[Il 13 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
De Vita. [...] Per me lo Stato non è una realtà né etica, né anti-etica; per me lo Stato è una realtà politica, sia pure non indifferente all'etica. Nell'ordine morale l'unica realtà è la coscienza e le forme della coscienza, ed io, onorevoli colleghi, non riesco, tra le forme della coscienza, a trovarne una che si chiami lo Stato. Con l'articolo 5, però, questo scopo è stato pienamente raggiunto, perché si è voluto lo Stato etico, tanto è vero che gli si è data anche una religione. Soltanto mi domando allora che valore abbia il primo comma dell'articolo 7, in cui è detto: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge».
La verità è che quando allo Stato si dà una religione, esso deve difenderla. Questo mi sembra ovvio; e in questa difesa esercita una inammissibile pressione sulla coscienza dell'individuo, violando una delle fondamentali libertà della persona umana. Nell'attuale stato di sviluppo della nostra civiltà, il rispetto delle opinioni dei singoli professanti religioni differenti deve assurgere a maggiore pubblica considerazione. I cittadini devono essere effettivamente eguali di fronte alla legge, indipendentemente dalla religione professata.
[...]
E per terminare desidero fare qualche osservazione in ordine al secondo comma dell'articolo 7: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».
Questa disposizione ha per me questo significato: il nuovo assetto costituzionale non deve produrre soltanto cambiamenti di persone o di possessi, e su questo credo che siamo d'accordo. Questa disposizione racchiude lo spirito che deve informare la soluzione di ogni problema sociale. Orbene, il problema sociale può risolversi soltanto determinando l'armonia degli interessi. Ma il mondo odierno presenta le sue profonde antitesi sociali: differenza di lavoro e proprietà, di lavoro manuale ed intellettuale, di piccola, media, e grande proprietà. Si devono allora sanare queste antitesi. Come? Questa è la domanda che io pongo a questa Assemblea. Per me vi sarebbe un mezzo per sanare queste antitesi, ed è, secondo la formula mazziniana, capitale e lavoro nelle stesse mani. È quella forma di associazionismo, è la partecipazione operosa ed eguale, ed anzitutto e soprattutto cosciente, del lavoro al processo produttivo. Certamente ogni privilegio deve scomparire dalla nostra società, ogni ineguaglianza deve scomparire, ogni distinzione che non derivi dalle opere dell'uomo deve essere condannata come una usurpazione. Su questo credo che siamo d'accordo. Ma io ritengo che in ogni riforma sociale deve sempre — e questo è per me fondamentale — respirare l'anima dell'uomo, deve espandersi l'essenza della natura umana che è la libertà. (Applausi).
[...]
Moro. [...] questa ideologia, questa sana accettabile ideologia che io ho racchiuso nelle due espressioni — libertà e giustizia sociale — si ritrova in questi tre articoli della Costituzione che noi esaminiamo e viene espressa come una indicazione dei fini del nostro Stato, del volto storico che assume la Repubblica italiana. Indubbiamente una indicazione di questo genere è indispensabile. Non avremmo ancora detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l'Italia è una Repubblica, o una Repubblica democratica. Occorre che ci sia una precisazione intorno ad alcuni orientamenti fondamentali che storicamente caratterizzano la Repubblica italiana.
Io, per questo, avevo proposto al nostro amabile Presidente della Commissione, onorevole Ruini, che i tre articoli, il primo, il sesto ed il settimo, fossero congiunti insieme, in quanto mi pareva che essi concorressero, da punti di vista diversi, a caratterizzare il volto storico dello Stato italiano. Sono prevalse altre ragioni, che sono ottime e dinanzi alle quali mi inchino, ma non volevo dimenticare questa mia modestissima proposta, la quale riconferma la mia vecchia idea che si tratti di articoli unitariamente confluenti per definire il carattere storico della Repubblica italiana.
Questi tre pilastri, sui quali mi pare che posi il nuovo Stato italiano sono: la democrazia, in senso politico, in senso sociale ed in senso che potremmo chiamare largamente umano.
[...]
Vengo ora all'altra parte dell'articolo 1: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Permettetemi su questo punto di ricordare, in quanto membro della Commissione, la storia di questo articolo, anche per contribuire a chiarirne il senso e a dissipare alcuni dubbi che già sono affiorati, in seno soprattutto alla Commissione dei 75. Ricordo che questo articolo in sostanza fu proposto dal nostro amico La Pira il quale, nel suo slancio generoso, nel suo desiderio di contribuire in ogni modo all'affermazione più piena della dignità umana, vagheggiava di inserire nella Costituzione un articolo nel quale fosse consacrato quello che egli chiamava lo status del lavoratore, cioè una condizione giuridica particolare dell'uomo che lavora e che doveva essere considerata fondamento di diritti. Furono fatte a questa proposta dell'amico La Pira alcune obiezioni, che in realtà non erano fondate, e, nella dinamica dei lavori per la Costituzione, questa proposta, che pure aveva trovato una prima articolazione, fu fatta cadere. Restò, di quella formulazione primitiva, questa idea che evidentemente è un'idea cristiana, un'idea democratica, che cioè bisogna dare al lavoro una particolarissima considerazione, che bisogna impegnare la nuova democrazia italiana in questo processo di elevazione dei lavoratori e di partecipazione la più piena dei lavoratori stessi all'organizzazione economica, politica e sociale del Paese. Questo il senso della disposizione: un impegno cioè del nuovo Stato italiano di proporsi e di risolvere nel modo migliore possibile questo grande problema, di immettere sempre più pienamente nell'organizzazione sociale, economica e politica del Paese quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall'organizzazione economica e sociale. Nessun intento di esclusione pertanto. Non si voleva, da parte dei proponenti dichiarare che questa qualifica, intesa in senso stretto, come è indicato nell'articolo, fosse la condizione indispensabile per essere considerati cittadini e trattati come tali. Il problema della cittadinanza, cioè della pienezza dei diritti civili e politici, è risolta dalla prima parte dell'articolo 1, in quanto dichiara: l'Italia è Repubblica democratica, cioè stato di tutti i cittadini e risolta dagli altri due o tre titoli della prima parte di questa Costituzione, nei quali si tratta dei cittadini nel senso più largo dell'espressione. Si poneva semplicemente un problema di carattere strettamente politico, indicando come una meta di notevole importanza nella costruzione del nuovo Stato, questa, cioè, di dare accesso in modo reale, pieno e costruttivo, alle forze lavoratrici nella vita del nostro Paese.
Ed io ricordo di più che questa proposta La Pira — chiamiamola così — venne presentata in contrapposto amichevole ad altra proposta dell'onorevole Togliatti, quella alla quale egli si riferiva ancora qualche giorno fa nel suo notevole intervento, in sede di discussione generale, quando domandava ancora che la Repubblica democratica italiana fosse qualificata come Repubblica di lavoratori. Ed assicurava, colla consueta amabilità, l'onorevole Togliatti che tale espressione non doveva essere intesa in nessun modo in senso classista, ma voleva indicare soltanto la convergenza di tutte le forze produttive verso questo punto di incontro, il lavoro, che permette alla Repubblica italiana di essere qualificata, senza esclusioni, come Repubblica di lavoratori.
Ed indubbiamente la suggestione che una simile espressione può avere per un cristiano, in quanto eccita la sua sensibilità tradizionale per la sorte della dignità umana e per la sorte delle classi meno abbienti e più sfortunate, può essere grande. Ma vi era da parte nostra, in sede politica, una considerazione da fare: che quella espressione, sia pure chiarita così nettamente dell'onorevole Togliatti, avrebbe assunto fatalmente un significato classista.
Ed ecco la nostra contro-proposta, che salva di quella dell'onorevole Togliatti la sostanza, assegnando allo Stato italiano questa meta altissima di dare pienezza di vita sociale, politica ed economica alle classi lavoratrici.
Quindi, nessun significato di esclusione; soltanto un impegno della nuova democrazia italiana in questa strada di elevazione morale e sociale. E io credo che nessun uomo onesto, che segga in questa Assemblea — e, quindi, penso, nessuno tra noi — potrà respingere il significato di questa affermazione. Si potrà chiarire la sua portata, si potranno fare delle aggiunte, allo scopo di rendere indubbio che la cittadinanza democratica è cosa indipendente dalla qualifica di lavoro; ma non si potrà negare che il compito storico che sta dinanzi alla democrazia italiana, in quanto essa persegue il potenziamento della dignità umana, sia di immettere nella pienezza della vita del Paese le classi lavoratrici.
A questo punto io credo si debba ricollegare l'altro che costituisce l'ultima parte dell'articolo 7:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui ed impediscono il completo sviluppo della persona umana».
Evidentemente siamo, in questa applicazione del principio dell'eguaglianza, nello stesso ordine di considerazione cui adesso facevo cenno.
Si tratta di realizzare in fatto, il più possibile, l'eguale dignità di tutti gli uomini.
Il senso di questo articolo è precisamente questo. Non accontentiamoci di parole, di dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che, il più possibile, siano in fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini.
Quindi anche questa parte dell'articolo 7 ha un significato evidente, discreto, accettabile e non credo che possa dare, così inteso e così inquadrato, alcuna preoccupazione. Comunque, anche qui le possibilità di modificazioni, di chiarimenti formali sono sempre aperte.
A cura di Fabrizio Calzaretti