[L'8 novembre 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l'onorevole Preti; ma poiché non è presente, s'intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l'onorevole Musotto. Ne ha facoltà.

Musotto. Onorevoli colleghi, il vivo dibattito sull'ordinamento giudiziario, che vieppiù dovrebbe farsi importante, per il numero dei colleghi iscritti a parlare, è giustificato dalla urgente necessità di dare un ordinamento all'amministrazione della giustizia nel quadro della ricostruzione nazionale, ed importerà un complesso di norme che naturalmente incideranno sulla costituzione stessa dello Stato.

La Magistratura ha da tempo manifestato la sua istanza di divenire un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, estranea agli altri poteri dello Stato. Ed io di questo argomento vorrò anzitutto occuparmi, perché, onorevoli colleghi, parmi che esso abbia un carattere di priorità ed un fondamento essenziale tra i vari problemi che il progetto di Costituzione pone all'esame dei membri dell'Assemblea Costituente.

Io ebbi l'onore di appartenere all'ordine giudiziario; quindi potrò liberamente parlare. La mia parola non può certo avere accento di irriverenza verso questo ordine, che pure, bisogna riconoscerlo, negli anni andati dei pervertimenti e delle deviazioni, si sforzò di tenere alto il prestigio della propria funzione.

Ma, onorevoli colleghi, creare un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, in questo storico momento, in cui noi assistiamo al trapasso da un vecchio ad un nuovo regime (nuovo regime che attraverso stenti e difficoltà tenta di consolidarsi), credo sia estremamente pericoloso. Sia pure chiusa in una torre di avorio, secondo la espressione dell'onorevole Turco. E poi va ricordato, onorevoli colleghi, un episodio recente, ancora doloroso: non tutti i magistrati hanno chiaramente manifestato una fede consapevole nel divenire sicuro della Repubblica italiana.

Sono problemi di una importanza capitale, sono problemi che devono innanzitutto essere posti dalla pubblica opinione, hanno bisogno di una chiarezza, di una maturità nella coscienza pubblica, prima che vengano all'esame dell'Assemblea Costituente.

La Magistratura può ricomporsi, può trovare nell'ordinamento giudiziario, che la Costituente le sta apprestando, i presupposti del divenire della sua ampia autonomia e della sua ampia indipendenza.

Già molti colleghi hanno espresso il proprio pensiero, né parmi che i pareri siano concordi. C'è ancora nell'Assemblea qualche preoccupazione, ci sono dei dubbi in rapporto a questo grave problema dell'autonomia integrale della Magistratura. Dobbiamo andare con grande cautela, onorevoli colleghi, prima di affermare questo principio, che non risponde alle esigenze del momento storico in cui lo valutiamo, in cui il problema ci è posto.

Io sono per la indipendenza della Magistratura. E chi può non essere per l'indipendenza della Magistratura? Credo che uno dei requisiti, o meglio una delle necessità alle quali dovrebbe venire subito incontro il Governo per dare una effettiva, una reale indipendenza alla Magistratura, sia proprio il fattore economico. Io non trovo nel progetto di Costituzione alcun articolo che si occupi espressamente di tale problema. Non è qui presente il Ministro della giustizia, ché gli avrei voluto dare un suggerimento: è inutile aspettarci che dalle esauste finanze del bilancio italiano venga alla Magistratura un aiuto adeguato alla importanza e alla particolarità della sua funzione. Sarebbe una illusione!

Ho sentito parlare da tempo, anche per la famigliarità che ho con i magistrati, della istituzione di una Cassa speciale dei magistrati. Ora, non è nuovo il fatto in Italia, e noi potremmo pervenire alla costituzione di questo fondo speciale, di questa Cassa speciale in favore della Magistratura, attraverso il sistema dell'applicazione delle marche. Se ne potrebbero studiare il modo e le norme, per agevolare il funzionamento di questo Ente. Onorevoli colleghi, si potrebbe così venire in aiuto, almeno in parte, ai bisogni della Magistratura. Certamente, l'applicazione di queste marche, data la misura trascurabile di esse, non verrebbe ad incidere troppo sul costo dei giudizi.

Per quanto riguarda l'indipendenza economica della Magistratura, diciamolo francamente: il magistrato in Italia è malamente retribuito, e noi abbiamo recenti episodi che hanno angustiato la vita famigliare di alcuni magistrati, per cui sentiamo tutto il dovere di venire incontro a questi funzionari, per attenuare il disagio, nel quale essi vivono e si dibattono.

Diceva uno scrittore di cose politiche: in Inghilterra, dove i magistrati sono largamente retribuiti, un giudice che non compisse il proprio dovere sarebbe l'ultimo degli uomini; in Italia perché il magistrato lo compia deve essere un eroe. Quindi urgente la necessità di venire incontro ai bisogni della Magistratura.

Noi siamo per la inamovibilità del magistrato, e fra i magistrati intendiamo per primi, tutti i funzionari del Pubblico Ministero, e vogliamo che questi siano affrancati dal potere esecutivo. L'istituto della inamovibilità del magistrato, lo ricordiamo, aveva avuto delle generiche affermazioni di garanzia nello Statuto albertino, ma lungo la strada questo istituto giuridico della inamovibilità si è completamente perduto, attraverso la lettera e lo spirito dei recentissimi ordinamenti giudiziari.

Noi siamo, dunque, per la inamovibilità del magistrato, la quale conferirà, specialmente al Pubblico Ministero, serenità nell'esercizio delle sue funzioni.

Dovrei interessarmi di un altro argomento, sul quale ho notato che c'è disparità di consenso nell'Assemblea Costituente. A me pare che il problema sia fondamentale. Mi riferisco al divieto, fatto dall'ultimo comma dell'articolo 94 del progetto di Costituzione, ai magistrati di iscriversi ai partiti politici.

Argomento molto importante, onorevoli colleghi, che va valutato davvero con molta ponderazione, e con molto senso di responsabilità. I magistrati non devono iscriversi ai partiti politici: ma intanto, ditemi, chi può negare ad un magistrato di manifestare la propria opinione politica, e di manifestarla anche pubblicamente? Chi può mai contestargli questo diritto? Il magistrato ha lo stesso diritto degli altri cittadini, ma non deve iscriversi. E perché non deve iscriversi? Perché egli iscrivendosi verrà, si dice, a perdere parte della sua indipendenza spirituale, tanto necessaria nell'esercizio della sua funzione.

Non è vero, onorevoli colleghi; noi dobbiamo tenere alla sincerità del costume politico: il magistrato che non si iscrive, al riparo da ogni eventuale controllo o richiamo da parte dei suoi superiori, si sentirà più libero nelle manifestazioni politiche; ne farà di più; appunto perché tutti sanno che egli non ha alcuna tessera di partito.

Ma poi, notate questo importante rilievo: il divieto di iscriversi ai partiti politici incide sull'elettorato passivo dei magistrati. Col sistema della proporzionale, un magistrato che non sia iscritto nei vari partiti politici, non ha praticamente diritto di porre la sua candidatura per le alte cariche politiche; non ha questo diritto. Ed allora, onorevoli colleghi, noi con questo divieto impediremo a molti magistrati, che oggi sono alla Camera, di ritornarvi.

Ma, io penso, se volete sanzionare il principio, occorre essere conseguenti: applicarlo in tutta la sua estensione: ai magistrati in servizio attivo, ai vice pretori onorari, ai conciliatori — che costituiscono un numero importante in tutta l'Italia — perché anch'essi esercitano una funzione giurisdizionale. Ed ai funzionari della Corte dei conti, del Consiglio di Stato, a tutti coloro che hanno una funzione giurisdizionale. Starei per dire, anche a coloro i quali fanno parte degli attuali assessorati delle Corti d'assise, presso cui si dibattono processi importantissimi, gravissimi, che sfuggono anche all'esame del secondo grado di giurisdizione. Costoro non dovrebbero essere iscritti ai partiti politici, e così via dicendo, fino a quelli che fanno parte di magistrature speciali, tutti coloro, insomma, che esercitano una funzione giurisdizionale.

Il magistrato, quando è iscritto ad un partito politico trova il freno e il monito nella propria coscienza. Questa impedirà di far pesare la iscrizione nel giudizio, che a lui si chiede. Mi si è fatto rilevare, che il divieto sarebbe particolarmente necessario nei piccoli centri. Non è vero, onorevoli colleghi; ne abbiamo personale esperienza. Nei piccoli centri, il magistrato che fa parte di un partito politico si sforza, appunto perché è sotto il controllo vivo, giornaliero, costante della pubblica opinione, non solamente di essere giusto, ma anche di apparirlo.

Ed è per queste considerazioni che noi non siamo d'accordo sul divieto proposto dal progetto di Costituzione. In Italia — non dimentichiamolo — c'è il voto obbligatorio; il magistrato deve quindi necessariamente votare, deve necessariamente esprimere la propria opinione politica.

Sono queste le osservazioni, onorevoli colleghi, che io desideravo fare in questo mio breve discorso, appunto, come dissi in principio, perché era mio vivo desiderio di intrattenervi, in modo particolare, su questi argomenti che sono fondamentali. Alla soluzione che noi ed essi daremo, legheremo la nostra responsabilità.

Alla Magistratura vorrei rivolgere un'esortazione, che potrebbe anche essere un omaggio: attraverso l'ordinamento giudiziario, che la Costituzione le sta apprestando, sia essa, nel nuovo quadro delle riforme, costantemente il presidio vigile delle libere istituzioni della Repubblica Italiana. (Applausi).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

Colitto. Onorevoli colleghi, io mi propongo, con questo mio intervento, di dare, in modo piuttosto organico, ragione dei vari emendamenti da me proposti a parecchi dei tredici articoli che, divisi in due sezioni, dedicata la prima — articoli dal 94 al 100 — all'ordinamento giudiziario e la seconda — articoli dal 101 al 105 — alla giurisdizione, costituiscono il Titolo IV della parte seconda, della Costituzione, intestato «La Magistratura».

I. — Io ho incominciato con il proporre che sia modificata l'intestazione del Titolo. Là dove è scritto «la Magistratura», io penso sia più opportuno scrivere «L'amministrazione della giustizia». È questa certo una intestazione più risonante, ma parmi anche più precisa, perché mal si addice, a mio avviso, l'intestazione «La Magistratura» ad un Titolo, una sezione del quale non si occupa della Magistratura, ma di norme processuali.

II. — Ho proposto, poi, che solennemente si proclami nella Costituzione che «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Ritengo che tale dizione sia da preferirsi a quella «la funzione giurisdizionale è esercitata», adottata dal progetto. Forse tecnicamente questa è più precisa; ma, se si vuole davvero che la Costituzione sia appresa dal popolo, bisogna abbandonare l'eccessivo tecnicismo ed usare frasi, che pienamente, e soprattutto agevolmente, dal popolo siano intese, apprese, ricordate.

Non si parla, del resto, proprio di amministrazione della giustizia nell'articolo 96, allorché si proclama che il popolo ad essa partecipa mediante l'istituto della giuria nei processi di Corte d'assise? Se queste parole sono usate nell'articolo 96, non mi rendo conto perché dovrebbero parole diverse essere usate in altri articoli del testo della Costituzione.

È appena il caso di aggiungere che le parole «espressione della sovranità della Repubblica», con le quali nella prima parte dell'articolo 94 del progetto si intende qualificare la «funzione giurisdizionale», sono da sopprimere, non fosse altro che per la ragione che anche la funzione legislativa è espressione della sovranità della Repubblica, e davvero non si comprende perché ciò si debba ricordare per l'una funzione e tacere per l'altra.

III. — Ma da chi la giustizia è amministrata? All'interrogativo io risponderei con un articolo così redatto: «La giustizia è amministrata da magistrati, secondo le norme stabilite dalla legge». Appunto questa dizione io propongo che sia adottata come primo comma dell'articolo 95 al posto della dizione del progetto: «La funzione giurisdizionale in materia civile e penale è attribuita ai magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario».

Si può, nell'articolo 95, a mio avviso, aggiungere che la «la legge determina anche i casi in cui la giustizia è amministrata con la partecipazione di cittadini esperti» e che «non possono istituirsi giudici speciali in materia penale». Ma altro non è necessario dire. Nel progetto si parla di partecipazione di cittadini esperti «secondo le norme sull'ordinamento giudiziario»; ma è agevole rilevare che norme regolatrici della partecipazione di esperti alla funzione giurisdizionale possono essere dettate, oltre che dalle leggi sull'ordinamento giudiziario, anche da altre leggi e dai Codici.

Di esperti, per esempio, si parla negli articoli 4-12 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile e nell'articolo 231 delle disposizioni transitorie per l'applicazione di tale Codice.

E a che giova aggiungere che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge» e che la legge essi «interpretano ed applicano secondo coscienza»? Tutti dipendiamo dalla legge. È sempre vivo ed attuale l'ammonimento di Cicerone: servi legum esse debemus, si liberi esse volumus. Ed è intuitivo che, quale che sia lo stato della pubblica opinione, quali che siano le influenze dei partiti, della stampa, dello Stato, il magistrato deve pensare a compiere il dovere che la legge, e solo la legge gli assegna, avendo come guida, che gli illumina la via, la serenità della propria coscienza.

Ma non da soli magistrati, od esperti, la giustizia, secondo il progetto, dovrebbe essere amministrata. L'articolo 96 dispone infatti che «nei processi di Corte d'Assise all'amministrazione della giustizia partecipa direttamente il popolo mediante l'istituto della giuria».

A tale istituto io personalmente sono nettamente contrario. Non ritengo idoneo, al fine di una retta amministrazione della giustizia, l'istituto della giuria perché — che volete? — una sentenza (e tale è il verdetto dei giurati) non motivata ed inappellabile non può non far tremare le vene e i polsi a qualsiasi cittadino onesto.

D'altra parte, a me appare molto strano che nell'articolo 101 della Costituzione si proclami che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati e che poi si consenta la ricostituzione della giuria, che emette verdetti, cioè provvedimenti giurisdizionali, non motivati.

La partecipazione, ad ogni modo, del popolo all'attività giurisdizionale nei giudizi di Assise, anche ove voglia accogliersi, esige delle garanzie, per cui non appare opportuno pregiudicare con una norma costituzionale la soluzione del problema. L'articolo 96 perciò dovrebbe essere soppresso, anche perché il contenuto dell'articolo costituisce materia di ordinamento giudiziario.

In ogni caso, è opportuno che siano eliminate le parole «mediante l'istituto della giuria», in modo che la costituzione della Corte d'Assise non sia necessariamente vincolata ad un sistema che, sopprimendo la garanzia della motivazione della sentenza, renda impossibile qualsiasi controllo.

IV. — Ciò premesso, esaminiamo il vero problema di natura costituzionale riguardante la Magistratura.

Alla Magistratura deve essere, da una Costituzione democratica e civile quale è la nostra, assicurata la più completa indipendenza. La Costituzione lo riconosce. Nell'articolo 97 si legge appunto che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente».

Ma come il principio viene poi tradotto in realtà?

È noto che una vera indipendenza si realizza solo ove due altri principî trovino attuazione: il principio dell'autogoverno — termine forse tecnicamente improprio, ma facilmente comprensibile — e il principio della unità di giurisdizione, in forza del quale il potere giudiziario deve accentrare nei suoi organi tutta l'attività giurisdizionale, civile, penale ed amministrativa.

Fulcro dell'indipendenza della Magistratura è l'autogoverno della Magistratura: essa costituisce un ordine autonomo, che provvede da sé e senza alcuna ingerenza del potere esecutivo, al proprio governo. Dire autogoverno significa dire autonomia organizzativa e funzionale: e, affinché essa non si riduca praticamente a mera apparenza, è indispensabile che i magistrati siano posti in condizione di non avere nulla da temere e neppure nulla da sperare dagli organi del potere legislativo e da quelli del potere governativo. Si impone, pertanto, la necessità non solo di sancire, nei riguardi dei magistrati, il divieto della applicazione anche temporanea a funzioni non giurisdizionali e del conferimento di onorificenze o di incarichi, ma altresì di riservare agli stessi organi del potere giudiziario tutti i provvedimenti amministrativi sullo stato giuridico degli appartenenti alla Magistratura, quali il reclutamento, le destinazioni, le promozioni, la scelta dei dirigenti e dei capi.

Bene è stato detto, bene è stato scritto che in materia di indipendenza non possono esistere soluzioni di compromesso, soluzioni transattive. Una indipendenza limitata o condizionata non è concepibile. Ora, se questo è esatto, l'articolo 97 del progetto di Costituzione, che disciplina il Consiglio Superiore della Magistratura (organo centrale dell'autogoverno), non può non essere modificato. Tale Consiglio non può, infatti, essere formato in parte di magistrati ed in parte di uomini politici. È questa, a mio avviso, una composizione ibrida, sommamente pericolosa, che, mentre costituirebbe un passo indietro sulla via del progresso costituzionale del Paese, ferirebbe mortalmente il principio dell'autonomia e della indipendenza della Magistratura, essendo evidente che, così componendosi il Consiglio Superiore della Magistratura, il governo di questa non sarebbe affatto sottratto al potere esecutivo, espressione delle forze politiche e portatore degli interessi politici del Paese.

Su ciò molto si deve l'Assemblea soffermare, essendo qui in giuoco la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.

Quanto al principio della unità di giurisdizione, mi permetto di rilevare che il progetto non lo realizza integralmente: non sancisce, infatti, espressamente l'abolizione dei giudici speciali civili e penali attualmente esistenti, ma ne prescrive la revisione entro i cinque anni (articolo 7 delle disposizioni transitorie), il che implicitamente ammette, almeno per quanto riguarda quelli civili, la possibilità di conferma da parte del potere legislativo con le modalità di cui all'articolo 95, quinto comma. Si riconosce che con le stesse modalità possono essere creati ad libitum nuovi giudici speciali civili. Anche in materia penale è permessa la costituzione presso gli organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate con la partecipazione di cittadini esperti, in numero non precisato. E ciò è da evitare, onorevoli colleghi, ove si voglia impedire che, quando che sia, si accampi da uno o più partiti dominanti la pretesa, ad esempio, di costituire tribunali penali misti e Corti d'assise speciali.

V. — Passando ora brevemente ad occuparmi della materia disciplinata nella seconda sezione del Titolo, credo di non ingannarmi, se affermo che le norme fondamentali di carattere processuale, in essa contenute, riguardano: l'azione penale, le udienze, i provvedimenti giurisdizionali, la tutela dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica amministrazione.

Non ho nulla da dire circa quest'ultimo punto. Mi soffermerò, perciò, brevemente sugli altri.

Azione penale. — L'articolo 101 del progetto è così redatto: «L'azione penale è pubblica».

È stata in tal modo riprodotta ad litteram la prima parte dell'articolo 1 del Codice di rito penale. Si è voluto evidentemente riaffermare, anche nel testo costituzionale, il concetto che il compito funzionale dello Stato di provvedere alla realizzabilità della pretesa punitiva nascente da reato, in vista del quale è predisposto il processo penale, costituisce contemporaneamente un potere ed un dovere dello Stato medesimo. Poiché gli interessi tutelati dalle norme penali sono in ogni caso interessi eminentemente pubblici, la loro attuazione si impone allo Stato, non come una mera facoltà per il raggiungimento di uno scopo non essenziale, ma come un obbligo funzionale per il conseguimento di uno dei fini essenziali per cui lo Stato medesimo è costituito, cioè a dire l'assicurazione e reintegrazione dell'ordine giuridico violato. In conseguenza, la pretesa punitiva dello Stato derivante da reato deve farsi valere da un organo pubblico.

Ma, una volta proclamato che l'azione penale è pubblica, non aggiungerei nell'articolo 101 il periodo, che in esso si legge: «Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare».

Anzitutto non è sempre il pubblico ministero che esercita l'azione penale, ché, per i reati di competenza del pretore, è questo, non il pubblico ministero, che la esercita.

L'articolo 74 del Codice di procedura penale stabilisce appunto che «il pubblico ministero, o il pretore, per i reati di sua competenza, inizia ed esercita l'azione penale».

Non si comprende, poi, perché si parla di obbligo del pubblico ministero di esercitare l'azione penale e non anche di iniziarla, usandosi così una dizione diversa da quella usata nel ricordato articolo 74 del codice penale.

So bene che una delle conseguenze del principio della ufficialità del procedimento penale è appunto questa, che il procedimento deve promuoversi di ufficio, cioè per iniziativa del pubblico ministero, senza bisogno di eccitamenti esterni, ma questa regola ha le sue eccezioni. In alcuni casi il Pubblico Ministero, che normalmente deve procedere di ufficio, non può promuovere l'azione penale se non in seguito a ricezione della querela. E, mentre, di regola, egli ha il potere e il dovere di proseguire incontrastatamente la azione diretta ad ottenere una decisione sul merito della imputazione, deve cedere, invece, alla volontà privata, quando il querelante, col consenso dell'imputato, faccia remissione o con lui si riconcilii. In altri casi il pubblico ministero non può iniziare l'azione penale, se il privato offeso non abbia presentata la sua istanza. Vi sono, infatti, reati, normalmente perseguibili di ufficio, che, quando sono stati commessi all'estero, non possono essere puniti in Italia senza la «istanza» della persona offesa (articoli 9, 130 Codice penale, e 6 Codice di procedura penale). Vi sono, infine, casi (articoli 8, 9, 10, 11, 127, 133 Codice penale), in cui la perseguibilità di un reato dipende dalla «richiesta» di procedimento del Ministro della Giustizia o di altra autorità, se così dispongono leggi speciali.

Sennonché, quando vi sia la querela, la istanza e la richiesta, l'azione penale è sempre iniziata dal pubblico ministero o, per i reati di sua competenza, dal pretore.

Dire, quindi, che al pubblico ministero spetta di esercitare l'azione penale senza dire a chi spetta di iniziarla sembrami non giuridicamente preciso. È al pubblico ministero che è riservato non solo l'esercizio, ma anche il promovimento dell'azione penale. Occorre, quindi, dichiararlo, se si vogliono evitare errori od equivoci.

Anche impreciso è il concetto espresso con le frase: «il pubblico ministero non può mai sospendere o ritardare l'azione penale». Indubbiamente la regola è che il procedimento penale, una volta iniziato, non può essere revocato, sospeso o modificato o soppresso; ma anche tale regola della irretrattabilità del processo penale ha le sue eccezioni, quali il diritto di remissione, che appartiene al querelante, quando il querelato non si opponga, il diritto di oblazione volontaria, spettante in determinati casi all'imputato (art. 162 codice penale) e la podestà di amnistia, con la quale lo Stato rinuncia alla pretesa punitiva. È, quindi, non perfettamente esatto affermare che il pubblico ministero non può «mai» sospendere o ritardare (perché non anche far cessare?) l'azione penale.

È perciò che io ho proposto la soppressione dal primo comma dell'articolo 101 del periodo innanzi ricordato, riguardante l'esercizio dell'azione penale. Ove qualche cosa in merito si voglia dire, si potrà usare la formula indicata nell'emendamento da me proposto, che suona così: «Il pubblico ministero, o il pretore per i reati di sua competenza, la inizia, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o la istanza, di ufficio e la esercita con le forme stabilite dalla legge. L'esercizio dell'azione penale non può essere ritardato, sospeso o fatto cessare se non nei casi espressamente preveduti dalla legge».

Le udienze. — Delle udienze il testo costituzionale si occupa, come se non vi fossero che le udienze penali. Ma anche nel processo civile le udienze esistono. E, poiché nell'articolo 101 si dettano norme sulla giurisdizione, non mi rendo conto del perché si debba parlare di quella penale e non anche di quella civile. E, poiché le udienze civili non sempre sono pubbliche (tali non sono, ad esempio, quelle tenute dal giudice istruttore), perché così la legge dispone, indipendentemente da ragioni di ordine pubblico o di moralità, io penso che con la norma costituzionale basta proclamare che «le udienze sono pubbliche, salvo che la legge disponga diversamente», eliminandosi il resto della norma.

I provvedimenti giurisdizionali. — Dei provvedimenti giurisdizionali il progetto si occupa, sottolineando: a) la necessità che siano motivati; b) la ricorribilità alla Corte di Cassazione per qualsiasi violazione di legittimità contro le decisioni emanate in secondo grado o non appellabili; c) la irrevocabilità della decisione, una volta diventata res judicata.

Di tali provvedimenti si occupano l'ultimo comma dell'articolo 101 e gli articoli 102, 103 e 104 del progetto.

L'ultimo comma dell'articolo 101 proclama che «tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».

E l'articolo 102 sostanzialmente esprime il concetto che contro le sentenze o le decisioni pronunziate dagli organi giurisdizionali di secondo grado, o non soggette ad appello, è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione per qualsiasi violazione o falsa applicazione di norme giuridiche sostanziali o processuali.

L'articolo 102 è così redatto: «Contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge».

Io penso che debba essere un po' emendato.

Non è il caso anzitutto di parlare di sentenze ed insieme di decisioni, bastando parlare di decisioni, tale parola abbracciando, nella sua ampiezza, anche le sentenze.

Ritengo, poi, che alle parole «secondo le norme di legge» si debbano sostituire le parole «per violazione di legge». L'articolo 102 potrebbe, quindi, essere così redatto: «Contro le decisioni di ogni giudice ordinario o speciale è concesso il ricorso alla Cassazione per violazione di legge». Indico subito le ragioni dell'emendamento.

Soprattutto in conseguenza dell'ordinamento di larghissima autonomia ed autarchia regionale, adottato dal progetto di Costituzione, l'ordinamento giuridico così decentrato esige, ove si voglia evitarne lo sfaldamento, un organo giurisdizionale centrale unico, di larga autorità e di larghi poteri. Sennonché nel progetto si afferma che il ricorso è ammesso «secondo le norme di legge». Ora io penso che, demandandosi alla legge la fissazione dei limiti di ricorribilità, potrebbe la legge bene limitarli, specie nei confronti di alcune maggiori giurisdizioni amministrative, ai casi di incompetenza ed eccesso di potere, casi per cui il diritto al ricorso è sempre esistito, nell'ordinamento italiano, fin dalla legge 31 marzo 1877, n. 3761. Tale limitazione non sarebbe, invece, più possibile, ove costituzionalmente si sancisse il diritto al ricorso per violazione di legge, perché così si darebbe il diritto di ricorrere sia per inosservanza delle garanzie processuali concesse ai cittadini, sia per errata applicazione al caso singolo delle leggi di diritto sostanziale.

Anche l'articolo 104 del progetto sembrami che debba essere emendato.

Dispone detta norma che «le sentenze non più soggette a impugnazione di qualsiasi specie non possono essere annullate o modificate neppure per atto legislativo, salvo i casi di legge penale abrogativa o di amnistia, grazia o indulto».

A parte ora il rilievo, sul quale richiamo l'attenzione dell'Assemblea, che non mi sembra che si possa dire che l'amnistia impropria, la grazia e l'indulto annullino o modifichino una sentenza, è certo che l'articolo 104 non tiene conto dell'istituto della revocazione, che è disciplinato sia dal codice di rito civile che da quello di rito penale. Penso, pertanto, che dopo le parole «non possono» si debbano aggiungere le altre «salvo che la legge disponga diversamente».

Io concludo, affermando che una retta amministrazione della giustizia costituisce il punto di partenza per la completa restaurazione della libertà e della democrazia in Italia. Ma una retta amministrazione della giustizia non si realizzerà, se non si darà vita ad un ordinamento, che, mentre garantisca la scelta di magistrati meritevoli, sotto ogni rispetto, di esercitare funzioni tanto elevate ed ardue, elimini ad un tempo ogni possibilità di influenze esterne. La Costituzione detti con chiarezza cristallina norme, che assicurino la libertà e la imparzialità del magistrato. Assicurerà così insieme la difesa più salda delle pubbliche libertà e dello stesso ordinamento dello Stato. (Applausi).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Cappi. Ne ha facoltà.

Cappi. Onorevoli colleghi, intervento breve, breve sul serio; benché il tema sia, o dovrebbe essere, appassionante, in quanto tocca un problema che riguarda insieme questioni di alto valore filosofico e morale ed interessi e diritti concreti di tutti i cittadini.

Mi occuperò di un punto solo; e voi consentirete che io prenda le mosse da uno studio pubblicato sopra una rivista da uno scrittore, figlio di un alto magistrato della Suprema Corte ed egli stesso valoroso giurista; studio acuto e profondo. Da esso prenderò le mosse, sia per il suo pregio intrinseco, sia per riguardo, che ben merita, a quella rivista, La Civiltà Cattolica, la quale, fra l'indifferenza quasi generale del pubblico, si è sempre occupata con non superficiale interessamento, con vigile cura, con sincero spirito di collaborazione, dei nostri lavori di costituenti.

Il punto di cui mi occupo è l'articolo 97, il cosidetto «autogoverno della Magistratura».

L'autore di cui ho fatto parola è fervido sostenitore dell'assoluto autogoverno della Magistratura; ed in questo io mi permetto di dissentire da lui. Ma il suo studio, che riguarda il più ampio tema dell'indipendenza giudiziaria, ha il merito di sostenere le sue tesi non con argomenti vaghi o superficiali, bensì con rigore scientifico; con una intelaiatura logica chiara e forte.

Egli premette due considerazioni di notevole importanza.

Cerca anzitutto di individuare il punto di convergenza ed il punto di distacco fra la funzione legislativa e la funzione giudiziaria; e si esprime incisivamente così:

«In uno stabilito regime democratico, il settore proprio in cui la politica si trasforma in diritto è quello della legislazione».

Esatto. E notorio che la legge, una volta promulgata, si stacca, per così dire, dalla sua matrice, dal potere legislativo, e vive di vita autonoma. E la interpretazione, l'attuazione della legge spettano o all'esecutivo o — in materia di diritti — al potere giudiziario.

A questa prima considerazione l'autore ne fa seguire altra, la quale risponde al dubbio, sollevato qui dentro, che l'indipendenza assoluta del potere giudiziario possa costituire un elemento di conservazione, un pericolo per le libertà democratiche. L'autore — ed è convincente — ci persuade del contrario; egli, anzi, dice che è una esigenza democratica l'evitare che i poteri dello Stato straripino dal loro ambito, che l'esecutivo ed il legislativo non stiano nei confini loro assegnati, e fa, quindi, queste osservazioni: «Garantire la conservazione e l'effettiva attuazione dell'ordinamento statuale è qualcosa che non ha nulla a che vedere con il cosiddetto conservatorismo politico, con un indirizzo o partito politico che sia effettivamente retrivo e reazionario. Conservare la democrazia non può certamente essere attività antidemocratica». Anche qui egli — a mio avviso — ha ragione.

L'autore affronta poi il nodo del problema e sostiene che l'indipendenza della Magistratura deve avere un triplice carattere: deve essere una indipendenza costituzionale, una indipendenza istituzionale ed una indipendenza funzionale. Indubbiamente questa articolazione, questa tricotomia ha un serio fondamento scientifico.

L'autore afferma — e qui dissento da lui — che il nostro progetto di Costituzione, di cui egli fa una critica serrata, violerebbe, non garantirebbe queste tre indipendenze o questi tre aspetti dell'indipendenza del potere giudiziario. Dice che, «per assicurare l'indipendenza costituzionale occorre che la Costituzione quantifichi espressamente come sovrana la funzione giurisdizionale, sovrano il potere che la esercita, sovrano l'ordine o complesso degli organi cui la funzione stessa è istituzionalmente demandata.

Inoltre: «che effettivamente non vi sia nessun potere costituzionalmente superiore a quello giudiziario».

Orbene, pare a me che questa garanzia il nostro progetto di Costituzione dia. A mio avviso, è più che altro questione di nomi. Non si è parlato nella Costituzione espressamente di potere sovrano, ma si dice però che «la funzione giudiziaria è espressione della sovranità della Repubblica», si dice che «l'ordine giudiziario è un ordine autonomo ed indipendente». E ancora qualche cosa di più e di decisivo: vi è nella nostra Costituzione un potere che sia costituzionalmente superiore a quello giudiziario? Non vi è. Quindi mi sembra che l'indipendenza costituzionale del potere giudiziario sia nella nostra Costituzione garantita, anche se non si usa la parola «potere», come non si è parlato di potere legislativo e di potere esecutivo; ma di «Parlamento» e «Governo».

Quanto alla indipendenza istituzionale della Magistratura, l'autore ritiene che «l'istituzione e la competenza dei singoli organi giurisdizionali, la carriera dei magistrati e le forme del procedimento devono essere fissate per legge e sottratte, comunque, al potere esecutivo». E vero. Noi faremo perciò una legge sull'ordinamento giudiziario, ed avendo una sua legge — il potere giudiziario non è subordinato, non è alla mercé del potere esecutivo.

Secondo punto: «che nell'esercizio concreto delle sue funzioni il giudice non dipenda che dalla legge, interpretata secondo la sua coscienza». Noi abbiamo inserito testualmente questo principio nel progetto di Costituzione.

Terzo: «Che nell'ambito di tale ordine giudiziario vi sia differenza di funzioni e non di gradi gerarchici». Anche questo è detto espressamente nel progetto.

Cosicché, se noi badiamo alla sostanza più che alla forma, questi primi due aspetti della indipendenza sono garantiti.

Ma il punto cruciale — il vero e proprio punctum dolens et pruriens — è quello dell'indipendenza funzionale. L'autore sostiene che essa importa essenzialmente — e ci siamo — l'autogoverno della Magistratura, la libera disponibilità per la stessa di tutti i mezzi necessari all'esercizio della sua funzione.

Ora, francamente, sembra a me che qui l'autore sia caduto in un equivoco. Infatti, egli che era un ragionatore, ed un logico così sottile, qui sembra a me che, più che dimostrare, si limiti ad affermare, dando per indiscutibile che l'indipendenza funzionale importi l'autogoverno della Magistratura. A me questo rapporto di consequenzialità non riesce chiaro. A mio avviso, qui si confondono due cose: la funzione giurisdizionale e l'ordine giudiziario. L'indipendenza della prima, cioè della funzione giurisdizionale, non postula, non implica di necessità anche l'indipendenza assoluta dell'ordine giudiziario. La funzione giudiziaria, il potere giurisdizionale, consiste forse — detto in parole povere — nella nomina, nei trasferimenti, nelle promozioni dei magistrati, che sono la materia di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura? No; l'essenza, il compito della funzione giudiziaria consiste nel dire il diritto, in una parola: nel pronunciare le sentenze.

Ora, nel nostro progetto di Costituzione vi è forse qualcosa che possa far dubitare che in questo compito essenziale, specifico, del potere giurisdizionale vi possano essere ingerenze di altri poteri, dell'esecutivo o del legislativo? Per niente affatto. Quindi, ritengo che qui l'autore sia incorso in confusione di concetti, e che, pertanto, anche nella formazione, quale noi abbiamo progettato, del Consiglio Superiore della Magistratura, sia rispettata l'indipendenza funzionale del potere giudiziario.

La realtà è un'altra. Non vi è, secondo me, una ragione scientifica, una ragione logica che imponga l'autogoverno assoluto della Magistratura a garanzia della indipendenza funzionale del potere giudiziario. Vi è qualcosa di diverso, vi è una preoccupazione, nobile ma eccessiva, del pericolo di ingerenze, di influenze che i membri elettivi del Consiglio Superiore possano esercitare sui giudici. Può darsi che questo pericolo vi sia. Però, varie osservazioni concorrono ad attenuare questa preoccupazione. Nel passato, in Italia, il Consiglio Superiore della Magistratura, con le funzioni e coi compiti che noi gli abbiamo assegnato, non esisteva. La sorte dei giudici dipendeva dal potere esecutivo, attraverso il Ministero della giustizia. Eppure, senza essere troppo ottimisti, non mi pare che la Magistratura italiana, a parte l'ultimo ventennio, sia stata in passato una Magistratura non indipendente, corrotta, serva del potere esecutivo. Vi saranno stati episodi singoli, ma non tali da legittimare un giudizio così pessimista.

Osservo ancora che, per quanto mi risulta, in nessun altro Paese, salvo la Francia nella sua recente Costituzione ma in una misura più attenuata della nostra, in nessun altro Paese vi è questo autogoverno della Magistratura. Inconvenienti si sono verificati nel ventennio fascista, ma allora non vi era un regime democratico, allora vi era una degenerazione, uno stato patologico del potere esecutivo.

Ora, senza avere l'ottimismo di Monsieur Candide, è sperabile, e dobbiamo tutti cercare, che in un regime libero, democratico, col controllo dell'Assemblea, col controllo dell'opinione pubblica, col controllo della stampa, ciascun potere — specialmente l'esecutivo — resti nel suo alveo. Pare a me che in questo punto la nostra Costituzione ha un po' un carattere reattivo, come è destino di tutte le Costituzioni che sono fatte immediatamente dopo il rovesciamento di un ordine politico e giuridico. Si ha, cioè, guardando al recente passato, una diffidenza eccessiva verso l'esecutivo.

È poi vero che l'autogoverno della Magistratura, cioè il Consiglio Superiore composto di soli magistrati, garantisca meglio la indipendenza dei magistrati? Non ci sarà forse se non un cambiamento di forma? Le simpatie, le antipatie, i personalismi, le parzialità; e, di conseguenza, le adulazioni, le raccomandazioni, le chiesuole, i clans, non sussisteranno? È sintomatico che, nelle loro ultime manifestazioni, molti magistrati si siano dichiarati favorevoli alla composizione mista del Consiglio.

Io penso che il giudice sia meglio garantito da un Consiglio come noi lo abbiamo costituito, perché, attraverso i membri elettivi del Consiglio Superiore, si inserisce in esso il controllo del Parlamento, della stampa, dell'opinione pubblica; controllo che non si avrebbe, o si avrebbe meno largo, nel campo chiuso di un Consiglio costituito di soli magistrati.

Vi è inoltre una considerazione più alta, per quanto io non intenda dilungarmi sul problema della divisione dei poteri. Ho la sensazione che da Montesquieu in poi qualche cosa sia mutato ed oggi prevalga il concetto della unità dello Stato, pur con molteplicità di organi e di funzioni.

Si potrebbe in questo campo teorico dire molto, ma io, ripeto, non ho specifica competenza in questa materia e mi limiterò a fare poche osservazioni pratiche. Noi, proprio in questi giorni, abbiamo deplorato certi contrasti, certi reciproci sospetti e diffidenze che si sono manifestati fra gli organi della Magistratura e gli organi politici.

Ora, questo fatto (che indubbiamente è grave ed increscioso) credete voi che non si aggraverà, se noi stacchiamo completamente il potere giudiziario dagli altri poteri? Il potere giudiziario sarà condotto ad irrigidirsi; gli urti saranno più facili; non ci saranno quei contatti che permettono una spiegazione ed una distensione; quindi, mi pare sia utile questo collegamento fra il giudiziario e il legislativo. E c'è anche una ragione più sostanziale: è stato detto qui da qualche collega che il giudice non ha bisogno di esser in contatto con la coscienza sociale e giuridica del Paese, in un dato momento storico, perché non ha che un compito tecnico, quello di applicare la legge. La legge è quella che è: il giudice non ha nessuno ambito in cui spaziare.

Questo non è vero. Se mi occupassi della Corte costituzionale, direi che le materie che saranno di sua competenza hanno carattere più politico che giuridico. Ma io mi occupo della Magistratura e osservo che necessariamente vi sono dei concetti che sono dalla legge lasciati alla discrezionalità del giudice. Vi cito il concetto di «buon costume», di «ordine pubblico», di «equità»; in materia penale, di «pudore» e altri concetti che sono necessariamente a contorni vaghi nei codici e per l'interpretazione e l'applicazione giusta dei quali è opportuno che il giudice sia in un certo contatto con quella che è la coscienza giuridica e morale del Paese, coscienza che, in regime democratico, si manifesta attraverso le Assemblee elettive. È vero che il Consiglio Superiore non ha compiti di ermeneutica; tuttavia, il contatto fra magistrati e laici può essere fecondo.

Pertanto, credo che per le ragioni che ho modestamente esposto, la nostra Costituzione non meriti il rimprovero di aver violato o di non avere con sufficiente energia tutelato l'indipendenza della Magistratura. Ripeto che lo studio al quale ho accennato, il quale pure ha tanto pregio e meriterebbe di essere preso in considerazione per vari emendamenti che suggerisce, poggia circa l'autogoverno, sulla confusione tra autonomia della funzione giurisdizionale e autonomia dell'ordine giudiziario.

Si confonde il potere giudiziario con gli organi, con le persone che devono esercitare questo potere.

Ora consentitemi, egregi colleghi, poiché credo di aver mantenuto fede alla promessa di brevità, che io concluda con qualche osservazione un po' extra-vagante. Noi stiamo lavorando per dare alla funzione giudiziaria degli strumenti, anzi un arsenale di strumenti quanto più perfetti possibile. Ma io temo che noi faremo opera vana, se non cercheremo di lavorare anche in un'altra direzione. Opera molto più difficile, di lunga lena; quella di restaurare nel nostro Paese il senso della giustizia, l'impero della ragione sulla passione, del diritto sulla forza.

A cominciare dall'antico detto che justitia regnorum fundamentum, si può dire che la storia dell'umanità è tutta una invocazione, tutto un anelito verso la giustizia.

Vi furono, purtroppo, delusioni. Quid est veritas? domandava il Procuratore romano nel Pretorio di Gerusalemme. E forse anche noi dovremmo dire: justitia quid est?

Il Manzoni mette sulle labbra di Adelchi morente quelle sconsolate e disperate parole, che hanno tanta analogia con l'epoca nostra, con questa nostra epoca di corrucci, di sangue, di rappresaglie e di controrappresaglie.

Di Adelchi morente: «Una feroce forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto. La man degli avi insanguinata seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno coltivata col sangue, e ormai la terra altra messe non dà».

Eppure non dobbiamo disperare. È tormento e gloria insieme dello spirito umano questa inestinguibile speranza, questo anelito costante verso una sempre maggiore giustizia. È una cosa confortante, perché dimostra che, nonostante le tragiche delusioni, nel cuore dell'uomo è sempre viva quella divina cosa che empiva di fierezza e di ammirazione Emanuele Kant, come il cielo stellato: la coscienza morale. (Approvazioni). Oggi l'Italia è debitrice del mondo: è debitrice per tutto ciò che riguarda la nostra vita materiale; ma essa, come altre volte della storia, potrà diventare creditrice del mondo, se al mondo potremo dare il dono incomparabile del trionfo della giustizia e del bene sulle forze del male; su quelle forze che, in un suo studio recente, Benedetto Croce chiamava l'Anticristo che è in noi, quell'Anticristo che non ha un nome, non è un uomo, un popolo, un sistema economico o politico; ma il rigurgito delle forze oscure che vorrebbero far regredire l'umanità verso la ferina barbarie.

Noi italiani non vogliamo regredire; noi vogliamo, nella luce della giustizia, avanzare. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.

Bellavista. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, anch'io mi riprometto di essere breve, brevissimo; e non è tanto questo omaggio alla concettuosità verbale, quanto riconoscimento che ormai il campo, in due o tre giorni, è stato ampiamente mietuto, sì che non mi resta che da raspolare le poche spighe rimaste.

Vengo subito, perciò, ad illustrare gli emendamenti proposti a proposito del Titolo IV. Ne ho presentato uno che si riferisce alla prima parte dell'articolo 94, concernente, in particolare, la espressione: «La funzione giurisdizionale è esercitata nel nome del popolo». Io ho proposto la seguente variante: «...è esercitata in nome della Repubblica». A simiglianza infatti, di quanto si pratica nella vicina Francia, le sentenze dovrebbero darsi nel nome della Repubblica. Che cosa è la Repubblica se non il popolo italiano giuridicamente organizzato sotto l'aspetto istituzionale? Mi pare quindi che questa dizione si adegui meglio al nostro nuovo volto istituzionale.

Per quanto riguarda poi il terzo comma dell'articolo 94, io ho rilevato le osservazioni, che mi sembrano fondate, fatte ieri dal collega onorevole Ruggiero. A me pare tuttavia che il terzo comma debba comunque essere riformato quanto meno per il riferimento che fa alle associazioni segrete. Poiché infatti c'è già, nell'articolo 13, da noi approvato, tale proibizione, è evidente che le associazioni segrete sono già un illecito costituzionale, ed appare quanto meno superfluo interdirne l'appartenenza ai magistrati.

Per quanto poi riguarda l'articolo 95, io penso che la terminologia non tecnica dei passati legislatori, la cui difettosità la dottrina aveva già avvertito, abbia indotto alla repetitio d'un errore i compilatori del progetto. Ho pertanto proposto un emendamento al quinto comma dell'articolo 95. In tale comma infatti si dice: «Non possono essere istituiti giudici speciali se non per legge approvata nel modo sopra indicato. In nessun caso possono istituirsi giudici speciali in materia penale».

Io devo in proposito ricordare a me stesso la distinzione corrente e corretta che si fa in dottrina sul giudice (il diritto non si preoccupa di insegnare, jus est quod jussum est, ma soltanto di comandare), il quale, nella legislazione abrogata, era chiamato speciale, quando era sì non solo speciale, ma soprattutto «straordinario», perché era un'eccezione stridente contro la normalità giuridica processuale. Era il caso del famigerato tribunale speciale per la difesa dello Stato. Ora, il giudice si distingue in ordinario e straordinario, in comune e speciale.

Lo spirito della legislazione, la intenzione dei compilatori del progetto ha voluto evidentemente bandire dalla Carta costituzionale il giudice penale «straordinario», come possibile bieco strumento d'una più bieca tirannide, ma non penso che si sia voluto mettere scientemente contro quella che è l'aspirazione della dottrina processuale: la specializzazione del giudice penale. E questa improprietà terminologica evidentemente deve essere corretta e si deve perciò dire rectius che «in nessun caso possono istituirsi giudici straordinari in materia penale», altrimenti la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe, per esempio, l'abolizione del tribunale dei minorenni, che è un giudice speciale e ordinario. (Commenti). Sì, è una sezione speciale della Magistratura ordinaria, non c'è dubbio!

Una voce al centro. Più elementi estranei.

Bellavista. Ma, sempre, una sezione speciale del magistrato ordinario.

Per quanto riguarda i tribunali militari, io debbo aderire agli emendamenti proposti al riguardo e all'illustrazione teorica che ha svolto così egregiamente ieri il collega onorevole Bettiol. Il principio è il seguente: se è meta, scopo, ansia della dottrina processuale, raggiungere la specializzazione del giudice, non c'è dubbio che il giudice penale militare è per eccellenza un giudice specializzato, è quello che è posto, per la natura delle sue funzioni, per la sua appartenenza alla milizia, in quelle condizioni ideali per poter svolgere magnificamente e meglio di ogni altro quell'atto constante di intelligenza e di volontà che è il giudizio. Non dovrebbe limitarsi soltanto e straordinariamente al tempo di guerra, dunque, ma dovrebbe ammettersi la giurisdizione militare penale anche nel tempo di pace.

E veniamo alla vexata quaestio, alle Corti di assise. Non ho inteso nessuna voce favorevole alla giuria; e nemmeno l'onorevole Carboni ieri ha potuto negare la lunga serie di critiche che ad essa da tutti i banchi, e specialmente dagli avvocati, sono state rivolte. Io debbo ascrivere ad onore degli avvocati, che spessissimo hanno mietuto allori facili avanti ai giurati, questo leale e disinteressato verdetto di condanna nei confronti della giuria. Io ricordo un bravo giurista e bravissimo avvocato, il quale, con le giurie romagnole, nei famosi tempi dei conflitti fra socialisti e repubblicani in Romagna, arrivò a far contrabbandare l'istituto della «legittima difesa reciproca», nel quale invece di un offensore ingiusto, se ne trovavano inopinatamente due, con quanta tranquillità per i cultori del diritto, lascio a voi d'immaginare.

Non c'è dubbio che le ripetute ed ascoltate critiche vadano condivise. Io mi sforzerò di riportare queste critiche al loro fondamento dogmatico. E qual è? Ma se noi siamo favorevoli al principio della specializzazione del giudice, non possiamo non essere contrari alla giuria, perché il giurato è il giudice qualunque (senza nessun riferimento politico a quello di Giannini), e cioè il giudice più impreparato che esista, non soltanto per quella logica mancanza di conoscenza delle scienze ausiliarie della giustizia penale, di cui ha parlato così egregiamente ieri il collega Crispo, ma anche perché è il giudice tipicamente atecnico, nella materia penale e para-penale. Il principio della specializzazione del giudice importa un continuo travaglio, un lavoro di cesello che va perfezionato continuamente, e che non può fare colui che ha la sola licenza elementare, complicandosi poi questo semplicismo giudiziario con la immissione — che va criticata! — e con l'intervento dell'elemento femminile. Mi consentano le onorevoli colleghe. Ma chi è stato qualche volta in commissione di esame di Stato con delle egregie professoresse sa come sia tipicamente femminile il giudizio dato da loro: gli idola mentis baconiani formano generalmente una costellazione nell'animo delle esaminatrici! È addirittura un'esperienza dolorosa! Se può anche ammettersi per quel che riguarda l'istruzione pubblica, non deve assolutamente ammettersi questa possibilità dannosa per l'amministrazione della giustizia!

E veniamo all'articolo 97. Io ho ascoltato, con l'attenzione che meritava, quanto ha detto l'onorevole Cappi, e speravo che riuscisse a convincermi del contrario, quando ha citato l'articolo di Lener, che noi conoscevamo ed apprezziamo per quella simpatia e per quella stima che questo dotto padre gesuita merita. Ma — mi consenta e mi perdoni — non c'è riuscito. Anzi, la sottolineata distinzione fra quella che è la funzione, la fisiologia del potere giudiziario e l'organica di esso, ha confermato quel nesso di consequenzialità per cui, se noi non ci preveniamo nell'organica del potere, esponiamo la fisiologia di esso a diventare patologica. Siamo tutti d'accordo che debba essere un potere autonomo, ma non basta fare questa dichiarazione di principio se, scendendo al particolare, in virtù, onorevole Cappi, di quell'«anticristo» che giustamente ha richiamato, non svolgiamo tutta un'opera di profilassi e di prevenzione perché il funzionamento, cioè il potere che agisce, il potere che si muove, la dinamica di esso non venga assicurata. E dove? Nella statica, in quelle che sono le sue precause, in quella che è la sua organica. Se noi consentiamo che nell'hortus conclusus (e deve rimanere tale) si intromettano persone che all'hortus non appartengono, noi apriremo uno spiraglio, sia pure un piccolissimo spiraglio, all'anticristo, il quale farà grande la breccia. Io ho inteso quanto Cappi ha detto sulla divisione dei poteri, e anche ieri l'onorevole Bettiol ha parlato di questo principio. Siccome essi sono persone superiori ad ogni sospetto, e fieramente devoti alla causa della libertà, io posso sollecitare un ricordo, absit iniuria verbis. Io mi ricordo di aver sentito o letto qualcosa sul famoso principio della meccanicità della divisione dei poteri da un uomo che non stimo, agli inizi dell'infausto ventennio. Io ricordo anche di avere letto le dispense del senatore Pietro Giumenti, che preparava l'aggressione giurispubblicistica contro Montesquieu e la santa divisione dei poteri e che cominciava a prendere le mosse da questo: che non deve intendersi la divisione dei poteri in senso meccanico, che il potere è uno, che ci vuole un'osmosi ed un'endosmosi tra gli aspetti di questo potere statuale. Poi l'«anticristo» ha fatto il resto, la critica di Montesquieu è sboccata nel totalitarismo, la libertà si spense.

Noi dobbiamo cercare di fare tutto il possibile per premunirci dal bis in idem. Non c'è altra via che cercare di separarli questi poteri; cercare di sottrarli, il legislativo e il giudiziario, alla influenza dell'esecutivo, perché, purtroppo, fra i tre, chi è quello che ha più ampia zona di peccato originale in sé? È l'esecutivo, che il comandare è bello ed ha maniere facili, ha maniere straordinariamente insinuose per arrivare, con tutte le armi alla corruzione, a fomentare l'ambizione degli uomini e tutto quello che l'anticristo porta nella fragile materia umana.

Cappi. I membri sono eletti dall'Assemblea legislativa.

Bellavista. Giustissimo. Chi però vorrà sostenermi che non ci sia nessuna perniciosa influenza dell'esecutivo sul legislativo, specialmente con la partitocrazia? Questo, onorevole Cappi, non me lo può sostenere, perché è contrario alla realtà delle cose. Indubbiamente l'elezione verrebbe ad essere influenzata del potere esecutivo. Queste influenze, che diventano corruzioni, noi le dobbiamo evitare. Ecco perché sono contrario anche a quella partecipazione simbolica cui accennava, in linea transattiva, riconoscendo l'esattezza delle ragioni avverse, ieri l'onorevole Dominedò. Lasciamo l'hortus conclusus. Non mi si dica che così l'ordine giudiziario si estranea dalla vita. No. Io ricordo le parole di un grande maestro, il Massari: «Il magistrato è anzitutto psiche». Non è una macchina; non è un automa; torna a casa, vive la vita del popolo; ha innegabilmente delle tendenze conservatrici; ha indubbiamente una tendenza conservatrice.

Ma questo sapete cosa è? È una grande garanzia di ordine e di libertà.

Guai se dovessimo consentire o indulgere verso quelle deformazioni filosofiche che vogliono fare della interpretazione un atto creativo. No. Il magistrato è naturalmente l'interprete dell'ordine giuridico; l'ordine giuridico ha qualche cosa di statico in se stesso; aspetta le propulsioni che vengono da fuori per trasformarsi, per modificarsi. È questa l'attività politica del legislativo che va a correggere, a modificare, che costituisce il divenire del diritto positivo. Ma fino a che non è modificato, il diritto resta qual è. E il magistrato monta la guardia perché resti — dura lex sed lex — quello che è. In questo senso è conservatore, e che sia tale rappresenta una grandiosa garanzia. Voglio però, pur riconoscendo che la materia non è propriamente pertinente alla discussione, accennare a quello che per i molti colleghi che praticano la professione penale appare un inconveniente cui si debba assolutamente porre rimedio. Noi abbiamo la possibilità che magistrati dopo vent'anni di funzioni alla requirente diventino, ad un certo punto, organi della Magistratura giudicante. Costoro molto spesso portano nella nuova funzione la deformazione mentale dell'accusatore. Chi ha pratica del processo penale non può negare questa constatata ed amara verità: invece dell'abito dell'imparzialità, quando dalla Magistratura requirente si passa alla giudicante, si portano tutte le deformazioni dell'accusatore. Questo dovrebbe evitarsi, perché, se il rapporto processuale deve essere garanzia per quello che ne è il perno centrale, cioè il giudice, questi deve essere veramente in condizioni di poter funzionare senza prevenzioni e deformazioni né in favor dell'accusa né in favor della difesa.

Altro argomento che voglio affrontare (e poi vi sollevo subito del mio intervento) è questo. Io sottoscrivo l'ordine del giorno Villabruna per quanto riguarda le Cassazioni regionali, le vecchie Cassazioni regionali. Non si opponga, il collega Persico, dicendo che si è in contraddizione quando si è stati antiregionalisti, come Villabruna, e si vuole poi ritornare alle Cassazioni regionali, perché qui veramente non siamo nel tema delle autonomie regionali, ma siamo in un tema, un po' più pedestre, quello del decentramento dell'amministrazione della giustizia. Io non voglio essere scortese o fare allusioni non degne di quest'Aula, però posso ripetere l'accennato richiamo dell'onorevole Dominedò al conflitto fra giurisprudenza dei concetti e quella degli interessi, quando sento molti avvocati, che esercitano la professione a Roma, insorgere contro un ritorno a quella nobilissima antica tradizione, che diede un contributo al progresso della giurisprudenza italiana, niente affatto disprezzabile. Io mi posso rendere conto che molti magistrati che abbiano la casa a Roma vogliano rimanere qui.

Persico. Volete la Cassazione a domicilio!...

Bellavista. Ha detto proprio una grandiosa verità. Disse Jehring che «non c'è peggiore ingiustizia della tardiva giustizia»; non fosse altro che per questo, quando si attende lungamente per avere resa giustizia, qui a Roma, che accentra tutto, dovrebbero ripristinarsi le Cassazioni regionali.

Io, anzi, vorrei perfezionare il raffronto: noi la si vuole a domicilio la giustizia: l'onorevole Persico la vuole addirittura alla sua dimora, e questo è ancora peggiore!... (Ilarità).

Noi possiamo con sicura e tranquilla coscienza rispondere alle obiezioni che sono state fatte qui contro il decentramento delle Cassazioni. Si è parlato dell'unità della giurisprudenza, ma non è mica questo un argomento che si possa confortare coi testi. È di quegli argomenti verbali che inducono spesso il giudice inglese a dire: «Avvocato, mi faccia leggere questa sentenza», quando essa è soltanto annunciata e la carta non si accompagna all'affermazione.

Purtroppo, e forse senza purtroppo, non c'è stata questa unità giurisprudenziale o, quando c'è stata una unicità giurisprudenziale, c'è stata quella che i romani chiamavano l'ignava ratio, una pigrizia di adeguamento al precedente ed il precedente ha avuto forza di legge per il susseguente.

E se così non deve essere, perché il principio basilare è che valga l'autorità della ragione e non la ragione dell'autorità, il caso va esaminato con conforto dei precedenti, al lume dei precedenti, ma esaminato ogni volta funditus, come se fosse un caso nuovo.

Vorrei citare gli strani contrasti fra la giurisprudenza del giorno 15 e la giurisprudenza del giorno 16. Solo che a volte cambi un consigliere, cambia la giurisprudenza. Del resto, giustamente, gli onorevoli Crispo e Villabruna hanno detto: «Ammesso e concesso che esista questa unicità della giurisprudenza, è poi cosa veramente utile, è veramente utile, pur cui si debba ad essa affidare il progresso del diritto?». Non lo credo affatto.

Aspetto che lo dimostri l'onorevole Persico. Cosa c'è di contrario? C'è che si obbedisce a quello che potrebbe farci entrare nel principio della concentrazione processuale. Questo va inteso non soltanto nella fase del processo, che è costituita dal procedimento di primo o secondo grado, ma anche del processo nella sua interezza. Fino a quando il giudicato viene a cristallizzare la dichiarazione del giudice, perché sfuggire a questo principio di concentrazione che è così profondamente inteso dal processo? Perché, in sostanza, aspettare tanto tempo perché si cristallizzi il giudicato? Non fosse altro per questa ragione tecnica, spaziale e cronologica, bisogna ritornare alle nostre gloriose e vecchie Corti e alle nostre vecchie e gloriose tradizioni.

E conchiudo, onorevoli colleghi. Si è detto e si è ripetuto che i magistrati meritano la fiducia della Nazione. Hanno fatto bene anche sotto la dittatura. Di questo posso darne una personale testimonianza; anche sotto il famoso ventennio, come Vittorio Emanuele Orlando ha ricordato a Firenze l'altro giorno, la toga si mantenne nella grande maggioranza dei casi dignitosa e fiera, e fu forse l'unica superstite che nei tribunali, attraverso il diritto, che è ottima trincea, poté sparare le ultime cartucce contro la tirannia.

Gasparotto. Soprattutto gli avvocati.

Bellavista. Anche i magistrati. Ricordo un fatto che ascrivo ad onore della quinta sezione del tribunale di Palermo, presso cui ebbi l'onore di difendere nel 1937. Fu tradotto, appellante dalla Pretura di Ustica, un confinato politico che era nipote del Negus, Isacco Menghestù. Fu denunciato a Roma perché aveva parlato contro il regime; era stato condannato al confino per cinque anni. Tra le prescrizioni accessorie della legge di pubblica sicurezza, articoli 186, 189, il direttore della colonia di confino aveva inserito quella di salutare romanamente. L'abissino si rifiutò. Fu denunciato per contravvenzioni agli obblighi del confino, secondo le norme della legge di pubblica sicurezza. Il pretore, per essersi costui rifiutato di salutare romanamente gli agenti di custodia, gli diede un anno di arresto. Si appellò al tribunale di Palermo. Bene, quel tribunale ebbe il coraggio di dire che il fatto costituiva illecito amministrativo e non penale; e lo mandò assolto.

Mi piace ora ricordare quei giudici, che anche sotto le minacce e le persecuzioni, riaffermarono quelle doti di indipendenza, che sono la caratteristica di tutti coloro che indossano la toga. Garentiamo i magistrati, e da loro una sola cosa dobbiamo augurarci: che possano mantener fede alla invocazione di Cicerone: avere soltanto una obbedienza, essere schiavi di una sola cosa, maestosa, augusta, che si foggia in questa Aula: la Legge. Servi legum esse debemus, ut liberi esse possimus. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Persico. Ne ha facoltà.

Persico. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, non credo che, arrivati a questo punto, si possano più fare discorsi di fondo sul problema della Magistratura. Già quindici oratori hanno detto tutto quello che era possibile: ed allora io penso di seguire il consiglio dato dall'illustre Presidente, cioè dire soltanto le cose necessarie per esprimere il mio pensiero su problemi sui quali ho a lungo meditato in più di quarantacinque anni di esercizio professionale.

Svolgerò quindi uno per uno i vari emendamenti da me presentati.

Comincio dal Titolo IV: La Magistratura.

A me pare profondamente errata questa dicitura, perché «Magistratura» non vuol dire altro che una congregazione di uomini, i quali si distinguono per alcune funzioni e, direi, anche per una loro veste esteriore: la toga e il tocco.

La Magistratura è composta di organi diversi, non di organi unitari, ha sfere di competenza diverse, attribuzioni diverse.

Quindi, noi dobbiamo arrivare ad un'altra formula più chiara e più precisa. Né si dica, come la relazione del Presidente Ruini, che per il potere legislativo abbiamo adoperato la parola «Parlamento» e per il potere esecutivo la parola «Governo»; perché Parlamento e Governo sono, sì, due organi complessi, ma sono organi unitari.

Invece di «Magistratura» potremmo adoperare due diverse espressioni assai più esatte: «Potere giudiziario», oppure «Ordine giudiziario».

L'espressione «Ordine giudiziario» ricorda troppo lo Statuto albertino e ricorda le ragioni per cui quello Statuto preferì parlare di «Ordine giudiziario». La giustizia si amministrava in nome del re; l'ordine giudiziario era l'esecutore della giustizia reale.

Meglio «Potere giudiziario». Già lo Statuto belga del 1831 intitolava «Du pouvoir judiciaire» il capitolo che corrisponde perfettamente alla materia del nostro titolo. Né ci disturba il ricordo della tripartizione dei poteri di Montesquieu, perché credo che i due secoli trascorsi abbiano rinverdito la portata di tale distinzione. Si sono fatte infinite critiche alla teoria del Montesquieu; ma gli scrittori moderni dimostrano che egli fondamentalmente aveva ragione e che di fatto i poteri dello Stato non vanno distribuiti diversamente.

Il potere giudiziario, secondo me, è forse anche più importante del legislativo e dell'esecutivo, perché assicura a tutti i cittadini la tutela delle loro libertà, la difesa dei loro diritti, la protezione dei loro interessi; è il potere classico, il potere fondamentale, il più antico e il più geloso.

Non soltanto io, ma anche l'onorevole Leone, nella sua relazione, insiste perché si dica «Potere giudiziario»; ed insiste perché, in questo modo, si introduce già nel Titolo il criterio dell'autonomia del potere giudiziario rispetto agli altri poteri statali, perché in questo modo si slega l'organizzazione del potere giudiziario da quella degli altri rami funzionali, in modo che questo potere non sia una forma di burocrazia qualificata, paragonabile alle varie forme burocratiche, ma sia qualche cosa che ha un'essenza sua propria, in quanto amministra quella suprema funzione che è la giustizia, per cui un uomo acquista la facoltà di giudicare e di condannare altri uomini: quasi divina facoltà!

Questa mia idea — che del resto vedo condivisa da alcuni colleghi, i quali hanno fatto identiche proposte, come l'onorevole Romano, l'onorevole Mastino ed altri — vedrete che sarà tanto più chiara in quanto io, in quello che dirò tra breve, cercherò di dimostrarvi, che un vero e proprio «potere giudiziario» è quello al quale bisognerà arrivare, quando vi parlerò dell'elettività dei magistrati minori e delle funzioni giudicanti da dare in misura molto maggiore alla giuria.

Passo subito all'articolo 94, che è veramente un ben congegnato articolo, per la forma drastica con cui è compilato, con una frase, che potrebbe essere iscritta lapidariamente sui palazzi di giustizia: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza». Vorrei proporre un'aggiunta al primo comma di questo articolo. Quando si afferma che «la giustizia è esercitata in nome del popolo», cioè che le sentenze sono intestate in nome del popolo — e si scelse questa forma come preferibile a quella «in nome della legge» — vorrei che si dicesse: «in nome del popolo italiano», perché mi pare giusto che si renda a tutti noto che «in nome del popolo italiano» — di questa comunità millenaria del popolo italiano, che risorge e risorgerà sempre indomita dalle più dure cadute, compresa l'ultima recentemente e ingiustamente subita — è data al giudice la facoltà di emanare le sue sentenze.

Mi pare inutile soffermarmi sul divieto di appartenenza alle associazioni segrete. C'è l'articolo 13, da noi già approvato, e, come l'onorevole Bellavista ha ricordato poco fa, ciò che è reato nei confronti degli altri cittadini, lo è egualmente nei confronti del magistrato, sia che si tratti di peculato, di concussione, o di altro. Se una attività è proibita per tutti, è proibita anche per il magistrato: ciò è lapalissiano.

Voglio invece dirvi qualcosa sulla negata iscrizione ai partiti politici. Si tratta di una mia vecchia idea, e molti colleghi sanno che, durante il periodo clandestino, mi dilettai a scrivere un libro sulla Magistratura, un piccolo libro molto sintetico, in cui sono accennate parecchie nuove idee che speravo i colleghi avrebbero poi sviluppato; ma la cosa non è avvenuta. In tale libro scrivevo: «I magistrati debbono considerare la loro missione come un vero e proprio sacerdozio e conseguentemente non potranno iscriversi ad alcun partito politico, in quanto deve essere evitato, come per la moglie di Cesare, anche il più remoto e lontano sospetto sulla indipendenza ed imparzialità di esercizio della loro funzione». Diceva testé l'onorevole Musotto che l'iscrizione ad un partito non fa sorgere nessun vincolo coattivo e che il giudice iscritto ad un partito rimane sempre libero nel dare le sue sentenze e nel pronunziare i suoi giudicati. D'accordo: nessuno di noi pensa che il giudice iscritto ad un partito si faccia influenzare dal partito al quale appartiene nell'esercizio delle sue altissime e delicate funzioni. Ma noi dobbiamo pensare anche alla impressione che può venir suscitata nel cittadino che chiede giustizia, il vedere che i tre giudici i quali devono decidere della sua causa hanno all'occhiello un certo distintivo di partito politico, mentre il giuspetente non lo ha, o peggio ne ha un altro diverso. Ed allora nasce il dubbio che questo fatto possa profondamente turbare l'andamento della giustizia. Si capisce, amico Musotto, che anche i magistrati appartengono idealmente ad un partito, che votano per un partito e che possono essere anche eletti deputati nelle liste di un partito, come indipendenti. Abbiamo qui un esempio: l'amico Nobile, eletto in una lista di partito senza appartenere a quel partito. Nulla di male: questo è possibile. Potranno anche i magistrati aspirare a diventar senatori attraverso il collegio uninominale, senza essere iscritti a determinati partiti.

La non iscrizione ad un partito non vincola il loro pensiero politico, ma lo vincolerebbe invece una manifestazione esterna, perché, come dicevo nel mio scritto, la Magistratura è come la moglie di Cesare, che non deve dare luogo a sospetti.

E passo all'articolo 95. L'articolo 95 è quello che stabilisce l'unicità della giurisdizione. Badate, senza unicità nella giurisdizione cessa la stessa indipendenza della Magistratura. Nel libricino da me ricordato io non ammetto nessuna giurisdizione all'infuori di quella del magistrato ordinario. Mi sono anche manifestato contrario al Consiglio di Stato, e credo che bene le sue funzioni giurisdizionali potrebbero essere attribuite a speciali tribunali amministrativi, sia regionali, sia centrale; ma sempre nell'ordine della Magistratura, sempre come una forma di Magistratura ordinaria, che sarebbe specializzata in tali determinate materie. Noi, però, abbiamo già approvato l'articolo 93, secondo il quale sia per il Consiglio di Stato, sia per la Corte dei Conti è stabilita una disciplina autonoma, e quindi non possiamo ritornare su questo argomento. Quando faremo le leggi speciali per stabilire le funzioni e l'organizzazione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, potremo in qualche modo coordinare le loro attribuzioni con quella della Magistratura ordinaria, soprattutto attraverso il ricorso alla Corte di Cassazione unica di Roma, che dovrà decidere anche le questioni riguardanti il diritto amministrativo. E questo sarà uno dei modi per unificare la giurisdizione.

Ma vi è un punto sul quale ho creduto opportuno di presentare un emendamento, ed è quello che riguarda i tribunali militari. L'onorevole Gasparotto ha presieduto, da par suo, una Commissione, della quale ho fatto parte anche io, come Villabruna ed altri colleghi di questa Assemblea, nella quale abbiamo esaminato a lungo il problema dell'ordinamento della giustizia militare, e lo abbiamo esaminato tenendo presenti e valutando le obiezioni dell'onorevole Palermo, l'unico oppositore che parlò in Commissione. Poi, abbiamo avuto una lettera dell'onorevole Calamandrei che si è associato genericamente all'onorevole Palermo, senza dirne le ragioni, certo per la sua alta esperienza di giurista. Ma l'opposizione dell'onorevole Palermo fu respinta dalla totalità della Commissione, e non perché non riconoscessimo molte cose giuste in quello che diceva, cioè che la Magistratura militare deve essere congegnata in modo da garantire tutte le libertà del cittadino che veste la divisa del soldato, che devono essere assicurate tutte le possibilità, perché la difesa sia garantita e perché la legge sia applicata severamente ma giustamente. Lo stesso onorevole Palermo che cosa propone? Propone che si formino delle giurisdizioni miste, dei collegi composti di giudici togati con due ufficiali. Voi immaginate che cosa sarebbe entrare nel Palazzo di Giustizia, uscire da una sezione penale ed entrare in un'altra dove vi sono due ufficiali in alta uniforme che siedono a fianco dei giudici ordinari! Diceva ieri il collega Villabruna, che con la sua togata eloquenza ricorda i bei tempi dell'antico parlamento subalpino, che cosa sarebbe un collegio giudiziario, in cui uomini e donne si riunissero in camera di consiglio per emanare una sentenza? Così sembra a me che si potrebbe pensare di questo strano collegio, composto di ufficiali e di uomini di toga! In tempo di pace dovrebbe esserci un tribunale militare, creato da una legge speciale, e non vedo perché la giustizia militare non potrebbe dipendere dal Ministero della giustizia, anziché da quello delle forze armate. La giustizia militare potrebbe essere benissimo un organo dipendente dal Ministero della giustizia, cioè una delle tante forme in cui si svolge la funzione giudiziaria. Basti pensare che abbiamo dei casi nei quali, in tempo di pace, si deve applicare il Codice penale militare di guerra. Abbiamo il caso di urgente e assoluta necessità (articolo 5 del Codice penale militare di guerra), abbiamo il caso dei corpi di spedizione all'estero (art. 9), quello di operazioni militari per motivi di ordine pubblico (art. 10), quello della mobilitazione generale e parziale (art. 11). Quindi ci vuole una giustizia militare anche in tempo di pace.

E se non esiste in tempo di pace, come si può creare a un tratto quando scoppia la guerra?

Né si dica che in tempo di guerra si possa formare in tre giorni un tribunale militare. In ogni modo senza la funzione non si può creare l'organo. È vero che i tribunali militari debbono servire sopra tutto in tempo di guerra; quindi manteniamo tali tribunali in tempo di pace soltanto per i reati commessi dai militari e come una speciale giurisdizione, che rientra nelle forme di tutte le altre funzioni giudiziarie.

Comunque, l'onorevole Gasparotto ha presentato a questo riguardo un sagace emendamento, ed egli lo svolgerà a suo tempo con la competenza che gli deriva dall'esser stato due volte Ministro della guerra e Presidente della Commissione che ha esaminato a fondo la materia.

E vengo all'argomento cruciale di questo dibattito: io non ero purtroppo presente quando ieri sera ha parlato l'amico onorevole Carboni, ma non ho inteso nessuno, finora, difendere l'istituto della giuria. Questo tormentato istituto è stato assalito da ogni parte ed è curioso che sia stato criticato sopra tutto dai suoi figli più cari e prediletti.

Ho inteso parlare a questo riguardo anche il collega Alessandro Turco, del quale sono amico da tanti e tanti anni, e che ha formato la sua fama di studioso e di avvocato battendosi con eccezionale valore dinanzi a tutte le Corti di assise della sua Calabria.

Così, o amico Porzio, lei che è anche oggi un trionfatore dinanzi a tutte le giurie d'Italia, ed è colui che ha fatto sempre prevalere le ragioni della giustizia, non credo che abbia mai captato ai giurati con le lusinghe della sua eloquenza smagliante un verdetto ingiusto.

Ora, il giurato è il giudice popolare per eccellenza: attraverso la giuria la giustizia viene amministrata dal popolo, e non perché «in nome del popolo» si pronuncia la sentenza, come diceva ieri il collega Villabruna, perché questo non significherebbe proprio niente.

La giustizia viene dal popolo solo in quanto nei processi delle Corti di assise vi è la giuria, e la giuria non è, come si è detto, un istituto solamente inglese. È vero che non possiamo dimenticare le affermazioni di Lord Brougham, il quale diceva «che Parlamento e Gabinetto non esistono se non per far raccogliere dodici indipendenti giudici in una Corte d'assise», e dello storico Karcher, il quale scriveva «che il Foro e la Magistratura, assistiti dal giurì, costituiscono il fondamento più solido nel quale sono piantate le libertà della vecchia Inghilterra». Ma non è vero che in Italia la giuria non si sia acclimatata: è entrata nel 1848 nell'amministrazione della giustizia per i delitti di stampa e nel 1859 fu estesa a tutti i reati più gravi. È quindi quasi un secolo che funziona, salvo la parentesi fascista, che travolse con la giuria tutti gli istituti giudiziari. Anche il nostro illustre collega Calamandrei ha affermato, nell'articolo 21 del suo progetto, le necessità della giuria. E tra i nostri antichi proceduristi ricordiamo il Casorati, il quale scriveva: «non appena ad un popolo è concesso di respirare le prime arie di libertà, tosto compare nella sua legislazione l'istituto dei giurati: se questo è combattuto e distrutto per un istante, ritorna alla vita poco dopo più rigoglioso di prima».

Del resto, il problema in Italia è già risolto. Noi abbiamo una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 1946, il regio decreto-legge 31 maggio 1946, n. 546, firmato dall'onorevole Togliatti, col quale si ristabiliscono le Corti d'assise. E il collega Gullo, qui presente, ha presentato all'Assemblea tre disegni di legge, nn. 3, 4 e 5, coi quali si fissano le norme di procedura per i reati di competenza delle Corti d'assise e quelle per l'ordinamento delle Corti stesse, progetti che dovremo presto discutere.

Quindi, amico Turco, se mi dice che l'istituto della giuria è imperfetto, posso anche convenire con lei. Già, istituti perfetti non ne conosco nessuno. Forse soltanto da qui a centomila anni, in un regime di perfetta bontà, in cui ogni cittadino faccia il suo dovere per impulso del suo animo, senza bisogno di leggi e di magistrati, potremo avere istituti perfetti. Oggi abbiamo degli istituti imperfetti, ma non imperfettibili, amico Turco, anzi perfettibilissimi. Ho proposto un emendamento che farà un po' sorridere i colleghi, perché lo troveranno avveniristico e troppo rivoluzionario.

Io propongo di sostituire le ultime parole dell'articolo 96 «nei processi di Corte di assise» con le altre «nei processi penali». Direte: che roba è questa? È una mia antica idea, che ho illustrato in quel piccolo libretto di cui vi ho fatto cenno. Eccetto la giustizia penale pretorile, che è quella delimitata dall'articolo 31 del Codice di procedura penale, più tutte le contravvenzioni, più i reati colposi, più quelli punibili a querela di parte, e che si potrebbe anche estendere ad un maggior numero di reati, ritengo che tutti gli altri processi penali dovrebbero essere giudicati da una giuria. E distinguo: quelli che oggi andrebbero alle Corti d'assise, secondo i concetti tradizionali, dovrebbero essere di competenza di una «grande giuria», mentre gli altri andrebbero davanti ad una «piccola giuria».

Una voce al centro. E l'appello?

Persico. Nella mia «Nuova Magistratura» c'è anche l'appello; vuol dire che il libro, per quanto breve, non è stato letto da nessuno. Piccola giuria: tre giurati, presidente e giudice relatore; grande giuria: cinque giurati, presidente e giudice relatore. Con questa specialità: che tutte le volte che, per dichiarazione delle parti o per la natura del processo, sorga una questione tecnica, almeno due dei giurati dovranno essere esperti della materia. Si tratterà di falsificazione di moneta, ci saranno due giurati funzionari della Zecca; saranno reati di falsa scrittura, vi saranno due periti calligrafici, ecc.

È complicato questo congegno? Tutti i congegni nuovi sono complicati; tutte le macchine, prima di cominciare a girare, hanno l'avvio faticoso, ma poi saranno lubrificate e si correggeranno i difetti.

Anche la Regione è ancora una cosa nuova; non sappiamo come funzionerà: chissà quante leggi dovremo fare per poterla attuare. E così sarà di queste «piccole e grandi giurie» da me ideate.

E badate, i giurati, secondo me, dovranno essere eletti e non estratti a sorte. Saranno eletti dai Consigli regionali che ne formeranno le liste, e dovranno avere un titolo di studio non inferiore alla maturità classica o tecnica, cioè dovranno essere arrivati alle soglie dell'università. Quindi saranno giudici competenti e responsabili, e non avranno soltanto la licenza elementare, come nel progetto proposto, e saranno in numero limitato. Sarà un alto onore per i cittadini italiani sedere come giudici, perché questo dovete pensare, o amici miei: noi vogliamo instaurare una nuova e moderna democrazia, ma quando c'è un dovere da compiere non la vogliamo più. Vogliamo tutti gli onori, tutti i vantaggi, ma, quando c'è un fastidio, non ne vogliamo sapere. Quando si estraevano i giurati, tutti trovavano mille scuse per essere scartati: «debbo partire», «debbo fare questo o quello», «non posso partecipare per impegni del mio ufficio», ecc. Questo significa, onorevoli colleghi, che non si è intesa l'importanza di alcune istituzioni democratiche. Molti vogliono la democrazia senza le forme democratiche! (Interruzioni).

E allora seguitiamo ad arare la terra con il pungiglione di Noè, o di Abramo. Non possiamo ripetere ad ogni novità: così faceva mio nonno. Oggi dobbiamo fare diversamente. Ecco perché non possiamo avere pochi magistrati. L'Inghilterra ha invece quindici o ventimila magistrati onorari, cioè dei giudici non professionali, che danno la loro valida opera all'amministrazione della giustizia.

Io credo quindi che, mutato il sistema, cioè eletti i giurati, e non estratti a sorte, ridotto il loro numero, elevata la loro dignità e la loro funzione, noi potremo veramente creare un corpo di giudici popolari che non daranno più luogo a quei verdetti scandalosi, per cui, in altri tempi, si fece tanto chiasso. Ricordo però migliaia di processi nei quali la giuria fece il suo dovere; ricordo, per esempio, il processo Murri, in cui, nonostante tutte le pressioni da ogni parte esercitate, i giurati fecero giustizia coraggiosa ed esemplare.

L'istituto della giuria, onorevoli colleghi, non ha ancora fatta la sua completa esperienza: questo è il problema. Noi dobbiamo dare la possibilità a questo istituto di funzionare seriamente, nel clima della riconquistata libertà: esso sarà veramente la prova del fuoco della nuova democrazia.

E passo rapidamente all'articolo 97, che è quello che deve fissare l'indipendenza del potere giudiziario: è la vecchia questione delle guarentigie della Magistratura. Noi abbiamo avuto una legge, forse l'unica dopo quella fondamentale del 1865, che ha affrontata la questione: la legge Orlando 24 luglio 1908, n. 481. Orlando vide il problema e lo risolse col suo altissimo ingegno di giurista e di avvocato, e creò i Consigli disciplinari presso le Corti d'appello per i giudici e la Suprema Corte disciplinare per i magistrati superiori.

Tale Corte era composta di sei magistrati e di sei senatori; precorrendo cioè quella forma di collegio misto che la Commissione dei Settantacinque ha proposta. Ma poi abbiamo avuto recentemente il regio decreto-legge 31 maggio 1946 del Ministro Togliatti. Egli ha creato il Consiglio Superiore della Magistratura con soli magistrati: il primo presidente della Corte di cassazione, presidente il procuratore generale della Corte stessa, undici membri effettivi e sei supplenti eletti dai magistrati. Dunque, oggi noi, in fondo, dovremmo fare un passo indietro, in quanto abbiamo vigente la legge Togliatti, che costituisce il Consiglio Superiore della Magistratura nella forma che sarebbe desiderata dai magistrati, cioè il cosiddetto autogoverno — parola che non dice niente, perché, come osservava l'onorevole Bozzi l'altro giorno molto chiaramente, non è che si vuol governare in questo modo l'amministrazione della giustizia, ma si tratta dell'autogoverno del corpo giudiziario — che si può anche ammettere. Come arriverei ad ammettere anche l'elettività interna per le cariche della magistratura: cioè la nomina dei consiglieri di Cassazione da parte dei consiglieri di Corte d'appello, e dei consiglieri di Corte d'appello da parte dei giudici di tribunale.

Questo è un progetto che potremo discutere un giorno — forse non sarò presente — quando si dovrà deliberare sul nuovo ordinamento giudiziario e sui nuovi Godici di procedura civile e penale.

Dunque, il principio dell'autogoverno non solo è entrato nella nostra legge, ma in questo momento è in atto. Allora si tratta di vedere quale sistema si potrebbe scegliere perché questo autogoverno non diventi — come è stato detto da un autorevolissimo collega, con parola veramente plastica — un «mandarinato». Non vogliamo un corpo di mandarini; vogliamo un corpo che senta la influenza della vita; che si colleghi agli altri poteri dello Stato. Non vogliamo che il «potere giudiziario» si chiuda in una torre di avorio, ma sia confluente con gli altri poteri e ne sia anche controllato. I metodi non potrebbero essere che tre. Il metodo del «cancelliere di giustizia», che è stato adottato dalla sola Costituzione finlandese. Il cancelliere di giustizia, nominato dal Parlamento o dal Presidente della Repubblica, tra i magistrati, dovrebbe intervenire al Consiglio dei Ministri. Sarebbe una norma strana e lontana dalle nostre consuetudini e dalle nostre idee. Ma poi non credo che con questo sistema si arriverebbe ad alcun risultato pratico, in quanto il cancelliere di giustizia, l'altissimo magistrato che andrebbe a sedere nel Consiglio dei Ministri, in fondo farebbe su per giù quello che fa attualmente il guardasigilli. Allora, tanto vale affidare a lui questa funzione; ma, ripeto, così non si risolve il problema.

Quindi, bisogna ricorrere ad un organo estratto, o totalmente o parzialmente, dalla Magistratura, e allora si potrebbe ritornare a quello che ha istituito l'onorevole Orlando nella sua legge del 1908 o restare a quello della recentissima legge Togliatti. Ma sorge il problema se questo organo collegiale debba esser composto di soli magistrati, o se in esso convenga ammettere anche l'elemento cosiddetto laico.

Il progetto Calamandrei (art. 17) era perché fosse composto di soli magistrati. Anzi, nella seduta del 5 dicembre 1946 della seconda Sezione della seconda Sottocommissione per la Costituzione, l'onorevole Calamandrei, rispondendo ad una esplicita domanda dell'onorevole Targetti, ebbe a dire che, a suo avviso, il Consiglio superiore dovrebbe esser composto esclusivamente di magistrati. Poi, nella seduta del 4 marzo 1947 di quest'Assemblea, l'onorevole Calamandrei ha fatto macchina indietro, dicendo che il gesto compiuto da un altissimo magistrato gli aveva fatto cambiare completamente d'opinione.

Io ammiro l'ingegno di Calamandrei; l'altro giorno l'ho ascoltato con riverenza a Firenze, quando ha commemorato con parole veramente commoventi il martire avvocato Enrico Bocci, tormentato e trucidato dai nazifascisti; ma nella seduta del 4 marzo non l'ho riconosciuto. Un principio, o è buono, o è cattivo, che poi nella vita di un magistrato possa capitare un involontario infortunio (e non spetta a noi giudicarlo) non può costituire ragione sufficiente per cambiare un'opinione maturata, efficacemente espressa e fissata in una proposta di legge.

Ma, pur senza andare, come l'amico Calamandrei, sulla via di Damasco, ho voluto riflettere a lungo sulla questione, e mi sono convinto che un Consiglio superiore composto di soli magistrati potrebbe dar luogo a qualche inconveniente e distaccare troppo dagli altri organi dello Stato il corpo della Magistratura. Perciò ho presentato un emendamento così concepito: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica» — e a questa Presidenza io tengo, amico Villabruna, non per un pennacchio, non per un cornicione, non per paura di conflitti, ma perché intendo che il Presidente della Repubblica non sia rinchiuso in una teca di cristallo, sia pure tersissimo, ma debba intervenire autorevolmente nella vita dello Stato e non so quale migliore funzione egli potrebbe avere se non quella di presiedere il più alto organo del potere giudiziario, che dev'essere suprema difesa e sicura garanzia di tutti i cittadini, sicché il Presidente della Repubblica qui ci sta benissimo, come è stabilito, del resto, anche nella Costituzione francese — «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto dal primo presidente e dal procuratore generale della Corte di cassazione in qualità di vicepresidenti» (perché effettivamente funzionerà, per la complessità dei compiti, diviso in non meno di due sezioni), «da sei membri eletti da tutti i magistrati della Repubblica aventi almeno il grado di giudice, o parificato; da tre membri eletti dalla Camera dei deputati e da tre membri eletti dal Senato della Repubblica fuori dal proprio seno e dagli albi forensi, in modo che sia assicurata la rappresentanza della minoranza».

Ho abolito il termine Assemblea Nazionale, perché mi pare che l'Assemblea Nazionale sia ormai morta. Del resto è inutile convocare le due Camere insieme, quando ciascuna può procedere per suo conto alle elezioni dei membri del Consiglio superiore della Magistratura.

Quindi, con questa attenuazione, che non vulnera il principio dell'autogoverno della Magistratura e che in parte soddisfa delle superiori esigenze, si avrebbe il completo coordinamento del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato: con quello esecutivo mediante la Presidenza del Consiglio da parte del Capo dello Stato; con quello legislativo, attraverso l'elezione di una parte dei membri del Consiglio Superiore fatta dal Senato e dalla Camera. Una parte dei membri, dico, e non la maggioranza, perché la maggioranza deve restare ai magistrati, e questi, essendo in numero di otto, potranno avere quel giusto peso che devono avere per la giusta tutela della necessaria indipendenza del loro Ordine.

Spero quindi che questa formula possa essere accettata dall'Assemblea. E volgo rapidamente alla fine del mio già lungo discorso.

Articolo 98. Questo articolo ha per me una speciale importanza, ed io propongo qui un nuovo sistema: quello dei magistrati elettivi. Si tratta di un tentativo limitato ai gradi minori, alla giustizia veramente popolare. Del resto non è una novità. Un progetto del guardasigilli Ettore Sacchi già proponeva questa Magistratura elettiva, che è stata nel pensiero e nei voti degli antichi maestri di democrazia, e che è stata sostenuta dinanzi alla seconda Sottocommissione dall'onorevole Targetti. Ma io limito la mia proposta a due soli gradi: il giudice di pace, al quale vorrei affidare una quantità di poteri nuovi: la tenuta dei registri delle persone giuridiche e delle società commerciali, la potestà di procedere alla ventilazione di eredità, la potestà di citare le parti per un esperimento di conciliazione, ecc.; ed il pretore, sia civile, sia penale.

Come saranno eletti? Bisognerà fare una legge speciale. Io credo che, avendo noi già stabilito l'ordinamento regionale, potrebbe essere il Consiglio regionale ad eleggere questi giudici onorari, tenendo conto di speciali requisiti: dovranno essere uomini saggi e probi, o professori, o avvocati con un certo periodo di esercizio. Essi inoltre dovranno avere un adeguato emolumento e l'alloggio gratuito; ma sono tutte cose da vedersi a suo tempo. Prima bisogna creare questa coscienza nuova dell'alto e nobile dovere di alcuni cittadini, veramente «eletti», di saper rendere giustizia.

Bisogna che in Italia si formi questa classe media, conscia dei suoi doveri e dei suoi compiti, questo corpo dirigente della Nazione, che oggi manca. Noi soffriamo di una vera crisi della classe dirigente. Tutto ciò che deploriamo in Italia dipende dal fatto che non esiste una classe dirigente, che abbia coscienza dei suoi obblighi e delle sue responsabilità. Si dice: la colpa è del fascismo; però la nuova classe dirigente non l'ha creata nemmeno la resistenza. Si è improvvisata spontaneamente e tumultuariamente dopo il 25 luglio 1943, e dopo la liberazione, ma questa classe dirigente manca ancora, perché il crollo del fascismo è stato improvviso e non si erano preparati i nuovi quadri.

Ritornando al nostro argomento, io propongo che i giudici di pace, che i pretori civili e penali siano eletti secondo le modalità stabilite dalla legge.

Certo è assai nuovo questo sistema.

Tonello. No, v'è da tanto tempo in Svizzera.

Persico. V'è in tanti altri Stati. Tutta l'amministrazione giudiziaria inglese ne dà l'esempio.

Quindi spero che il principio da me proposto possa essere accettato nella Costituzione. Attraverso una legge speciale, vedremo poi come si dovrà praticamente attuare. Ed una parola sola sull'ingresso nella Magistratura delle donne.

Io sono contrario, e credo che basti pensare all'unico esempio letterario di una donna magistrato per essere contrari. (Interruzioni).

Del problema dei tribunali per i minorenni potremo parlare a parte. Anche su tale argomento ho scritto qualcosa, che può interessare.

Nei collegi dei probiviri è ammessa la donna, perché si devono risolvere controversie economiche per le quali l'ingegno femminile ha speciali attitudini. Ma io dico che la donna magistrato non può esserci e lo dico in base a quanto ha scritto magistralmente Shakespeare che, nel Mercante di Venezia, ha fatto giudicare Porzia, e Porzia ha giudicato male, perché se è vero che ha dato torto a Shylock, gli ha dato torto con un'astuzia femminile, in quanto ha detto che la libbra di carne si doveva prenderla senza il sangue. E con questa trovata, veramente femminile, con questa scappatoia, ha salvato il debitore di Shylock. Ma se fosse stato giudice un uomo, avrebbe detto: caro Shylock, tu chiedi una cosa che è vietata dalla morale; non si può vendere il proprio corpo. La tua domanda è inammissibile, è contra legem, il tuo contratto è nullo. E con una questione di diritto avrebbe risolto il problema, senza ricorrere al cavillo della carne e del sangue. E credo che Shakespeare abbia pensato con questo esempio di dimostrare come la donna non sia la più indicata per pronunciare sentenze.

V'è stata Eleonora D'Arborea, ma era giudicessa nel senso di sovrana; non ha emanato sentenze, ha governato uno Stato. Ed allora vedete che questo problema, che pur ha dei lati seducenti (basti pensare che con una legge recente la Francia ha sanzionato l'ingresso delle donne nella Magistratura), si risolve con gli aspetti pratici della vita. Non è possibile che sentenze civili e penali siano date da un collegio misto, o, peggio ancora, da un collegio composto soltanto di donne, perché questa funzione, così grave, così difficile, che procura tante ansie e tante notti insonni, non è adatta allo spirito femminile.

Noi vediamo che anche nell'avvocatura, dove le donne sono entrate da molti anni, esse non hanno dato quel contributo che si poteva sperare.

Sono stato un amico e un ammiratore della più colta donna avvocato, la professoressa Teresa Labriola. Eppure nessun notevole apporto ha potuto dare alla nostra difficile professione. La donna sarà la madre dei giudici, sarà la ispiratrice dei giudici, ma è bene che lasci questa grave e talvolta terribile responsabilità agli uomini.

Una parola sull'articolo 99. Qui bisognerà eliminare la parola «retrocessione», perché è assurdo pensare che un magistrato possa essere retrocesso.

Io avevo fatto nel mio libro un'altra proposta, cioè che quando il magistrato, all'epoca dello scrutinio per conseguire il grado superiore, non sia dichiarato idoneo, né a conseguirlo, né a restare nel grado occupato, sia collocato a riposo. Si avrebbe così una specie di selezione permanente, assai utile per il prestigio e la dignità della Magistratura.

Articolo 100. Mi pare necessario che la Magistratura sia dotata di una polizia propria: ecco perché propongo che l'autorità giudiziaria abbia alle sue dirette dipendenze un corpo specializzato di polizia giudiziaria.

Ultimo argomento, ed ho finito, è quello della cassazione unica.

Mi dispiace che non sia più presente l'amico Villabruna, ma v'è l'amico Bellavista, che ha voluto anche lui raccoglierne la faretra e lanciarmi uno strale...

Bellavista. Ma non era avvelenato!...

Persico. Gli avvocati romani vogliono la cassazione a Roma — ha egli detto — perché fa loro comodo, perché così hanno la cassazione a domicilio.

No, non è questa la ragione: Roma è il centro pulsante della vita nazionale, perché a Roma v'è il Capo dello Stato, perché a Roma v'è il Governo. Per il decentramento amministrativo vi sono le Regioni, che snelliscono il funzionamento burocratico, che avvicinano al cittadino gli organi centrali; ma non la cassazione. È il pretore che deve essere vicino al cittadino, non la Corte suprema di cassazione, che deve regolare tutta la vita giuridica nazionale. Perfino gli Stati federali hanno una cassazione unica, gli Stati Uniti d'America hanno con la Supreme Court of the United States, l'Inghilterra con lo Appeal to the House of Lords. Io potrei farvi l'elenco di tutti gli Stati che hanno una cassazione unica. Perfino la Germania, che era federalista, aveva la cassazione unica a Lipsia.

A me pare che sia cosa che stoni anche all'orecchio parlare di cassazioni plurime in uno Stato unitario: è un vero e proprio assurdo! Solo se si arrivasse ad una Confederazione, potremmo avere le varie cassazioni: la cassazione siciliana per lo Stato siciliano, la cassazione sarda per lo Stato sardo, la cassazione milanese per lo Stato lombardo, ecc.

Io ho discusso alla gloriosa cassazione civile di Napoli. So quali preclarissimi ingegni vi hanno dominato. Tra gli ultimi ricordo i colleghi Grippo e Ianfolla, che poi hanno brillato col loro grande ingegno anche alla Corte suprema di Roma.

L'ordine del giorno dell'amico Villabruna ha carattere piemontese. Guardate le firme. Se ne sarebbero potuti fare altri tre identici: uno siciliano, uno toscano e uno napoletano; ma questo non avrebbe cambiato nulla. Dice l'onorevole Villabruna, che alle altre ragioni esposte si aggiunge il fatto del grave disagio e della rilevantissima spesa che occorre affrontare per permettere agli avvocati dell'Alta Italia di recarsi a discutere dinanzi al Supremo collegio.

Ma se con un volo di aeroplano si va e si torna in poche ore! Avremo tra poco gli aerei ultrasonori, che viaggeranno a più di 300 metri al minuto secondo.

Non noi, ma voi volete la cassazione a domicilio. Io propongo poi uno speciale sistema per gli avvocati di cassazione: l'albo chiuso unico per tutta Italia a cui si arriva per concorso attraverso titoli e, se occorre, per esame. Saranno nominati, ad esempio, cento cassazionisti per tutta Italia, i quali potranno esercitare soltanto in cassazione e verranno necessariamente a stabilirsi a Roma. A mano a mano che si farà un posto vacante, si aprirà un concorso per ricoprirlo. E non mi dite che la cassazione unica si deve ad una legge fascista, per carità! Questo è un errore grossolano. La prima legge che iniziò l'unificazione delle cassazioni è del 12 dicembre 1875: essa dette una speciale competenza per alcune materie alla cassazione di Roma. Poi venne la legge del 31 marzo 1877, che attribuì alla Corte di Roma tutti i conflitti di attribuzione e l'esame dei ricorsi per incompetenza, o per conflitti, o per eccesso di potere contro le decisioni delle giurisdizioni speciali. Poi venne la legge del 6 dicembre 1888, che ha unificato le cassazioni penali, in occasione dell'entrata in vigore del codice penale Zanardelli.

Quali cassazioni vorreste ricostituire: le penali o le civili? Non l'ho capito. Perché, quando parlate di legge fascista, parlate della legge del marzo 1923, che ha unificato le cassazioni civili. L'onorevole Bozzi ha ricordato il progetto Minghetti del 1862. Io ricordo i grandi giuristi, da Calamandrei a Mortara, il più illustre processualista italiano, che si è battuto fino all'ultimo per sostenere l'unicità della cassazione civile.

È un puro caso che, come per una strada o per un ponte costruiti antecedentemente e inaugurati dopo il 28 ottobre 1922 sotto il segno del fascio littorio, è un puro caso, onorevoli colleghi, che la legge sulla cassazione sia stata emanata nel marzo del 1923. Del resto il fascismo allora non era ancora vero fascismo: collaboravano al Governo molti partiti ed anche la Democrazia cristiana. Io ricordo di aver parlato alla Camera su quella legge proposta dall'onorevole Oviglio, per difendere alcuni tribunali che si volevano sopprimere. Quindi non si dica che gli avvocati romani fanno una questione d'interesse. Questa accusa è troppo meschina, onorevole Bellavista! (Interruzione del deputato Bellavista). Quando nell'albo speciale della cassazione vi saranno cento iscritti, come in Francia, gli iscritti in quell'albo faranno il loro dovere, e non eserciteranno più in nessuna altra sede giudiziaria. Onorevoli colleghi, ho finito; non senza notare che è doloroso constatare come questa importantissima discussione si faccia in un'Aula semi-deserta.

Noi siamo stati per tanti anni gli ammiratori della sapienza giuridica dei tedeschi. Io ricordo quando, studente, i miei professori mi parlavano della filosofia giuridica del Trendelenburg, di Jhering e del suo Der Kampf ums Recht, la lotta per il diritto, quasi che noi non comprendessimo la lotta per il diritto. Ricordo come i miei compagni di università accorressero a Berlino, ad Heidelberg, a Bonn, per ascoltare le lezioni dei professori di diritto, quasi che noi non avessimo la nobile tradizione, che va da Beccaria a Carrara, e non avessimo le gloriose università di Pavia, di Bologna e di Napoli, fari di civiltà e di sapienza attraverso i secoli.

Non si supponeva allora che gli Herr Professor e gli Herr Doktor, sarebbero divenuti le iene e i torturatori di Buchenwald, che i dotti professori avrebbero affermato il Führer Prinzip, cioè che la legge la fa il Führer e che, tranne la volontà del dittatore, non vi è altra fonte legislativa.

Noi italiani amiamo il diritto, amiamo veramente la lotta per il diritto.

Appena riconquistata la libertà, abbiamo nominato primo cittadino della Repubblica un grande avvocato, intesa questa parola nel senso più alto: advocatus, cioè colui che è chiamato a difendere la libertà, la giustizia, il diritto. Per i romani l'avvocato era il vir bonus dicendi peritus; e tale è Enrico De Nicola.

Questa Assemblea è presieduta da un avvocato, il quale dimostra quotidianamente, oltre che vastità di cultura e di sapienza politica, acume e finezza giuridica nel dirigere i nostri dibattiti.

Noi siamo in quest'Aula circa duecento fra avvocati, professori di diritto e magistrati, quasi un terzo dell'Assemblea.

Questo dimostra la passione che il popolo italiano ha sempre avuto per il diritto, la sua sete di giustizia. La nostra classe forense ha mantenuto intatta la dignità della sua nobile missione, fieramente levata contro la dittatura. Quando a Torino l'avvocato Duccio Galimberti e a Roma l'avvocato Placido Mastini venivano trucidati, essi opponevano il diritto alla tirannia, e segnavano la loro fede col sangue.

Onorevoli colleghi, facciamo di questo Titolo quarto della nostra Costituzione cosa veramente degna del popolo italiano; diamogli una Magistratura — qui possiamo adoperare il termine Magistratura — che sia garanzia di giustizia alta: serena ed eguale per tutti.

Ricordiamo il motto della sapienza romana, che oggi chiameremmo uno slogan: justitia est fundamentum rei publicae. (Applausi — Molte congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti