[Il 14 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.]

Presidente Targetti. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l'onorevole Bernabei. Non essendo presente s'intende vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l'onorevole Cassiani. Ne ha facoltà.

Cassiani. Onorevoli colleghi, al punto in cui la discussione è giunta, a me non resta che tracciare le linee rapide di una premessa e formulare molto semplicemente una richiesta: lo spirito animatore delle norme, che in questo progetto vanno sotto il titolo «Magistratura», a me pare possa riassumersi in un desiderio: quello di consacrare la esigenza che era, sì, fuori dello Statuto, ma era innegabilmente da tempo nella coscienza pubblica; la esigenza, cioè, di affermare che non si può parlare soltanto, a proposito della Magistratura, di un pubblico servizio oppure di una attività specifica che sia funzione essenziale dello Stato. Su questa base l'Assemblea mi pare pressoché unanime nel riconoscere la necessità della indipendenza giuridica, che sia detersa da inframettenze parlamentari e da interventi ministeriali. Io non nego il significato e il valore di una discussione metafisica sul potere sovrano, che ci condurrebbe indietro nel tempo e ci farebbe correre il rischio, per il solo amore della tesi, di contribuire a tagliare quello che può dirsi il legame fisiologico che dovrebbe pur esserci tra la Magistratura e la compagine viva e complessa dello Stato moderno. Ci porterebbe all'epoca in cui la vera tendenza liberale spezzò il blocco di formule pressoché incomprensibili, disciplinando quello spirito rivoluzionario che si agitava, malfrenato, nell'Assemblea parlamentare francese e che ebbe ripercussioni — non certo dimenticate — in giornate memorabili della Camera italiana.

Quando si dice, onorevoli colleghi, che i magistrati dipendono dalla legge, si fa evidentemente un'affermazione di estrema indipendenza, che sarebbe apparsa, badiamo bene, un'eresia qualche decennio fa, quando Vittorio Emanuele Orlando, allora Ministro della giustizia, nell'Aula del Parlamento prima e del Senato poi, tra il consenso pressoché unanime delle due Assemblee, affermava che la legge è una astrazione che non consente né dipendenze né rappresentanze; onde il Pubblico Ministero, del quale egli trattava allora, non può essere il rappresentante della legge, ma deve essere il rappresentante del potere esecutivo verso la Magistratura, secondo la teoria tradizionale.

Quando si afferma nel progetto di Costituzione l'inamovibilità, non si fa certo — è evidente — riferimento a quanto si diceva nel 1888 nell'Assemblea francese, che l'inamovibilità non è un dogma, non è un principio costituzionale, tanto meno un contratto tra lo Stato e il giudice, e che è semplicemente una regola di competenza che serve più a tutela del giudicabile che del giudicante.

Siamo lontani, evidentemente, da questa concezione. Ma l'inamovibilità diventa qui un principio costituzionale, ad evidente difesa dell'indipendenza della Magistratura.

Ecco perché non comprendo la protesta vivace dell'amico e collega Caccuri. Forse la sua passione di magistrato lo ha spinto oltre: contro che cosa protesta, di che si lamenta? Insomma, con queste norme, e particolarmente con quella dell'articolo 97, dove è scritto che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, si enuncia un principio che un tempo destava allarme. È un principio che potrebbe farci temere un'operazione pericolosa, l'operazione di tagliare quello che fu chiamato il «cordone ombelicale» che deve legare la Magistratura al corpo statuale. Ci farebbe temere questa operazione pericolosa, ove non fossimo, invece, convinti di concorrere, attraverso queste norme, alla difesa delle pubbliche e delle private libertà del popolo italiano.

Ma, arrivati a questo punto, però, reclamiamo che la Magistratura non diventi una casta chiusa e privilegiata, inibendo il libero gioco delle forze sociali e rompendo quella che può chiamarsi la vita fisiologica delle pubbliche funzioni. S'invoca da taluni una modifica pericolosa — a mio modo di vedere — all'articolo 97, in quella parte dove è detto che il Consiglio Superiore della Magistratura è composto da membri eletti per metà dalla Assemblea Costituente.

Io comprendo lo spirito di certe modifiche, come quella cui ho apposto anche la mia firma, secondo la quale si vorrebbe che i membri eletti non fossero soltanto membri dell'Assemblea Nazionale, ma fossero anche rappresentanti scelti nel campo delle scienze e in quello del foro; ma non posso per nulla comprendere, ad esempio, la proposta di coloro che vorrebbero escludere l'intervento dell'Assemblea. Coloro che propongono ciò, non so come non comprendano che l'articolo 97 rappresenta l'unico legame tra Parlamento e Magistratura.

Si deve infatti all'articolo 97 se non viene meno la funzione del Parlamento nella Magistratura. Perché appunto di questo si tratta; si tratta di far venir meno totalmente la funzione del Parlamento nella Magistratura. Ma se non si potrà più dire, come si diceva un tempo, al magistrato: tu non devi aspettare e temere nulla dall'autorità politica, mentre tutto devi temere dall'ispezione parlamentare, vigile e rigorosa, avremo fatto noi opera soddisfacente?

Forse, in virtù di questa concezione, il Ministro di giustizia avrà funzioni soltanto amministrative. Noi accettiamo il principio, ma riaffermiamo quanto è detto nell'articolo 97, ad evitare — lo diciamo chiaramente — pericolosi autogoverni che sarebbero in contrasto con la vita democratica del Paese.

Né il timore che io esprimo può apparire irriverente verso la Magistratura, che ha bene meritato dal Paese, come hanno giustamente detto due magistrati che io ho avuto il piacere di ascoltare in questa Assemblea: i colleghi Scalfaro e Caccuri. E poi questa tema io la esprimo nel momento stesso in cui chiedo che il principio dell'unicità della giurisdizione abbia valore anche nel senso che si affidi alla competenza del giudice togato l'esame dei reati più gravi, di quelli cioè affidati alla Corte d'assise.

Penso che, a questo proposito, l'articolo 96 del progetto di Costituzione, il quale riguarda l'istituto della giuria, sancisca una norma di dettaglio, una di quelle norme di dettaglio alle quali, come ben diceva l'onorevole Calamandrei, non si può indulgere. Se noi, onorevoli colleghi, vogliamo veramente fare una Costituzione destinata ad accompagnare lo Stato, nel corso, che ci auguriamo non breve, della sua vita, non si comprende veramente l'inserzione in questa Costituzione di una norma che innegabilmente rientra nella competenza del diritto processuale.

C'è dunque, a mio parere, un motivo, per così dire, pregiudiziale, per l'esclusione di una tal norma dalla nostra Costituzione, per la soppressione cioè dell'articolo 96. Ma io penso che vi sia anche un motivo sostanziale, sotto questo riguardo, meritevole della nostra attenzione. Cercherò di illustrarvelo brevemente.

Io ho attentamente seguito i lavori dell'Assemblea a questo proposito ed ho rilevato una strana affermazione dell'onorevole Gullo. Egli ha detto di non aver ascoltato alcun argomento serio a sostegno dell'abolizione della giuria, dell'abolizione cioè dell'articolo 96. Strana cosa, dicevo, perché io che, come ripeto, ho ascoltato con molta attenzione i discorsi dell'Assemblea, ho udito una serie di argomenti innegabilmente seri. Io potrei ritorcere quello che ha detto l'onorevole Gullo, perché potrei dire che egli ha pronunciato un magnifico discorso, ampio, completo, quasi architettonico, ma non ha detto un solo argomento — mi consenta la stessa espressione — serio, a sostegno della giuria; perché è un argomento che somiglia troppo al paravento arabescato, che non nasconde altro che il vuoto, quello usato dall'onorevole Veroni prima e dall'onorevole Gullo dopo, che la democrazia, quando sale, si porta appresso la giuria e quando precipita si porta appresso nel precipizio il giudice popolare.

Io vorrei, invece, anche per soddisfare l'onorevole Gullo, invitare umilmente l'Assemblea a rivolgere innanzitutto il pensiero a due fonti, ugualmente autorevoli, che potranno confortare il nostro giudizio, senza incidere, beninteso, sulla sua autonomia. La prima di queste due fonti è quella delle Assemblee scientifiche. Mi permetto di ricordare l'Assemblea dell'Associazione italiana di diritto penale, dove la maggioranza fu per la Corte criminale, e i precedenti storici della scuola napoletana. Ricordo il congresso del 1923 tenuto in Catania dalla Società italiana per il progresso delle scienze, che si dichiarò apertamente, nettamente contrario al cosiddetto giudice popolare. Ricordo, infine, il Comitato per lo studio delle riforme penali, costituito dall'Istituto italiano di studi legislativi, che ha concluso i suoi lavori pochi mesi fa, dichiarandosi apertamente contrario al giudice popolare e sostenendo l'attribuzione della materia alla competenza del giudice togato.

La seconda fonte sulla quale mi permetto di richiamare l'attenzione dell'Assemblea — e non mi pare una fonte priva di importanza — è il giudizio isolato, ma espressivo di uomini che, nelle aule di Assise, dai giudici popolari hanno avuto verdetti vittoriosi in giornate veramente memorabili della loro vita di avvocati penali. O che torniamo col pensiero ai numi indigeti della Patria nel campo delle scienze, patriarchi del diritto, da Carrara a Pessina, o che volgiamo il pensiero ad espressioni notevoli della scienza moderna, da Garofalo a Ferri, noi troviamo questa avversione decisa, dichiarata anche di uomini che militavano nelle file più avanzate della democrazia. Quando Ferri si dichiarava ostinatamente contro la giuria, direi quasi clamorosamente contro — come era anche nel suo temperamento — egli aveva raggiunto il fastigio non soltanto nel campo della scienza e del foro, ma anche in politica; tant'è che il suo partito gli affidava la massima delle cariche rappresentative: la direzione dell'Avanti! In quel periodo, quando dirigeva l'Avanti!, scrisse appunto: «sarebbe come se io dessi ad aggiustare un orologio al mio calzolaio». E più tardi scriveva: «Quando proposi nel 1879 l'abolizione della giuria, mi si disse che infrangevo i principî democratici; ed io risposi: Che c'entra la democrazia con l'amministrazione della giustizia? Sarebbe come dire che la democrazia deve entrare in una sala di ospedale, dove occorre un medico specializzato».

E Gennaro Marciano chiamava il giudice popolare di Assise: «sistema negatore della giustizia».

E lasciate che accanto ai grandi morti io citi un grande vivo, che siede in quest'aula, Giovanni Porzio. Lo ascolterete di qui a poco. Egli è mancato a questo dibattito, perché impegnato in una grande battaglia di Corte d'assise. Egli vi dirà il suo pensiero, che penso collimi con quello di Marciano: «sistema negatore della giustizia».

Due fonti, delle quali una ha il pregio dell'autorità scientifica e l'altra, evidentemente, ha il pregio innegabile di contenere testimonianze alte e per giunta insospettabili.

Entrambe ci indicano la via da seguire: l'esclusione dell'articolo 96 del progetto di Costituzione.

È certo che si tratta di un problema che per la sua natura non può essere consacrato nella sua soluzione in una Costituzione. Basterebbe osservare che la norma non può che essere affidata al vaglio dell'esperienza. E allora, affidiamola soltanto al Codice comune, per le ragioni ovvie che tanti amici tecnici qui presenti comprendono.

Ma si profila un pericolo grave, onorevoli colleghi, contro il quale penso che gli spiriti liberi non possono non reagire: il pericolo, come accennavo dianzi a proposito del discorso dell'onorevole Gullo, di una malintesa affermazione politica in sede tecnica, arrivando a questo assurdo, a questo paradosso che, diciamo la verità, è nelle mire di alcuni sostenitori della giuria, anche se non espresso: poiché ad abolire la giuria fu il regime fascista, ridiamole noi vita.

A questo punto io vorrei osservare che la giustizia in Italia si amministra col Codice penale che è stato promulgato in periodo fascista, e al quale saranno portati soltanto dei ritocchi.

C'è da aggiungere che quando fu decretata la fine della giuria, i tempi erano innegabilmente maturi per l'abolizione. E si erano maturati quando? Innegabilmente in clima di democrazia. Gli è che l'abolizione della giuria coincise con l'abolizione dello scabinato, forma inconcepibile a mio modo di vedere, forma di giudizio misto copiato dalla Germania.

E per rifarmi ancora ad un discorso autorevole, non fosse altro perché di un ex ministro della giustizia, l'onorevole Gullo, che mi dispiace di non vedere in quest'Aula, rilevo che egli diceva: il magistrato è lontano dal popolo, avulso dalla vita fin dall'alba della sua carriera. Ho scritto le sue parole.

Ma allora, se questo è vero, tutta la materia penale deve essere sottratta al giudice togato. È una materia incandescente, per giudicare la quale occorre talvolta più cuore che cervello. Perché mai affidarla ad un uomo che non sente più le voci che vengono dalla vita, le voci che salgono dalle strade, dalle botteghe, dai campi, dalle officine? Perché a quest'uomo dev'essere data la facoltà di irrogare dodici anni per un delitto di furto, e gli dev'essere tolta per irrogare la pena che deve colpire un omicida?

Gli è che il giudice togato trae la sua origine dal popolo, per lo stesso congegno democratico al quale noi facciamo omaggio, e lasciate che io lo dica, non solo per il diritto che mi proviene dal sedere in quest'Aula, ma anche per aver speso venti anni nell'esercizio dell'avvocatura penale.

Dicono poi alcuni: giustizia regionale. Non comprendo la esigenza per singole regioni di avere un giudice che comprenda i traviamenti, le passioni, le ardenze del popolo ospitato nella regione ove egli giudica. Se l'argomento è valido, esso è esatto e valido non solo per il giudice di Corte d'assise, ma per tutti i giudici: in materia penale, civile, commerciale, perché è innegabile che la vita nel nostro Paese ha delle differenze profonde da regione a regione. La vita giudiziaria della Calabria, della Lucania, della Sicilia, della Sardegna, ha scarsissima identità con la vita giudiziaria della Lombardia. Non c'è nessuno di noi che questo non sappia. Nella Calabria, nella Lucania lontane, delitti di sangue e materia possessoria; in Lombardia, invece, delitti prevalentemente patrimoniali e vita agitata di grosse attività commerciali. Ma con ciò, nessuno mai ha pensato di contrapporre il giudice lucano al giudice lombardo! Ecco perché non comprendo la portata del problema.

Guardiamoci invece intorno: in molti Paesi d'Europa la giuria o si avvia alla soppressione o è stata già soppressa. In Austria, prima dell'annessione alla Germania, nel 1932, si passò dalla giuria allo scabinato; in Francia si è associata la giuria alla Corte d'assise nell'applicazione della pena, annullando così la regola della separazione del fatto dal diritto, che determinava le attribuzioni rispettive della giuria e della Corte. In Inghilterra, il paese classico della giuria, si è ammesso l'appello alla Corte d'appello criminale, formata da giudici togati. E non solo: in Inghilterra è lasciata libertà di scelta, in prima sede, fra il giudice della giuria e il tribunale e, a giudicare dalle voci che a noi giungono dall'Inghilterra — voci anche più qualificate perché ci provengono dal mondo scientifico e dalla stampa scientifica — pare che sia cominciata anche lì la fase di decadenza della giuria e che vi siano segni non dubbi di una estinzione dell'istituto.

Ma non vi pare, onorevoli colleghi, che sia un elemento di incongruenza — perdonate! — il solo fatto di porre il problema nel momento in cui nel campo scientifico, con voce unanime, si chiede la specializzazione del giudice penale nelle scienze ausiliarie del diritto, in medicina legale, in psichiatria, in antropologia criminale?

Allora, qui sta la soluzione del problema.

Io non la indico, perché chiedo semplicemente la soppressione dell'articolo 96. La soluzione sarà quella che sarà. Potrà essere la competenza del tribunale con la costante duplice valutazione di merito attraverso l'appello; potrà essere la competenza della Corte d'assise limitata al delitto politico, come propone il collega Sardiello, proposta alla quale crederei di sottoscrivere se invece non facessi altra proposta; sarà la limitazione della competenza della Corte d'assise alla materia politica e alla materia passionale, cui vuole ricorrere il collega Altavilla. Comprendo poco la proposta, però, e non mi persuade. Comunque, la soluzione sarà l'una o l'altra, ma nel campo della concretezza della giustizia.

Onorevoli colleghi, la Commissione di studio si presenta a noi divisa tra timidi assertori della giuria (per la verità) e tenaci negatori di essa. È un segno di quella che io mi auguro sia la pensosa esitanza dell'Assemblea!

Guardiamo la sostanza al di fuori e al disopra della forma; rendiamoci noi, qui dentro, garanti della giustizia del nostro Paese perché, se è vero che Roma è nata a tutte le missioni della civiltà, è ugualmente vero che è nata a tutte le missioni della saggezza! (Applausi Congratulazioni).

Presidente Targetti. È iscritto a parlare l'onorevole Perrone Capano. Ne ha facoltà.

Perrone Capano. Debbo fare una leale confessione all'Assemblea e a me stesso. Io non ho potuto seguire i lavori dell'Assemblea perché trattenuto da un dibattito in Corte d'assise, ma ho letto con molta cura i resoconti sommari e mi sono accorto che quello che intendevo dire è stato già largamente e molto più autorevolmente detto. Di conseguenza io rinunzio al discorso limitandomi a fare delle brevi dichiarazioni quando verranno in discussione i singoli emendamenti che sono stati presentati. (Applausi).

Presidente Targetti. È iscritto a parlare l'onorevole Porzio. Ne ha facoltà.

Porzio. Onorevoli colleghi, in verità prendo la parola per fatto personale, perché dalla bontà, dalla cortesia di molti colleghi sono stato, dirò così, tratto in causa. Consentirete che io, non potendo in questi prossimi giorni trovarmi nell'Assemblea, dica chiaramente e brevissimamente il mio pensiero.

Perché sono contrario ai giurati? Ecco la domanda che mi è stata da più parti rivolta. Potrei semplicemente rispondere: perché tranne poche autorevoli voci è tutto un coro contro la giuria e non soltanto nell'Assemblea, ma fuori e nella scienza, tra i pubblicisti più noti, tra i giuristi più esperti, tra tutti coloro insomma che hanno realmente esperienza dei giudizi penali. Ma questa risposta forse potrebbe essere interpretata come un ossequio mascherato da parte mia. La realtà è che sono stato sempre avversario della istituzione dei giurati. Mi sgorga dal fondo. Sono istintivamente, organicamente contro ogni arbitrio, contro ogni decisione immotivata, contro quel monosillabo netto, incontrollabile, irrevocabile la cui genesi è oscura e qualche volta torbida.

Come volete che si possa essere favorevoli quando la mancanza di motivazione è ciò che toglie ogni pregio al verdetto? Noi viviamo in un'epoca che il nostro antico filosofo, Giambattista Vico, diceva: i tempi umani.

È vero, Giambattista Vico ha scritto dei corsi e ricorsi: andata e ritorno; ed io non so se noi siamo all'andata o al ritorno. Comunque, è certo che in tempi umani nei quali, come il Vico diceva, la ragione spiega tutta se stessa, non possiamo appagarci di verdetti immotivati, incontrollabili e che talvolta rappresentano una pietra sepolcrale sul destino di uomini e di sventurati.

Ma quel che non comprendo in noi, uomini moderni, è questo strano miscuglio: reverenza e sfiducia, esaltazione ed avversione e diffidenza. O si aboliscono i magistrati, ed allora vedremo alla prova questi nuovi giudici. Ma quando i magistrati vi sono, si mantengono, si affidano ad essi interessi cospicui, processure complesse, ardue questioni, allora è inspiegabile e assurdo che dei processi siano ad essi demandati e siano sottratti ad essi degli altri processi per risolvere questioni che richiedono egualmente acume critico, valutazione serena, e soprattutto un corredo di cognizioni e di dottrina.

Del resto, che cosa facciamo ora noi qui? Non cerchiamo forse di conferire alla Magistratura maggior prestigio, maggiore indipendenza, renderla quasi autonoma, sottrarla ad influenze estranee, intimidatrici? Or come si concilia questo col voler introdurre nell'amministrazione della giustizia un giudice popolare? In realtà, il vero fondo del mio pensiero e della mia avversione è questo: detesto il giudizio di Trasimaco: il bene agli amici ed il male ai nemici, il bene ai ricchi ed il male ai poveri, il bene ai potenti e il male ai derelitti ed agli sventurati. Come vedete, il mio pensiero deriva da elevate considerazioni.

Capisco. Qui siamo in un'Assemblea politica. Si dice: la politica, la democrazia impongono degli istituti. E va bene. Democrazia; tutti democratici ora, democratici a destra, democratici a sinistra, democratici al centro. Anche il campanone di Montecitorio è diventato democratico. Ma che c'entra la democrazia, in un problema tecnico, in un problema di capacità? La democrazia non è comizio, non è folla, non sono grida incomposte. È la supremazia dei migliori cittadini, è la possibilità di tutti ad aspirare ai maggiori uffici, alle cariche più elevate, è la umanità nelle leggi, è il sentire più vasto. Ed allora quale democrazia? La democrazia per un verdetto inconsapevole? Per svincolare la giustizia dal potere esecutivo? Ma siete proprio convinti che il giurì possa in determinate occasioni svincolarsi dalle sinistre influenze che possono venire dall'alto o dal basso? Io ho una lunga e ben diversa esperienza e se volete un esempio vado a cercarlo nella vecchia storia. Victor Hugo fu condannato dai giurati e assolto dai magistrati. Napoleone III lo volle condannato, e vi era il giurì. Potrei invocare anche storie recenti.

Guardate: tutta quanta la nostra letteratura e la nostra vera grande tradizione è contro questo istituto. Fui nella mia gioventù profondamente scosso da una grande pagina, non ricordo più se di un pamphlet o di una arringa (non ho qui le carte), di un grande avvocato e di un grande giurista italiano: Giuseppe Ceneri, l'imperterrito difensore di Andrea Costa, della prima Internazionale, alle Assise di Bologna. Ricordo che Giuseppe Ceneri scriveva disperato perché non riusciva, pur torturandosi, a trovare un piccolo motivo di nullità per potere innanzi alla Corte di Cassazione fare annullare un iniquo verdetto che importava la condanna di un vero innocente. È stato in quest'Aula ricordato Shakespeare, mi permetterà l'amico onorevole Persico, che non è presente, che ricordi Shakespeare anch'io: «Non v'è nulla di più atroce e di più sconvolgente quanto l'ingiustizia della giustizia umana». E queste parole divennero l'epigrafe dei motivi di ricorso redatti dall'eminente uomo. E così Pessina, Carrara, ed il suo maestro Carmignani; così in Francia Lacassagne, Tarde; positivisti come Garofalo, Ferri; così gli avvocati più eminenti da Ceneri a Cavaglià, a Spirito, a Girardi, a Manfredi, a Marciano che è stato qui testé ricordato dalla eloquente parola dell'amico Cassiani. È veramente una delle più grandi angosce quella di discutere innanzi ad uomini, anche colti, ma impreparati. È un'angoscia; non parlo delle cause affidate ai Tribunali e alle Corti d'appello, ma parlo di quelle più gravi, demandate alle Corti di assise. V'è o non v'è la prova? Se la prova vi è, è tutta una ricerca di motivi, di moventi, intrinseci, estrinseci, ardue questioni psicologiche, difficili ricerche di psichiatria. Non v'è la prova. Ed allora occorre un acume critico, un senso indagatore, una ricostruzione logica nella quale ricorrono tutti gli elementi necessari per un'indagine compiuta e profonda. È stato ben detto che la critica storica sorse dalla critica forense, cioè i metodi di indagine seguiti per la ricostruzione dei fatti individuali furono seguiti per i fatti collettivi e sociali. Or non è possibile che la scienza riconosca la sufficienza della semplice intuizione e quindi non si offende la libertà quando è la scienza, è l'arte critica le quali giudicano argomenti lontani dalla immediata percezione e che rientrano esclusivamente nel loro assoluto dominio e la scienza non può riconoscere l'istinto e l'opinione comune, che molte volte è l'opinione volgare, come criterio di verità quando è così facile irridere e deridere quelli che sono i più complessi risultati dell'indagine scientifica.

Voi mi volete dire che questo capita talvolta anche coi magistrati. Non nego, ed è perciò che si richiede una Magistratura più elevata, più colta, più indipendente, meglio retribuita. E poi, sentite: non ho il piacere di essere conosciuto da molti di voi, ma io non sono mai stato né un adulatore, né un reticente nell'esprimere liberamente le mie opinioni.

Ma lasciatemi dire, che dopo il giudizio del primo magistrato v'è l'appello, v'è la motivazione della sentenza, v'è il ricorso in Cassazione. Come vedete vi sono dei rimedi che viceversa il cieco ed inappellabile monosillabo non consente.

I più grandi sostenitori — e negli atti parlamentari potrete facilmente trovarne i discorsi — furono parlamentari insigni e memorabili i loro discorsi. Stanislao Mancini ebbe parole di alta eloquenza, come Giuseppe Pisanelli, a proposito dei giurati. Anzi, Pisanelli, insigne giurista che in Piemonte stette esule, fu proprio dal Conte di Cavour incaricato di studiare la riforma giudiziaria e scrisse un libro pregevole sui giurati; volume che gelosamente serbavo ma che è andato sventuratamente travolto tra le macerie della guerra. Non importa; però ricordo che Pisanelli fu come fermato dallo sgomento innanzi a un tormentoso quesito, cioè al verdetto immotivato. Egli non concepiva sentenze senza motivazione, ed aveva perfettamente ragione. Son proprio sue parole (che più o meno ricordo): la motivazione è il freno del giudice, è la garanzia dell'imputato, è quella che affida alla storia il modo di documentare la civiltà di un paese. E l'illustre uomo non seppe suggerire un provvedimento qualsiasi per salvaguardare la dignità del verdetto, il diritto delle parti e quello della società la quale reclama di conoscere le ragioni per le quali un uomo è assolto o condannato.

Ma io vorrei dire ai sostenitori della istituzione dei giurati i quali credono che il giurì rappresenti la quintessenza della democrazia, questo: quando si procede alla scelta di coloro che debbono essere giurati, mi pare che la democrazia se ne va. Non mi parlate della libera Inghilterra. Tutti sappiamo che fin da 900 anni v'è il giurì in Inghilterra. Ivi nacque l'istituto. Però il giurì nacque nella contea, e si sceglievano i cittadini esperti in materia legale, che avessero speciali cognizioni giuridiche: proprio quella scelta, quelle categorie che tolgono il carattere di specifica democrazia alla istituzione. Per trovare veramente il giudizio popolare, bisogna risalire al mondo greco-romano, al Demos, legislatore e giudice, al Foro romano. Sicché, dall'Inghilterra, dallo statuto di Clarendon, alla Francia; e poi a Mancini, a Pisanelli, a Pessina, non avete che la scelta, la categoria. Il principio democratico quindi è più che scosso e annullato.

Cosa sostituire?

Io penso che allo stato delle cose dovremmo per necessità sospendere l'articolo e rinviare la discussione in sede legislativa. Quella è la sede opportuna. Occorre armonizzare il giurì e gli altri istituti giuridici. Bisogna coordinare il giudizio di Corte d'assise con quella che un tempo si chiamò sezione d'accusa e che oggi si chiama sezione istruttoria; provvedere alla facoltà dell'appello, del ricorso in cassazione: insomma presentare un insieme organico che conferisca valore, efficacia, prestigio all'amministrazione della giustizia.

Io, onorevoli colleghi, sono fautore delle Cassazioni regionali. L'amico onorevole Persico gridò contro questa aspirazione che è pure di molti qui dentro. Io ho ricordi magnifici della gloriosa Corte di cassazione di Napoli fondata proprio dagli eminenti conterranei di Pietro Mancini e di Fausto Gullo: Giuseppe Raffaelli, Giuseppe Poerio, e poi Marini Serra, e poi Cianciulli, e poi Nicola Nicolini e quel Giuseppe Riccardi, Ministro nel 1820, che quasi precorse la riforma giudiziaria con i giurati e creò le categorie di coloro i quali avrebbero dovuto compiere l'altissimo ufficio. Sento dire che non bisogna toccare la Cassazione in nome della uniformità della giurisprudenza. Sono contro anche in questo; sono più avanzato e liberale di voi.

Il fondamento logico e giuridico della Cassazione è ben altro, è nel diritto della società di conoscere se il giudice ha applicato o no la legge, se l'ha violata, se ha redatta una sentenza che possa chiamarsi tale, che cioè abbia fatto buon governo vero e proprio, non si sia riparato dietro affermazioni dogmatiche, se infine non abbia commessi errori e la logica non sia stata infranta da insufficienze e contraddizioni. Tale è il fondamento della Corte di cassazione, non l'uniformità, altrimenti, o signori, i cassazionisti non sarebbero più degli uomini pensanti, ma dei repertori ambulanti. (Si ride).

Come vedete, onorevoli colleghi, non mi spinge nessuna gretta ragione, ma il proposito di assicurare al nostro Paese una giustizia illuminata, consapevole e degna. Io mi ribello allo strano privilegio che è quello di vedere attribuito un potere a coloro che non hanno tutte le capacità per esercitarlo. È il peggiore dei privilegi, il più odioso. Ho un elevato concetto della giustizia; essa è l'unica, la sola difesa contro l'atroce esperienza della vita: il dolore, è la fonte da cui derivano rivendicazioni e conquiste umane. E siccome io ho sentito in quest'Aula citare tanti salmi dell'antica Roma, consentite che io concluda ripetendo con Plinio: «Tanto durerà la Repubblica, quanto dura il costume di rendere imparzialmente un'illuminata giustizia». (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Presidente Targetti. È iscritto a parlare l'onorevole Mancini. Ne ha facoltà.

Mancini. Illustre Presidente, onorevoli colleghi, il campo è mietuto, largamente e profondamente, e, se mi permettete, vorrei pur dire ingenerosamente. Tutti quelli che hanno parlato prima di me, hanno scritto una pagina degna di questa Assemblea Costituente. Mi lusingo di non ripetere. Se la ripetizione fu una figura retorica tanto cara a Napoleone il Grande, il quale la legava alla catena fulgente delle sue vittorie, non può dirsi lo stesso per chi parla e per chi è costretto ad ascoltare. Vi prometto di non tediarvi, perché io non polemizzerò con nessuno, ma dirò la mia opinione sinceramente e semplicemente, senza meditate orditure verbali e virtuosismi culturali, facendo tesoro dei risultati della mia esperienza professionale, né breve, né povera. Non «tesserò» contro nessuno, disilludendo il mio illustre amico Porzio. Non farò istanze peregrine. Non incomoderò le grandi ombre dei trapassati. Lascerò in pace la Costituzione inglese; dirò soltanto quello che penso senza subordinarlo a prevenzioni, a preconcetti, a dogmatismi, ma legandolo, da buon marxista, alla realtà storica nella quale viviamo e nella quale si svolge la funzione giudiziaria.

Parlerò dell'indipendenza della Magistratura, del divieto di iscrizione a partiti politici, della donna-magistrato, della giuria e delle Cassazioni regionali. Mi si consenta che, prima di trattare brevemente di siffatti temi, io faccia una premessa, che è il presupposto delle mie conclusioni. «Ordine» questa Magistratura, o «potere giudiziario»? Ascoltando molti oratori ho avvertito una certa confusione tra ordine e potere giudiziario. Quasi tutti han parlato di potere giudiziario.

Questo Titolo IV, «La Magistratura», parla soltanto di ordine giudiziario e non di potere giudiziario. Nella limpida e interessante Relazione si legge: «La Magistratura non è soltanto un «ordine», è sostanzialmente un «potere» dello Stato; anche se non si adopera questo termine lo si fa per evitare gli inconvenienti e gli equivoci cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente».

In questo clima democratico, nel quale il potere è soltanto emanazione della sovranità popolare, non si può, né si deve parlare di potere giudiziario, se la Magistratura pretende nominarsi, promuoversi, auto-governarsi.

Io non so come definire il potere giudiziario: è un aspetto della sovranità? È espressione della sovranità? È un attributo della sovranità? Appartiene alla sovranità?

Si definisca come si vuole, non si potrà sganciare dall'«unico sovrano», che è il popolo, se è vero che la «sovranità» è passata dal monarcato e dalla dispotia — che la esercitavano a mezzadria — nelle salde e generose mani del popolo e per esso nelle Camere elettive.

La sovranità è la somma armonica dei poteri, in piena democrazia. Onde non può appellarsi potere un ordinamento che ha origine e natura diverse dai poteri fondamentali della Repubblica.

Se invero tale potere giudiziario si «nomina» da sé e diventa autonomo, in qual modo si lega agli organi, che sono emanazione popolare? Comunque, il potere legislativo e quello esecutivo sono in continua evoluzione e non nello stato di perenne fissità, oserei dire dogmatica e confessionale, come il potere giudiziario.

Gli uni esprimono la coscienza e la volontà popolare e sono rovesciati nel contrasto.

L'altro — espressione, per modo di dire, della Repubblica e dipendente dalla legge — interpreta la medesima e l'applica a suo modo, e spesso in contrasto con la coscienza del popolo, come avviene per i processi contro i criminali fascisti, da Basile a De Vecchi, senza che il popolo possa far nulla, almeno per censurarlo.

In questo Titolo il popolo non è mai menzionato, salvo allorché si tratta delle pronunce delle sentenze e dell'articolo 96, concernente la giuria. Il popolo partecipa direttamente all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria nei processi di Corte di assise.

Ecco, signori, il fondamento della giuria. Ecco come la giuria diventa la espressione della coscienza e del sentimento popolare. Il popolo esercita direttamente il suo potere giudiziario, o meglio la sua funzione giurisdizionale nell'apprezzamento limitato ad alcuni fatti delittuosi, alla stregua della sua coscienza e dei suoi sentimenti.

Badate, onorevoli colleghi, che la dittatura non è rappresentata soltanto dagli uomini o dai partiti; la dittatura potrebbe essere rappresentata anche dai poteri, e specialmente dal potere giudiziario. Ne abbiamo fatto ingrata e dolorosa esperienza qualche anno fa: mentre il popolo affermava, attraverso le urne ed il suo suffragio, il mutamento istituzionale dello Stato italiano, che passava dal monarcato alla repubblica, la repubblica si spegneva nella magra requisitoria di un procuratore generale e nella negazione di alcuni magistrati di Cassazione, ostili all'empito della libertà e dei tempi nuovi.

Ebbene, o signori, chi ha osato dire una parola, chi è mai intervenuto per ostacolare, deviare, impedire l'espressione di queste coscienze che tentavano di eliminare, in nome della legge da loro interpretata il verdetto di un popolo, che è il verdetto della storia?

Io ho voluto ricordare l'episodio soltanto per mettervi in prevenzione a proposito di tutte quelle pretese, che ci han fatto pervenire i magistrati e della iperbole laudativa di molti colleghi, che scambiarono la tribuna parlamentare, ove conviene che ogni viltà sia morta, con la sbarra giudiziaria.

Autogoverno, autonomia, indipendenza della Magistratura.

Problema di facile risoluzione se non perdiamo di vista la realtà.

L'autogoverno è stata una proposta poco felice dell'illustre mio amico professor Calamandrei; l'autonomia è stata sorpresa sulle labbra autorevoli del Presidente della Cassazione nel discorso di immissione all'alta carica; l'indipendenza è preferita dalla Commissione. Ho notato però che queste tre parole sono state indifferentemente usate come se fossero sinonimi, espressioni reciprocabili, mentre notevole differenza passa fra l'autogoverno, l'autonomia e l'indipendenza.

L'autogoverno riguarda l'assunzione, la promozione, la disciplina e l'amministrazione delle spese occorrenti per la funzione della giustizia: autogoverno finanziario. Autonomia significa indipendenza integrale. Indipendenza vuol dire autonomia limitata. Il professor Calamandrei — autore dell'autogoverno — ha sempre avuto un debole per la Magistratura: lo ha avuto tanto che concesse al giudice istruttore civile tutti quei poteri che giunsero perfino a mortificare la libertà e la dignità del difensore. In ogni modo, pure essendo, questa spoliazione della sovranità, contrastata e decisamente respinta dalla Sottocommissione e da quella plenaria, ha prodotto dolorosamente i suoi effetti; perché, in pratica, si è giunti a concedere un vero e proprio autogoverno, del quale potrebbero dichiararsi soddisfatti quei magistrati, i quali ieri subirono, senza alcuna protesta, sovente con compiacimento, la dispotìa fascista; mentre pretendono di creare un potere a sé, libero ed indipendente da ogni legame con gli altri poteri e pronto ad interferire, con la interpretazione della legge, sulla attività della vita del Paese.

Io non voglio, onorevoli colleghi, recar dispiacere a nessuno; ma ho l'abitudine di dire sempre la verità, specialmente da questa tribuna, dove ci ha mandato il popolo, che tradiremmo se ne limitassimo la sovranità. Noi avvocati abbiamo una poco lodevole prassi: quella di scambiare le norme della tribuna parlamentare con quelle delle aule giudiziarie. Dalla sbarra giudiziaria, difatti, prolifichiamo lodi ed agitiamo turiboli verso coloro, che sovente ci ascoltano in vacanza o ci invitano scortesemente alla brevità.

Qui, ahimè! si continua nel gioco propiziatore.

Io affermo invece che la Magistratura non ha fatto nulla nel passato o nel presente per avere diritto all'autogoverno e all'autonomia integrale. (Applausi a sinistra). Non voglio ricordare i molti episodi che si riferiscono al passato regime; rammento soltanto l'episodio D'Amelio, che cedette il suo alto stallo di magistrato senza macchia a Mussolini, che si era degnato intervenire alla inaugurazione dell'anno giuridico.

Il dispotismo e l'arbitrio, che scacciavano il diritto e profanavano il più alto tempio della legge. Soltanto una coscienza non fu prona, perché quella coscienza respinse, dalla sua toga, senza macchia e senza paura, la casacca della menzogna: era il requirente, in periodo istruttorio, del processo Matteotti: Umberto Tancredi della mia terra, che non piegò mai a minacce o a lusinghe, e che la Magistratura di oggi non ha mai pensato a ricordare a suo onore ed a suo orgoglio, e che han ricordato, nella celebrazione del processo Matteotti, la famiglia del martire, per inchinarsi reverente alla sua memoria, e l'assassino di Giacomo Matteotti, che sentiva ancora nelle carni gli aculei della sua istruttoria coraggiosa.

Quanti fiumi di eloquenza sulla indipendenza della Magistratura! Un tema prediletto e spesso estraniato dal momento storico, ed in preda alla retorica più abusata.

Si poteva parlare dell'indipendenza della Magistratura, onorevoli colleghi, nei tempi infausti del fascismo, non in clima democratico, in cui il potere legislativo e il potere esecutivo non possono esercitare la loro invadenza o tirannia. Non si può parlare oggi di indipendenza, perché l'indipendenza ogni cittadino l'ha raggiunta e la difende nell'ambito geloso della sua coscienza e nell'esercizio della sua attività. La conquista della libertà porta con sé l'indipendenza del proprio giudizio. La Magistratura nella sua funzione è sovrana nella legge. Tutta la Costituente celebra la libertà e la dignità della persona umana; gli elementi preziosi della più ampia indipendenza morale. Comunque, in periodo di democrazia, come potrebbe esercitarsi una qualsiasi influenza da parte del potere esecutivo e del potere legislativo senza venir sorpresa e denunziata alla pubblica censura? Io non esagero se vi dico che pur nei tempi anteriori al fascismo nessun potere ha mai sindacato le decisioni della Magistratura, la quale ha interpretato e applicato il diritto secondo il suo pensiero e la sua coscienza.

Una sola indipendenza avrebbe dovuto essere reclamata e garantita: non quella all'esterno, ma l'indipendenza all'interno della Magistratura. Quando si è creato questo Consiglio Superiore, le cui origini sono elettive, quando non avete espresso un sistema, per cui il singolo magistrato si senta veramente dipendente solo dalla legge, in modo di evitare la gerarchia, in quanto tutti esplicano la stessa funzione e dipendono nello stesso modo dalla legge, che viene interpretata ed applicata secondo i dettami della propria intelligenza e coscienza, come si può seriamente affermare la completa indipendenza del giudice? Se il Consiglio Superiore della Magistratura rassicura la indipendenza esterna, l'ineguaglianza di grado turba, quando non lo elimina, il potere di autogovernarsi effettivamente. Inoltre, quando abbiamo fatto penetrare nell'interno della Magistratura il soffio pericoloso dell'elettorato, che naturalmente determina passioni, desideri, risentimenti, favoritismi, ditemi come può essere garantita nell'interno della Magistratura quella indipendenza assoluta che si pretende all'esterno?

Il principio della eguaglianza di tutti i giudici e del valore della carriera come esplicazione di funzioni diverse, e non come gerarchia nel senso tradizionale della parola; l'elezione del Consiglio Superiore in base ad elezione di magistrati di qualsiasi grado, avrebbero potuto raggiungere quella indipendenza così necessaria all'interno del corpo giudiziario.

Una vera e grande indipendenza, onorevoli colleghi, avrebbe dovuto pretendere la Magistratura italiana, che si sperde nei desideri di autonomie antidemocratiche: l'indipendenza economica; perché il fattore economico influenza sempre l'indipendenza morale del cittadino. L'indipendenza economica sarebbe stata la sola legittima istanza, che avrebbe trovata consenziente tutta l'Assemblea Costituente.

La Magistratura italiana naturalmente non avrebbe potuto pretendere gli emolumenti della Magistratura inglese, così inopportunamente rammentati qui dentro. Ma avrebbe dovuto e potuto sperare uno stipendio adeguato al costo della vita. Perché la Magistratura italiana — e questa è la maggiore e sentita lode che voglio tributarle — ha avuto sempre l'affanno della povertà, e l'orgoglio della onestà.

Ciò detto, dichiaro subito che noi socialisti non siamo favorevoli ad una Magistratura elettiva. Non siamo favorevoli per un doppio ordine di ragioni. Innanzitutto perché la Magistratura elettiva, come nella Svizzera, non ha dato risultati migliori del sistema assuntivo. Anche perché colui che fu eletto la prima volta è stato costantemente confermato al posto dagli ulteriori suffragi. E ancora perché l'eleggibilità rappresenta un controsenso col nostro sistema della legalità, cioè del diritto codificato; mentre il sistema della eleggibilità aderisce perfettamente al sistema del diritto libero. In Russia, nei primi tempi della rivoluzione, vigeva il sistema del diritto libero: il collegio giudicante improvvisava la sua formulazione giudiziaria in base alla politica, che si trasformava in diritto. Oggi però vige colà lo stesso sistema di legalità che esiste negli altri Paesi, cioè la elaborazione del diritto a mezzo degli organi legislativi, e quindi la sostituzione del sistema della eleggibilità con altro sistema.

L'elezione sarebbe preferibile soltanto per il conciliatore, nei limiti di un elettorato passivo ed attivo molto ristretto, onde sottrarre la sua nomina agli arbitrî informativi del solito maresciallo dei carabinieri, così influente presso i magistrati.

Dopo ciò, dovrei parlare dell'inamovibilità della Magistratura, sulla quale avrei qualche riserva da fare. Mi limito soltanto a concludere questa parte del mio discorso affermando che l'Italia, a differenza della Francia, ha concesso l'inamovibilità financo al pubblico ministero, che per me resta sempre parte. La vera indipendenza della Magistratura dipende dalla stessa Magistratura, cioè dalle qualità morali dei suoi componenti.

Comunque, i pionieri della autonomia integrale e dell'autogoverno commettono la più flagrante incoerenza, quando sanciscono il divieto ai magistrati di essere iscritti ad un partito politico o ad associazioni segrete. Si mettano un po' d'accordo con se stessi. Atteggiamento avveniristico da una parte, atteggiamento sorpassato dall'altra. Progresso e regresso. Ma quando noi abbiamo sancito in questa nostra Costituente: «che ogni cittadino ha il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni», come inibiamo al cittadino-magistrato di iscriversi ad un partito politico?

La libertà a scartamento ridotto non la comprendiamo, noi socialisti.

Ma si vuole davvero il magistrato astratto dalla vita sociale, dai suoi interessi, dai suoi sentimenti. Si vuole trasformare l'ordine giudiziario in un ordine monastico, fatto di rinunzie e di castità politica?

Ma non vi accorgete che codificate l'ipocrisia e il gesuitismo; mentre la democrazia è sinonimo di lealtà e di sincerità personale e pubblica?

Un divieto senza alcuna sanzione, sia magari di ordine morale, non si comprende. Del resto il divieto è facile a superarsi, creando vincoli segreti assai preoccupanti, perché avvolti nel mistero, come quelli massonici; poiché coloro contro i quali si esercita il divieto possono segretamente iscriversi nei partiti che rappresentano l'espressione della loro fede politica.

Io che milito, fin dagli anni liceali, in un partito, mi rifiuto soltanto di pensare che la disciplina di partito possa far deviare il giudizio del giudicante-correligionario. La coscienza supera i legami di partito. Comunque i partiti, per coloro che militano in essi per fede e per sentimento e non per speculazione politica, sono scuola di educazione e di democrazia, e difesa e garanzia di indipendenza personale. Dirò di più: i più severi giudici dei propri compagni sono gli stessi compagni. Legge psicologica ed etica che non soffre eccezioni.

Non vi accorgete che siffatto divieto offende le origini e la vita di questa Assemblea? L'Assemblea Costituente è divisa in partiti; la legge elettorale ha un fondamento e una base nei partiti; qui sono venuti alcuni valorosi magistrati, mercé la loro iscrizione in una lista di partito; qui l'Assemblea sancisce, a danno loro, il divieto di iscrizione ad un partito! In altri termini li scaccia, li dichiara intrusi.

Per il nostro passato, per la nostra dignità di uomini di partito, per omaggio a questa tanto conclamata democrazia, cancelliamo tale divieto, che rappresenta una immeritata offesa alla Magistratura ed una gratuita ingiustizia alla personalità umana.

Una voce. È una ipocrisia!

Mancini. L'ho detto dianzi e non aggiungo altra parola sull'argomento.

Passiamo ora alla donna-magistrato.

La Magistratura vuole chiudersi in una casta senza sesso, in una torre di avorio — come diceva il mio carissimo amico onorevole Turco — quando sbarra la via e chiude la porta della sua casa alla donna. Disdegna che un gentile sorriso venga a rompere l'austerità e la grinta (per non dire la mutria!) di tanti magistrati. Io non voglio rendere omaggio a nessuno, perché, parlando della donna, rendo soltanto omaggio a me stesso; poiché l'uomo si umanizza vicino alla donna. Io ho sempre pensato e penso che l'intervento della donna in tutte le umane attività, dalle più alte alle più modeste, dalle più pietose alle più umili, è stato sempre provvido e benefico. La storia e la cronaca ci insegnano con le loro vicende di bene e di male, che la donna, anche quando non era stata innalzata dal cristianesimo a turris eburnea, a vas electionis, ed era soltanto strumento di piacere, ella, con la sua bellezza e col suo genio somatico, ha influito a determinare avvenimenti e vicende di grande importanza. Dal naso di Cleopatra fino all'imperatrice senza impero, la duchessa di Castiglione, vi è una dorata catena di vezzi, che insidiano il movimento storico! Ma noi, che abbiamo concesso senza riserve alla donna parità di diritti in tutti i settori della vita sociale e ci sentiamo onorati della presenza di tante graziose colleghe, la nostra legislazione, che prima fra tutte, ha consentito l'ascesa della donna nelle cattedre delle scuole superiori ed universitarie, onde la cattedra di chimica a Napoli è tenuta da una donna che è l'orgoglio della scienza chimica, che è nostro orgoglio, perché è la figlia di Bakunin, mentre nell'Università di Firenze una avvenente giovinetta trentaduenne ascende per concorso nella cattedra di fisica, dovremmo nella nostra legge fondamentale sancire un divieto per la Magistratura! Ma, signori, non dimentichiamo che l'Italia ha dato al mondo una legislatrice, Eleonora D'Arborea, che dettò di suo pugno norme e regole così giudiziose, che pur oggi non ci lasciano indifferenti e dimostrano che la donna, anche nella speculazione giuridica, ha lasciato la sua orma.

Il mio amico Dante Veroni cercava di ammorbidire e rendere indulgente l'intervento della donna nella Magistratura, affermando che la donna, come è fallita nella professione forense, fallirà nella carriera giudiziaria. E ricordava in proposito con ingenerosità non degna di lui il caso di Teresa Labriola. Io, che fui preferito discepolo del padre, che fra breve rammenterò parlando della giuria, debbo dire che Teresa Labriola tenne con grande onore la cattedra di filosofia del diritto nell'Università di Roma e, come tutti i cattedratici, non eccelse nella avvocatura, perché la dogmatica sovente è in conflitto con la pratica giudiziaria.

Ma questo non è argomento, perché tanti giovani laureati in legge sono falliti nella professione e sono poi, attraverso la disciplina dei concorsi, saliti ai più alti gradi della Magistratura giudiziaria e amministrativa.

Del resto la donna, con il suo naturale intuito, porta nella difficile arte di giudicare un prezioso elemento: quell'istinto infallibile del sentimento di equità, che è la forma sentimentale della giustizia, mentre la giustizia è la forma razionale dell'equità. Ma che volete? Volete una giustizia che rappresenti soltanto qualche cosa di ieratico, di estraneo al popolo, del quale la donna è parte integrante e indispensabile? Ebbene, se si vuole una giustizia fatta di umanità, di storicità, che rifletta la coscienza popolare, che abbia, insieme col tecnicismo giuridico, anche il pregio del tecnicismo etico-affettivo, si dia il benvenuto alla donna. Quanto è più generoso e gentile il cuore del magistrato, che pur batte e pulsa sotto la sua fredda toga, tanto più la giustizia diventa degna di monito e di coazione psicologica. Ebbene, quale cuore più generoso e più gentile del cuore di una donna, che valuta i fatti umani e vivifica col sentimento la dura norma della legge? ché la giustizia non è più faida o vendetta sociale.

E passiamo alla giuria.

La giuria è il tema scottante preferito dagli accaniti ed implacabili nemici di essa. In alcuni di questi valorosi avversari sembra che ci sia un fatto personale, tale la violenza dell'attacco.

Il mio eloquente amico Giovanni Porzio, signore incontrastato della Corte d'assise, ne ha dato inconfutabile prova qualche ora fa, unendo la sua maestria alla parola tornita di Gennaro Cassiani.

Io dichiaro subito, senza riserve, anche a nome del Gruppo parlamentare socialista, che sono favorevole alla giuria. Le sono sempre rimasto fedele, anche quando contro di essa imperversava la raffica impetuosa del fascismo.

L'Italia è il paese dei convertiti. Non per nulla il capolavoro della letteratura italiana (parlo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni) esalta le conversioni. Quanta gente si è convertita, solo perché dall'alto arrivava la parola d'ordine di morte alla giuria! Io mi sono divertito nel mio isolamento ventennale a raccogliere tutti gli articoli di coloro che sui giornali quotidiani e nelle riviste giuridiche o di eloquenza mutavano la loro esaltazione di ieri nella irreducibile repulsione dell'oggi. Qualche cattedratico non sfuggirebbe alla vergogna della facile e cortigiana conversione. In ogni modo la istituzione della giuria io non voglio esaminarla — come han fatto i due valorosi, che mi han preceduto, schierandosi sulla sponda avversa — delegando il mio pensiero alle delibere e agli ordini del giorno dei congressi o al parere — pur rispettabile — di tanti scrittori.

I ricordi del passato hanno la loro importanza, ma il pensiero, che si evolve e si adegua alla realtà storica sociale e politica, ha un'istanza privilegiata e suggestiva.

Rompo la consegna e ricorro alle citazioni pure io. Eccone poche, ma buone, e non tocche. Un uomo politico, il più grande uomo politico che abbia avuto l'Italia, Camillo Benso di Cavour, volle che la giuria fosse istituita nel Piemonte. E fu lui, Camillo Benso di Cavour, a volere la giuria in contrasto con quel suo Ministro, ricordato dall'onorevole Porzio.

Volete altro esempio, grande nella filosofia come l'altro era nella politica? Antonio Labriola, il quale nel 1904-905, all'Università di Roma, nel suo corso di filosofia morale, affermò che il fondamento del diritto di punire è nella coscienza del popolo, perché soltanto il popolo ha il diritto di giudicare.

E ne volete un altro: il più grande ancora nella scienza del giure? Francesco Carrara. Io mi sorprendo assai che un giovane magistrato abbia ricordato Francesco Carrara come un oppositore della giuria. Aprite, o signori (ma voi li avete aperti e li conoscete), gli opuscoli e leggerete la prolusione all'Università di Pisa nel 1876. In essa Francesco Carrara, davvero il patriarca del diritto e della psicologia giudiziaria, esalta la giuria.

Io vi rammenterò soltanto la fine di quella prolusione. Egli scrive: «per le vie di Parigi si avanzava un individuo con un cadavere sulle spalle che doveva lanciare nella Senna. Egli gridava passo per passo: passa la giustizia del re. Aristarchi, con la giuria, gridiamo: passa la giustizia del popolo. Inchinatevi!» Le parole di Francesco Carrara rivivono pur oggi nel pensiero e nella coscienza di coloro che parlano il nostro linguaggio senza prevenzioni, senza preconcetti di natura politica, e senza sofisticherie curialesche.

Intanto ho un'altra citazione da fare. Mittermayer, nella Teoria delle prove, scrive dieci pagine mirabili che, se io avessi l'abitudine di leggere, avrei dovuto leggere per farle assaporare a tutti i palati compromessi dall'odio contro la giuria.

Esaurita la mobilitazione delle grandi ombre, torno a me stesso. Ebbene, vi dico, onorevoli colleghi, — irridendo alla demagogia avversaria ed a tutte le volgarità, di cui ogni avvocato ha creduto di farsi una specialità — io sono per la giuria per le seguenti ragioni: per ragioni tradizionali; per ragioni politiche; per ragioni tecniche; per ragioni empiriche.

Per ragioni tradizionali. In una Assemblea così colta come l'Assemblea Costituente italiana, dinanzi alla quale ho l'onore di parlare in questo momento, ho sentito ancora ripetere un luogo comune, cioè che la giuria è un'importazione inglese. No, signori! Importiamo dall'Inghilterra le stoffe e le derrate; ma non istituzioni giuridiche. L'Italia ha sempre esportato simili prodotti. Nell'Inghilterra libera, nel secolo tredicesimo, si insorse contro i «giudizi di Dio». La giuria fu l'antitesi. La giustizia del popolo fu mutuata dalla rivoluzione francese, Costituzione 1790-91, e venne propagandata in tutte le repubbliche da essa fondate.

In Italia, aprite la Storia del Diritto Italiano di Francesco Schupfer e troverete: che esistevano fin dal dodicesimo secolo i giudici popolari, che si appellavano giudici dell'uso, laici, giurati, probiviri, consules, e così via. Bononia docet. A Bologna difatti troviamo uno Statuto del secolo dodicesimo — anno 1250 — in cui venne rafforzato l'istituto del giudice popolare. E si rafforzò per il prevalere del diritto romano sul diritto barbarico. Roma — ha ben detto, onorevole Porzio — ebbe un'inesauribile fonte del suo diritto: la coscienza del popolo, con il suo organo: il pretore, con il suo cui bono che Caio quaerere solebat. È vero — onorevole Porzio — Roma e Sparta ebbero in certi momenti della loro grande vita sociale l'esaltazione dell'elemento popolare. Il quale, in ogni tempo ed in ogni latitudine, con l'infallibilità dell'istinto, ha superato la fallacia della razionalità. Voce di popolo, voce di Dio. Nella cronaca e nella storia, onorevoli colleghi, ho ben altra citazione da rammentarvi. Le parole del Presidente della Repubblica Cisalpina, che salutano la giuria:

«La istituzione dei giurati è quanto di più ingegnoso abbia prodotto l'amore fraterno; in esso campeggia tutta la sua anima, affannosa di trovare innocente l'imputato e di somministrargli tutti i mezzi per potersi giustificare».

Mai fu trovato mezzo tanto ingegnoso per dimostrare l'amore fraterno, perché la giustizia è un ordo amoris, non è ordo odii; perché la giustizia non è soltanto dura lex, ma indulgenza nel castigo, se si vuole che la pena sia davvero un atto il profilassi sociale.

E mi sorprende come da quella parte dell'Assemblea, dove la democrazia è qualificata dall'aggettivo «cristiana», vi sia stata una parola garbata, come quella dell'onorevole Cassiani, che abbia dimenticato che Cristo lanciò dalle rive del Giordano una parola alle folle assetate di giustizia:

«Non giudicate, ma, se giudicate, giudicate secondo il cuore vostro, che è il cuore del popolo».

La voce di Cristo l'ha ascoltata soltanto un uomo come La Pira, anima armoniosa di bene; onde il suo voto si è unito ai nostri a favore della istituzione della giuria popolare. Ecco la tradizione italica.

La ragione politica. Non ripeterò ciò che hanno detto gli oratori che mi hanno preceduto, cioè che la giuria è legata alla libertà ed alla democrazia. L'onorevole Veroni e l'onorevole Gullo Fausto hanno eloquentemente svolto questo concetto. Io mi limiterò a ricordare a tutti le parole che il Ministro Rocco scrisse, nella relazione alla sua legge, cioè quella ibrida istituzione dello scabinato, che sostituì la giuria:

«La rivoluzione fascista, che ha rivelato i danni ed i pericoli del democraticismo anche nel campo del costume e degli istituti giudiziari, doveva necessariamente procedere ad una sostanziale riforma dell'istituto della giuria».

Signori, io sono col democraticismo e non col fascismo. Se non altro per questo si dovrebbero calmare gli ardori più o meno antidemocratici contro la giuria. Il fascismo fu meno accanito di Porzio. Il fascismo consentì almeno che l'elemento laico partecipasse al giudizio delle Corte di assise.

Ho ascoltato in questo «sacro furore» antipopolare degli argomenti assai strani: «Io sono contrario al «sì» e al «no», perché il «sì» e il «no» partono da una coscienza, la cui genesi è torbida».

Ma, signori. E noi siamo democratici? Se la democrazia è quella che ha definito l'onorevole Porzio, egli può dirsi democratico. La democrazia nostra è ben diversa, è forma e sostanza di classe dirigente. Ammettendo la giuria, noi celebriamo e rendiamo omaggio alla coscienza del popolo. È il popolo sovrano che interviene nel giudizio, è il popolo che pronunzia il suo verdetto, come il coro nella tragedia greca.

Avvocati di Corte di assise parlano con una prevenzione che offusca il loro giudizio; parlano con tanto astio da farmi sospettare un fondo inconfessato di livore politico.

Io mi permetto di richiamarli alla serenità. Valutino la giuria per sé, senza passione di parte. Alcuni hanno invocato il tecnicismo giuridico, tanto più necessario quanto più gravi sono le ipotesi criminose. Il tecnicismo giuridico è salvo. Il giurato ha il monopolio giurisdizionale del fatto. Quello del diritto è lasciato al magistrato, che applica la pena. Ed è giusto che sia così, perché nei giudizi di Corte di assise, che dovrebbero essere limitati soltanto ad alcuni reati, è la giuria che può dare quel contributo psicologico ed etico per ottenere quelle valutazioni in ordine al fatto, dedotto in giudizio ed alla personalità dell'imputato, consone il più possibile all'opinione ed al sentimento del popolo entro i limiti della legge. La giustizia è fatta per il popolo. Si è parlato di errori e di eccessi della giuria. Ebbene, pur esistendo, non discreditano il principio, ma le modalità.

La partecipazione del popolo al giudizio penale è — al disopra della democrazia — un principio giusto e vero, perché nel magistero penale si riflette direttamente la coscienza popolare. Si tratta di disciplinare il principio in modo da dare il massimo dei vantaggi ed il minimo dei danni — e ciò si vedrà in appresso — ma nella Costituzione il principio dovrà essere affermato. Ma, onorevoli colleghi, non esiste un istituto giuridico perfetto, e gli errori sono degli uomini. Ora io, se potessi confrontare gli errori dei magistrati con quelli dei giurati, credo che il vantaggio sarebbe nettamente per i giurati. Finiamola con questa retorica. Io voglio ricordare l'ultima fatica di Gennaro Escobedo. Dalle assise di Cagliari era stato assoluto un imputato. Il presidente della Corte, al quale dai giudici laici si era fatta maggioranza, redige una sentenza motivata non alla stregua dell'assoluzione, ma alla stregua della condanna. Insorse la coscienza intemerata di Gennaro Escobedo, chiamando a raccolta tutti i cattedratici e gli esperti italiani. Vi avrei voluto leggere le parole di Enrico De Nicola a proposito di questo falso ideologico, che vi dice come e quanto sia pericoloso affidarsi nei giudizi di assise al magistrato togato, che l'abitudine nel giudicare rende spesso semplicista ed inerte.

Voi, onorevoli colleghi schierati contro la giuria, non fate altro che lanciare blasfemi contro il popolo. Non vi accorgete che indirettamente date una patente di incapacità a quel popolo, che ha dato all'Italia l'onore e la libertà, che ha saputo giudicare il crimine fascista ed il crimine monarchico. Ora un popolo, che ha tale maturità etica politica, ha tutto il diritto di partecipare direttamente all'amministrazione della giustizia nel suo Paese.

Il popolo di oggi, onorevole Porzio, non è il popolo di ieri, il popolo dei suoi verdi anni professionali, così vittoriosi.

Lasciamo da parte il dogmatismo della motivazione e pensiamo che la più vera e più sentita motivazione è quella che detta la propria coscienza ed il proprio sentimento; poiché la legge non è altro che la espressione codificata della coscienza popolare in un momento storico.

Ho ancora qualche cosa da dire: presentarvi i risultati della mia esperienza.

Capisco che voi potreste pensare, se non dire — illustri come siete — che l'esperienza di un modesto avvocato di provincia lascia il tempo che trova; io posso obiettarvi però, e non pecco d'immodestia perché chi mi conosce sa che non dico cosa inesatta, che in questa Assemblea non vi è alcuno che mi superi per intensità di lavoro in Corte d'assise. Ho avuto delle vittorie e delle sconfitte, forse più le prime; ma ho sempre notato nell'intimità della mia coscienza, che alla base di certi verdetti che mi sorpresero e mi parvero aberranti, vi era un fondo di buon senso, che la passione difensiva mi aveva fatto sfuggire e che il pubblico all'unisono con la giuria aveva colto ed apprezzato.

Ed io chiedo ancora alla mia esperienza ben altri argomenti, che superano tutte le volgari censure che si scrissero in tempo fascista, e che sono state ripetute in questa Assemblea, non esclusa la accusa di possibili influenze, o di sotterranee vie per giungere alla coscienza del giurato.

Nella attuale costituzione della Corte di assise l'elemento laico — i così detti assessori — hanno con le loro maggioranze, formatesi spontaneamente per l'uniformità del sentimento, portato un correttivo al Codice penale mussoliniano, che pur troppo ancora vige.

Quell'articolo 90, cioè, quei tali stati emotivi, che non escludono e non diminuiscono l'imputabilità, i giudici laici non l'hanno mai voluto applicare; perché han sentito nella propria coscienza popolare tutta l'assurdità morale, che costituisce per la scienza un'aberrazione. E la Corte ha mai applicato l'ultimo capoverso dell'articolo 40, per cui non avere impedito un fatto quando si aveva l'obbligo giuridico di impedirlo, equivale a cagionarlo? Era la coscienza popolare, che si ribellava all'assurdo etico giuridico.

E c'è ancora un'altra eresia condannata dagli assessori: quell'articolo 116, per cui il concorrente risponde di un reato diverso da quello voluto.

L'elemento popolare, pure ostacolato e spesso arditamente dall'elemento tecnico, con la sua formulazione giudiziaria ha creato il diritto. La compatibilità delle due attenuanti dei motivi morali e della provocazione fu prima proclamata dai giudici popolari, in contrasto con i togati, e poi sapientemente ratificata dal Supremo Collegio.

Diciamolo onestamente senza farci trasportare da facili encomi; chi trovammo in Corte d'assise vicino a noi nel cuore, nella espressione, nel pensiero giuridico? Furono i magistrati togati che rispondevano: Dura lex sed lex, o i giudici del popolo, che la legge interpretavano con la razionalità del loro sentimento?

E fummo noi, quando cercammo di strappare alla ritorta crudele dell'ergastolo un disgraziato, che gridammo: «Sì, c'è la premeditazione, ma nell'animo di costui avvamparono motivi, e premettero impulsi che debbono essere apprezzati».

E chi li apprezzò? Il deriso assessore, il quale concesse la provocazione, che indi la Cassazione riconobbe compatibile con la premeditazione.

Le intuizioni del popolo.

Signori, la giuria reclama un altro merito: ha creato quella squisita forma di arte che è l'eloquenza forense. Soltanto la giuria nelle aule d'assise e non le fredde aule giudiziarie, dove il parlare è vano, ha creato questa forma di arte tipicamente italiana, e particolarmente meridionale. Ed oggi che a Capo dello Stato io vedo il più elegante ed il più limpido oratore forense; oggi che in questa Assemblea, su tutti i settori, non escluso il banco della Commissione, siedono coloro che dalle Corti di assise, auspice la giuria, ebbero a ripetere onori, successi ed agiatezza, si ascolta il coro ingrato dei convertiti che vogliono disconoscere il loro passato e stroncare l'avvenire dell'oratoria italiana. Un grande scrittore, dal quale possiamo dissentire per il contenuto della sua arte, del suo atteggiamento politico, aveva sentito magnificare l'oratoria di Genuzio Bentini, a cui mi è grato mandare da questo stallo, che fu da lui onorato, un pensiero memore e commosso, di Genuzio Bentini, ingiustamente trascurato dal primo Congresso nazionale forense. Volle andare a sentirlo: si mescolò nella folla ignorato da tutti, e palese soltanto a pochi. Ascoltò Bentini che difendeva una fanciulla di alto lignaggio, vittima delle violenze del suo autista e madre snaturata.

Gabriele d'Annunzio si tenne silenzioso ed attento; indi fu domandato. Rispose: ascoltandolo mi è parso di vivere nell'età di Pericle.

Signori, questo episodio venga per lo meno a molcere i vostri animi accesi d'ingiustificato furore.

Giovanni Porzio, che ha tenuto con insuperabile eloquenza e prestigio la sbarra della Corte d'assise di Napoli; che ancora risuona della grande eloquenza di Nicola Amore, viene oggi a gridare il crucifige contro la giuria. Io non so se tu sei nell'aula, o mio illustre amico, ma io voglio dirti: non ti accorgi che tu gridi il crucifige contro tutta l'eloquenza meridionale, contro il tuo passato?

Io non voglio essere così intransigente. Gli oppositori hanno ragione soltanto quando lamentano l'assenza di un Collegio di seconde cure. È necessario il riesame del processo. Ed è per questo che noi siamo favorevoli alle Cassazioni penali regionali.

Cassazione civile unica. Cassazioni penali multiple. Nella disputa antica fra i due sistemi ho trovato soltanto un argomento: che la Cassazione unica di Roma rappresentava l'uniformità interpretativa delle leggi. Purtroppo, la giurisprudenza penale colà muta col mutare di sezione, ed allora perché la Cassazione unica penale?

La necessità della Cassazione regionale — ripeto — cui dobbiamo dare la potestà di rivedere anche nel merito i verdetti della giuria, si impone anche perché la caratteristica locale le dà la possibilità di giudizi adeguati alle caratteristiche del popolo.

Il diritto, signori, non è qualche cosa di immutabile, di astratto. Il diritto e le leggi che si interpretano e si applicano devono tener presenti le costumanze, l'ambiente, i sentimenti, i coefficienti etnici di un popolo, se si vuole davvero adeguare il castigo al delitto e la rivalsa al danno.

Io ho finito, onorevoli colleghi, e chiudendo il mio dire voglio dirvi quello che altri non vi ha detto.

Tutti hanno elevato il loro inno alla giustizia. Hanno ricercato le parole più belle, le frasi più elette, le espressioni più sonanti. Ma tutti hanno dimenticato la vera giustizia, anelito inesausto delle genti umane affaticate. La quale non si limita e non si restringe al dibattito di una causa penale o al contrasto di una contesa civile. La giustizia va oltre le aule giudiziarie, nelle strade, nelle folle, nelle masse, nel popolo e diventa giustizia sociale.

Padre Dante, che non era un tecnico giuridico e si rammentò soltanto del giure in un verso del Paradiso, mentre fu il più gran giustiziere del mondo, ci ha lasciato un verso, che è un insegnamento universale: «Le leggi son, ma chi pon mano ad elle?».

Chi pon man ad elle?

Curiamoli quelli che devono mettere mano alle leggi, scegliamoli in modo che sappiano che oggi il clima storico è mutato, che oggi i rapporti del diritto di proprietà, non sono più quelli dei tempi quiritari, onde si annullano i decreti di un Ministro, che scalfiscono il diritto malvagio; che oggi i rapporti di classe sono rovesciati, e non sono più quelli del dispotismo e della monarchia fascista. La giustizia, la vera giustizia è quella che accoglie, vivifica, codifica nella sua coscienza il palpito della vita e della personalità umana, senza privilegi e senza ineguaglianza! (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Moro. Chiedo di parlare.

Presidente Targetti. Ne ha facoltà.

Moro. Propongo la chiusura della discussione generale sui Titoli IV e VI del progetto di Costituzione.

Presidente Targetti. Domando se la proposta di chiusura è appoggiata.

(È appoggiata).

La pongo in votazione.

(È approvata).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti