei beni strumentali a fecondità ripetuta, il cui intervento nelle crisi ha costituito l'oggetto degli studi più recenti. Che le crisi siano in parte dovute all'esuberanza di capitali disponibili, ribelli alla discesa del profitto, non mi sembra una opinione arbitraria del Supino. Ed eccoci al temibile riflesso sociale di questo malessere economico.

Noi ci incamminiamo rapidamente verso una società in cui, a un piccolo e sempre più riducentesi numero di produttori — capitalisti, impresari, tecnici, operai specializzati — si contrappone una sterminata falange di assistiti, veri uccelli cacciati dal nido, le cui possibilità di sostentamento sono più aleatorie di quelle delle rondini. «Nel campo economico e morale — scrive d'altra parte il Pirou — il capitalismo odierno ha meno titoli di legittimità che non il capitalismo al quale ha succeduto. La convergenza della sua attività con l'interesse generale è più che dubbia, perché esso vive del monopolio e dello sfruttamento del consumatore, reso possibile da questo monopolio». Il valore tecnico dei suoi dirigenti non è meno dubbio, perché essi sono piuttosto finanzieri che tecnici e mirano più al guadagno della speculazione, che agli utili industriali. Ma c'è qualcosa di più grave ancora: ed è l'enorme potere di corruzione del capitalismo moderno, che rende oltremodo pericolosa la sua invadenza politica. Il dumping — dovuto alla compiacenza del potere politico — è una soprarendita pagata ai consumatori stranieri, parte da quelli nazionali, parte dai contribuenti: lo si giustifica dicendo che questa soprarendita verrà restituita dal consumatore straniero sotto forma di sopraprofitti di monopolio, non appena l'imposizione del prodotto al suo mercato non sarà più minacciata dalla concorrenza locale. Ma, anche ammessa l'ipotesi, questa restituzione non avverrà ai consumatori ed ai contribuenti, bensì a coloro che controllano il trust, e che saranno tentati di ripetere il giuoco in sempre più vasta scala.

L'economia diventa, insomma, insaziabile ed aggressiva; man mano che i mercati vengono a chiudersi o a saturarsi, il capitalismo chiede allo Stato di eliminare la concorrenza straniera, agita il problema delle colonie: la teoria dello «spazio vitale» diventa una teoria popolare ed una norma di governo: con quali promesse di bancarotta, con quali prospettive di rovine e di orrori noi sappiamo per diretta e troppo dolorosa esperienza.

Permettetemi di trovare la conferma di tutto ciò in una pagina che resterà fra le più lucide ed impressionanti della storiografia economica: voglio dire della testimonianza augusta ed insospettabile della Quadragesimo Anno di Pio XI: «Ai nostri tempi non vi ha solo concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza della economia in mano di pochi e questi sovente neppur proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.

«Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il denaro, agiscono da padroni, dominano il credito e padroneggiano i prestiti: onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l'organismo economico, ed hanno in mano, per così dire, l'anima dell'economia: sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.

«Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica dell'economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso, i più violenti della lotta e i meno curanti della coscienza.

«A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezza e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze, della sua influenza nelle competizioni economiche; infine si lotta fra gli stessi Stati, e perché le Nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini e perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte tra le Nazioni... La libera concorrenza, cioè, si è da se stessa distrutta: alla libertà del mercato è subentrata l'egemonia economica: alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio e tutta l'economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele».

Intanto, la stessa classe capitalistica ha del tutto cambiato di composizione e di struttura: e ciò darebbe ragione alla teoria della circolazione delle élites, se la nuova élite non meritasse piuttosto una diversa denominazione.

Non più il cavaliere dalla «triste figura» e non più quella generazione di autentici ed infaticabili conquistatori che sono stati i creatori dell'industria moderna.

Fondare un'industria, lanciare un prodotto, conquistare un mercato voleva dire, sin verso la fine del secolo scorso, impegnare le proprie ricchezze, la propria vita, il proprio onore, oso dire, oltre ogni limite umano. V'era in ciò tutta l'ansia e tutta l'ebbrezza, ma anche tutta l'immane fatica e tutto il pericolo dell'avventura. La nuova filosofia, le nuove libertà civili e politiche dicevano ad ogni uomo che egli poteva costruirsi la propria vita, scegliersi il proprio cammino senza limiti di orizzonti e di frontiere. Il grido «avanti! più in alto!» risuona per tutto il secolo e trova un'eco in ogni cuore.

«Di che lacrime grondi e di che sangue» questo benessere che aveva completamente trasformato lo standard di vita dell'uomo del nostro tempo, quali atonie spirituali, quali abdicazioni morali, quali crudeltà abbia trascinato e trascini con sé non è qui compito mio di indagare. Basti un accenno all'immensa opera di carità che è fiorita per tutto il secolo, agli eroismi di devozione e di fraternità cristiana che il secolo ha veduto per far meditare sui rottami umani che la civiltà moderna ha sino a ieri abbandonato lungo la sua strada. Certo, il capitalismo trova un suo titolo d'orgoglio in un dato che non teme smentita: la popolazione europea è cresciuta da 188 milioni alla fine del '700 a 516,7 milioni alla vigilia di questa guerra (1937).

Ma, come ho detto, la seconda fase del capitalismo ci presenta un'elite che è completamente diversa da quella ormai cacciata di nido.

Gli elementi del profitto, che è un reddito misto di interessi sui capitali, di premio per il rischio e di compenso per il lavoro di direzione, si scompongono anche socialmente in categorie che personificano le diverse funzioni.

Il singolo che impiega i propri capitali, sopporta tutti i rischi e dirige personalmente l'azienda, appartiene ormai all'età delle caverne del capitalismo. Nasce in un secondo tempo la figura dell'imprenditore, che prende a prestito i capitali, si assicura contro certi rischi e guida direttamente la gestione. In un terzo tempo, le grandi aziende sono assunte in misura sempre maggiore da società per azioni e da altri organismi collettivi. L'azionista non sa dell'azienda se non che, una volta all'anno, potrà partecipare a un assemblea e staccare dalle proprie azioni una cedola di dividendo. Sa anche, o almeno sapeva, che troppo spesso le azioni gli venivano rimborsate e sostituite con le così dette «azioni di godimento»: lo spettacolo di queste azioni, scrive il Gide, che sono rimborsate e che continuano pertanto a toucher, che sono morte ma che mangiano sempre di buon appetito, ha fortemente preoccupato i giuristi. A quale titolo, si domanda l'insigne economista francese, queste azioni reclamano la loro parte di profitto?

Vero è che l'impresa è però retta e rappresentata da un consiglio di amministrazione: ma si ingannerebbe a partito chi pensasse che in questi consigli entrino normalmente dei tecnici. Sono soprattutto dei finanzieri, espertissimi nelle vaste manipolazioni azionarie, con larghi e spesso oscuri contatti col mondo politico e giornalistico: uomini colti, sagaci, dal vigile istinto ferino. Si deve a loro il sistema delle holding e la pratica eliminazione della concorrenza. È questo capitalismo che chiede allo Stato di imporre dazi protettivi per lucrare la rendita differenziale fra il prezzo della concorrenza straniera e il proprio; che si appropria dei guadagni nei periodi di prosperità, tentando di rigettare sulla collettività le perdite quando sopraggiungono i momenti sfortunati; che postula il sistema dei contingentamenti; che piega al proprio interesse persino certe manifestazioni dell'economia programmatica sorte per combatterle, almeno a parole, come il corporativismo fascista; che, infine, con la scusa di sfuggire alla pressione fiscale, riesce ad alleggerire il portafoglio degli stessi azionisti dell'impresa. «In realtà la miglior parte degli utili — scrive Gaetan Pirou — con la gestione effettiva degli affari, ha cessato di appartenere alla collettività degli azionisti... Sono stati adoperati dei procedimenti nuovi, che nascondono una parte notevole degli utili in poste oscure o la disseminano fra le filiali; dirette dagli amministratori della società madre, ma in cui gli azionisti di questa sono assenti. In conclusione, i veri beneficiari del meccanismo capitalistico, attualmente, non sono più gli azionisti, ma gli amministratori, i quali formano una piccola oligarchia chiusa».

Finalmente il terzo elemento del profitto — ossia il compenso per il lavoro di direzione — è personificato dai tecnici, che vengono in genere dalla piccola e media borghesia e il cui sogno è di entrare presto o tardi nella casta troppo spesso impenetrabile del grande capitalismo.

Questo il quadro del nostro mondo economico.

A questo punto la nostra rivolta ci ha suggerito una formula liberatrice: «La Repubblica è fondata sul lavoro». E, in questo terzo titolo diciamo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Il problema non è nuovissimo. Affermato per la prima volta dal Locke nella formula che il bisogno del lavoro implica necessariamente il diritto di poter lavorare; poi da Montesquieu e da Rousseau, è dichiarato da Turgot nel preambolo dell'editto del 1776 («Il diritto di lavorare è proprietà di ogni uomo, la più sacra ed imprescrittibile di tutte»); poi, durante la Rivoluzione francese, nei decreti della Costituente, della Camera legislativa e della Convenzione. Fichte ne fa obbligo per lo Stato, come Winkelblech, Lassalle e Menger: così Fourier e Proudhon. In Inghilterra è affermato dal Cartismo; è ripetuto da Marx e da Louis Blanc: il Lacordaire lo invoca come principio cristiano nell'Assemblea Nazionale; è finalmente enunciato dagli stessi regimi autoritari e dal Libro Bianco inglese sui problemi del lavoro del 1944.

Si tratta di badare bene a due ordini di considerazioni: anzitutto che la Costituzione è un documento giuridico che deve esprimere norme di diritto; ma che appunto per ciò le formule ideali, ma obiettivamente irraggiungibili, possono portare ad uno stato di delusione che comprometterebbe la serietà stessa della Carta costituzionale.

Dobbiamo però dire subito che dicendo «lavoro» noi non ci riferiamo al suo carattere di pena, di tormento, di umiliazione — avremmo una Repubblica di forzati — ma alla sua dignità e alla sua funzione redentrice: con un limite, che è il limite stesso indicatoci dal Cristianesimo nella sua dottrina finalistica. Il lavoro era disprezzato dal paganesimo: Aristotele giudica gli artieri, che indeboliscono il corpo e lo spirito, incapaci di virtù; per Cicerone il salario è segno di servitù. Il Cristianesimo nobilita il lavoro; lo impone come funzione espiatoria inseparabile dalla natura umana; lo nobilita nella stessa persona di Cristo; annulla le ragioni della schiavitù; ne fa un mezzo di indipendenza anche spirituale e, col monachismo, ne fa persino una norma d'asceti.

Ma il limite è pur sempre quello del destino personale dell'uomo: i suoi diritti derivano dalla sua natura, mentre la società non è per l'uomo che il mezzo necessario che lo aiuta a conseguire il fine. Solo a questo titolo il lavoro è insieme un diritto che involge un problema etico, e un dovere individuale e sociale. È ciò che vien detto nell'articolo 31; ma bisogna intendersi.

Che cosa vuol dire: «riconoscere il diritto al lavoro»? È il diritto di rivolgersi allo Stato per domandargli un'occupazione: un diritto uti singuli del cittadino verso lo Stato? Lo Stato è fonte di questo diritto, e non piuttosto il diritto e il dovere di vivere danno all'uomo il diritto al lavoro indipendentemente dallo Stato, cui incombe, per il suo compito di effettuare il bene comune, di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto dell'uomo? Ma proprio qui urge la preoccupazione di star lontani, con vigile senso politico, da proclamazioni il cui carattere utopistico avvelenerebbe tutto il documento costituzionale. Fu giustamente osservato che l'impegno di seguire un determinato indirizzo di politica economica sembrerebbe assai più serio e convincente. Dire, come nell'articolo 32, che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia» è dire una magnifica cosa, che però può diventare una crudele irrisione.

Le condizioni del diritto sono tali — e non vedo come potrebbero mutare nell'attuale organizzazione sociale — che il contratto liberamente stipulato fra i datori di lavoro e lavoratori ha forza di legge per i contraenti. La norma giuridica sostanziate non è stabilita dalla legge dello Stato, ma dalla volontà dei contraenti: lo Stato può garantire non la giustizia, ma la sola legalità della transazione. Meno che meno lo Stato può imporre indefinitamente alle imprese una condotta economica irrazionale, come sarebbe quella che incidesse sui costi in maniera insopportabile, o per l'altezza dei salari nei confronti del mercato mondiale del lavoro, o per l'occupazione di un numero superfluo di lavoratori.

Siamo, in sostanza, al grave problema di una politica economica, che d'altra parte noi non possiamo risolvere da soli: il fenomeno economico è universale, e non può essere disciplinato che da norme ugualmente universali. Inutile quindi soffermarci sul dilemma fra liberismo od economia regolata, disciplinata, pianificata: dobbiamo tenerci all'immediato ed al concreto.

E vi è, qui, una verità solare, che deve restare come un memento dei nostri spiriti: che non c'è risoluzione sociologica che possa ignorare l'obiettiva base economica; che il problema centrale dell'economia è un problema di produzione; che l'Italia possiede pur sempre una ricchezza incalcolabile: l'ingegno dei suoi figli.

Se siamo convinti — come non possiamo non esserlo, perché è la realtà — che la grande forza edonistica umana è un fattore fondamentale, di ricchezza, si tratta di dirigerla, proprio nel senso della vera libertà economica.

La fase patologica del capitalismo è contrassegnata da una costante e sempre più grave offesa alla libertà: il capitalismo sopprime puramente e semplicemente la libertà economica.

La scoperta più grande di Marx è che il capitalismo trasforma i rapporti tra gli uomini in rapporti fra cose: non c'è, cioè; una realtà economica sostanziale e perciò tutte le categorie economiche non sono che categorie storiche e non principî eterni come li professava l'economia borghese e classista: ma tutto ciò contraddice proprio il materialismo.

Bisogna liberare l'uomo, che è ingegno, volontà, lavoro, vita: l'attività implica un principio spirituale, e solo un principio spirituale garantisce l'attività.

Mi si permetta perciò di credere che la coordinazione delle attività economiche da parte dello Stato, di cui si parla all'articolo 40, non è utile e feconda se non a due condizioni: che si tratti di difendersi contro la formazione di egemonie monopolistiche, o che, in determinate condizioni di tempo e di luogo, venga in questo modo garantita l'economicità della produzione.

Bisogna, invece, puntare risolutamente sulla trasformazione, direi meglio, sul superamento dell'economia capitalistica: perciò il solo diritto, sancito dall'articolo 43, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende mi sembra del tutto inefficace ed illusorio.

Io resto convinto che, agli effetti stessi della produzione e del giusto prezzo, il sistema della concorrenza è ancora il modo meno imperfetto di scegliere gli uomini: la casta chiusa della aristocrazia denuncia ormai una sproporzione insopportabile fra il privilegio e il servizio reso alla collettività. Il diritto di proprietà segna ormai un ritardo, una vischiosità nei confronti dell'economia, che è quanto dire della vita. Ridiamo perciò al diritto di proprietà la sua funzione sociale nell'articolo 38.

Ora, l'articolo 43 immette i lavoratori nella gestione delle aziende; ma, pure ammesso che tutto ciò debba portare un contributo notevole alla produzione, c'è sempre una domanda da farsi, una riserva da proporsi: a profitto di chi? Si può dire, genericamente, «a profitto della produzione»; ma questa è una parola.

Si tratta, concretamente, di modificare la ripartizione del profitto, senza danneggiare il normale funzionamento di un sistema produttivo che ha pur fatto delle grandi prove; si tratta di conservare quanto c'è di buono nel sistema, indirizzandolo verso un'evoluzione in cui l'imperativo sociale diventerà sempre più dominante; si tratta di toglier di mezzo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo senza sostituirvi l'ancor più atroce sfruttamento dello Stato su l'uomo. Si tratta, in sostanza, di creare una vera e vitale democrazia economica.

E allora, bisogna avere il coraggio di andare più in là; bisogna avere il coraggio di dire: i lavoratori hanno diritto alla compartecipazione, regolata dalla legge, agli utili, al capitale e alla gestione dell'impresa di tipo capitalistico. La legge riconoscerà il diritto al lavoro di essere rappresentato nei consigli di amministrazione delle società per azioni, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria.

Soltanto così, noi diamo ai lavoratori quello che i lavoratori aspettano da noi; restituiamo al lavoro la sua nobiltà e la sua gioia; liberiamo il volto dell'uomo dandogli la scienza della vita, la serenità della vita, l'onore della vita. (Applausi al centro).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Cortese. Ne ha facoltà.

Cortese. Onorevoli colleghi, prendendo la parola nella discussione generale sul Titolo III, ho l'impressione di usufruire forse di un privilegio, nel senso cioè che probabilmente non a tutti sarà consentito di prendere la parola sulla discussione generale di questo Titolo. Avverto quindi il dovere di non abusare di questo privilegio, di contenere le cose che sto per dire, limitandomi a svolgere gli emendamenti che ho proposto.

Vorrei però rilevare preliminarmente che questa zona della Costituzione che stiamo esaminando è quella nella quale più che in altre si incontrano esigenze diverse che reclamano una conciliazione.

E infatti qui vi è una prima esigenza che è quella di dare ai fondamentali diritti del lavoro una precisa formulazione, di inserirli nel testo costituzionale, segnando così un progresso di fronte all'affermazione dei diritti di libertà ai quali si limitavano le Costituzioni dell'Ottocento.

Ma d'altra parte, a questa esigenza se ne contrappone un'altra, cioè quella di dare davvero un contenuto normativo, una concretezza di impegno giuridico alle affermazioni che si inseriscono nella Carta costituzionale, di non fare insomma delle dichiarazioni astratte, delle vaghe formulazioni di aspirazioni, ma di precisare delle norme di legge, sicché vi possa essere certezza dei diritti ai quali corrispondano dei doveri, vi possano essere delle pretese giuridiche che diano diritto a sperimentare le corrispondenti azioni per ottenere l'effettiva attuazione.

Ora, onorevoli colleghi, questo è un problema davvero difficile a risolversi. Io qui avverto la nostalgia di quel preambolo del quale si è molto parlato nei lavori finora svolti, la nostalgia di quel preambolo che è stato redatto dall'Assemblea Costituente francese, nella seconda formulazione della Carta costituzionale, dove si è trovato modo di inserire, appunto nel preambolo, talune aspirazioni, taluni moniti al futuro legislatore quando non era possibile formulare delle norme che avessero il rigore e la concretezza della norma giuridica.

Vi sono poi altre esigenze da contemperare: contemperare questo afflato di giustizia sociale, la quale è reclamata dalla voce nuova dei tempi, dopo che tanti sentimenti e tanti convincimenti si sono fatti maturi nella coscienza popolare, colle esigenze dell'economia e della produzione.

Si tratta inoltre di tenere conto della necessità di porre riparo alle degenerazioni capitalistiche, alle degenerazioni dell'economia di mercato, agli sfruttamenti monopolistici; ma, d'altra parte, di non slittare verso quell'economia collettivizzata che, per lo meno per noi di parte liberale, è un'economia inaccettabile, in quanto potrebbe determinare soprattutto una contrazione di produzione, sostituendosi all'imprenditore privato il funzionario statale.

Altre esigenze infine vengono qui in contrasto. Vi è, dicevo, questa aspirazione ad una più equa distribuzione dei beni, questo slancio a realizzare una società più giusta, aspirazione viva ma confusa nel tumulto della vita nella quale viviamo, e d'altra parte v'è l'esigenza di una regola certa, di confini ben precisati, perché il mondo economico ha bisogno di sicurezza e di stabilità. Noi invece in questo progetto costatiamo che, mentre si riconosce, per esempio, l'iniziativa privata, dall'altra non si stabiliscono le norme precise che diano la sicurezza dei limiti, delle frontiere entro le quali la iniziativa privata possa davvero liberamente svolgersi e si pongono norme ricorrenti e vaghe minacce di interventi statali, di collettivizzazioni e di nazionalizzazioni. Io ho l'impressione che, in un certo senso, la Carta costituzionale rifletta per questa parte la realtà della nostra vita economica e politica di questo momento eccezionale.

Noi non abbiamo in questo momento in Italia né economia di mercato né economia collettivizzata. Noi siamo in una strana economia, in un regime di economia «disturbata», di economia «minacciata», perché mentre non si è sostituito all'economia di mercato un altro tipo di economia, pur tuttavia si violentano le norme fondamentali di quella economia. Ora, questa esigenza di sicurezza, che è la condizione imprescindibile perché l'iniziativa privata possa avere slancio, movimento, possa davvero moltiplicare i centri di produzione e dar vita alla ricostruzione del Paese, non potrà essere realizzata finché non si stabiliranno norme precise, non si darà garanzia all'iniziativa privata, al capitale privato, ponendo termine a questa atmosfera di costanti rivolgimenti, di mutamenti più o meno radicali di riforme ogni giorno vagamente annunziate, paventabili da taluni, desiderabili da tal altri, che pongono un eterno interrogativo nella vita economica, un interrogativo che è davvero paralizzante. Queste credo siano le esigenze che vanno contemperate in questa zona della Carta costituzionale dove, per altro, si scontrano ideologie antitetiche, perché questo è il campo dove naturalmente vengono in conflitto ideologie classistiche e non classistiche.

Io, come dicevo, intendo soprattutto svolgere e coordinare gli emendamenti da me proposti, più che esaminare nel loro insieme gli articoli in discussione.

Il Titolo III si inizia riconoscendo che la tutela del lavoro in tutte le sue forme è obbligo della Repubblica; è una affermazione questa sulla quale non c'è alcuna osservazione da fare se non per aderirvi toto corde, pur rilevando che in sostanza questa affermazione non crea niente di nuovo dal punto di vista costituzionale. Dove invece bisogna soffermarsi un attimo è sull'articolo 31: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Siamo effettivamente di fronte ad una di quelle affermazioni avveniristiche verso le quali si tende la speranza, l'ansia di progresso di ciascuno di noi, a qualunque settore dell'Assemblea Costituente appartenga.

Ma qui insorge quella tale esigenza normativa della legge costituzionale. Come farà la Repubblica a garantire in concreto a tutti i cittadini il soddisfacimento di questo diritto che ha affermato, del diritto al lavoro? Badate, non basterà dare il sussidio di disoccupazione. Quando si dice che la Repubblica riconosce a ciascuno il diritto al lavoro, la Repubblica assume un impegno di dare lavoro a ciascun cittadino che il lavoro reclama, e lo reclama sulla base di una norma costituzionale.

Vi sono delle esperienze storiche, mi direte, ma vi sono delle esperienze storiche rivoluzionarie completamente fallite. D'altra parte, per poter garantire lavoro a tutti, lo Stato dovrebbe pianificare e dirigere tutta l'attività produttiva ed assegnare a ciascun cittadino un determinato lavoro. Si dovrebbe tentare, cioè, un esperimento di bolscevizzazione che condurrebbe alla dittatura e aggraverebbe il collasso economico. Ecco perché noi ci volgiamo col nostro desiderio a quel tale Preambolo. Affermiamo pure in esso che ogni lavoratore ha diritto al lavoro, affermiamolo in un voto, in una direttiva al futuro legislatore; ma ci sembra che l'inserire una tale affermazione categorica in un insieme di disposizioni che hanno valore giuridico, che hanno valore normativo, sia cosa non del tutto corretta dal punto di vista giuridico, perché non è possibile dare a questo diritto, che si riconosce così solennemente, la garanzia del suo esercizio, farne cioè una pretesa del cittadino nei confronti dello Stato, nei confronti della Repubblica.

Ma, onorevoli colleghi, se l'Assemblea vorrà mantenere la formula del progetto per sottolineare che c'è davvero un impegno che lo Stato intende assumere per lo meno per l'avvenire, un impegno nei confronti di tutti i lavoratori, io potrò dolermi nel vedere la serietà della norma giuridica sopraffatta dalla demagogia, ma potrò compiacermi di questo augurale messaggio che la Costituzione rivolge a tutti gli uomini che lavorano.

Ma il mio dissenso diventa irreducibile quando leggo il secondo comma: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Che sia un dovere morale per tutti quello di dare il proprio contributo allo sviluppo materiale e spirituale dell'organismo sociale nel quale vive, è innegabile.

Ma io vi pongo dei quesiti. Desidererei sapere chi deciderà caso per caso se, in concreto, un'attività o una funzione concorra o non concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società.

Chi sarà questo giudice? Questo giudice sarà inevitabilmente (direttamente o indirettamente) un giudice politico. E mi sembra perciò che sia estremamente pericoloso inserire un siffatto principio in una Carta costituzionale: pericoloso non per questi o per quelli di una particolare categoria della collettività, ma pericoloso per tutti, perché tutti possono essere colpiti dalla mutevole interpretazione e attuazione d'un tale principio, che potrà diventare uno strumento legale di sopraffazione classistica, un mezzo per discutere la parità dei diritti di tutti i cittadini. Pericolosissimo è dunque sancire un principio di questo genere: e cioè che si possa in un certo momento stabilire che una categoria di cittadini non svolga una funzione utile per il mutevole criterio, per il mutevole giudizio che si ha dell'attività sociale a seconda di questa o di quella ideologia trionfante nella lotta politica.

Io potrei domandare, per esempio: il pensionato di se stesso, quegli, cioè, che ha lavorato per alcuni decenni e poi, smesso il suo lavoro, vive con la rendita dei suoi risparmi (e può ritirarsi anche in età nella quale ancora per capacità fisica potrebbe svolgere una attività) deve forse essere messo in condizioni di inferiorità civile?

Ogni precetto giuridico comporta una sanzione.

Quale sarà la sanzione per la violazione di questo obbligo giuridico di svolgere un'attività od una funzione, sancito colla solennità d'una norma costituzionale?

Il futuro legislatore, a seconda del variare sulla scena politica delle maggioranze, stabilirà questa sanzione, che potrebbe, per avventura, diventare anche una sanzione d'indole penale.

Ma c'è il terzo comma. Io domando — ed è un quesito che pongo alla Commissione — se la sanzione prevista nel terzo comma sia l'unica sanzione per la violazione del precetto, o se sia invece una sanzione espressamente prevista che non vieta al legislatore di porne altre.

Perché, se si potesse con certezza ritenere che la sanzione non possa essere che quella soltanto prevista dal terzo comma dell'articolo in esame, allora, sopprimendosi il terzo comma, si potrebbe forse anche accettare l'articolo così mutilato come un invito solenne a tutti rivolto di partecipare operanti alla vita del Paese.

Che il terzo comma vada comunque soppresso mi sembra innegabile; esso stabilisce una grave sanzione, che, a mio modo di vedere, ferisce alle radici il principio della democrazia, perché dice: «L'adempimento di questo dovere è condizione per l'esercizio dei diritti politici».

Ora, dunque, vi sono cittadini, che potranno non essere più titolari dei diritti politici, del diritto di voto, innanzi tutto; e queste categorie, ripeto, potranno restringersi o ampliarsi col mutare delle fortune di questo o di quel partito. L'articolo va collegato coll'articolo 45, il quale stabilisce che «sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, che hanno raggiunto la maggiore età; non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

Ora, dunque, sarebbe questa prevista nell'articolo in esame una incapacità civile. Di guisa che il futuro legislatore dovrà nel Codice civile, dove tassativamente oggi sono indicate le incapacità civili, aggiungerne un'altra. E questa incapacità civile dovrà essere poi in concreto riconosciuta con sentenza, la quale spoglierà dei diritti politici, cioè della dignità di libero cittadino, quegli che sarà stato ritenuto «non lavoratore» alla stregua di una norma elastica, la cui interpretazione obbedirebbe inevitabilmente ad una particolare concezione politica. È dunque per una esigenza imprescindibile di libertà e di democrazia che io invoco la soppressione d'una siffatta norma costituzionale.

Mantenendo fede all'impegno di svolgere soltanto gli emendamenti, vorrei fare osservare che l'articolo 33, garantendo i diritti della donna lavoratrice, segna un progresso: ancora oggi si constata che c'è uno sfruttamento del lavoro della donna, alla quale si corrisponde un salario inferiore a quello che si corrisponde al lavoratore, senza alcuna giustificazione. Riteniamo quindi opportuna la norma costituzionale che anche in questo campo conferisce alla donna la parità dei diritti; però vogliamo che non si stabilisca un privilegio in suo favore e diciamo: a parità di lavoro sì, ma non basta, occorre aggiungere a «parità di rendimento», perché soltanto allora sarà giustificata e reclamata la parità della retribuzione.

Passo all'articolo 35 saltandone due o tre. L'articolo 35 è l'articolo che riguarda l'organizzazione sindacale. Il primo comma dice: «L'organizzazione sindacale è libera» e certo non si potranno trovare assertori più convinti di questo articolo all'infuori dei liberali. L'articolo poi soggiunge: «Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge». Ora io ho qualche perplessità di fronte alla dizione «secondo le norme di legge» perché essa può significare secondo le condizioni formali che la legge prescriverà, ma potrebbe anche significare secondo le condizioni sostanziali che la legge reclamerà per la registrazione, rendendosi possibile così la limitazione nel fine, nella struttura, se non anche in considerazione del colore politico, dell'associazione sindacale, al cui impossessamento monopolistico naturalmente tendono tutti i regimi dittatoriali di destra o di sinistra. Io ho proposto questo emendamento: «L'organizzazione sindacale è libera. I sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. A questo fine i sindacati dovranno essere registrati presso uffici locali e centrali».

Noi vogliamo sottolineare il principio che la rappresentanza sindacale deve, sì, essere unitaria, ma non può essere pretesa soltanto da una maggioranza: specificamente deve essere affermato il diritto delle minoranze ad intervenire nella stipulazione dei contratti collettivi.

Ma v'è un capoverso aggiuntivo che noi proponiamo. Onorevoli colleghi, noi liberali intravediamo oggi una nuova esigenza, oltre quella della libertà d'associazione che è stata vivamente sentita dall'Ottocento liberale. Noi oggi intravediamo un'altra libertà che va reclamata: la libertà di non associazione. E perciò proponiamo con l'emendamento un'aggiunta che dice: «L'iscrizione in un sindacato non è condizione per l'esercizio dei diritti del lavoratori». (Commenti).

I sindacati rappresenteranno anche tutta la categoria ai fini della stipulazione dei contratti collettivi i quali avranno vigore di legge per tutta la categoria alla quale il contratto si riferisce. Sia ben chiaro però che l'iscrizione ad un sindacato non può essere condizione per l'assunzione al lavoro, come invece oggi accade, né per l'esercizio d'ogni altro diritto del lavoratore. Abbiamo, del resto, degli esempi allarmanti anche in America, dove in corrispondenza ai monopoli di produzione vi sono dei sindacati monopolistici del lavoro. V'è cioè una mano d'opera monopolizzata in taluni settori dell'economia americana: vi sono fabbriche, per esempio, che fanno degli accordi con determinate organizzazioni sindacali e si obbligano di assumere la mano d'opera soltanto da quei sindacati. Da noi accade spesso che sia assunta soltanto la mano d'opera imposta da un partito. Ed è anche questa una forma di monopolio e di sopraffazione.

Un altro emendamento mi permetto di presentare in rapporto all'articolo 36.

Noi liberali vogliamo in questa sede costituzionale affermare che riconosciamo il diritto di sciopero come un diritto fondamentale della libertà dell'uomo. Senza il diritto di sciopero vi è la schiavitù del lavoro. Vogliamo però... (Commenti). Capisco i vostri commenti: del resto in ciò che sto per dire si riflette un po' tutto quel che si è detto nei lavori preparatori di questo progetto. Come è noto, diverse sono state le opinioni anche nelle Sottocommissioni; e se si è inserito nel progetto il riconoscimento di questo diritto, non si può dimenticare che una delle Sottocommissioni aveva stabilito di non inserirlo.

Inseriamo pure questo riconoscimento; ma teniamo presente che noi non abbiamo una definizione dello sciopero. Leggendo i lavori preparatori del progetto mi sono incontrato nella lucida definizione dell'onorevole Togliatti, che definisce lo sciopero come l'astensione collettiva dal lavoro affinché i lavoratori possano strappare migliori condizioni economiche. Ora, se avessimo una definizione anche nella Carta costituzionale, in certo modo avremmo dei limiti che configurerebbero questo diritto. Ma abbiamo invece nell'articolo 36 semplicemente l'affermazione che tutti i lavoratori hanno il diritto di sciopero. E poiché si è discusso se si debba o no rimandare al futuro legislatore la definizione della materia, di fronte all'articolo 36 che non rimanda alla legge, potrebbe sorgere il dubbio che al futuro legislatore sia inibito di disciplinare l'esercizio di questo diritto. Il che, onorevoli colleghi di tutti i settori, sarebbe assurdo.

Non è in questa sede che noi vogliamo disciplinare il diritto di sciopero, che vogliamo fare la discussione se lo sciopero debba essere inteso soltanto come un mezzo dato ai lavoratori per ottenere il miglioramento delle condizioni economiche, se sia ammesso lo sciopero politico reclamato dall'onorevole Di Vittorio, se sia consentito lo sciopero nei pubblici servizi. Io voglio però dichiarare che in un paese che si regge col regime parlamentare fondato sul suffragio universale, lo sciopero politico è inammissibile, perché può diventare un'arma di coazione adoperata dalla minoranza. Il lavoratore esprime la sua volontà, la sua scelta politica — come ogni cittadino — col voto. È assurdo, per esempio, che un'organizzazione di lavoratori possa, attraverso lo sciopero, far opera di pressione perché sia sostituito un governo che è invece sorretto dalla maggioranza parlamentare: si avrebbe allora la violazione evidente di uno dei principî fondamentali della democrazia, che è governo di maggioranza.

Dicevo che non è questa la sede per stabilire le norme e i limiti, che vanno rimessi al futuro legislatore. Una delle Costituzioni più progressiste, quella francese, adopera la formula che io mi sono permesso di sottoporre all'Assemblea: «Il diritto di sciopero è riconosciuto nell'ambito delle leggi che lo disciplinano».

Il nuovo legislatore risolverà i vari quesiti: dirà se occorra che vi sia una procedura conciliativa o no; dirà se lo sciopero possa essere consentito nei pubblici servizi, se sia ammissibile lo sciopero politico. E lo dirà dopo un esame approfondito di tutti i problemi che si presenteranno nella libera discussione democratica.

V'è poi l'articolo 37, a proposito del quale vorrei notare che il primo comma è parso stupefacente per la sua inutilità, perché dire quello che si è scritto qui, a mio modo di vedere, significa dire una cosa banale ed ovvia: «Ogni attività economica, privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo». Mi sembra che si sia fatta una scoperta inutile, perché un tale fine è evidente soprattutto poi se riferito all'attività pubblica. Vorrei vedere un'attività pubblica che non si debba preoccupare di soddisfare ai bisogni e al benessere della collettività. È come dire che la Magistratura amministra la giustizia, è come dire che la forza pubblica deve garantire l'ordine pubblico. Non comprendo perché in una Costituzione si debbano scrivere cose del genere.

V'è poi il secondo comma che mi pare pleonastico, e (voglio essere sincero), pericoloso: pleonastico in rapporto all'articolo 39, dove in sostanza già si dicono le stesse cose. Il comma dice: «La legge determina le norme e i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali». In questa formulazione si nasconde un pericolo.

Io ho segnalato che vi è una esigenza, quella di dare una certa sicurezza all'iniziativa privata. Stabilite pure un limite, stabilite un confine; ma introdurre delle norme le quali, mentre riconoscono che la vita economica della Nazione fa perno sulla iniziativa privata, disconoscono che siamo ancora, o dovremo essere in una economia di mercato, e stabilire d'altra parte dei limiti elastici, delle riserve vaghe e minacciose d'interventi statali, di controlli e coordinamenti, significa perpetuare nel testo costituzionale quella situazione di incertezza cui ho fatto cenno, significa mantenere nel mondo economico un interrogativo che inaridisce le fonti della produzione, che trattiene la iniziativa privata, che paralizza il capitale, determinandosi in conseguenza una minore produzione di beni con danno della collettività.

Presidente Terracini. Onorevole Cortese, non dimentichi i limiti di tempo.

Cortese. Chiedo scusa. Ho presentato molti emendamenti. Se li avessi svolti ciascuno in dieci minuti, avrei parlato molto di più.

Nell'articolo 39, vi è, a proposito della iniziativa privata, lo stesso concetto espresso nell'articolo 37, ma più rigorosamente contenuto e circoscritto, perché l'articolo 39 dice: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Ecco dunque stabiliti con una certa precisione quei limiti all'iniziativa privata alla quale però si dà tuttavia libero respiro. A proposito dell'iniziativa privata e di questo articolo, voglio soffermarmi un attimo sull'emendamento aggiuntivo che ho proposto. L'oratore che mi ha preceduto si è scagliato contro i monopoli, contro queste degenerazioni dell'economia di mercato. Io ritengo che se v'è davvero una rivoluzione liberale da compiere, questa rivoluzione liberale nel campo dell'economia è proprio la rivoluzione diretta a ristabilire l'economia di mercato contro le degenerazioni capitalistiche, contro i cartelli, contro i trusts, contro i pools, contro i monopoli, e contro le sopravvivenze corporativistiche.

Ma non basta, diciamo noi, facendo un passo avanti oltre quello che è stato fatto dai relatori: non basta intervenire per reprimere con l'articolo 40; bisogna prevenire, bisogna impedire che si formino le situazioni monopolistiche. Come? Non potete certo attendervi, o amici e colleghi comunisti, che io dica «collettivizzando»; non sarei più liberale. D'altra parte, collettivizzando faremmo il più grande dei monopoli: l'unico monopolio statale. Noi diciamo: ispirando non solo la politica economica e sociale, ma anche la legislazione nel campo economico, a questa lotta; perché monopoli e cartelli, trusts e pools si formano sempre all'ombra di privilegi legali. Se noi volgeremo la nostra legislazione economica a questa finalità, di sopprimere questi privilegi, di impedire che all'ombra di questi privilegi, di questi protezionismi, mediante monopoli, trusts, brevetti a catena, si possano costituire concentrazioni che, manovrando artificialmente le condizioni del mercato, determinino soprattutto il danno del consumatore, noi potremo ricondurre l'economia di mercato alle sue norme fondamentali; correggendo le degenerazioni del capitalismo, riaffermeremo la economia di concorrenza, e nello stesso tempo non saremo passati ad un'altra concezione economica che non condividiamo.

E vi è anche un aspetto politico: noi diciamo e affermiamo ogni giorno che la libertà economica è collegata più che non si creda alla libertà politica, perché attraverso l'economia controllata e statizzata ci si avvia, per inevitabile necessità, alla dittatura politica, diciamo anche che queste degenerazioni capitalistiche, questo formarsi di feudalismi industriali, incidono sulla libertà politica, perché anche qui si forma una dittatura economica che diventa una dittatura politica. E come il feudalismo medioevale dovette cedere di fronte alla monarchia assoluta, noi affermiamo che se il feudalismo industriale non ritornerà alle leggi della libera concorrenza, esso si piegherà alla monarchia del collettivismo centralizzato.

Ho perciò presentato il seguente emendamento aggiuntivo all'articolo 39: «La legge regola l'esercizio dell'attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore». Il che significa vigilare ed intervenire, prevenire e reprimere, attraverso una legislazione antiprotezionistica e antimonopolistica, affinché la vita economica, fondata sull'iniziativa privata, si svolga nel rispetto della legge della concorrenza e dei principî che sono propri all'economia di mercato.

L'articolo 40, invece, si limita a trasferire i monopoli dal privato allo Stato o a comunità «per coordinare le attività economiche».

Noi, anche per questo articolo abbiamo proposto un emendamento. Noi diciamo che non è già per coordinare le attività economiche che la legge interviene. Questo, se è necessario ai fini sociali, è stabilito dall'articolo precedente. Ma volere intervenire per trasferire i monopoli allo Stato, finalizzando l'intervento col coordinamento delle attività economiche, può essere l'espressione di una concezione particolare, o colleghi comunisti, ma non può essere l'espressione di una concezione condivisa da tutti, perché dietro questa norma, attraverso queste parole che finalizzano la norma, vi è innegabilmente l'ombra della pianificazione. Noi diciamo che non è già per coordinare in un piano le attività economiche, che lo Stato debba intervenire, ma per assicurare il benessere della collettività, e per difendere soprattutto quel tale consumatore che io non vedo ricordato in questo Titolo dei rapporti economici, non vedo nominato in nessun articolo; eppure è lui il protagonista vero, perché tutti siamo consumatori, tutti i cittadini sono consumatori, e difendere, il consumatore significa soprattutto difendere gli interessi delle categorie meno abbienti. La difesa del consumatore diventa anche difesa sociale per l'affermazione di una migliore giustizia sociale. L'imposizione del prezzo manovrato in situazioni monopolistiche rende più aspra la diversità del tenore di vita. Non è già dunque per coordinare le attività economiche, ma è per assicurare questa difesa, per tutelare questi interessi che lo Stato può riservare originariamente a sé o trasferire i monopoli. Perché diciamo «può» e non «deve»? Perché lo Stato può anche non essere in grado di farlo. Oggi l'onorevole Campilli ci direbbe che lo Stato non è in grado di farlo, perché non può assumersi un onere finanziario in questo momento per la gestione di certi complessi industriali. Affermiamo il principio; se lo Stato potrà farlo, lo farà. Lo farà con un criterio di gradualità, lo farà man mano che potrà essere possibile farlo, attraverso una selezione; ma se si stabilisce qui «deve», ci sarebbe il dovere giuridico, il dovere costituzionale dello Stato di farlo, tutto ad un tratto e con contemporaneità di attuazione.

Una voce. Ma non c'è «deve».

Cortese. C'è, perché quando si dice che «per coordinare le attività economiche la legge riserva o trasferisce...» vi è qualcosa di imperativo in questa espressione, che non consente discrezionalità. Quando si verificano talune condizioni previste nella parte successiva dell'articolo, cioè quando ci si trova di fronte a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio che hanno carattere di preminente interesse generale, alla stregua della lettera di questo articolo, lo Stato deve senz'altro procedere al trasferimento o all'assunzione del monopolio.

Dicendo «può», lo Stato non si impegna in modo assoluto. Lo farà di volta in volta, in considerazione di condizioni contingenti, con specifiche e determinate leggi.

Un ultimo emendamento ho proposto all'articolo 44. Vorrei che all'espressione: «La Repubblica tutela il risparmio» si sostituisse l'altra: «La Repubblica favorisce e tutela il risparmio»; e «a tal fine» vorrei che fossero diretti il controllo, la disciplina ed il coordinamento del credito da parte dello Stato, che potrebbe quindi e dovrebbe intervenire in riguardo all'attività creditizia soltanto per favorire e tutelare il risparmio, che è la fonte d'ogni attività produttiva, del benessere e della ricchezza della Nazione.

Questi sono gli emendamenti che ho proposti. Non credo di aver occupato più tempo, trattandoli tutti nella discussione generale, di quanto ne avrei occupato se li avessi discussi singolarmente. In ogni modo, se ho abusato, chiedo venia di questo abuso. (Applausi).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

Colitto. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, i 15 articoli, nei quali si snoda questo Titolo III della Parte I — che è indubbiamente fra i più importanti della nostra Costituzione — del quale intendo brevemente occuparmi, si raggruppano intorno alle seguenti materie: iniziativa ed impresa privata, proprietà, lavoro, cooperazione, risparmio e credito.

Iniziativa ed impresa privata. — Il progetto di Costituzione riconosce e garantisce la privata iniziativa. Esattamente. Perché, se noi teniamo presente quello che pulsa non nelle formule teoriche, ma nelle aziende, nelle officine, nelle fattorie, nei laboratori, nei porti, nei mercati, là dove l'economia è lotta, rischio, conquista, se alla vita noi domandiamo l'ispirazione dei programmi, e non ai programmi l'ispirazione per la vita, dobbiamo riconoscere che, se c'è una cosa veramente meravigliosa in Italia, la sola forse che ci consenta di dire che l'Italia faticosamente, ma con tenace volontà, risorge dal disastro di una disfatta, questa cosa è l'ammirabile capacità rinnovatrice del popolo, che, come ha detto l'onorevole De Gasperi giorni fa, ha vivamente stupito e stupisce gli stranieri; se c'è una cosa, che in Italia veramente possa darci fiducia, essa è quel fermento individuale, quella volontà di potenza, quella forza motrice della cellula produttiva in cui si riassume, in cui si concreta appunto la privata iniziativa, vero fondamento della dinamica economica e, quindi, sociale.

«L'iniziativa economica privata è libera», dispone l'articolo 39, che così prosegue: «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale od in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Io ho proposto che l'articolo sia diversamente formulato. Penso che sia opportuno da un lato mettere in rilievo anche l'impresa, alla quale il progetto solo indirettamente accenna, e dall'altro sottolineare, in relazione alla iniziativa privata, l'attività armonizzatrice e coordinatrice dello Stato, di cui è parola nel successivo articolo 37, che, quindi, non avrebbe più ragione di essere anche per la prima parte, che a me sembra del tutto pleonastica. La nuova formulazione è la seguente: «La iniziativa e la impresa privata sono libere, nei limiti che lo Stato stabilisce per coordinare e dirigere le attività economiche ai fini di aumento della produzione e del benessere sociale».

Sembrami questa una formula scientificamente più esatta di quella inserita negli articoli 37 e 39 del progetto. Parmi anche — mi si consenta dirlo — più moderna. Ed inoltre — questo anche giova affermare — parlandosi in essa di iniziativa e di impresa privata, dandosi a queste la maggiore ampiezza di respiro ed insieme consentendosi programmazioni, nell'attuazione delle quali sarà possibile coordinare e dirigere senza espropriare, mi sembra anche una formula che non spaventi nessuno, né in Italia, né all'estero; e noi abbiamo sommamente bisogno che nessuno, che in Italia abbia voglia di muoversi, si spaventi, e che guardino altresì a noi senza timori i paesi, dai quali ci vengono il grano, il petrolio, il carbone, i minerali di ferro, i crediti, tutto ciò, insomma, che ci aiuta a vivere ed a riprendere il nostro posto fra i paesi civili.

Proprietà. — Insieme con la iniziativa e la impresa privata, la Costituzione garantisce la proprietà privata, che ove da un minimum di moralità sia fiancheggiata, è sempre feconda di vantaggi, che non si esauriscono nel singolo, ma rifluiscono nella collettività, quali la salvaguardia della libertà, la spinta alla produzione ed al progresso economico, la tranquillità della convivenza civile. Meglio, forse, sarebbe parlare di «diritto di proprietà». Ma non è il caso di insistere sul rilievo, perché, come ebbe a scrivere il Windscheid, il diritto di proprietà investe e compenetra le cose in tutti i suoi aspetti economici, sì che di solito parlasi indifferentemente di «proprietà» e di «diritto di proprietà». E, poiché ormai non è dubbio che proprietà non significa signoria rigidamente assoluta e brutalmente egocentrica delle cose, secondo la ispirazione romano-civilista e secondo i principî del razionalismo illuministico francese, proiezione esclusiva della personalità umana, vuoi che si concepisca questa in senso filosofico, vuoi che si concepisca in senso economico, ma signoria avente anche finalità superiori all'interesse personale del proprietario, non solo, quindi, bene-fine, ma anche bene-mezzo, pensiamo che opportunamente all'articolo 38 la Costituzione proclami da un lato che la proprietà è «garantita» e dall'altro che essa ha una «funzione sociale».

Ma dire «funzione sociale» è dire, in sostanza, «limiti» alla signoria dominicale. Ecco, quindi, la Costituzione, negli articoli 38, 40 e 41 occuparsi di essi, rimandandone, peraltro, la precisazione alla legge. Sarà la legge che: a) determinerà della proprietà i modi di acquisto e di godimento; b) autorizzerà (ripeto qui l'espressione, a mio avviso, inesatta dell'articolo 38) la espropriazione, per motivi d'interesse generale, della proprietà privata, salvo indennizzo; c) determinerà i limiti della proprietà, allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti; d) imporrà obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fisserà i limiti in estensione, abolirà il latifondo, promuoverà la bonifica delle terre e l'elevazione professionale dei lavoratori, aiuterà la piccola e la media proprietà.

Come si vede, si parla ora di «vincoli», ora di «limiti», ora di «obblighi», da imporre alla proprietà privata, usandosi termini diversi per indicare la stessa cosa, il che non è certo da approvarsi in un testo di legge; si stabilisce che «la legge» dovrebbe «autorizzare la espropriazione» per motivi di interesse generale, mentre la legge deve indicare soltanto i motivi, l'autorizzazione alla espropriazione derivando dalla norma primaria, che è la Costituzione; si parla di elevazione professionale dei lavoratori a proposito dello sfruttamento del suolo, mentre non è dubbio che di elevazione professionale dei lavoratori è a parlare in ogni campo nel quale una attività lavorativa si svolga; si parla di aiuti alla piccola e media proprietà, quasi che la grande proprietà fosse da ritenere senz'altro un elemento negativo per il progresso agricolo.

Bisogna, a mio avviso, chiarire, semplificare, precisare. Basterà, all'uopo, fondere insieme gli articoli 38 e 41 in un solo articolo, che io ho proposto doversi redigere così:

«La proprietà privata è garantita entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi che l'ordinamento giuridico stabilisce anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Può essere espropriata per motivi di interesse generale, dichiarati con legge, contro indennizzo».

A tale norma potrebbe seguire l'articolo 40 redatto così:

«Per soddisfare esigenze preminenti di servizi pubblici od utilizzare fonti di energia o rimuovere monopoli privati, non confacenti all'interesse generale, lo Stato e gli enti pubblici possono, in base a disposizioni di legge, assumere direttamente o indirettamente determinate imprese o categorie di imprese con trasferimenti di beni e complessi di beni, salvi gli espropri e gli indennizzi da stabilire con legge».

All'articolo 40 potrebbe seguire l'articolo 43, in cui si parla dei consigli di gestione, nella formulazione anche da me proposta e di cui dirò di qui ad un istante.

Altro forse non occorre aggiungere.

a) Può, a mio avviso, essere cancellato dall'articolo 38 il primo comma. Non mi sembra opportuno dichiarare in una Costituzione che «la proprietà è pubblica e privata», inserire, cioè, in essa una distinzione, che io penso debba rimanere riservata ai manuali di diritto civile, anche perché, poi, nel predetto comma si continua a parlare della proprietà privata e non si dice più nulla della pubblica, sì che verrebbe fatto di pensare che la proprietà privata è riconosciuta e garantita e non lo è, invece, la proprietà pubblica, ed anche perché nei trattati e nel Codice non di proprietà privata e pubblica si parla, ma di beni patrimoniali e di beni facenti parte del demanio pubblico.

b) Ugualmente, sembrami inutile scrivere nella Costituzione quello che anche si legge nel primo comma dell'articolo 38, cioè a dire che «i beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati». Chi volete che non sappia che titolari del diritto di proprietà non possono essere se non le persone fisiche e quelle giuridiche? Che si intende, d'altra parte, per beni economici? Non ignorano i giuristi qui presenti che scrittori molto autorevoli — ricordo il Barassi — distinguono fra beni destinati ad una funzione puramente individuale (beni di consumo strettamente limitato a chi li possiede) e beni, che hanno una destinazione, la quale varca il limite dell'individuo ed in qualche modo interessa la collettività, sia in quanto si riferisce alla produzione nazionale, sia in quanto vi domina un interesse colturale (storico od artistico). I primi sono beni di consumo individuale e gli altri di proprietà privata, ma di interesse sociale. Detti scrittori qualificano beni economici questi ultimi. Donde la conseguenza che, parlandosi nel detto comma solo di beni economici, chi legge può riportare l'impressione che la Costituzione non contempli i beni di consumo strettamente individuali, il che è da escludere.

c) È inutile, poi, scrivere nella Costituzione che «la legge determina i modi di acquisto e di godimento» e perfino parlare in essa expressis verbis di successione legittima e testamentaria, perché, a parte il rilievo che tutto ciò è bene abbracciato dall'ampia dizione, da me proposta, in cui si parla di limiti ed obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico, è certo, d'altra parte, che, se la Costituzione «riconosce e garantisce la proprietà privata», riconosce anche implicitamente e garantisce i vari fatti giuridici, cui è riconosciuta la virtù di far sorgere il dominio di un soggetto, quei vari modi, cioè, di acquisto, che la dottrina distingue in originari e derivativi, a titolo universale ed a titolo particolare, per atto tra vivi e per atto mortis causa.

d) Anche le parole «abolisce il latifondo» possono, a mio avviso, essere soppresse, sia perché la formulazione da me proposta è così ampia da contenere, ove lo si voglia compiere, pur lo spezzettamento del latifondo, sia perché la condanna a morte del latifondo, senz'altro sentenziata dalla Costituzione, potrebbe, quando che sia, essere ritenuta una ingiusta condanna.

Molti si ostinano a ritenere l'affermazione di cui mi sto occupando puramente demagogica. Hanno torto? Non lo so. Ma economisti di valore mi hanno fatto osservare due cose.

La prima: che i fondi debbano essere coltivati, specie in un Paese come il nostro, il quale deve sperare la più salda fortuna dall'agricoltura, è un fatto più che evidente. Ma non è altrettanto evidente che, per raggiungere il fine, sia indispensabile espropriarli. Nessuno è così sciocco da rinunciare ad un maggior profitto. E però, se non sfrutta, come si vorrebbe, il suo fondo, gli è perché o non è possibile sfruttarlo, o perché gliene mancano i mezzi. Nel primo caso, chiunque al proprietario venga, in forza di legge, sostituito, non potrà fare meglio di lui; nell'altro, non si vede perché quell'aiuto, che si dà ad altri, non si dia invece al proprietario, che è sempre il più interessato al maggiore rendimento delle sue terre.

La seconda: il latifondo ha profonde ragioni economiche di esistenza, in quanto costituisce una forma di adattamento dell'agricoltura alle condizioni fisiche ed ambientali, come dimostrò già, parecchi decenni or sono, Ghino Valenti in uno dei suoi mirabili saggi critici intorno al sistema di Achille Loria.

Il latifondo scompare, senza bisogno di leggi, mano a mano che si modificano le condizioni ambientali. Nell'Italia meridionale, dove esistevano condizioni favorevoli alla piccola proprietà coltivatrice, l'antica proprietà baronale si è rapidamente frazionata. Quando il frazionamento è stato determinato dalla legge — ad esempio, le quotizzazioni di usi civici e di beni demaniali — i risultati sono stati buoni solo là dove sussistevano condizioni adatte alla piccola proprietà, mentre sono stati negativi, dove tali condizioni non sussistevano. A me pare, pertanto, che bisogna muovere guerra non al latifondo in genere, anche se attui le forme più progredite ed intensive di agricoltura, ma alla proprietà capitalistica, che ristagni in un latifondismo incompatibile col progresso tecnico moderno e con una densa popolazione, che cerca lavoro e pane, alla proprietà capitalistica, che sia da considerarsi patologica forma di proprietà afunzionale, in una comunità povera come la nostra essendo necessario che nessuno possieda un bene strumentale, quale è la terra, senza attivarne in pieno la funzione produttiva e, quindi, sociale.

e) È inutile, poi, parlare di «bonifica delle terre», perché non è a dubitare che, quando si parla di funzione sociale-limite, si tiene presente, indagandone il contenuto, anzitutto la bonifica (vedi articolo 857 e seguenti del Codice civile) e, d'altra parte, non si trascurano i vincoli idrogeologici, le difese fluviali, il riordinamento in genere della proprietà rurale.

f) È un errore anche, a mio avviso, (qualcuno ha scritto che è ingenuo e paradossale) scrivere nella Costituzione che «la legge aiuta la piccola e la media proprietà» e «fissa i limiti di estensione della proprietà terriera». È un errore, perché, come ho già innanzi accennato, è vero che esistono in Italia estesi e cospicui tipi di agricoltura (si pensi alla ortofrutticoltura di molta parte del Mezzogiorno), nei quali la piccola impresa del contadino può essere citata ad esempio di alta produttività; ma è vero, altresì, che in altri tipi di coltura — quelli, soprattutto, che hanno per base le comuni grandi produzioni cerealicole ed animali — è indiscutibile la superiorità della grande azienda, per cui sarebbe un vero delitto promuoverne la sostituzione con piccole aziende di contadini. Vi sono perfetti organismi produttivi, come le cascine lombarde, basati sulla grande irrigazione, sulla lavorazione meccanica, sulle colture industriali, nella intelligenza direttiva pronta ed abilissima.

Quale altro tipo mai di azienda potrebbe ora sostituire questo, che si è andato costituendo attraverso una continua opera di perfezionamento e di evoluzione produttiva, che è stato capace di trasformare terreni poveri in una delle più fertili plaghe del mondo? È un errore, perché la struttura della proprietà fondiaria, come ho già rilevato a proposito del latifondo, non nasce per caso e non si mantiene per tradizione o per fobia del nuovo, ma è una conseguenza di un processo di adattamento suo alla linea della convenienza economica, che è determinata da tutto un mosaico di condizioni ambientali. Nella bassa Lombardia irrigua prevalgono le grandi aziende, nell'Italia centrale le grandi e le medie e nell'Italia meridionale e nella montagna alpina le piccole proprietà, e qua e là affittanze collettive, piccole aziende legate e completate da intense attività cooperativistiche, che costituiscono altrettanti temperamenti alle estreme soluzioni della grande e piccola azienda. Questa situazione di cose deriva dal caso e si mantiene per tradizione o per fobia del nuovo? Neanche per sogno. Che cosa può fare ora la legge? Io ritengo che non possa arrecare che danni, ove intervenisse anche solo per accelerare quel processo di adattamento, di cui ho parlato. Ammesso che la legge non sia elusa dal sorgere di tutte quelle possibili forme di evasione di cui è piena la storia, come i contratti cum amico, che sorsero in occasione dell'applicazione delle leggi Liciniae-Sextiae, la limitazione al diritto di proprietà — sia che si attuasse tenendosi conto dell'ampiezza di superficie, sia che si attuasse tenendosi conto della così detta «ampiezza economica» — recherebbe niente altro che danni, perché si avrebbero nel primo caso le più inique e dannose sperequazioni, si verrebbero, nel secondo, a colpire di fatto proprio i patrimoni terrieri più intensamente funzionali ed a premiare quelli più deteriormente condotti, e nell'un caso e nell'altro si svierebbero pericolosamente i capitali dagli impieghi agricoli e si fermerebbe l'ascesa degli agricoltori migliori.

Attenti, quindi, ai mali passi. Chi l'agricoltura italiana — che è un mirabile strumento creato dall'uomo in un ambiente naturale poco favorevole o del tutto sfavorevole, ma profondamente vario — considera come la base fondamentale della nostra vita economica, chi comprende come solo attraverso un suo miglioramento le condizioni di vita del popolo italiano possano cambiare, deve molto riflettere sulle proposte di vincoli, di cui ho parlato, perché non è affatto certo che essi daranno realmente i risultati sperati, mentre è molto più probabile che saranno cagione di crisi e di ulteriore decadenza.

g) La nuova formulazione, da me proposta, dell'articolo 40 sembrami più precisa. Nel testo del progetto si parla di: «determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio».

Non mi pare che sia esatto parlare di imprese, che «si riferiscano» a situazioni di monopolio e mi sembra strano, poi, che si esproprino le imprese «per coordinare» le attività economiche. È preferibile, invece, dire che l'assunzione di esse da parte dello Stato e degli enti pubblici ha luogo «per soddisfare esigenze preminenti di servizi pubblici od utilizzare fonti di energia o rimuovere monopoli privati». È bene anche sottolineare che non basta che una impresa assuma carattere di monopolio, perché la si possa espropriare: occorre ancora che il monopolio contrasti con l'interesse generale. Vi deve essere incompatibilità fra il dominio privato e l'interesse pubblico. Se così non fosse, si arriverebbe alla conseguenza che, mentre da una parte si affermerebbe la necessità della libera iniziativa e della proprietà privata, dall'altra si darebbe allo Stato la più vasta ed indeterminata possibilità di togliere ai cittadini il prodotto della propria attività per trasferirlo o ad enti pubblici o a comunità di utenti.

h) Quanto, infine, ai consigli di gestione, di cui tanto animatamente oggi si discute — i salariati considerandoli come qualche cosa di atto a salvaguardare gli interessi stessi del processo produttivo, di cui diventano compartecipi attivi e ragionanti, e gli imprenditori avversandoli, in quanto li considerano forme ibride di collaborazione coatta, dannosi alla vita aziendale, agli interessi veri dei lavoratori ed all'economia del Paese, io ho ritenuto di dover proporre che alle parole del progetto: «I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende, ove prestano la loro opera» siano aggiunte le parole «per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse». Penso che la aggiunta sia da approvare, perché sono convinto che i lavoratori hanno, sì, il desiderio di collaborare, ma nessun desiderio di assumere rischi. E, d'altra parte, una normale forma di collaborazione fra datori di lavoro e lavoratori non inciderebbe sull'ordine aziendale, restando salvaguardate l'autonomia e la responsabilità degli organi direttivi dell'impresa. Non so se è vero; ma ho sentito dire che il Ministro Morandi, estensore dell'ormai famoso progetto, ha detto che i consigli di gestione, se attuati nella formula piena, fatalmente «scasserebbero» le aziende».

Lavoro. — Del lavoro e dei lavoratori la Costituzione si occupa in diversi articoli, affermando:

a) che la Repubblica tutela il lavoro;

b) che ogni cittadino ha il dovere di lavorare, pena la perdita dei diritti politici;

c) che ogni cittadino ha il diritto al lavoro e che lo Stato promuove le condizioni per renderlo effettivo;

d) che ogni lavoratore ha diritto ad un equo salario, al riposo settimanale, a ferie annuali, all'assistenza in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria;

e) che, quanto al lavoro, la donna ha gli stessi diritti dell'uomo;

f) che i lavoratori hanno diritto di sciopero;

g) che i lavoratori hanno diritto di associarsi e che l'associazione professionale è libera.

Anche in materia ho presentato degli emendamenti:

1°) Ho proposto, anzitutto, la soppressione del primo comma dell'articolo 30, redatto così: «La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni».

È o non è la Repubblica fondata sul lavoro? Ed allora il lavoro è forza essenziale della società. Mi piacciono le parole scritte in questi giorni su di una rivista dall'onorevole Saragat: «Solo sul lavoro si potrà fondare un ordine nuovo più giusto di quello attuale, ché solo nel lavoro gli uomini troveranno un rapporto di colleganza veramente umano». È il lavoro che ci sostiene. Or, se questo è, non vi è chi non veda come sia uno sminuire l'importanza di quella forza, che costituisce la base granitica dello Stato, parlare di tutela, che di essa lo Stato assumerebbe.

2°) Anche nel capoverso dell'articolo 30, redatto così: «Promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro», ho proposto una nuova formulazione, che sembrami più chiara, più semplice ed anche, perché no?, più snella. È la seguente: «Lo Stato favorisce gli accordi internazionali per la regolamentazione del lavoro italiano all'estero». Va da sé che la norma dovrebbe trovare la opportuna collaborazione in altro posto della Costituzione e precisamente dopo l'articolo 37.

3°) Altri emendamenti riguardano gli articoli 33 e 34; ma attingono essi la forma, non la sostanza delle norme.

4°) Ed ora del dovere del lavoro.

Lavoro è — nella eccezione più comprensiva ed universale — qualsiasi attività, per la quale le facoltà dell'uomo, abbandonando l'inerzia, passano dalla casualità potenziale, alla causalità attuale. E, poiché l'individuo vive una vita, che è legata organicamente a quelle del complesso sociale, sì che comuni sono la grandezza e la decadenza, la floridezza e le difficoltà, i benefici e le sofferenze, egli deve contribuire attivamente a produrre quel patrimonio, del quale egli pure vive. Il lavoro è, quindi, un dovere sociale. Siamo, però, sempre nel campo della morale, non nel campo strettamente giuridico ed i doveri semplicemente morali, come è stato con esattezza scritto, non sono gabbie di ferro, ma cerchi di luce, che possono abusivamente oltrepassarsi. Il dovere sociale di lavorare diviene giuridico — in ciò la dottrina è concorde — soltanto quando sia liberamente assunto con contratto esplicito od implicito. È assurdo, quindi, stabilire una sanzione per un dovere non giuridico. Ecco perché non sembra che sia da approvare l'ultimo capoverso dell'articolo 31 della Costituzione, in cui si stabilisce che l'adempimento del predetto dovere è «condizione per l'esercizio dei diritti politici». La Costituzione, d'altra parte, verrebbe a stabilire una vaga fonte d'incapacità politica in contraddizione con quanto si legge nell'articolo 45, dove si determina che non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale. Vaga fonte, dicevo, perché chi siano gli individui colpiti da incapacità civile è facile determinare; ma non ugualmente agevole è elencare coloro, che non svolgono un attività proficua alla società, donde la possibilità di discriminazioni arbitrarie ed odiose da parte del potere esecutivo, nelle cui mani potrebbe la formula diventare facile strumento per eventuali limitazioni in materia elettorale.

5°) In contrasto con l'affermazione che tutti i cittadini hanno il dovere di lavorare, sembrami l'affermazione dell'articolo 36 che tutti i cittadini hanno il diritto di sciopero. In una società bene organizzata la tutela dei diritti, compresi quelli dei lavoratori, deve essere assunta dal corpo sociale, il quale deve perfezionare la propria legislazione e le proprie istituzioni in modo che venga progressivamente abolita ogni difesa privata. Un articolo della Costituzione, che decretasse libertà incondizionata di sciopero, paralizzerebbe perciò il progresso legislativo verso la tutela collettiva dei diritti. Non si dimentichi, poi, che l'esercizio dei diritti individuali o di classe debbono sempre rimanere subordinati alle esigenze del bene comune. Ora gli scioperi non conferiscono affatto al bene comune, come ciascuno, che sia in buona fede, deve riconoscere sol che per un istante si ripieghi su se stesso e consideri un po' quello che quotidianamente accade.

I giornali annunziano che molte fabbriche italiane si trasferiranno in Brasile ed in Argentina, aggravando la già pesante situazione dei nostri operai. Perché accade ciò? Perché le industrie, per prosperare, hanno bisogno di ordine — primo e necessario presidio di tutta la vita civile — e di tranquillità, non di scioperi permanenti. In un clima avvelenato da scioperi non si produce. Lo sciopero è sempre elemento di disordine, distruttore od almeno ritardatore di ogni possibilità di ripresa. Scioperi vi sono stati che in breve tempo hanno soppiantato l'organizzazione statale, il che ha fatto e fa venir meno la fiducia della Nazione nell'opera del Governo. Finché ora, per via della scioperomania dilagante, lo Stato apparirà sempre meno il Paese fatto legge e sempre più il gruppo fatto sopruso, è inutile parlare di quell'incremento della produzione che, come diceva giorni fa l'ambasciatore degli Stati Uniti a Milano, costituisce la terapia sovrana per l'economia italiana.

In sostituzione dello sciopero occorre costruire un sistema giuridico ben congegnato, attraverso il quale possano le controversie collettive essere risolte. L'arbitrato obbligatorio, a cui gli Stati più evoluti dal punto di vista sociale sono già pervenuti, è forse l'unico sistema veramente concludente, che possa evitare, con utilità di tutti, gli scioperi.

A mio avviso, pertanto, l'articolo 36 va soppresso. Ove non lo si volesse sopprimere, si dovrebbe riconoscere anche il diritto di serrata, perché l'un diritto non può andare disgiunto dall'altro, intimamente connessi essendo sciopero e serrata nel libero agone dei contrasti sociali, e si dovrebbe altresì attenuarlo, condizionando l'esercizio dell'uno e dell'altro al bene della collettività, come ha fatto la recente Costituzione francese, più accurata e più guardinga del nostro progetto in questo punto particolarmente delicato per la tranquillità e l'armonia sociale.

6°) Ugualmente sembrami che sia da modificare il primo comma dell'articolo 31, che proclama il principio del diritto al lavoro. Tale diritto vanta, come è noto, una elaborazione più che centenaria. Ma Marx ebbe esattamente a rilevare che la formula «diritto al lavoro» rimase sempre una «goffa formula». Volete non preoccuparvi delle goffaggini? A me pare che bisogna preoccuparsene. Io non intendo affatto ripetere qui quanto ho già rilevato con la mia relazione e in occasione dei lavori della terza Sottocommissione, della quale ho avuto l'onore di far parte, riaffermando che di un diritto al lavoro non si può parlare senza un corrispondente dovere della collettività di garantire a tutti i suoi membri, che si trovano nello stato di disoccupazione involontaria, una occupazione retribuita e che non è degno della nostra probità inserire nella Carta costituzionale che lo Stato ha il dovere di trovare lavoro ai disoccupati, quando ci troviamo di fronte ad una massa di disoccupati, che, purtroppo, aumenta e non diminuisce.

Desidero, invece, rilevare che in una Costituzione, in cui si garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, l'affermazione di un diritto al lavoro sembrami un assurdo, le due affermazioni essendo antitetiche. Nel 1848 Marx scriveva: «Dietro al diritto al lavoro sta la presa di possesso dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata e l'abolizione del lavoro salariato del capitale e del loro rapporto di scambio». E Proudhon precisava che il diritto al lavoro da lui associato con quello al prodotto integrale contro l'esistenza di una rendita senza lavoro, si converte in diritto al capitale. Anche M. Barthe all'Assemblea nazionale chiariva che tale diritto implica una organizzazione nazionale del lavoro, cioè tutta una riorganizzazione della società. Un diritto al lavoro è, pertanto, come riconosce anche l'onorevole Togliatti nella sua relazione, incompatibile col sistema del profitto capitalistico e della proprietà privata dei mezzi di produzione. Forse non è inopportuno aggiungere che una politica di impiego totale (full employment) in Italia non è possibile. La teoria dell'impiego totale, creata dal Keynes e sviluppata dagli studiosi keynesiani, si sta traducendo ora in piani concreti in vari paesi. Ma le soluzioni proposte di marca keynesiana, concepite tutte puramente dal punto di vista monetario e creditizio, mirano a fare sì che lo Stato intervenga ad aumentare «la spesa totale» per ristabilire l'equilibrio tra domanda ed offerta di beni, rotto dall'esistenza di una massa di risparmio, che resta inutilizzata. In Italia, invece, noi soffriamo di una deficiente formazione di risparmio e non, secondo lo schema keynesiano, di un eccesso di risparmio. I piani di full employment, per esempio, anglosassoni, come è stato giustamente rilevato, mirano a premunirsi contro la fase ciclica di sovraproduzione per evitare la disoccupazione; il problema italiano, invece, almeno per parecchi anni, è quello della formazione di un maggior risparmio e di maggiori possibilità di produzione. Ma, questo detto per lealtà, convinto come sono che l'ipocrisia messa in articoli di legge sia la peggiore fra le ipocrisie, e precisato che il diritto al lavoro è un diritto in formazione, o, come lo chiama l'illustre presidente della Commissione, onorevole Ruini, che è un sottile delicato giurista, un diritto «potenziale», non sarò certo io a voler cancellare dalla Costituzione una formula che, in ogni caso, esprime una grande ansia collettiva di sviluppo civile. Ecco perché ho proposto una nuova formulazione dell'articolo 31, in cui si parla anche di diritto al lavoro. La nuova formulazione è la seguente: «Lo Stato promuove lo sviluppo economico del Paese e predispone le condizioni generali per assicurare più che possibile ai cittadini l'esercizio del loro diritto al lavoro».

7°) Poche parole ancora a proposito del sindacato, che mi auguro resti espressione spontanea della socialità inerente alla natura umana, rocca in cui il lavoro sta al riparo dalle ingiuste aggressioni e sia considerato sempre come una palestra di ascensione operaia, senza mai diventare vivaio di agitazioni perenni, covo di speculatori o di organizzatori di scioperi, fucina di attentati alla pacifica convivenza e alla prosperità economica della Nazione.

L'articolo 35 dispone che «l'organizzazione sindacale è libera», che «non possono essere imposti ai sindacati altri obblighi che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge» e che «i sindacati registrati hanno personalità giuridica».

Io sopprimerei questi due ultimi commi, specie il secondo, sia perché l'affermazione è molto vaga, non precisandosi se trattasi di personalità giuridica di diritto privato o di diritto pubblico, sia perché, dandosi dall'ultimo comma dell'articolo ai sindacati il potere di stipulare contratti collettivi di lavoro, per ciò stesso viene ad essi riconosciuta la personalità giuridica.

Cooperazione. — Circa la cooperazione osservo che l'articolo 42 è redatto in guisa che non sembrami che possa essere approvato. Bisogna chiarire che cosa è la cooperazione e riconoscere, poi, che si deve incrementare l'impresa cooperativa, non la funzione sociale della cooperazione, la quale resta quella che è e per la quale penso di sottolineare qui solo questo: che essa è funzione economica, in quanto ha lo scopo di aumentare la capacità d'acquisto e di consumo dei soci, ed anche funzione sociale, in quanto porta l'individuo a sentire la superiorità del lavoro associato e, quindi, a uscire dal chiuso cerchio del suo egoismo per considerarsi membro della famiglia cooperativa, dando e ricevendo aiuto nell'opera di realizzazione dello scopo comune. Io ho proposto un articolo così redatto: «È promossa ed agevolata l'impresa cooperativa di lavoratori e consumatori, che si associano, su basi di mutualità, per provvedere alla tutela dei propri interessi o per scopi di utilità generale».

Presidente Terracini. Onorevole Colitto, ella parla da 50 minuti.

Colitto. Ho finito. Sono arrivato all'ultimo emendamento. Lei mi sta seguendo.

Presidente Terracini. Io la seguo.

Colitto. Risparmio e credito. — Anche circa la difesa del risparmio e la vigilanza sulla disciplina della funzione creditizia ho proposto un emendamento. L'articolo 44 dice: «La Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito». Io ho proposto che l'articolo sia così redatto: «Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio e vigila sull'esercizio del credito e sugli istituti bancari con un organo di coordinamento stabilito per legge». Tale organo, naturalmente, trattandosi dell'esercizio di una funzione di preminente interesse nazionale, dovrebbe essere un organo della pubblica amministrazione.

Onorevoli colleghi, allorché, redatto il progetto della Costituzione napoletana, Mario Pagano, per mezzo del comune amico Vincenzo Russo, pregò Vincenzo Cuoco di dare su di essa il suo giudizio, l'illustre uomo, fra l'altro, gli scrisse: «Non ho creduto mai facile dare le leggi ad un popolo. Platone, invitato più volte a questo cimento, lo credette superiore alle sue forze. Colui che ambisce la gloria di legislatore deve dire a se stesso: io debbo rendere milioni di uomini felici, decidere della sorte di due secoli». Ed ancora: «Debbo alla nazione far sentire ed amare la sua felicità... Rimarrei, altrimenti, con l'inutile rimorso di aver tolta al popolo la legge antica senza avergliene data una nuova, perché non merita nome di legge quella che il popolo non intende e non ama».

Io formulo fervidissimo l'augurio che risultato dei nostri lavori sia una Costituzione, che davvero il popolo sanamente intenda e profondamente ami. (Applausi a destra).

Presidenza del Vicepresidente Conti

Presidente Conti. È iscritto a parlare l'onorevole Maffioli. Ne ha facoltà:

Maffioli. Onorevoli colleghi, sia concesso anche a me, il cui unico orgoglio è il provenire da una classe di autentici lavoratori, di portare qui la voce della stragrande maggioranza del popolo che realmente lavora e soffre, ma che rifugge istintivamente dalla rettorica e dai formalismi.

Il titolo III del progetto della nuova Costituzione tende, in sostanza, a risolvere la questione sociale secondo i dogmi e i preconcetti che sono propri dei sistemi totalitari e statolatri. (Commenti a sinistra).

Nelle sue linee essenziali e fondamentali, infatti, il titolo III tende ad accentrare nello Stato tutte quelle facoltà che per diritto naturale spetterebbero all'individuo in rapporto alla proprietà privata e alla libera iniziativa economica privata. Pur proclamando, in teoria, la legittimità della proprietà privata (articolo 38), e pur riconoscendo e anzi garantendo la libertà dell'iniziativa economica privata (articolo 38 e 39), in realtà ne prevede e ne suggerisce tante e tali limitazioni che, in definitiva, non si saprebbe ben comprendere che cosa potrebbe restare più di codesti due concetti essenziali ad ogni civile convivenza.

Così, ad esempio, dopo aver affermato la legittimità della proprietà privata e dell'iniziativa privata (articolo 38 e 39 citati) il progetto si affretta tosto a soggiungere che la legge determina i modi di godimento ed i limiti della proprietà allo scopo di assicurare la sua funzione sociale, e di renderla accessibile a tutti.

Dunque non si può più parlare di libera iniziativa economica privata, ma al più di iniziativa controllata o pianificata, quando la proprietà privata di cui la libera iniziativa è l'attributo essenziale, sia limitata ad ogni momento dallo Stato nel suo modo di acquisto e di godimento.

Una proprietà privata, che nel contempo ha una funzione che viene considerata eminentemente «sociale», cioè «comune», è in definitiva regolata dal potere centrale, a suo esclusivo piacere anche nel modo di godimento.

Del resto già coll'articolo 37 precedente, ci si era dati cura di precisare previamente che «la legge determina» le norme e i controlli — cioè gli ulteriori limiti — perché le attività economiche private possano essere «armonizzate ai fini sociali», fini sociali che costituiscono una vera idea fissa che domina l'intero titolo III.

Quasi non bastasse ancora, nell'articolo 39 si ribadisce poi nuovamente che l'esercizio dell'iniziativa privata non può rivolgersi in contrasto con l'utilità sociale. (Quale poi?).

Nell'ultimo comma di tale articolo, si sanziona il diritto dello Stato d'espropriare — sia pure salvo indennizzo — la proprietà privata per il solito motivo di quell'araba fenice che si chiama «comune interesse» (interesse che, come tutti sanno, è poi sempre quello della cricca dominante).

Né basta. Nell'articolo 40 si riconferma per l'ennesima volta il diritto dello Stato di espropriare ciò che meglio creda in fatto di imprese singole o addirittura di categorie di imprese.

Ma gli ultimi colpi di grazia veri e propri all'istituto di quella proprietà e di quella privata iniziativa, di cui poco dianzi si era proclamata la legittimità e di cui si era anzi assunta la garanzia, sono dati dagli articoli 38[1], terzo comma, 41 e 43.

L'articolo 41 non si limita, come sarebbe ragionevole, a proclamare l'abolizione del latifondo, ma suggerisce fin d'ora una legge che fissi i limiti di estensione della proprietà privata (limiti che, notisi bene, potrebbero essere pure inferiori alle poche dessiatine riconosciute dal codice russo ai propri contadini...). Si suggerisce quindi anche una legge che abbia a fissare i limiti delle successioni testamentarie, nonché, si badi bene, i diritti dello Stato sulla eredità (articolo 38, terzo comma). Viene quindi il conclusivo articolo 43, che sancisce il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende, sanzionando così il demagogico slogan «la fabbrica è nostra» con cui si sogliono imbottire i crani degli operai. (Interruzioni a sinistra).

Si potrebbe chiedere, dopo tanto scempio, che cosa resti più dell'affermato e, notisi, garantito istituto della proprietà e dell'iniziativa privata, e se il riconoscimento della loro legittimità non sia fatto per burla.

Con tante riserve esplicite ed implicite, dirette e indirette, formali e sostanziali, con gli ultimi emendamenti perentori che dispongono la limitazione quantitativa della proprietà terriera, nonché la limitazione delle successioni, nonché il diritto dello Stato di scacciare l'erede autentico, per carpirgli l'eredità, e infine il diritto delle cosiddette masse di subentrare nella amministrazione delle aziende che non sono di loro proprietà (Interruzioni a sinistra), come si potrà più parlare seriamente di proprietà privata, di libero esercizio dei diritti inerenti a tale proprietà, in codesto Stato-piovra, che si riserva di controllare e di sfruttare, secondo il capriccio della cricca imperante, persino le secrezioni sebacee di singoli cittadini?

È innegabile che il titolo III del progetto in esame ha posto nel più esplicito dei modi tutti i presupposti etico-giuridici per l'attuazione di un ordinamento totalitario, affermando teoricamente che c'è la proprietà privata, ma in pratica sopprimendo pur anche le tracce della proprietà privata e dell'iniziativa economica privata, e sanzionando la più sfacciata sopraffazione dello Stato in ogni campo della vita pubblica e privata, sì da creare il presupposto statutario di uno schiavismo statale che lo stesso fascismo non aveva osato e saputo concepire. (Rumori a sinistra).

Riconosciamo la necessità di apportare limitazioni all'incondizionato godimento del diritto di proprietà, nonché all'esercizio dei diritti che le sono inerenti, ma tali limitazioni debbono essere atte a impedire la formazione del supercapitalismo privato, che è altrettanto nefasto per la libertà individuale quanto il supercapitalismo di Stato; oppure atte a meglio far fronte alle ineluttabili esigenze della Nazione durante determinati periodi di emergenza tassativamente previsti e regolati da norme eccezionali.

A questi due tipici casi affatto eccezionali, vogliamo da ultimo aggiungere il caso di espropriazione per causa di vera ed evidente pubblica utilità e contro congruo indennizzo; ma anche in questa terza ipotesi l'eccezionale limitazione dovrà essere disciplinata da rigorose norme legislative che difendano il privato cittadino dall'arbitrio del potere centrale, l'esproprio dovrà essere condizionato all'evidenza della pubblica utilità, ma intesa nel senso obiettivo della parola, nonché alla obiettiva equivalenza del corrispettivo della espropriazione; il tutto da esercitare sotto la tutela della Magistratura, garante della giustizia.

All'infuori di codesti pochi e ben individuati casi, la proprietà privata e la libera iniziativa economica non possono trovare — a pena di non essere più — altro limite all'infuori di quelli imposti dei codici comuni, essendo evidente che il diritto di proprietà, come la libertà, o sono o non sono: o si ammettono o si negano; e se si ammettono non debbono subire altri limiti che quelli imposti dalla stessa necessità di preservarle contro tutte le sopraffazioni e i tentativi di spoliazione.

All'aberrante statomania, al furore settario e totalitario del titolo III, fa poi riscontro una sostanziale carenza logica strumentale.

Non si può concepire il diritto di sciopero, riconosciuto a una classe di lavoratori, senza che sia riconosciuto anche quell'altro diritto di sciopero che è il diritto di serrata, all'altra categoria di lavoratori datori di lavoro. Non si può concepire maggior contraddizione in termini di quella di coloro che mentre si danno l'aria di riconoscere e garantire la legittimità della libertà privata e dell'iniziativa economica privata, statuiscono fin d'ora l'annientamento della proprietà a profitto del così detto Stato che noi, ancora sanguinanti da tragiche esperienze, sappiamo essere lo Stato totalitario, lo Stato etico, lo Stato vampiro, lo Stato assolutista, rappresentante di una minoranza armata, senza scrupoli, che nel campo delle energie produttrici della Nazione, si muove come un toro impazzito in un negozio di gingilli.

Vale la pena, prima di chiudere, soffermarsi su quel capolavoro di settarismo che si concreta nell'articolo 43, «perla» dell'intero titolo.

«I lavoratori hanno diritto di partecipare alla gestione dell'azienda».

Si vuole evidentemente alludere all'amministrazione e direzione dell'azienda, essendo ovvio che alla gestione, intesa nel senso più lato di «funzionamento» dell'azienda, tutti i lavoratori concorrono e hanno sempre concorso.

Ma in che modo, la massa degli operai e impiegati potrebbe partecipare alla direzione dell'azienda?

Basta porre la questione, senza fumisterie demagogiche per rendersi conto che mai e poi mai la «massa» parteciperà alla direzione dell'azienda. Vi parteciperà l'esigua minoranza dei «delegati» della massa, ossia praticamente un'aristocrazia, la quale, dal momento stesso in cui avrà lasciato la falce e il martello, o il libro dei conti, per dedicarsi alle nuove funzioni comportate dalla direzione dell'azienda, dovrà subire un radicale cambiamento nel modo di pensare, di sentire, di operare, sì da adeguarsi nella misura delle sue possibilità, alle esigenze delle superiori funzioni direttive e delle dure leggi economiche. Sentirà con ciò stesso di essere diventata l'eguale e l'emula dall'amministratore naturale e legittimo. Nascerà in tal modo una nuova classe borghese che non avrà più nulla di comune, per il modo di pensare, di sentire e di agire, con la massa degli altri lavoratori prestatori d'opera.

Orbene, quali motivi e ragioni potrebbero consigliare una tale sostituzione fra dirigenti? Non certo la ragione economica, cioè quella del massimo rendimento dell'azienda (che è poi l'unica che anche nel campo dell'economia sociale dovrebbe contare).

Basti riflettere che la classe dei dirigenti naturali, è di solito costituita da individui che sono assurti ai posti di comando in virtù di una inclinazione e attitudine naturale, di una lunga preparazione tecnico-professionale, spesso respirata fin dall'ambiente familiare; diventati tali, cioè, in virtù di una selezione naturale, di una fatale legge di ambiente, per la quale solo i «migliori» i più «adatti» e dotati possono affermarsi e quel che più conta, «mantenersi» nelle posizioni conquistate. I mediocri, gli inadatti sono man mano eliminati dalle ferree leggi della concorrenza. Ora è notorio che la scelta delle masse si determina di solito in virtù di considerazioni politiche, di raccomandazioni, di pressioni dirette o indirette del partito dominante o influente, motivo per cui, più che le persone più dotate e più adatte dal punto di vista tecnico-professionale, sarà scelto lo zelatore, l'attivista, il fiduciario del partito politico dominante, scelta sicuramente nefasta per le esigenze del miglior funzionamento dell'azienda. Questo possiamo dirvelo con tranquilla coscienza, noi che abbiamo incominciato a fare esperienza con le Commissioni interne, nelle quali prevale quasi sempre l'elemento meno equilibrato, più violento, fazioso, il meno adatto dal punto di vista della competenza specifica.

Dal punto di vista della competenza degli elettori, poi, si rileva in ogni caso l'assoluta incompetenza, e vorrei dire impotenza della massa a fare una buona scelta.

Per poter giudicare assennatamente se un candidato è maturo per esercitare la professione del medico, il giudicante deve conoscere anzitutto la scienza medica. Per giudicare quale persona sia idonea a ricoprire degnamente la carica di direttore di una determinata azienda, bisogna che il giudice — e cioè l'elettore — conosca a fondo la natura e le esigenze delle funzioni direttive alle quali si tratta di destinare l'individuo che si vuole eleggere, ciò vuol dire che la massa dovrebbe conoscere a fondo, per così dire, la fisiologia dell'azienda, cioè il complesso delle esigenze tecniche, economiche, morali che ne determinano il miglior funzionamento intrinseco; dovrebbe poi altresì conoscere a fondo le leggi che determinano la concorrenza e l'economia generale del mercato: tutto ciò, insomma, che costituisce il geloso e spesso insostituibile e inalienabile patrimonio intellettuale di un buon amministratore.

Ma la massa non è composta di siffatti competenti, altrimenti non sarebbe massa, dunque mai potrà conoscere quali esigenze richiedano le funzioni amministrative cui si tratta di preporre l'uomo più adatto, e perciò stesso mai potrà dare un giudizio motivato e competente sulla scelta dei dirigenti, salvo che per azzardo.

Dal punto di vista economico del miglior rendimento, la sostituzione si dimostra quindi del tutto insensata, o, nella migliore delle ipotesi, problematica ed aleatoria quanto mai. Non resta dunque che la ragione politica, o meglio la ragione della fazione, a consigliare e volere una tale sostituzione o collaborazione, in quanto cioè, si vuole che la corrente dominante, abbia i propri caporali ai posti di comando delle aziende private a vigilarne il funzionamento per il proprio tornaconto politico.

Or tutto questo significa danno per la produzione e, in ogni caso, incertezza e aleatorietà per ciò che concerne il miglior rendimento dell'azienda in quanto si antepongono gli interessi politici alle esigenze economiche, e per contro significa attuazione certa di uno dei più pericolosi mezzi di dittatura, quale può essere appunto un organo di comando aziendale disposto a conformare le proprie direttive alla volontà del potere politico centrale, della cricca al potere (direttive che, come l'esperienza insegna, sono sempre funeste).

Ma la condanna più decisiva del titolo III, è imposta dal rilievo che il nuovo ordinamento vagheggiato dai nostri statomani, dal punto di vista del benessere economico e morale delle classi diseredate, non ci dice nulla e non risolve nulla.

Noi pertanto riteniamo che lo Stato propugnato dall'Uomo Qualunque potrà risolvere la questione sociale dando alle masse effettiva e sostanziale elevazione morale e materiale, basata:

1°) sulla partecipazione del lavoratore alla ricchezza che egli concorre a creare, partecipazione fondata non su un'illusoria e impossibile partecipazione alla direzione dell'azienda che fa comodo solo ai caporaletti sfruttatori delle masse, ma bensì su una possibile, benefica ed effettiva sua partecipazione ai beni comuni nella solidarietà e nella collaborazione dei fattori della produzione sotto la forma di una sua interessenza alla produzione in aggiunta alla giusta retribuzione;

2°) sulla garanzia di una istruzione gratuita, che comporti almeno tre anni di preparazione tecnico-professionale, oltre ai corsi elementari;

3°) sulla garanzia di una istruzione superiore gratuita per i figli dei lavoratori che dimostrino spiccata attitudine e capacità;

4°) sulla istituzione di una vera Banca del lavoro, che sia una Banca di lavoratori che possa fornire ai lavoratori intelligenti e intraprendenti i mezzi per potere a loro volta diventare imprenditori.

Onorevoli colleghi, il quesito che vi si pone, con la definitiva redazione del titolo III, comporta la scelta fra due concezioni politiche: da una parte lo Stato democratico: dall'altra lo Stato totalitario, fra un sistema fondato sull'armonia sociale, sulla collaborazione leale e feconda fra le classi (che solo possono portare al maggior benessere collettivo e individuale) e un sistema che perpetua la lotta di classe e aggrava la miseria morale e materiale in cui viviamo, contravvenendo alle eterne, ferree inviolabili leggi economiche, e adulterando i concetti economici — e in campo economico — con concetti politici. (Applausi a destra).

(La seduta, sospesa alle 19 è ripresa alle 19,15).

Presidenza del Presidente Terracini

Presidente Terracini. È iscritta a parlare la onorevole Guidi Cingolani Angela Maria. Ne ha facoltà.

Guidi Cingolani Angela Maria. Onorevoli colleghi, il titolo terzo risponde veramente, nella sua articolazione, agli articoli fondamentali della Costituzione, dall'articolo primo che consacra il lavoro come base della Repubblica democratica italiana, agli articoli che, riconosciuta la dignità della persona umana, ne riaffermano i diritti essenziali, l'eguaglianza di fronte alla legge e di fronte alla possibilità del suo completo sviluppo, reso possibile dall'adempimento del compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale.

Il titolo, forse, è limitato e non risponde pienamente all'importanza degli articoli. Non c'è una paratia stagna tra rapporti economici e rapporti sociali. Non solo ci sono interferenze fra i due rapporti, ma talvolta proprio l'uno è in funzione dell'altro, come, per esempio, i problemi del salario interferiscono sul problema della famiglia.

Né deve meravigliare l'inserimento in una Costituzione di articoli riguardanti il lavoro, il salario, la proprietà, la previdenza, l'assistenza, la cooperazione, il risparmio. Risponde ciò, oltre che ad una esigenza di orientamento moderno sul piano nazionale, anche ad un orientamento internazionale, al quale l'Italia non solo non può sottrarsi, ma deve, da sua parte, contribuire a renderlo più preciso e più deciso.

Nell'esaminare gli emendamenti proposti all'articolo 30, ho trovato che due di essi mi hanno maggiormente interessata: l'uno mirante alla soppressione dell'articolo, l'altro a limitare la regolamentazione del lavoro italiano all'estero.

Mi permetto di attirare l'attenzione dei proponenti e di voi, onorevoli colleghi, sul vasto movimento di idee che, fin dal secolo scorso, ha preluso alle prime forme di organizzazione internazionale del lavoro, dalla prima associazione internazionale sorta in Isvizzera, per la protezione legale dei lavoratori, a quel congresso di Washington del 1919 dove fu costituita L'attuale organizzazione internazionale del lavoro.

L'Italia ha degnamente partecipato a questa costituzione a nome di tutti i lavoratori che non cercano soltanto una particolare tutela quando siano emigrati, ma che intendono essere oggetto primo della cura di tutti gli Stati perché sia facilitata una nuova organizzazione sociale ed economica basata sul lavoro.

Insomma; è stato accolto il grido di dolore e l'aspirazione di tutti i minorati delle ingiustizie sociali e degli stridenti contrasti economici, grido che, per quanto ci riguarda, ha fatto proprio Ketteler fin dal 1848 e che ha avuto un'eco profonda nel cuore e nella parola di Leone XIII, quando definiva la condizione degli operai nel regime capitalista come una condizione «poco men che servile».

La vita di relazione, oggi più di ieri, è tale in tutti i campi e, quindi, anche in questo nostro specifico campo, da farla considerare come un vasto sistema di vasi comunicanti il cui flusso e riflusso va localmente e internazionalmente regolato con leggi ed accordi.

A Montreal, nell'ultima sessione della Conferenza internazionale del lavoro — alla quale l'Italia ha partecipato — dopo esser stata deliberata l'inserzione della dichiarazione di Filadelfia nella propria Costituzione, fu suggerito che i singoli Paesi membri dell'Organizzazione internazionale del lavoro dovrebbero tener conto dei principî formulati a Filadelfia nelle loro Costituzioni o in quelle in corso di revisione o in occasione della proclamazione di nuove Costituzioni. Ricordo che a Filadelfia ha avuto luogo nel maggio 1944 la XXVI sessione della Conferenza internazionale del lavoro, la prima sessione effettiva dopo lo scoppio della guerra. È quanto mai opportuno che, in occasione della nuova Costituzione italiana, i principî di Filadelfia vengano menzionati almeno nella discussione. E vi dico la verità, onorevoli colleghi, che tengo molto a farlo, perché ho rilevato che nel nostro testo c'è una sostanziale fedeltà a quanto a Filadelfia fu proclamato come alimento alla speranza del mondo ancora praticamente in guerra per realizzare una nuova solidarietà umana. L'Italia è stata riammessa nell'Organizzazione internazionale del lavoro nel 1945, e da allora ha potuto parteciparne ai lavori su di un piede di perfetta parità con gli altri Paesi.

L'Italia ha interesse particolare all'Organizzazione internazionale del lavoro, in quanto le sue forze del lavoro costituiscono una delle sue principali ricchezze: e dal miglioramento delle condizioni di lavoro ed assistenziali dei lavoratori essa può trarne i migliori benefici.

L'Italia è anche paese di emigrazione ed ha un interesse diretto a che le condizioni dei lavoratori degli altri paesi siano il più possibile elevate, in modo da ottenere ai propri emigranti condizioni altrettanto buone di quelle di cui godono i lavoratori nazionali.

Basta rileggere la dichiarazione di Filadelfia, e scorrere gli articoli della nostra Costituzione riguardanti il lavoro, la dignità, la libertà, l'uguaglianza dei lavoratori, l'emigrazione, l'evoluzione dei rapporti di lavoro (oggi espressi nel salariato e sboccanti nella gestione delle imprese), la funzione sociale della proprietà, la solidarietà espressa nella cooperazione, ed infine la solidarietà internazionale, per poter affermare che, se non in tutto, in gran parte il suggerimento della Conferenza di Montreal è stato ascoltato, e che, la voce che sembrò soffocata ancora dal clamore della guerra, il 10 maggio 1944 a Filadelfia ha trovato allora, come trova oggi, ormai, ascolto ed attenzione in tutto il mondo civile.

Colgo l'occasione per esprimere l'augurio che il Governo italiano provveda sollecitamente alla ratifica e alla conseguente comunicazione all'Ufficio Internazionale del Lavoro della costituzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, emendata a Montreal. Mi risulta che il Ministero del lavoro ha espresso parere favorevole e che manca solo l'adesione del Ministero degli esteri.

Mi sono domandata se sarebbe stato opportuno seguire il suggerimento di Montreal proponendo di inserire nella nostra Costituzione un esplicito riferimento a quegli accordi di carattere internazionale (plurimi o bilaterali), sia che alla conclusione di tali accordi lo Stato interessato abbia partecipato direttamente, sia (come sarebbe il caso dell'Italia) che vi abbia solo aderito successivamente. Tutto sommato, credo non sia opportuno proporre un esplicito richiamo alle norme stabilite in una convenzione internazionale, anche se questa ha ottenuto la sollecita e completa ratifica di tutti gli Stati membri dell'organizzazione stessa. Ciò non toglie, però, la opportunità di richiamare i principî di una dichiarazione che, come quella di Filadelfia, è divenuta parte integrante della Costituzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro e quindi anche quella della Organizzazione delle Nazioni Unite.

Mi auguro che la mia modesta parola valga almeno a fissare nei resoconti della Costituente il riconoscimento, da parte della nostra Assemblea, del grande valore umano di quella dichiarazione, caratterizzata dal proiettarsi nel campo economico di quei problemi sociali che fino al 1944 erano stati gli unici ad esser presi in considerazione.

Mi sembra, intanto, insufficiente l'espressione del capoverso dell'articolo 30, nel quale si consacra (in termini generici) il principio che la Repubblica italiana «promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro».

Il mio emendamento: «promuove e favorisce, oltre gli accordi, anche le organizzazioni», mi sembra più rispondente alla realtà della vita internazionale nella quale siamo inseriti e alle organizzazioni alle quali, come ho accennato, abbiamo aderito successivamente.

In tale formula (così più completa e rispondente allo stato di fatto) sono compresi tutti i diritti del lavoro, e, quindi, anche quei principî economici e sociali consacrati nella dichiarazione di Filadelfia.

Credo utile un rapido confronto fra i principî fondamentali della dichiarazione e le norme contenute nel nostro progetto di Costituzione.

A Filadelfia si è affermato anzitutto che:

il lavoro non è una merce;

la libertà di espressione e di associazione è condizione indispensabile per un vero progresso;

la miseria, dovunque essa esista, costituisce un pericolo per la prosperità di tutti;

la lotta contro il bisogno deve essere condotta con instancabile energia da ciascuna Nazione e con uno sforzo internazionale continuo e combinato, nel quale i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro partecipino, cooperando su di un piede di uguaglianza con quelli dei Governi, a libere discussioni e a decisioni di carattere democratico per lo sviluppo del benessere comune.

Corrispondono a questi principî gli articoli già approvati della nostra Costituzione e precisamente gli articoli dall'1 al 3 e dal 5 al 6; gli articoli 10, 13, 16, 23 e 25 e gli articoli in via di approvazione del Titolo terzo, 30, 34 e 36.

Seguita la dichiarazione:

«Poiché una pace durevole non può essere stabilita che sulla base della giustizia sociale, la conferenza afferma che:

tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro razza, la loro fede e il loro sesso, hanno diritto di perseguire il progresso materiale e il loro sviluppo spirituale in libertà e dignità nella sicurezza economica e con eguali possibilità;

la realizzazione delle condizioni necessarie per raggiungere questo risultato deve costituire lo scopo centrale di ogni politica nazionale e internazionale.

«Tutti i programmi di azione e le misure prese nel piano nazionale e internazionale, principalmente nel campo economico e finanziario, debbono essere considerati da tale punto di vista e accettati soltanto in quanto appaiono di natura tale da favorire e non da ostacolare il raggiungimento di questo obiettivo fondamentale.

«Spetta all'Organizzazione Internazionale del Lavoro di esaminare e di considerare alla luce di questo obiettivo fondamentale, nel campo internazionale, tutti i programmi di azione e le misure di ordine economico e finanziario.

«Assolvendo i compiti che le sono affidati, l'Organizzazione, dopo aver considerato tutti i fattori economici e finanziari relativi, è qualificata ad includere nelle sue decisioni e raccomandazioni tutte le disposizioni che giudichi adatte».

Corrispondono alla sostanza di queste dichiarazioni, la seconda parte dell'articolo 3 della nostra Costituzione, gli articoli 2, 3, 5 e 6 e l'articolo 8 già approvati. Vi rientra appieno l'articolo 33 del Titolo III, che afferma l'equiparazione dei diritti del lavoro della donna lavoratrice a quelli dell'uomo.

È poi affermato nel capoverso terzo della dichiarazione di Filadelfia, l'obbligo solenne dell'Organizzazione Internazionale del lavoro di secondare la messa in opera, nelle diverse Nazioni del mondo, di programmi atti a realizzare;

il pieno impiego e l'elevamento dei livelli di vita;

l'impiego dei lavoratori in occupazioni in cui abbiano la soddisfazione di fornire tutta la misura della loro abilità e delle loro conoscenze e di contribuire nel miglior modo al benessere comune;

garanzie adeguate e mezzi atti a facilitare i trasferimenti dei lavoratori, comprese le emigrazioni normali di mano d'opera e le colonizzazioni;

la possibilità per tutti di una partecipazione equa ai frutti del progresso in materia di salari e di guadagni, di durata del lavoro e altre condizioni di lavoro, un salario minimo vitale per tutti coloro che hanno una occupazione e hanno bisogno di tale protezione;

il riconoscimento effettivo del diritto di negoziazione collettiva (contratti collettivi di lavoro) e lo sviluppo della cooperazione per il miglioramento continuo dell'organizzazione della produzione;

l'estensione delle misure di sicurezza sociale allo scopo di assicurare un reddito base a tutti coloro che hanno bisogno di tale protezione, nonché delle cure mediche complete;

una protezione adeguata della vita e della salute dei lavoratori in tutte le occupazioni;

una protezione dell'infanzia e della maternità;

un livello adeguato di alimentazione, di alloggio, e di mezzi di ricreazione e di cultura;

la garanzia di eguali possibilità nel campo educativo e professionale.

Questo capoverso ha ricchi riferimenti nel nostro progetto di Costituzione.

Dai già approvati articoli 10 e 11 riguardanti l'emigrazione e la tutela degli italiani all'estero, e 25, 26 e 28 sulla protezione della maternità e dell'infanzia e della gioventù e nelle scuole aperte al popolo più concreta ed aderente espressione si ha negli articoli: 30, sulla tutela del lavoro; 31, sul diritto e il dovere del lavoro; 32, sulla retribuzione proporzionata e adeguata alla dignità umana e alle esigenze familiari; 39, sulla libertà dell'iniziativa economica privata in funzione di utilità sociale, e, infine, nel 43, sulla gestione delle aziende da parte dei lavoratori.

Il quarto capoverso, sempre della dichiarazione di Filadelfia, sulla utilizzazione più completa e più larga delle risorse produttive del mondo, è ovvio, che non può trovare riferimento nella nostra articolazione costituzionale; ma ci offre il destro di affermare che se si vuole l'espansione della produzione e del consumo; evitare fluttuazioni economiche gravi; una maggiore stabilità nei prezzi mondiali delle materie prime e delle derrate; promuovere un commercio internazionale di volume elevato e costante, bisogna pur decidersi (per quanto riguarda i paesi devastati dalla guerra, come è l'Italia, priva di materie prime e ricca di una abile geniale popolazione operaia), ad affrontare, internazionalmente, il problema dei prestiti, dei cambi, dei mercati aperti, della lavorazione dei semilavorati e quello del porre in comune le grandi risorse di materie prime dei paesi meglio dotati.

Solo allora si potrà inneggiare, con gli estensori della dichiarazione di Filadelfia, al miglioramento della salute, dell'educazione e del benessere di tutti i popoli.

E, solo allora, i diritti del lavoro saranno veramente diritti di tutti i popoli del mondo e si potrà, davvero, non limitare ad una semplice speranza lo sviluppo economico e sociale di ciascun popolo, interessante tutto il mondo civile, ma sarà una certezza, la certezza cioè di aver raggiunto, attraverso questa tragica parentesi di lagrime e di sangue, una convivenza veramente umana, fondata sulla giustizia e soffusa di fraterno divino amore. (Applausi Molte congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Quintieri Quinto. Ne ha facoltà.

Quintieri Quinto. Rinuncio alla parola; interverrò sugli emendamenti.

Presidente Terracini. È iscritta a parlare la onorevole Federici Maria. Ne ha facoltà.

Federici Maria. Onorevole Presidente, poiché dovrò parlare sugli emendamenti, credo opportuno di risparmiare a me ed all'Assemblea un discorso.

Presidente Terracini. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Fusco, Preziosi, Preti, Foa, Di Gloria.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l'onorevole Fanfani.

Fanfani. Rinunzio. (Approvazioni).

Presidente Terracini. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Persico, Calosso, Monticelli, Mazzei, La Malfa.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l'onorevole Gabrieli. Ne ha facoltà.

Gabrieli. Rinunzio, perché dovrò parlare in sede di emendamenti. (Applausi).

Presidente Terracini. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Einaudi, Murgia, Storchi, Zuccarini, Tega, Belotti.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l'onorevole Zotta. Ne ha facoltà.

Zotta. Parlerò sugli emendamenti. (Approvazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

Macrelli. Parlerò in sede di emendamenti.

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Dominedò. Ne ha facoltà.

Dominedò. Svolgerò brevi considerazioni sul III Titolo della Costituzione, tanto più rapide in quanto questa discussione mi coglie alla sprovvista rispetto a ciò che avevo genericamente concepito di esporre all'Assemblea.

Tuttavia non vorrei omettere alcune dichiarazioni le quali offriranno anche il vantaggio di dare fino da adesso per svolti taluni punti che altrimenti avrebbero costituito oggetto di dichiarazioni in sede di emendamenti speciali.

Il Titolo dei rapporti economici merita evidentemente una considerazione particolare e approfondita, poiché esso conferisce un'impronta caratteristica alla nostra Costituzione. È l'impronta in forza della quale la democrazia politica tende a colorirsi e a nutrirsi di democrazia economica; è l'impronta per la quale le libertà sociali si affermano per la prima volta nel quadro della Costituzione, e al semplice cittadino subentra il cittadino lavoratore, all'uomo indifferenziato l'uomo sociale.

Se le Costituzioni della fine dell'Ottocento segnano i primi albori della materia, formulando i primi accenni sui così detti diritti sociali, noi non troviamo sostanzialmente che la Costituzione di Weimar, la quale abbia tessuto uno schema, una orditura organica dei diritti sociali, orditura rimasta tuttavia piuttosto affermazione dogmatica e schematismo dottrinale che non norma vissuta di vita sociale. La Costituzione italiana quindi viene veramente a portare un contributo, poiché, dopo le Costituzioni del dopoguerra ispiratesi a quella di Weimar, essa organicamente detta un complesso di norme per cui la libertà politica è riconosciuta come inadeguata e inefficiente se non alimentata dalla libertà economica.

A grandi linee il Titolo III, guardato da un punto di vista panoramico, potrebbe sottodividersi in tre parti fondamentali. La prima appare quella che concerne statuizioni di ordine generale, quali il diritto all'assistenza, il diritto alla previdenza, il diritto al lavoro, il diritto alla equa retribuzione e via dicendo: cioè quei diritti sociali genericamente intesi, che hanno suscitato particolarmente le critiche dei giuristi; quei diritti nei confronti dei quali fu detto dal Calamandrei che la Costituzione introdurrebbe dei precetti etici, privi di effettivo contenuto normativo.

Io non intendo indugiare su questa prima parte del Titolo, ma debbo limitarmi a sottolineare come qui occorra il coraggio di superare vieti schematismi, per sentire come siano insufficienti le critiche sollevate da parte di chi vorrebbe depennare dal corpo costituzionale questi diritti, sotto il motivo che essi non porterebbero seco la possibilità di una attuazione concreta, non determinerebbero cioè la conseguenza della azionabilità, non potendo essere fatti valere nei confronti di un soggetto obbligato all'adempimento.

Codesta critica si può spuntare sotto un duplice aspetto. Dal punto di vista strettamente giuridico, il precetto assume infatti un contenuto normativo, non solamente quando esso sia azionabile nei confronti di un determinato soggetto, ma quando importi un dato vincolo verso il futuro legislatore, cioè finisca per dettare una norma all'organo legiferante. Obbligato è allora lo Stato prima che l'individuo. E credo che noi dobbiamo sentire questo carattere, dobbiamo individuare questo contenuto nella prima parte del Titolo, laddove, sia pure tendenzialmente, vien tracciato il grande binario, la via maestra per il venturo legislatore, il quale dovrà attenersi come a una meta ispiratrice a questi criteri, destinati ad essere progressivamente tradotti nella legislazione positiva a seconda dell'evoluzione economica e sociale del Paese. La necessità di una graduazione è il solo limite che accompagni la possibilità dell'attuazione.

Quindi, anche sul piano tipicamente giuridico, pur escludendo qui come altrove l'immediata azionabilità verso un dato soggetto, sussisteranno sempre gli estremi del concetto di norma attraverso il vincolo all'organo, sia pure inteso con un carattere di tendenzialità. Ecco perché sarei contro la proposta che penserebbe di depennare in toto questo corpo di norme, costituente una tappa nella evoluzione civile e politica di un popolo, per relegarlo invece nel preambolo, destinato a contenere mere affermazioni ideologiche o aspirazioni di carattere morale.

D'altra parte, oltre la risposta giuridica, c'è la risposta politica. E cioè le norme della Costituzione vanno guardate non sotto un aspetto puramente formale, in forza del quale noi dovremo piegare a quel freddo schematismo del quale parlavo all'inizio, bensì occorre sentirne ad un tempo il vivo contenuto, innovatore che non può non essere vagliato anche dal punto di vista politico, inerente all'evoluzione storica in atto. È quindi sotto un duplice profilo che può essere difesa la tesi della permanenza, almeno in linea generale, di tali norme nel corpo del progetto. E ciò sempre a prescindere da quell'insieme di modifiche adattamenti o revisioni che, nel corso della discussione e nell'esame degli emendamenti, l'Assemblea giudicherà opportuno o doveroso introdurre.

Seconda parte. Il Titolo dei rapporti economici disciplina il problema della produzione esaminandone alcuni aspetti fondamentali: la proprietà dal punto di vista statico e l'impresa dal punto di vista dinamico. Considero insieme i due fenomeni, in quanto l'impresa non è se non la proprietà in movimento: entrano qui in giuoco i rapporti essenzialmente economici, dopo quelli prevalentemente sociali.

Ora, in relazione a questa seconda parte del Titolo, vorrei limitarmi ad una constatazione centrale. Non sembra esatto quanto è stato affermato oggi stesso in questa aula, cioè a dire che il testo costituzionale, nel riconoscerne alcuni diritti della personalità umana — il diritto di proprietà sotto il profilo statico e il diritto di libera iniziativa sotto il profilo dinamico — li abbia ad un tempo mutilati per il fatto di aver posto in evidenza così l'inscindibile funzione sociale legata alla proprietà privata come l'inscindibile finalità di pubblico interesse connessa all'iniziativa economica.

Desidero precisare che in tanto noi consideriamo aderente alle esigenze di tutela della personalità umana il riconoscimento del diritto di proprietà e del diritto di libera iniziativa, in quanto queste espressioni della forza creatrice del singolo risultino ad un tempo a vantaggio e al servigio di quella collettività, della quale la personalità fa parte viva, inscindibile e integrale. Lo spirito di questa parte del Titolo finisce, quindi, per essere precisamente quello di determinare un contemperamento fra le esigenze della proprietà e della socialità, dell'individualità e della collettività. Anche le norme sui controlli vogliono ispirarsi a questo concetto fondamentale; anche le norme sul partecipazionismo sono da esso permeate; anche le norme sulla socializzazione e sull'eliminazione dei monopoli finiscono per far capo al criterio, in forza del quale, nel caso in cui l'iniziativa individuale sia inadeguata, verrebbe fatto di ricordare la frase del laburista Morrison, il quale diceva: «Faccia l'iniziativa finché può; intervenga lo Stato quando essa più non può».

Abbia, quindi, l'intervento dello Stato una tale finalità suppletiva o correttiva, acciocché la ragione in vista della quale opera il riconoscimento dei diritti di proprietà e dei diritti di iniziativa sia sempre viva e operante. Poiché, se venisse meno quella ragione, allora, e solo allora, si spiegherebbe un intervento integrativo, rivolto a mantener fermo quel dualismo di tutela, quella contemporanea esigenza di preservare, in modo inscindibile ed organico, i diritti della persona e i diritti della collettività, per giungere a un più equo processo di distribuzione dei beni e ad una più alta giustizia sociale.

Sotto questo angolo visuale, potremmo dire che il progetto di Costituzione finisca per mirare, almeno negli intendimenti — si vedrà in quale modo la lettera risponda allo spirito ovvero sia suscettibile di modificazioni — a una finalità centrale. Nella contesa secolare fra i diritti dell'io e della collettività, si tratta di non dare un riconoscimento esclusivo né all'uno né all'altra, bensì di mirare ad una sintesi unitaria, nel corpo vivo della quale, fuor di ogni sincretismo, sia possibile comporre in armonia i primi e i secondi, potenziando gli uni e gli altri, allo scopo di trarre i maggiori vantaggi possibili, così dal fermento dell'iniziativa come dal senso della socialità. (Approvazioni).

Infine, resterebbe a dire di una terza parte del progetto di Costituzione, la quale, stando all'ordine delle disposizioni, si inserisce fra la prima e la seconda, delle quali ho già detto, fra quella sociale e quella economica, ma forse, e più appropriatamente, merita considerazione a sé, per l'importanza civile e politica ad essa inerente. Resterebbe, cioè, incompiuto l'esame del processo produttivo, nell'ambito del quale si vogliono disciplinare le attività e le iniziative economiche, se non si desse una particolare visione al fenomeno del lavoro, dato materiale e spirituale insieme, che oggi domina i tempi.

Era profondamente giusto che il titolo dei rapporti economici ponesse l'accento su questo fatto, il quale dà l'impronta alla nostra Costituzione. Se la Costituzione del 1789 e quelle successive si imperniarono anzitutto sul diritto di proprietà, perché allora costituiva una conquista il diritto di libera proprietà rispetto ai privilegi feudali che dovevansi infrangere, oggi una Costituzione socialmente moderna, e rispondente all'anelito di progresso che è negli spiriti, deve porre l'accento su una nota nuova: i diritti del lavoro. In questo settore della Costituzione, in cui il fatto del lavoro riceve una particolare rilevanza, in coerenza con l'articolo 1 che pone il lavoro a fondamento dello Stato, si affrontano, infatti, i problemi fondamentali della materia, fra cui, innanzi tutti, quello del riconoscimento del diritto di associazione nel campo del lavoro individuale, per arrivare fino alle norme relative al lavoro associato, nell'ipotesi di cooperazione, e, quindi, alla partecipazione dei lavoratori al processo produttivo.

Vorrei un momento soffermarmi su alcuni aspetti di singolare rilievo, appartenenti a questa terza parte del Titolo dei rapporti economici e sociali. Qualche parola in particolare va dedicata ai problemi relativi all'organizzazione del lavoro ed al tema della cooperazione.

Per quanto riguarda l'organizzazione del lavoro, un apposito articolo disciplina uno dei fondamentali temi dell'epoca moderna, e cioè il problema del sindacalismo. È una disposizione delicata e complessa, quella dell'articolo 35, la quale, come può ricordare chi prese parte alle discussioni della terza Sottocommissione da cui essa scaturì, costituisce il frutto di un'elaborazione approfondita, svoltasi col concorso dei rappresentanti delle diverse tendenze politiche. Forse il testo merita qualche chiarimento, poiché la sua lettura potrebbe destare delle perplessità, soprattutto per quanto riguarda i due momenti distinti che in esso sono sostanzialmente considerati.

Quali sono i problemi essenziali che occorre risolvere rispetto alla disciplina e allo svolgimento di un moderno sindacalismo? Pare a noi che il primo problema da affrontare sia quello della libertà dell'organizzazione sindacale. Il primo comma dell'articolo 35 si ispira, infatti, a questo concetto preliminare, fissando un punto di partenza: esso muove dalla base del riconoscimento della libera organizzazione sindacale. Ed anche l'emendamento da noi proposto all'articolo 35 mantiene in ciò l'identica formula del progetto, intendendo così confermare l'incondizionata libertà di associazione per qualsiasi organizzazione di carattere e scopo sindacale. Vi è, tuttavia qualcosa da aggiungere in relazione a questo primo momento dell'organizzazione del lavoro: la libertà di associazione porta evidentemente alla possibilità di una pluralità sindacale. Questa conseguenza si ricollega alla necessità di considerare il sindacato come un organismo liberamente costituito e, quindi, all'esigenza di conferire piena funzionalità a tutte le organizzazioni sindacali che noi vogliamo indipendenti a tutela dei diritti del lavoratore.

Ora, tale riconoscimento è realizzabile, tenendo conto della possibilità che l'organizzazione sindacale acquisti la personalità giuridica. Ecco così il primo gradino della scala. Noi dobbiamo cominciare a parlare della personalità giuridica di diritto privato, cioè della titolarità dei diritti da parte del sindacato, non essendo ancora giunti al secondo gradino che toccheremo solo quando daremo la possibilità di dettar norme alla categoria: solo in quel momento spetterà, infatti, al sindacato una potestà di imperio, per cui la personalità giuridica si trasferirà dal terreno di diritto privato in quello del diritto pubblico. Per quanto riguarda, invece, la prima fase, noi consideriamo certamente la possibilità di dettar norme agli iscritti al sindacato, ma non risolviamo ancora il problema di vincolare tutti gli appartenenti alla categoria, una volta che senza potestà di imperio non v'è possibilità di dettar norme agli appartenenti alla categoria, se non iscritti al sindacato.

Nell'ambito delle singole associazioni sindacali, il problema è, pertanto, risolto col conferimento della personalità giuridica: conferimento che potrà essere accompagnato da un normale controllo sugli statuti dell'associazione; allo scopo di accertarne il carattere democratico, dal momento che il progetto di Costituzione subordina l'acquisto delle personalità alla condizione che l'organizzazione sindacale sia regolarmente registrata negli uffici centrali e locali. Ai sindacati non è, quindi, imposto altro obbligo che la registrazione secondo le norme di legge. A questo proposito dovrei dire che sarebbe preferibile una formulazione positiva invece di quella negativa adottata dal progetto, perché quando si dichiara che la personalità giuridica si ottiene mediante la registrazione, si afferma implicitamente che questa formalità rappresenta il solo onere richiesto costituzionalmente allo scopo. Al secondo e terzo comma del progetto sarebbe, quindi, preferibile, secondo l'emendamento proposto, un solo comma in formula positiva, più semplice appropriata.

La possibilità di questa libera espansione delle associazioni professionali costituisce un dato di fatto che fa sorgere la seconda indagine, particolarmente scottante in quest'ora, sia fra noi che fuori, nel diritto interno e nel diritto comparato. Il secondo problema impone di tutelare l'interesse del lavoratore, acciocché egli non appaia frazionato davanti al datore di lavoro, onde, attraverso una rappresentanza unitaria delle associazioni professionali di lavoro, sia possibile raggiungere il risultato che la difesa del lavoro si affermi compatta, senza incrinature capaci di indebolirne le possibilità di affermazione. Se questa è l'esigenza economica e sociale, giuridicamente essa si traduce nella necessità di far sì che le associazioni sottostanti — così le chiameremo dato che abbiamo parlato di diversi gradini della scala — giungano ad organizzarsi nella loro rappresentanza ultima e unitaria, soltanto allora potendo parlarsi di personalità giuridica di diritto pubblico nella pienezza dell'espressione.

Perché questo avvenga, si richiede un requisito essenziale, s'impone cioè che sussista da parte della legge, il riconoscimento di siffatta potestà di imperio, atta a dettar norme. Come si può arrivare a tale riconoscimento? I metodi potrebbero essere diversi. Nel seno della terza Sottocommissione — e basti a ciò spogliare i verbali dei nostri lavori — si è affacciata l'ipotesi di un sindacato maggioritario, il quale, per il solo fatto di poter rappresentare, ad un certo momento, il 51 per cento dei lavoratori o dei datori di lavoro potrebbe essere investito della potestà rappresentativa unitaria. Con la conseguenza di dettare le norme di categoria, cioè di stipulare contratti collettivi di lavoro, valevoli nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, oltre che degli iscritti al solo sindacato maggioritario.

Ovvero — seconda soluzione — occorrerebbe far sì che la rappresentanza unitaria si costituisca legalmente, formandosi attraverso l'afflusso di tutte le libere associazioni sindacali. Questa è sembrata, per prevalente accordo e dopo approfondito esame, la tesi da doversi accogliere, come la più rispondente alle esigenze dell'ordine democratico al quale miriamo, poiché solo in questo modo è data la possibilità di rappresentare proporzionalmente, nell'ambito dell'organismo unitario sovrastante, tutte le forze liberamente associantisi nei sindacati ed esprimenti la reale consistenza delle forze del lavoro.

Un rilievo dovrei, tuttavia, fare al progetto, laddove si vorrebbe tradurre in formule il concetto. A me pare che si incorra in equivoco tecnico, vorrei dire di logica giuridica, quando, nell'ultimo comma dell'articolo 35, si aggiunge: «Possono (i sindacati) rappresentanti unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Il rilievo particolarmente giuridico, che l'assemblea valuterà nel suo giudizio politico, è questo: che nel momento in cui si costituisce la rappresentanza unitaria, a rigore non sono più le associazioni sottostanti quelle che parlano, bensì il sovrastante organo costituito a norma di legge. Poiché nel giuoco della rappresentanza non è il rappresentato, bensì il rappresentante quegli che esprime la dichiarazione di volontà, e cioè la manifestazione attraverso cui promanano le norme di categoria, affermandosi così nel seno del contratto collettivo di lavoro la norma valevole verso tutti gli appartenenti, oltre che gli iscritti. La fonte della norma risale, infatti, all'organo unitario, al quale, come ad un sindacato di secondo grado, le libere associazioni sottostanti, rappresentate democraticamente e proporzionalmente, hanno deferito la propria capacità di fare una manifestazione di volontà giuridicamente rilevante, idonea a determinare una norma con efficacia vincolante, o ad intervenire per eliminare pacificamente i conflitti di lavoro, prevenendoli o dirimendoli.

La formula che io dovrei proporre tende, quindi, ad un semplice spostamento di soggetti. Invece di continuare a far capo ai sindacati, si tratta di chiarire: «Le rappresentanze unitarie delle associazioni registrate, costituite in ragione proporzionale dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro vincolanti nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria».

E, poiché il tempo urge, mi limito a toccare ancora un solo punto del progetto. Dopo aver tentato di porre in evidenza il significato della norma che è destinata a costituire una chiave del sistema, conciliando le esigenze della pluralità dei sindacati con quelle del loro coordinamento unitario, attraverso una formula che potrebbe esprimersi sinteticamente come quella della «libertà nell'unità», sento il dovere di integrare il quadro sul piano del lavoro associato o consorziato. Siamo così al fenomeno del cooperativismo in genere, e del cooperativismo di lavoro e di produzione in specie.

Il tema della cooperazione merita un accenno particolare dopo il tema del lavoro, perché fra le due materie vi è una euritmia, una consonanza di problemi e di valutazioni. E ciò nel senso che appare giusta e rispondente a quella esigenza di evoluzione sociale che la Costituzione intende affermare, la circostanza che, dopo aver riconosciuto i diritti del lavoro individuale, si dedichi per la prima volta un'apposita norma per la disciplina del lavoro associato in forma di cooperazione.

Concepiamo qui la cooperazione, nei suoi vari aspetti di società di scambio produzione e credito, come una impresa la quale è degna di particolare menzione, perché idonea a inserirsi, quasi come tertium genus, tra le due essenziali forme di imprese, delle quali parlavo a proposito del diritto di libera iniziativa: e cioè la tradizionale impresa individuale da un lato, e l'impresa socializzata dall'altro.

Fra l'impresa individuale e l'impresa socializzata merita considerazione autonoma, ed ha veramente titolo di cittadinanza per entrare nel corpo della nostra Costituzione, questa terza categoria che è l'impresa cooperativa, la quale esige una definizione propria, precisamente perché si distingue dalla prima e dalla seconda, pur avendo caratteri e dell'una e dell'altra. L'impresa cooperativa ha dell'impresa individuale il fatto della libera sua costituzione, attraverso la volontà dei cooperatori che spontaneamente si stringono in forme associative o consortili: è quindi sempre la libera iniziativa dei compartecipi l'elemento che sta alla base della formazione di questa terza ipotesi di impresa.

In ciò l'impresa cooperativa si ricollega a quella individuale, cogliendo il fermento che c'è nell'elemento uomo e nella iniziativa che a lui fa capo. Ma ritorna, ad un tempo, come un leit motiv, il concetto da cui prendemmo le mosse: trarre quanto c'è di vitale e dalla individualità e dalla socialità. L'impresa cooperativistica sugge il lievito che nasce dalla possibilità di una spontanea iniziativa, di una libera manifestazione di volontà dei cooperatori: ma insieme capta quanto vi è di fecondo nella possibilità di una gestione comune, facendo sì che ai liberi consociati, strettisi nella famiglia della cooperazione, sia dato di realizzare una forma nuova di impresa la quale, secondo i principî della mutualità, serva in definitiva a far defluire i frutti del lavoro nell'interesse degli stessi partecipi. È così che i cooperatori, sovrapponendosi all'intermediario, sia egli commerciante agricoltore industriale o banchiere, riescono a creare nuove comunità di lavoratori od utenti, fondate sulla solidarietà della vita associata. Si realizzano quasi forme di socializzazione privata ovvero, per ricordare Proudhon, gli aspetti più utili di un collettivismo nascente dal contratto e non dalla legge.

È sotto questi aspetti che la cooperazione costituisce una via di superamento dell'impresa capitalistica, per l'eliminazione dell'intermediario cui essa tende dal punto di vista economico, e per il principio di trasformazione della struttura sociale che essa determina attraverso l'incontro delle classi e la fusione delle categorie. Ma la forza dell'idea sta soprattutto nel lievito di affratellamento degli umili, dei cooperatori e dei partecipi, i quali, stretti in unica famiglia, mirante ad unica finalità, sentono accentuato il vincolo di solidarietà che sta alla base della redenzione del lavoro e della elevazione umana. (Approvazioni).

Io credo pertanto doveroso sottolineare all'Assemblea l'importanza di una norma con la quale per la prima volta si sancisce la nuova forma di impresa e se ne riconosce la funzione sociale, dandole pieno diritto di cittadinanza nel corpo della Costituzione.

Un solo rilievo forse è ancora conveniente fare. Ed è questo: che, se a un tale riconoscimento si vuole che facciano seguito tutti i possibili benefici effetti, è opportuno che la Costituzione, nel consacrare la socialità della cooperazione e nel ripromettersi di favorirne l'incremento, non pensi ad un tempo a frapporvi ostacoli o pastoie, quali potrebbero essere quelli nascenti da una preordinata vigilanza di Stato o da un precostituito intervento pubblico. Bisogna denunciare il pericolo dello statalismo gravante su queste formazioni, le quali, pur offrendo i vantaggi della gestione comune, hanno sempre per base e presupposto la libera iniziativa individuale. Bisogna tener fermo che queste formazioni tanto più saranno feconde, tanto meglio risponderanno all'interesse così dei cooperatori come della collettività, per quanto più esse poggeranno sulla selezione sicura e ferrea che nasce dalla bontà intrinseca dell'impresa stessa. Questa, se pure prudentemente sorretta sul nascere, dovrà essenzialmente vivere di vita propria, poiché l'impresa parassitaria, l'impresa simulata o fraudolenta, non debbono essere oltre tollerabili, e lo stesso giuoco della libera concorrenza servirà ad eliminare compagini che della cooperazione potrebbero avere il nome, ma non lo spirito.

Il problema dei controlli deve quindi passare impregiudicato dalla sede costituzionale in quella legislativa. Probabilmente si tratterà allora di contemplare vari controlli di legalità, formale e sostanziale, procedendo prudentemente sul terreno dei controlli di merito, da affidare con maggior vantaggio alle associazioni di cooperatori riconosciute dalla legge piuttosto che allo Stato. In tal modo, entrerà in giuoco un motivo individuale in concorso con quello collettivo, essendovi la possibilità di configurare, in analogia al settore sindacale, un'associazione nata dalla libera cooperazione e pur idonea ad assumere la rappresentanza legale della categoria. Vi sono esempi di diritto comparato, per cui i controlli nel settore cooperativo finiscono per essere affidati alla stessa associazione giuridicamente organizzata ad esprimere la libera cooperazione del paese. E con questo richiamo al principio di autogoverno delle categorie, che costituisce l'anima della democrazia economica, posso raccogliere le vele.

Non sono che accenni rapidi nel vasto quadro della materia, ma forse non del tutto privi di risalto, quelli che mi sono permesso di sottoporre all'esame accurato, e certamente appassionato, con cui l'Assemblea vaglierà questo Titolo fondamentale della nostra Costituzione. Si tratta del Titolo destinato a dare un nuovo volto agli ordinamenti civili d'Italia, storicamente idoneo ad affermare con i diritti della libertà, i diritti della giustizia sociale. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

 


 

[1] Il resoconto stenografico riporta erroneamente «30» invece di «38».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti