[Il 7 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

Essendo assente l'onorevole Carignani, al quale spetterebbe la parola, ha facoltà di parlare l'onorevole Dominedò.

Dominedò. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sia consentito qualche rilievo di ordine generale sul Titolo della Magistratura, che l'Assemblea Costituente è chiamata ad esaminare a chiusura della sua opera di costruzione costituzionale. E sia consentito qualche rilievo, proprio per il motivo che questo Titolo sta forse a rappresentare nella seconda parte del progetto di Costituzione qualche cosa di così praticamente importante da potere essere ragguagliato a ciò che nella prima parte del progetto era raffigurato dal Titolo sui rapporti economici e quindi, più precisamente, sulla giustizia sociale.

Come, nella prima parte della Costituzione rivolta a definire i diritti del cittadino, se non avessimo sancito le norme tendenti ad attuare gradualmente la giustizia sociale e con essa il principio di democrazia economica, avremmo ferito la possibilità stessa di attuare la democrazia politica, così, nella seconda parte rivolta a costruire l'architettura dello Stato democratico, se non garantissimo adeguatamente il funzionamento della giustizia, espressione della volontà del potere giurisdizionale, verremmo meno praticamente alle finalità stesse che ci siamo proposte nella nostra opera.

Senza la garanzia suprema ed ultima della giustizia, non vi è creazione alcuna di diritto costituzionale che possa riempire il quadro, per quanto prospettata nello schema di una costruzione teorica apparentemente ineccepibile, più o meno vicina al tipo di Weimar, formalmente mirabile. Come diceva Alessio de Tocqueville, ciò che attiene alle garanzie del potere giurisdizionale, e quindi alla funzione stessa della giustizia, è in verità quanto di più vitale esista nelle Costituzioni moderne.

Questo raffronto fra il risalto che deve conferirsi alle norme sulla giustizia sociale da un lato e a quelle sulla giustizia in generale dall'altro, appare pertanto tale da legittimare un rapido intervento nella materia. Alieno come sono dall'indugiare su aspetti già considerati da quanti abbiano mietuto nel vasto campo, alieno come mi ritengo dal prolungare discussioni generali che siano semplicemente fine a se stesse, mirerei piuttosto a qualche considerazione, la quale possa pesare per l'ora in cui saremo chiamati a prendere le nostre decisioni. Occorre prendere atteggiamenti definitivi in relazione a questa parte del progetto, che sarà d'importanza fondamentale per dare il senso della continuità storica alla nostra Costituzione.

Posti questi rilievi preliminari, io vorrei ora chiedermi quale sia veramente lo spirito informatore del Titolo della Costituzione che disciplina il potere giurisdizionale. E vorrei tentare di coglierne l'essenza, poiché, se a ciò riuscissimo, avremmo forse trovato il metodo per risolvere tutte le questioni particolari, alcune delle quali così gravi, che sorgeranno in sede di disciplina particolare. Infatti, ci basterebbe allora adeguare i criteri per la soluzione dei problemi singoli alla definizione del concetto ispiratore di tutta la materia, là dove si giungesse in realtà a determinarlo.

Ora a me pare, cercando di seguire la trafila dei lavori preparatori e la gestazione spesso faticosa delle Commissioni, ma sopratutto sforzandomi di sentire quella che è l'aspirazione della nostra coscienza, nella veste di rappresentanti del popolo italiano in sede costituente, a me pare che la finalità centrale — e perciò lo spirito informatore del Titolo — sia esattamente quella di assicurare l'indipendenza della funzione giurisdizionale e quindi la figura del giudice libero.

Mi guardo a questo proposito da reminiscenze storiche che mi potrebbero condurre troppo oltre, sino alla scuola del diritto libero. Lascio Kantorowitc ed i suoi continuatori, perché, quando parlo di giudice libero, intendo evidentemente dire giudice libero nell'alveo della legge.

La scuola del diritto libero fa del giudice qualche cosa che si allontana dalla nostra concezione fondamentale, poiché, attraverso il così detto potere creativo del diritto nel caso concreto, il giudice finisce per sovrapporsi alla legge. Non è questa presunta libertà che noi vogliamo in un ordinamento italico e latino, il quale si ricollega necessariamente alla tradizione romanista, la più pura della nostra civiltà giuridica. Noi vogliamo un giudice libero, il quale sia ad un tempo ancorato al diritto positivo, un giudice libero che operi nell'orbita della legge, un giudice libero che dica il diritto nel caso singolo, ma insieme si inchini alla creazione generale ed astratta del diritto, la quale è opera di altri poteri dello Stato e, per il nostro ordinamento, rappresenta garanzia di giustizia, di libertà, di democrazia.

Sul piano del così detto giudice libero, il quale operi con una propria volontà creatrice nel caso singolo, noi ricordiamo quali abusi e degenerazioni siano possibili. Là dove la certezza del diritto venga meno, noi sentiamo che la funzione giurisdizionale non è più garanzia di libertà, ma strumento di oppressione della libertà. Noi sappiamo che il giudice, il quale sia libero, nel senso di poter incondizionatamente interpretare la cosiddetta coscienza popolare, e cioè una asserita coscienza collettiva, non consacrata né in diritto scritto né consuetudinario, si trasforma in un giudice che potrà seguire sino all'estrema degenerazione il concetto della Führung, presunta interprete della volontà collettiva. Signori, quel giudice tradirà il diritto: egli non sarà segnacolo di libertà, bensì veicolo di servitù. E la storia troppo recente dei nostri tempi parla duramente in questo senso.

Vogliamo invece un giudice duttile, libero, nella legge, il quale abbia il senso sociale del diritto, il senso dell'avvicinamento del diritto alla vita; questo, sì, noi intendiamo.

Riprendendo una espressione nota nel campo del diritto, miriamo ad un giudice che sia sensibile non alla sola giurisprudenza dei concetti, alla giurisprudenza teoretica, schematica o dottrinale, ma che faccia penetrare la vita nelle pieghe del diritto, che sia sensibile alla giurisprudenza degli interessi, se si vorrà ricordare la formula della Interessenjurisprudenz in antitesi alla Begriffjurisprudenz. Noi a questo tendiamo, poiché è questo che fa parte del nostro senso sociale del diritto, aderente alla viva realtà delle cose. Noi non concepiamo un diritto che sia avulso dalla coscienza sociale del popolo e che per ciò stesso non risponda alle esigenze della storia.

Ecco, precisamente: vogliamo che il diritto sia nutrito di socialità, non solo nella fase creatrice, ma anche nella fase applicativa. Questo fa parte del nostro senso umano, del nostro spirito della democrazia. Questo, sì, noi vogliamo. Ma ciò inquadriamo proprio nel principio di libertà del giudice nell'ambito della legge. Perché, a chi ben guardi, accentuare il senso di socialità del diritto, porsi a contatto col palpito della coscienza comune, significa veramente cogliere lo spirito della legge, essere cioè sul piano di chi applichi, di chi dica il diritto nello stesso quadro in cui il legislatore, espressione della volontà collettiva, lo formulò, lo creò. Siamo pertanto coerenti a noi stessi, quando si accentua questa nota sociale nella fase applicativa della legge. Poiché non si rinnega, bensì si avvalora il principio della certezza del diritto, quando affermiamo che un giudice libero, così nutrito di socialità nell'esercizio della sua virtù discrezionale, debba operare ad un tempo nel campo del diritto costituito e preservare quindi l'esigenza suprema della intangibilità del diritto obiettivo. Servi della legge per poterci dire liberi, secondo la grande parola di Cicerone.

Se tutto ciò è, come fermamente credo che sia quando interpello gli strati più profondi della mia coscienza, ritengo che, sulla base di un tale criterio ispiratore, noi possiamo ora serenamente affrontare la disciplina speciale della materia, qual è prevista e quale si snoda particolareggiatamente in questo Titolo della Costituzione che andiamo per esaminare. Noi potremo vagliare questo Titolo e forse introdurvi delle varianti con perfetta coerenza ai nostri punti di partenza. Soprattutto, per essere rapidi in questo intervento, potremo, alla luce dei principî direttivi, impostare subito due dei problemi fondamentali che saremo chiamati a trattare nell'esame della materia.

La premessa che ho tentato di svolgere sulla figura del giudice quale scaturisce dallo spirito del nuovo ordinamento, dalle caratteristiche essenziali cui la Costituzione ha mirato, non può infatti non giovare per dissipare alcuni equivoci, per rispondere ad alcune obiezioni che concernono precisamente i due punti, forse essenziali, del Titolo su cui dovremo discutere.

Il primo punto corrisponde al testo dell'articolo 97 del progetto e riguarda la configurazione dell'organo supremo che sta a capo del potere giurisdizionale, il Consiglio Superiore della Magistratura. Colleghi della Costituente, noi ci troviamo dinanzi a questa situazione, secondo lo schema di progetto elaborato dalla Commissione dei Settantacinque: dopo una serie di discussioni intorno a questo delicato punto, ha prevalso il concetto per cui l'organo preposto al vertice del potere giurisdizionale — il detto Consiglio Superiore della Magistratura — dovrebbe promanare ad un tempo dall'ordine giudiziario e dalle Camere legislative, rappresentate da quell'Assemblea nazionale che non a torto abbiamo a suo tempo condannato. Duplice afflusso, in parti uguali, da parte dei rappresentanti del potere legislativo e da parte dei rappresentanti del potere giurisdizionale; e, come coronamento la presidenza dell'organo affidata allo stesso Capo dello Stato.

Entro certi limiti, sarei anche disposto ad inchinarmi all'esigenza che può aver ispirato questa concezione e non avrei difficoltà a riconoscere che, almeno negli intendimenti, vi possa essere stata la volontà di perseguire così una democratica costituzione. Si è forse pensato che in questo modo si potesse istituire una forma superiore di sindacato nei confronti del potere giurisdizionale; si è forse pensato che il suo funzionamento non dovesse restare autonomo e quasi avulso rispetto ad una possibilità di controllo da parte dell'organo che rappresenta direttamente la volontà popolare, cioè del legislativo.

Ma se anche in questo modo si fosse ritenuto di far salva un'esigenza democratica, io mi permetto di domandare se sia questo il sistema più rispondente al fine, dopo le considerazioni fin qui svolte sulla struttura, sull'essenza della funzione giurisdizionale e per ciò stesso sul concetto ispiratore della nostra Carta costituzionale, destinata a creare il giudice libero nella legge ed il potere giurisdizionale indipendente nell'ordinamento costituzionale. E credo di poter affermare che, per un duplice ordine di considerazioni, la via prescelta dal progetto non sembra la più idonea a fronteggiare l'esigenza, che può aver determinato i proponenti nel senso contemplato dall'articolo 97.

Anzitutto, da un punto di vista generale, vorrei dire che il principio della divisione dei poteri, che non intendo qui invocare in un senso meccanico o dottrinale, già starebbe, almeno nel suo significato più schietto, contro una contaminazione così aperta nel funzionamento dei diversi poteri dello Stato. Ma, prescindendo da ogni arido schematismo nella critica della norma ed andando alla sostanza delle cose, io osservo che, se è vero che il giudice è investito della sua potestà solo a seguito di un insieme di garanzie, e cioè di un sistema complesso ed organico, costituzionalmente previsto, in forza del quale esclusivamente egli diventa titolare della jurisdictio, del suo potere di dire il diritto, se questo è, come è, noi siamo già dinanzi a una decisiva garanzia d'ordine costituzionale, eccedente gli stessi schemi di Montesquieu. In questo senso: che oggi il giudice in tanto potrà esercitare quelle funzioni in quanto esse gli siano conferite secondo un moderno e perfezionato quadro costituzionale, con le garanzie quivi volute, concepite e formulate, tutte snodantisi secondo quanto rappresenta il frutto di una dichiarazione di volontà la quale, in ultima analisi, è dovuta alla stessa volontà popolare.

Se oggi costituzionalmente il giudice può dire il diritto in forza del complesso delle più adeguate garanzie che a ciò l'abilitano, ecco una prima risposta di ordine sostanziale, e non solamente formale, rispetto all'esigenza di ricollegare anche il potere giurisdizionale alla volontà popolare. Il vero controllo sulla giurisdizione è questo: che il giudice risulta investito dei suoi naturali poteri ed è conseguentemente impegnato alla propria elevazione morale e tecnica, in perfetta armonia con la volontà popolare che trova l'espressione ultima nella Carta costituzionale.

Ma vi è dell'altro. Se per assurda ipotesi ciò non dovesse essere, noi cadremmo in contraddizione, venendo meno a quella stessa esigenza che ponevamo all'inizio come criterio ispiratore di tutta la materia. In questo senso: che potremmo menomare quella superiore necessità per cui, nel momento in cui si deve applicare la legge, la politica cessa di essere la protagonista e la parola passa al diritto. Nel momento stesso in cui deve funzionare il potere giurisdizionale, importa porre il giudice in condizione di essere effettivamente libero, se vogliamo ancora parlare di certezza del diritto, ricordando nuovamente Tocqueville che definiva l'arbitrario nella giustizia come il volto stesso della barbarie, e invocando l'evoluzione dei paesi a più alta tradizione democratica, dall'Inghilterra agli Stati Uniti, i quali attraverso i poteri del Lord Advocate e la competenza della Suprema Corte hanno rispettivamente contemplato una partecipazione del giudiziario al legislativo, non mai una interferenza del legislativo nel giudiziario.

Ecco dunque la necessità di voltare pagina quando si passi a dire il diritto. Da allora noi pensiamo che la politica non debba più operare nel senso stretto del termine, senza volerci con ciò sottrarre ad una sana politicità del giudice, nello stesso modo in cui poco fa accentuavamo il senso di socialità della funzione giurisdizionale e in genere la sua aderenza alla voce dei tempi. Ma la politica in senso effettivo, diretta ed immediata, cioè l'efficacia determinante del gioco delle varie forze di parte, non può influire che in una prima fase: la creazione del diritto. La seconda fase, quella della più severa attuazione del diritto, se vuole essere effettivamente ricondotta all'imparziale autorità dello Stato, deve far capo al potere competente, venendo sottratta al riflesso di quel giuoco e della sua azione perturbatrice.

Ecco la risposta che tranquillizza una coscienza democratica. Probabilmente si potrebbe anche concepire una soluzione intermedia o di temperamento rispetto al sistema dell'articolo 97, poiché non ho difficoltà a riconoscere che la divisione dei poteri strettamente concepita è qualche cosa di schematico, talvolta lontano dalla vita, al punto di non avervi eccessivamente fatto leva per la dimostrazione della mia tesi. Considerando infatti che noi non dobbiamo semplicemente creare i pezzi di uno Stato, bensì lo Stato stesso nella sua unità, e cioè un congegno coordinato in vista delle sue inscindibili finalità, forse si potrebbe venire parzialmente incontro alla tesi discussa, ricercando delle soluzioni fondate su una rappresentanza ridotta e non perturbatrice del potere legislativo nel seno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Come si osservava da un eminente collega della Commissione dei Settantacinque, il Perassi, anche la tesi di una rappresentanza simbolica potrebbe esprimere la funzionalità unitaria dei vari poteri dello Stato, rispetto alle finalità giuridiche e politiche che esso è chiamato ad assolvere. A rigore, basterebbe la presenza di un solo rappresentante del legislativo per allontanare il pericolo dell'hortus conclusus, superando il luogo comune di una casta separata e irresponsabile, mediante la proiezione esterna dei suoi atti. Ma è questione di particolari, e su ciò ci riserviamo di tornare in sede di emendamenti. Oggi resta affermata questa esigenza logica e politica, in armonia all'insegnamento dei nostri maggiori, da Gianturco a Scialoja: che, in coerenza del postulato di un giudice libero nell'ambito della legge, noi dobbiamo dettare norme idonee a tradurre in atto il principio, sottraendo il giudicante alla possibile ripercussione di una lotta politica capace di turbarne l'indipendenza morale e per ciò stesso ponendolo in una condizione di superiore serenità rispetto alle passioni dell'ora.

Era questo il primo tema sul quale intendevo richiamare l'esame dell'Assemblea. Ma mi permetto ancora un momento di pregare l'attenzione dei colleghi per riferirmi ad un secondo punto, anche esso di centrale risalto, se vogliamo tendere ad attuare in concreto, a garantire effettivamente i principî dai quali abbiamo preso le mosse, e intorno ai quali può forse raccogliersi un prevalente consenso.

Il punto sul quale desidero di spendere una parola, sempre in via generale, è quello che concerne la Corte costituzionale. Se, come ritengo, questa Assemblea si orienterà verso la tesi della sua istituzione a garanzia e controllo di una osservanza fedele della Costituzione, se questo crederà logicamente di fare l'Assemblea per un ordinamento in cui, essendosi voluta una Costituzione rigida, occorrerà di continuo controllare la validità delle leggi attraverso la loro aderenza alla Costituzione, sorgerà allora, anche nell'ambito della Corte costituzionale, a termini dell'articolo 127 del progetto, un problema sostanzialmente analogo. Poiché noi dobbiamo porci questo quesito: la Corte costituzionale che funzione avrà? Creare il diritto o dire il diritto?

Ora alla Corte spetterà precisamente di dire il diritto nell'ambito della Costituzione, voluta e creata dagli organi rappresentativi della volontà popolare. Ed allora, anche in questa suprema opera di jurisdictio, la Corte costituzionale dovrà essere posta in una posizione di superiorità e di indipendenza, sia pure con l'inserzione di quelle rappresentanze che chiamavamo simboliche e potranno essere reali fino ad un certo limite, onde la sua funzione si svolga su un piano di tale elevatezza, di tale distacco dal pericolo di una influenza politica, che il cittadino italiano abbia la certezza di trovare così, negli organi contemplati dalla Carta costituzionale, la garanzia più alta per l'uniforme applicazione del diritto ai cittadini, tutti veramente uguali dinanzi alla maestà della legge.

Se ciò sarà, e noi confidiamo che così debba essere perché qui sta il significato ultimo della nostra fatica e questi sono i risultati cui dovremo pervenire per non compiere opera vana, noi potremo in piena coscienza ritenere di aver contribuito perché la costruzione del potere giurisdizionale risponda alla suprema esigenza di assicurare la giustizia, dono di Dio in terra, fondamento degli Stati, garanzia della libertà umana. (Vivissimi applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. Non essendo presente l'onorevole Patricolo, iscritto a parlare, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l'onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

Ruggiero. Onorevoli colleghi, il Titolo sulla Magistratura, attualmente sottoposto alla nostra considerazione, presenta una questione che — secondo me — ha importanza e giuridica e politica. È la questione che rinviene dall'ultimo comma dell'articolo 94; cioè la questione relativa al divieto di iscrizione dei magistrati nei partiti politici.

A proposito di questa norma, bisogna far subito un rilievo di carattere tecnico, che è questo: voi ricorderete che da parte dell'Assemblea fu approvato un articolo, il quale vietava l'esistenza delle associazioni segrete. Per questa ragione è assolutamente inutile sancire altra norma la quale faccia divieto particolare ai giudici di appartenere a questo genere di associazioni. Si capisce che, essendo vietata la esistenza delle associazioni segrete, è pure vietata l'appartenenza ad esse da parte di qualsiasi cittadino, e quindi pure da parte dei magistrati. Ne consegue che l'ultima parte dell'ultimo comma dell'articolo 94 deve essere necessariamente soppressa, per coerenza alla Costituzione — o, per lo meno — a quella parte della Costituzione che si riferisce a questo argomento.

Resta la questione essenziale di carattere politico e giuridico, contenuta nella norma la quale importa, così come è nel progetto, il divieto ai magistrati di iscrizione ai partiti politici. Con tutta modestia, onorevoli colleghi, io mi dichiaro contrario al progetto e ciò per una ragione la quale, oltre che essere giuridica mi pare schiettamente politica. E la ragione è questa: questa norma, come appare chiaro, stabilisce un rapporto tra i magistrati e i partiti politici, anche se il rapporto è espresso in forma negativa.

Dobbiamo quindi considerare la norma nei rapporti dell'uno e dell'altro termine, cioè nei confronti dei partiti politici da una parte e dei magistrati dall'altra. E se così è, onorevoli colleghi, mi pare che, quando si porti la nostra considerazione su uno dei termini, cioè sui partiti politici, voi vedete bene come questa norma presupponga qualche cosa che è, secondo me, chiaramente offensiva per i partiti politici.

Che cosa presuppone infatti la norma? La norma presuppone che, se è vero che esiste una certa suscettività da parte dei magistrati ad accedere a lusinghe esterne, è pur vero però che nella norma è presupposto il fatto di una attività illegittima ed antidemocratica da parte dei partiti, cioè di una attività politica la quale tenda a deformare la coscienza del giudice.

Come vedete quindi, noi arriveremmo a consacrare nella Costituzione la possibilità che i partiti politici operino contrariamente ai principî fondamentali della libertà e della democrazia; e mi pare che in un atto solenne e fondamentale quale è la Costituzione, ciò sia non soltanto inopportuno, ma veramente e stranamente offensivo per la nostra democrazia. A nessuno può sfuggire che questa norma è una sconsacrazione aprioristica della democrazia italiana, una svalutazione immanente della nostra democrazia, un giudizio preventivo e negativo dell'opera dei partiti. La Carta costituzionale è, in ultima analisi, la definizione etica di un popolo. E non è eccessivo da parte nostra consacrare nella Costituzione questa forma aprioristica di disonestà da parte dei partiti politici italiani? Con tutta modestia, onorevoli colleghi, vi dico che io mi rifiuto di pensare aprioristicamente che il mio partito possa essere capace di fare opera contraria alla libertà e alla democrazia; e vi dico anche che ho motivo di pensare che anche altri partiti non sono davvero capaci di addivenire mai ad una simile forma di attività.

Ora, se noi stabiliamo, attraverso la Carta costituzionale, che i partiti possono compiere quest'opera, mi pare che con ciò venga meno ogni presupposto etico-morale della politica italiana. Io penso che nessun deputato dell'Assemblea Costituente possa sottoscrivere una norma di questo genere, che come prima dicevo, si risolverebbe in un grave pregiudizio per la democrazia italiana.

Ma, onorevoli colleghi, a prescindere da questa prima considerazione che, come vi dicevo, riguarda uno dei termini della questione, cioè il termine «partiti politici», la questione va riguardata anche nei confronti del secondo termine, cioè dei «magistrati».

Ora, io mi domando se è data ai costituenti la facoltà di poter escludere dalla vita politica una classe di cittadini in omaggio ad un astratto principio di lesa giustizia, che fino a questo momento non abbiamo nessun diritto di ritenere che debba necessariamente essere nell'avvenire intaccato e leso. Io so che certe funzioni importano delle limitazioni e delle privazioni di diritto. Per esempio, gli avvocati, i cancellieri, i militari, i giudici stessi sono soggetti a limitazioni di attività e privazioni di diritto. Però bisogna pur vedere, onorevoli colleghi, la natura, la portata, l'entità di queste privazioni di diritto e di queste limitazioni di attività. In tutti i casi si tratta di attività e di diritti che hanno un carattere estrinseco, accessorio, non necessario, che non sono legati all'intima personalità dell'individuo, che non comportano la lesione di diritti di natura sociale. Ma nella specie noi ci troviamo di fronte al fatto di escludere dalla vita politica tutta quanta una classe di cittadini, cioè di escluderla dall'esercizio di un diritto fondamentale e del cittadino. Non so come possa sfuggire l'importanza di questa limitazione nei confronti della classe dei magistrati italiani.

Vedete, onorevoli colleghi, è vero che esiste una specie di concetto che chiamerei deteriore e negativo della politica; e di questo concetto molte volte si diventa inconsciamente vittime, per cui anche gli uomini politici non danno alla politica quella rilevanza e quell'importanza che essa deve avere. E allora, penso che forse nei compilatori di questo progetto di Costituzione sia invalso questo concetto, cioè questa svalutazione della politica; se no non si poteva arrivare a consacrare una norma la quale nega un diritto così fondamentale ad una classe di cittadini. La politica non deve essere considerata come una superfetazione come una soprastruttura; non deve essere considerata, come accade spesso, qualche cosa di dilettantistico o come una fiera di ambizioni o un mercato di vanità. La politica è necessità etica per il cittadino: è un dovere e un diritto.

Ora, se noi diamo della politica questa definizione, mi pare che dovremmo essere i primi a restare perplessi di fronte a questa esclusione di tutta una classe di cittadini dalla vita politica. La vita politica, nella sua vera accezione storica, intesa come continuità di umani eventi e pensieri, è un contrasto di ideali, un urto di interessi, un'espressione di valori etici, sia pure espressione contingente, ma espressione di tutto un popolo. La politica è la storia allo stato fluido che ogni giorno passa sotto i nostri occhi; è la vicenda che interessa ed impegna la nostra gente, la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, il nostro spirito.

Se questa è la politica, onorevoli colleghi (ed è questa) mi pare che non si possa escludere il giudice dal partecipare a questa forma di attività. Insomma, non possiamo relegare una classe di cittadini ai margini della vita, in una condizione di isolamento, in una zona neutra, in una specie di vuoto pneumatico, in omaggio a questo aprioristico ed astratto principio di eventuale lesione delle regole della giustizia.

Quindi, secondo me, il comma in esame non può essere ammesso nella Costituzione.

Ma esiste un terzo motivo di esclusione, che è questo. Io penso, molto modestamente, che questa norma si risolva in una specie di divieto formale, di nessun valore pratico, destituito di ogni concreta facoltà normativa: perché il giudice può rimanere fedele o infedele alle sue funzioni, esista o non esista la norma. È impossibile che la norma possa determinare un giudice a questo o quello apprezzamento. Il giudice non è un'astrazione umana, ma è un uomo come tutti gli altri. È assurdo pensare che per effetto di questo divieto ad un certo momento il giudice diventi un essere completamente avulso dalla vita comune, destituito di ogni convincimento, insensibile agli impulsi della storia che si muove intorno a lui, isterilito nella speculazione dei principî giuridici, inteso solo alla interpretazione astratta ed all'applicazione automatica delle norme. Non mi sembra che il giudice possa vivere in questo ambiente di rarefazione metafisica. Il giudice non è la tabula rasa in cui è possibile incidere semplicemente il geroglifico non sempre decifrabile della formula di legge. Il giudice è un uomo come gli altri e, come tale, ha le sue passioni che gli vengono dal cuore, e i suoi interessi, che gli vengono dalla sua posizione di cittadino che vive nella umana società, e le sue opinioni, che gli vengono dalla sua facoltà raziocinante. E quindi, per questi motivi, penso che il giudice non possa rimanere legato, chiuso, costretto da questa norma, che secondo me si traduce poi praticamente in un divieto di carattere semplicemente formale. Infatti, a questo proposito i casi che possono verificarsi sono due: o il giudice viene sopraffatto dal suo convincimento, dal suo partito, dal suo interesse, dalla sua faziosa passione politica, da influenze esterne, e allora egli potrà determinarsi secondo modi che esulano dalla sua coscienza di galantuomo; oppure il giudice, per imprescindibile dirittura morale, riesce ad affrancarsi da ogni forma di soggezione interiore ed esteriore e seguirà allora il comandamento della giustizia e i precetti della sua coscienza.

Quindi, esista o non esista la norma, il giudice avrà sempre la possibilità di determinarsi come vuole: anzi, vi dirò questo, che forse (e non credo di esprimere un concetto peregrino, ma un concetto aderente alla realtà pratica di ogni giorno) è più pericoloso il giudice costretto ad una forma di agnosticismo formale, che il giudice il quale abbia fatto una pubblica professione di fede. Perché il primo può valersi della apparente neutralità politica per fare invalere il suo proposito infedele, mentre l'altro che ha fatto professione di fede politica mi sembra che sia legato e condizionato da quella professione di fede. Il caso del procuratore generale Pilotti, di cui si è parlato, è un esempio. Io penso che se, per esempio, il procuratore generale Pilotti fosse stato dichiaratamente iscritto al partito monarchico, molto probabilmente avrebbe avvertito un senso di peritanza, di pudore a compiere quel gesto che, come sapete, è stato commentato un po' in tutto il paese. Egli ha commesso quell'atto, quel gesto, perché era garantito e difeso dalla sua condizione di neutralità politica.

Io penso che se, per esempio, un giudice, notoriamente democristiano, debba domani giudicare un imputato comunista, io penso che questo giudice metterà forse maggiore obiettività e cura e diligenza in quel caso che in altri casi; e così viceversa, se un giudice comunista dovesse giudicare un imputato democristiano.

È sempre una remora, un freno, una specie di controllo l'iscrizione. Quando si è espressa la propria opinione, si è legati a questa opinione. Quando si resta chiusi nel sacrario della propria coscienza si diventa impenetrabile ed ermetico. È questo un criterio pratico che io penso bisognerebbe tener presente nella valutazione della norma in esame. Accennerò ora brevemente alle piccole o grandi ragioni che hanno imposto nel progetto il divieto di iscrizione. C'è, per esempio, l'argomentazione dell'onorevole Mannironi, il quale dice: «per poter inserire nella psicologia popolare la necessaria fiducia nella Magistratura, è indispensabile che vi sia in tutti il convincimento che i magistrati sono liberi da legami di qualsiasi genere».

Io mi permetto di fare osservare che in questo modo — secondo me — la questione viene spostata, la questione non viene più valutata nella sua contenenza essenziale. Qui non viene in considerazione l'obiettivo della questione, cioè i due termini della questione, ma si pone sul piano della discussione un elemento estraneo: quello della fiducia popolare, e mi pare che così la questione si ponga erroneamente. Entrando in merito, dico che la fiducia popolare — secondo me — non può essere determinata dal fatto negativo della mancata iscrizione di un magistrato ad un partito politico, bensì deve essere determinata (questa è una regola di carattere etico da cui non si può prescindere) dalla condotta irreprensibile e indefettibile del giudice. Quindi, la fiducia deve nascere non dal fatto negativo della non iscrizione, ma dal fatto positivo della condotta del giudice.

Mi pare quindi, che non si possa tenere in considerazione questo argomento dell'onorevole Mannironi, perché si pone al centro della questione un elemento estraneo ai due termini della questione, cioè ai due termini in cui la questione deve essere chiusa e delimitata: i partiti politici e i magistrati.

Vi è poi un'altra obiezione che devo fare: quando l'onorevole Mannironi dice che bisogna suscitare nella psicologia popolare la fiducia nel giudice, mi pare che egli faccia una questione di semplice apparenza. Egli dice in sostanza questo: sia il giudice fedele o infedele alla sua funzione, si mantenga egli integro o meno, l'importante è che esista la fiducia popolare. Il che — secondo me — è una maniera di aggiustare le cose, di salvare le apparenze, di risolvere la questione su un terreno estraneo alla questione, superando molto semplicisticamente i termini giuridici e politici del problema. In effetti così si elude la questione riducendola ad un'espressione estrinseca di mera apparenza.

Esiste poi, a favore del principio di non iscrizione dei magistrati in partiti politici, un'altra argomentazione. Ed è dell'onorevole Ambrosini il quale sostiene che è necessario consacrare nella Carta costituzionale il divieto di appartenenza dei magistrati ai partiti politici e che i magistrati non devono sentirsi menomati da questa norma perché essi vengono, invece, da questa norma, posti al di sopra della politica, vengono posti (dice testualmente l'onorevole Ambrosini) «come su un altare». A proposito dei giudici che stanno sull'altare, devo dichiarare che questa è una frase retorica, vieta, che ha fatto il suo tempo, a cui i giudici non vogliono accedere e di cui si può parlare solamente quando si conoscano i giudici solo per sentito dire e non si è partecipato mai alla vita dei giudici. Tant'è vero, onorevoli colleghi, che il Primo Presidente della Corte di Cassazione, interpellato a proposito di questa norma, ebbe a dire che tale norma costituisce un grande sacrificio per la Magistratura. Sono le sue parole testuali. Quindi se questi giudici non vogliono stare sull'altare, ma vogliono scendere sulla strada, per vivere la vita degli uomini non possiamo metterceli per forza noi. Insomma, vedete, i magistrati non vogliono diventare santi di cartapesta, essi sono uomini di opinioni, di passioni, di sentimenti. Insomma, il giudice, vedete, si interessa pure lui di certi problemi fondamentali, ed essenziali, e qualche volta grandi ed eterni. Per esempio: la famiglia, la patria, l'umanità. Ed io mi domando: in ultima analisi di che cosa si occupa la politica se non proprio di questi grandi ed eterni problemi che si rinnovano ogni giorno? E se così è, se la politica è questa, come facciamo a dire a giudici: «voi non c'entrate in tutto questo, voi dovete solo subire; voi dovete estraniarvi dai grandi principî politici senza poter dire mai qualche cosa che venga dal vostro cuore o dal vostro cervello?»

Per questi motivi, che mi sembrano molto aderenti a quella che è la condizione pratica ed ideale della questione, mi sembra che debba essere soppresso il principio che pone il divieto d'iscrizione dei magistrati nei partiti politici e si debba dare al magistrato la possibilità di vivere la vita di tutti. Qui bisogna tener presente un altro principio fondamentale che è questo. Si può pensare che a un certo punto si crei un contrasto fra la libertà incondizionata, che è quella di esprimere da parte di tutti il proprio pensiero, e la lesione che potrebbe verificarsi domani in seno al principio della giustizia attraverso la politicità dei giudici. Guardiamo questi contrasti, questi conflitti, queste antitesi nel loro vero contenuto. Ed allora io vi dirò questo: forse è meglio che da parte di un giudice, di dieci giudici, di cento giudici, si compiano degli atti che ledano il principio della giustizia, ma che venga affermato il grande, immutabile principio della libertà di dire e di professare le proprie idee da parte di tutti. Insomma, se vengono in conflitto questi due grandi postulati dell'umanità, che sono il principio della libertà e il principio della giustizia, e se è vero che la giustizia è un aspetto del principio della libertà, mi pare che, se si debba sacrificare qualche cosa, debba sacrificarsi il principio subordinato. Ma questo è l'aspetto estremo della questione e del contrasto. Tenete presente, soprattutto, che noi con la norma contenuta nel progetto andiamo incontro alla consacrazione nella Carta costituzionale di quella svalutazione aprioristica dei partiti politici ed alla esclusione di una parte dei cittadini dalla vita politica nazionale. Tenete presente, onorevoli colleghi, il principio consacrato nella Carta costituzionale. Abbiamo detto: «Ad ogni cittadino compete il diritto di poter esprimere liberamente la propria opinione». Questo è sancito in un articolo approvato da noi tutti, ma è l'articolo più significativo della Costituzione perché esso è a base della rinnovata democrazia italiana.

Io penso che non dovremmo fare delle postille a questo articolo. Non dovremmo fare delle limitazioni a questo principio. Il principio sia tenuto nella sua interezza. Non bisogna umiliarlo con restrizioni e limitazioni. Il principio della libertà sia quello che crediamo sia sempre stato e che sempre sarà per noi e per tutti gli italiani.

Questo principio venga tenuto e affermato al disopra di tutta la Costituzione, perché è principio fondamentale. Questo principio sia grande, sovrano, intangibile perché è il principio della libertà degli uomini. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. Non essendo presente l'onorevole Venditti, iscritto a parlare, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l'onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

Crispo. Onorevoli colleghi, il problema della Magistratura s'identifica, a mio avviso, con quello della indipendenza del giudice, ossia della «competenza morale» del giudice, problema intorno al quale non è facile dire una parola nuova.

Il principio della indipendenza del giudice è solennemente consacrato nel progetto di Costituzione, quando si dice nell'articolo 94 che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge che interpretano ed applicano secondo coscienza»; quando si soggiunge che «i magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete»; quando si afferma, nell'articolo 97, che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente»; quando, infine, per garentire tale autonomia e tale indipendenza, si stabilisce nell'articolo 99 che «i magistrati sono inamovibili».

Non v'è, dunque, un quesito da proporsi in rapporto alla indipendenza del giudice, ed occorre, invece, chiedersi soltanto se essa sia veramente e sufficientemente garentita con la norma relativa alla inamovibilità.

Prima che io risponda a questa domanda, mi sia consentito esprimere il mio dissenso dall'opinione or ora manifestata dall'onorevole Ruggiero, il quale ritiene che il divieto fatto al giudice di appartenere ad un partito politico costituisca evidente violazione di una delle libertà fondamentali del cittadino, e propone conseguentemente che il divieto stesso non sia mantenuto.

Le ragioni prospettate in proposito dall'onorevole Ruggiero sono innegabilmente interessanti, ma non riescono, in alcun modo, a persuadere chiunque abbia un elementare concetto della necessaria obbiettività del giudice, quale condizione dell'esercizio della sua funzione, e chiunque si renda conto della asprezza della lotta dei partiti, in un mondo completamente dominato da essi. È evidente che la norma è intesa a porre il giudice al di sopra dei partiti, ossia al di fuori di ogni passione di parte incompatibile con la funzione del giudice, nella superiorità morale d'una posizione che sia garenzia assoluta contro ogni sospetto che il giudice possa essere vincolato alla volontà o alla ideologia di una fazione, di un gruppo, o di un movimento politico qualunque.

Ogni conflitto, difatti, tra gruppi o individui di opposte tendenze, porrebbe il giudice partecipe di questo o quel partito, in una evidente difficoltà morale nel dirimere il contrasto delle ragioni e degli interessi contrapposti, difficoltà che non potrebbe non influenzare la coscienza del giudice, onde sarebbero frequenti e innumerevoli i casi di astensione, e, più spesso, quelli di ricusazione.

Tornando al quesito che mi sono proposto, se cioè la norma dell'articolo 99, che stabilisce il principio della inamovibilità del giudice, costituisca garanzia sufficiente della di lui indipendenza, io non esito a rispondere negativamente. L'inamovibilità è, difatti, una garenzia soltanto per quei giudici che hanno raggiunto i supremi gradi della carriera, o che sono al termine di essa, per modo che, nell'uno o nell'altro caso, non possono avere alcuna preoccupazione di avanzamento. Il giovane magistrato, invece, che ha il legittimo desiderio di farsi innanzi, e d'essere promosso ai gradi superiori, non è mai del tutto indipendente, perché, ove non sia gradito, egli avrà davvero la sua particolare inamovibilità, quella di restare sempre allo stesso posto, nello stesso grado.

Non si risolve, adunque, il problema della indipendenza o della competenza morale del giudice, quando si pretende di garentirla con la inamovibilità stabilita nell'articolo 99.

Questo articolo 99, per altro, demanda al Consiglio Superiore della Magistratura il giudizio sulla dispensa o sulla sospensione dal servizio, sulle retrocessioni, sui trasferimenti o destinazioni ad altra sede o funzione, per modo che la garenzia dipende dalla deliberazione del Consiglio Superiore, e su di essa può evidentemente influire il modo in cui è composto il Consiglio stesso.

Come si potrà, adunque, garantire l'indipendenza del giudice? Questa indipendenza potrà aversi soltanto ove il giudice abbia la proprietà delle sue funzioni. Il problema non fu sconosciuto nemmeno all'«antico regime», nel quale si pretese di risolverlo, vendendosi ed ereditandosi la carica.

E non può non sorprendere che un uomo del genio di Montesquieu, accettando tal sistema di reclutamento, plaudisse ad Anastasio, che dell'Impero aveva fatto una specie di aristocrazia, vendendone tutte le Magistrature. Onde, Voltaire, rispondendo a Montesquieu, scriveva: «È certamente deplorevole che Montesquieu abbia menomato l'opera sua con paradossi di questo genere, ma bisogna pure perdonargli perché uno zio di Montesquieu aveva acquistato una carica di Presidente in provincia, ed egli, Montesquieu, gli era poi succeduto in quella carica». E Voltaire conclude: «Nessuno di noi è senza debolezza».

Intendo precisare che il problema della indipendenza non è da porre in rapporto al reclutamento, perché, escluso che il magistrato possa acquistare o ereditare la carica, escluso che possa averla per elezione, o per nomina governativa, non v'è altra via che il concorso, col quale si garentisce un minimo di capacità tecnica e l'imparzialità dell'assunzione.

L'indipendenza del giudice può essere, adunque, garentita soltanto attraverso il «governo» della Magistratura, rendendolo veramente autonomo, preservandolo, cioè, da ogni ingerenza politica. Non vi è altro modo, non vi è altro mezzo. Onde è che, quando nell'articolo 97 si stabilisce che il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica, ed è composto per metà di magistrati e per metà di membri designati dalle Camere, riesce difficile conciliare tale norma con quella che pretende consacrare l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura. La norma dell'articolo 97 è intesa, difatti, a penetrare l'ordine dei magistrati, non soltanto di elementi del potere legislativo, come diceva l'onorevole Dominedò, ma, sopratutto, dell'ingerenza del potere esecutivo, nella maggiore e più alta sua espressione. Ed io, per verità, non riesco a rendermi conto del pensiero dell'onorevole Bozzi, quando egli si compiaceva di veder posto a capo del Consiglio Superiore il Presidente della Repubblica, rappresentando egli l'unità dello Stato.

Non riesco a rendermene conto, perché mi sfugge del tutto il preteso rapporto tra il Presidente della Repubblica, come rappresentante della unità dello Stato, e il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

Non si potrebbe, invece, a mio avviso, immaginare più pericolosa ingerenza del potere esecutivo, se è vero che il Presidente della Repubblica non è al disopra dei partiti, ma, esponente di uno di essi, non riesce mai a sottrarsi del tutto alle esigenze del proprio partito. È facile rilevare, d'altra parte, che la figura del Capo dello Stato, nella funzione di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non può non suscitare, il più delle volte, quel timore riverenziale che menoma l'indipendenza e l'autonomia di ogni deliberazione.

Quanto ai membri che dovrebbero essere designati dalle Camere, il progetto stabilisce che «gl'iscritti negli albi forensi non possono esercitare la professione, finché fanno parte del Consiglio».

È evidente, adunque, la preoccupazione della incompatibilità morale tra l'esercizio della professione e la carica di componenti. Ora la norma diviene una lustra, ove si consideri che non si può chiedere seriamente a professionisti di valore di rinunziare per sette anni all'esercizio professionale, onde il facile espediente dell'esercizio per interposta persona, che, lungi dall'eliminare l'incompatibilità, l'aggrava non solo, ma induce ai peggiori sospetti e alle maggiori diffidenze. Non resterebbe, pertanto, che designare professionisti in condizioni di evidente inferiorità professionale, privi di clientela, e tali designazioni non sarebbero certo destinate a conferire dignità, decoro e prestigio al Consiglio Superiore della Magistratura.

Epperò, non mi pare che si possa aderire nemmeno all'idea dell'onorevole Dominedò, di una rappresentanza simbolica o consultiva, o di numero così ridotto da essere del tutto insufficiente, non riuscendosi, per verità, a comprendere la ragione di una simile rappresentanza che, mentre vulnererebbe il principio dell'autonomia, non apporterebbe, e, anzi, sarebbe designata unicamente per non apportare un qualunque contributo alla funzione.

Per le ragioni esposte, io sono d'avviso che il Consiglio Superiore della Magistratura debba essere costituito esclusivamente di magistrati, né mi sembra, onorevoli colleghi, fondata in alcun modo la preoccupazione che la Magistratura possa così divenire una casta chiusa.

Uberti. Il pericolo è per l'appunto questo.

Crispo. Dirò qualche cosa su questo punto. Si è mai pensato che, mutatis mutandis, la nostra Assemblea sia una casta chiusa, perché si governa autonomamente, ed ha una sua disciplina e un suo regolamento? E badate che la nostra autonomia è tale da renderci giudici di noi stessi, nelle eventuali contestazioni di questa o quella elezione, e per le eventuali autorizzazioni a procedere, giudici talvolta tanto imparziali da disdire oggi ciò che fu deciso ieri, anche per fattispecie sostanzialmente identiche.

Lo stesso può dirsi dell'ordine degli avvocati. Non hanno forse gli avvocati un ordinamento proprio, un governo proprio, e una propria disciplina?

E lo stesso può ripetersi di tutti i collegi professionali. Vero è che l'ordine giudiziario non può considerarsi alla stregua degli ordini professionali, ma il richiamo è qui inteso soltanto a dimostrare la insussistenza del pericolo che, attraverso una reale autonomia si possa creare una casta chiusa. È necessario, adunque, difendere la Magistratura da qualunque ingerenza di altro potere, anche perché l'incompetenza morale è in funzione negativa anche della competenza tecnica: il giudice non indipendente diviene di fatto facile strumento a servizio della causa che sarà costretto a sostenere.

Dirò qualche parola su di un altro problema d'ordine generale, riservandomi di intervenire in sede di discussione degli articoli su questioni particolari o di dettaglio.

Intendo riferirmi alla giuria. Se il problema della Magistratura s'identifica con quello dell'indipendenza del giudice, il problema della giuria si riferisce specialmente alla competenza tecnica del giudice.

Dico specialmente, e non esclusivamente, perché io non sono d'accordo con coloro che si compiacciono di rilevare ed esaltare la competenza morale o l'indipendenza propria del giurato.

Basterebbe in proposito ricordare che, mentre nell'articolo 94 si fa divieto al magistrato di appartenere ad un partito politico, tale divieto non sussiste per il giurato. Ora, è evidente il pericolo costituito da giurie, le quali, nel decidere, possano essere ispirate e guidate da spirito o passione di parte.

Avviene così che il magistrato, occupandosi di una questione di confine o di una contravvenzione, può suscitare e suscita diffidenza, se sia inscritto ad un partito politico, mentre il giurato, nelle medesime condizioni di morale incompatibilità, può essere il più fazioso uomo di parte, e nello stesso tempo, giudice del proprio avversario politico, nei giudizi di maggiore gravità.

Io posso bene intendere il motivo per il quale non è stato ripetuto il divieto per il giurato che, giudice non permanente, ma chiamato, di volta in volta, ad esercitare una funzione non sua e che egli non ha scelto, dovrebbe adempiere non solo un gravoso dovere, ma anche sacrificare ad esso uno dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

Ma, se mi rendo conto della ragione per la quale il divieto sussiste pel magistrato, e non sussiste per il giurato, ciò non significa che il giurato non si trovi nelle condizioni di morale incompatibilità per le quali s'è voluto precisamente vietare al magistrato di iscriversi ad un partito politico, con l'aggravante della maggiore competenza per materia, propria della Corte d'assise.

Sotto questo aspetto, al giurato mancherebbe evidentemente la indipendenza necessaria, sopratutto nella vita che si vive oggi, agitata e dominata dalla lotta dei partiti, dalla quale non si può pretendere che si astragga il cittadino, quando diviene giurato.

Con la indipendenza, al giurato mancherebbe anche la più elementare competenza tecnica.

Avviene così che, per giudicare di una questione di dare e di avere, o di una contravvenzione qualunque, si richiede un giudice, investito delle sue funzioni a seguito di un concorso e di un determinato tirocinio, mentre per giudicare della libertà dei cittadini, nei casi più gravi, punibili anche con l'ergastolo, basterà che il giudice abbia la sua ragione naturale, o soltanto le risorse del suo buon senso.

Quanta gente non è stata assassinata legalmente nelle Corti di assise, che furono assai spesso lo scannatoio del buon senso!

Il verdetto, per altro, non è un giudizio, poiché il monosillabo positivo o negativo del giurato costituisce, anzi, una tragica parodia del giudizio. Esso sopprime una delle maggiori conquiste della civiltà umana, la motivazione, cioè, della condanna o dell'assoluzione. E, sopprimendo la motivazione, sopprime il diritto di appello, riconosciuto per ogni condanna, sia pure a pochi giorni di reclusione o di arresto, e perfino in caso di condanna alla multa superiore alle duemila lire, e in caso di assoluzione per mancanza di prova. E col diritto di appello sopprime anche, di fatto, il ricorso per cassazione, perché, di fronte al verdetto, e all'applicazione della legge penale che, a seguito del verdetto, viene fatta dal Presidente, l'intervento del Supremo Collegio sarebbe quasi esclusivamente limitato all'esame della costituzione del giudice, e della formulazione del questionario, a casi, cioè, nei quali sarebbe assai difficile rilevare eventuali nullità.

A proposito del così detto buon senso dei giurati si potrebbe utilmente ripetere quello che un grande giudice inglese, il Coke, disse al Re d'Inghilterra. Nel 1612 Giacomo I invitò i giudici d'Inghilterra a presentarsi dinnanzi a lui per rivendicare la facoltà di sottrarre ai giudici di diritto comune tutte le cause che a lui piacesse di decidere personalmente. A tale richiesta il Coke, il primo dei giudici, obiettò, a nome di tutti, che, «secondo la legge d'Inghilterra, il Re in persona non può giudicare alcuna causa, e che tutte le cause, sia civili sia penali, dovevano essere decise dai tribunali, in sede giudiziaria, secondo le leggi, e con le consuetudini del regno».

Il Re replicò che egli reputava essere la legge fondata sulla ragione, e che egli era, al pari dei giudici, fornito di ragione. «È certamente vero», rispose il Coke, «che Iddio ha fornito Sua Maestà di un grande sapere e di doti naturali non meno grandi, ma Sua Maestà non è abbastanza dotto nelle leggi del suo reame, e le cause che concernono la vita, i diritti ereditari, i beni e le fortune dei suoi sudditi, non possono essere decise secondo la ragione naturale, ma secondo le norme del diritto, e il diritto è un'arte che richiede lungo studio e lunga esperienza, prima che se ne possa raggiungere la conoscenza completa».

Mutatis mutandis, il legislatore ragiona ancora oggi come Giacomo I ragionava ai suoi tempi, sostituendo al buon senso del Re il buon senso del popolo, mentre si accentua sempre più il carattere tecnico del giudizio penale, e, quindi, la necessità del giudice specializzato, dinanzi a questioni non solo di diritto, ma anche di psicologia criminale, di psicopatologia, di tecnica della polizia, di medicina legale, di tossicologia e simili. È questa la espressione più grossolana di quel fenomeno che fu definito il culto democratico dell'incompetenza, per il quale la società, dovendosi difendere dai ladri e dagli assassini, affida l'arma di tale difesa a coloro che non possono usarla. Quell'arma, difatti, non può essere che un codice, e questo codice sarà posto — incredibile a dirsi — nelle mani di cittadini che non sanno intenderlo per poterlo applicare. È difficile, adunque, trovare una sola ragione seria a favore di un istituto, cui rimane solo il prestigio delle origini, e di una tradizione superata, ormai, dalla esperienza vissuta, e travolta da censure di ogni genere, della scuola e della pratica, del giurista, del filosofo, e anche dell'uomo della strada, censure delle quali è così penetrata la coscienza generale da essere divenute veri e propri luoghi comuni. Resta, nondimeno, a favore della giuria, un solo argomento. Occorre — si dice — democratizzare la giustizia, onde non solo deve ripristinarsi la giuria, ma essa deve divenire del tutto popolare. Oggi non potrebbe intendersi più una giuria borghese, e nemmeno una giuria borghese-operaia: è necessario istituire una giuria proletaria. Più ignorante essa sarà, e meglio risponderà alle esigenze della democrazia! Ed è questa la ragione per la quale, in una recente legge, non entrata per fortuna in vigore, titolo sufficiente per l'idoneità alla funzione del giurato era considerato il certificato di licenza elementare!

Ora, non è già che io mi dolga di questa graduale trasformazione della personalità del giurato, fino alla più bassa sua espressione! Io non dico questo. Io dico, invece, che, borghese o proletario che sia, il giurato non ha alcuna capacità tecnica per decidere della sorte dei suoi simili, e, pertanto, occorre una buona volta insorgere contro il «tabù» del principio democratico, che s'invoca a sproposito nel tema dell'amministrazione della giustizia.

È grave errore, difatti, pretendere che il popolo debba partecipare direttamente all'amministrazione della giustizia, dato che il potere deriva dal popolo. Perché, se è vero che il potere dello Stato moderno deriva dal popolo, non è vero che si possa identificare lo Stato con il popolo, confondere lo Stato con il popolo. Sono due concetti distinti. E questa distinzione che ha un significato scientifico fu come il fondamento della Costituzione americana del 1776. Essa riconobbe che il potere deriva dal popolo e che, pertanto, il popolo ha diritto di governare, ma lo riconobbe, per trarne la conseguenza della necessità di rendere il popolo capace di governare. È assurdo pensare, infatti, che la massa indifferenziata possa governare. Il problema essenziale è precisamente questo: educare la massa e far sì che essa possa rispondere alle esigenze di una democrazia moderna. La Costituzione di uno stato non è, come diceva Burke, «un problema aritmetico». Il problema del governo consiste, invece, nell'organizzare il potere indiscusso e inalienabile del popolo, in modo che esso possa realizzare i suoi maggiori interessi.

Epperò, non si offende, e non si disconosce il principio democratico, quando si nega che il problema della giustizia in Corte di Assise possa porsi e risolversi in funzione delle esigenze d'una pura democrazia. L'istituto della giuria è, difatti, l'espressione d'un eccesso di democrazia, e Montesquieu ammoniva, e prima di lui Aristotele annunciava, che i regimi decadono non solo per l'abbandono dei principî che li informano, ma anche per l'eccesso dei principî stessi. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

Russo Perez. Onorevole Presidente, non credo di poter dire delle cose nuove che non siano state dette o che non saranno dette da altri insigni colleghi avvocati.

Rinuncio, quindi, a parlare, riservandomi di fare, se sarà il caso, qualche osservazione in sede di discussione degli articoli.

Presidente Terracini. Sta bene. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti