[Il 13 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Diamo inizio all'esame delle disposizioni generali. Ieri accennavo ad una proposta di porre certi limiti, se non alle iscrizioni, quanto meno al tempo concesso a ogni oratore; ma essa è caduta in una benevola indifferenza. Pertanto ritengo valida la lista di oratori che ho dinanzi e mi rimetto ad essi per l'impiego del tempo. Solo come elemento orientatore per coloro che parleranno e per coloro che ascolteranno, dirò che a tutt'oggi vi sono ancora 41 iscritti sulla discussione generale delle disposizioni generali e 272 iscritti sulla discussione generale dei vari titoli.

Ha ora facoltà di parlare l'onorevole De Vita.

De Vita. Onorevoli colleghi, non è agevole separare la discussione sulle singole parti del progetto di Costituzione dalla discussione generale già fatta ed è ancora meno agevole questa separazione in ordine alle disposizioni generali le quali racchiudono o dovrebbero racchiudere lo spirito informatore di tutta la discussione.

Cercherò, comunque, di mantenermi entro i limiti posti a questa discussione. Mi si consenta, però, di premettere — e assicuro l'onorevole Presidente che non parlerò più di 20 minuti — che nel lavoro di riorganizzazione sociale, intrapreso da questa Assemblea, si devono, a mio avviso, tenere presenti due cose: qual è lo scopo dello Stato; quali sono i limiti, che debbono porsi all'azione dello Stato.

Questo ultimo punto per me fornisce la misura della libertà dell'individuo e della indipendenza dei suoi atti, libertà ed indipendenza verso le quali dobbiamo tendere.

Oggi noi sentiamo imperioso il bisogno di ricondurre la libertà ad un principio morale, di considerare la libertà come la vita stessa dell'individuo, come la forza stessa della società. E, pur dovendo riconoscere allo Stato la suprema potestà regolatrice della vita in comune, io non riesco a comprendere, o signori, come lo Stato possa essere libertà operante per tutti, se tutto deve trarre dallo Stato vita ed indirizzo, se lo Stato deve avere financo la propria religione.

In quest'aula sono state udite voci possenti. Sono stati solennemente affermati i diritti dell'individuo, è stata solennemente affermate la dignità della persona umana; ma io trovo, onorevoli colleghi, una profonda contraddizione tra queste affermazioni ed il concetto dello Stato, che ha particolarmente inspirato la formulazione di alcuni articoli delle disposizioni generali.

Poco importa riaffermare solennemente la libertà individuale, se poi si pone lo Stato al disopra dell'individuo, al disopra della società. Poco conta, onorevoli colleghi, riaffermare il valore originario della persona umana, negare la riduzione hegeliana dell'individuo ad un momento accidentale della sostanza statale, se poi, forse inavvertitamente, forse consapevolmente, attraverso gli organismi sociali, in cui la persona umana dovrebbe integrarsi e progressivamente espandersi, si arriva, fatalmente, al concetto dello Stato, il quale vive per i propri fini. Questa concezione organica della società o dello Stato, la quale ha avuto tanta parte nella formulazione dell'articolo 6, può naturalmente orientare la nostra società e determinare il destino della nostra società, può consentire di richiamare in vita, sotto novelle spoglie, l'idea dello Stato antico, fornendo nuovi argomenti alla politica autoritaria; e sotto le apparenze di conciliare le esigenze della vita dello Stato con la libertà moderna, si è infatti arrivati a sacrificare quest'ultima alle esagerate esigenze della vita sociale. E così lo Stato, penetrando il tutto — la comunità, la famiglia, l'individuo — diventerebbe veramente quel Dio terreno e reale, di cui parlava l'onorevole La Pira. Questa divinizzazione dello Stato, o signori, è per me il risultato naturale e spontaneo del concetto dello Stato, sintesi intrinseca dell'organismo sociale. È questa una tendenza a rappresentare lo Stato come una personalità separata, distinta dagli individui; a concepirlo come un organismo etico.

Ora, è certo che personificare lo Stato ed opporlo all'individuo, è, per me, un fare della metafisica. Questo è per me una specie di panteismo politico contrapposto a un panteismo metafisico. In verità, noi non siamo debitori dei nostri diritti allo Stato; non è vero che il cittadino, formando lo Stato, rinunzi a parte dei suoi diritti per avere meglio assicurato l'esercizio di altri diritti. La formazione della Repubblica non deve diminuire ma accrescere la libertà, deve svilupparne la coscienza, deve assicurarne l'esistenza.

L'alienazione dell'uomo allo Stato è per me un artificio logico assai pericoloso. Nessun diritto i cittadini debbono abbandonare, ma, nell'ordinamento sociale e politico della Repubblica, debbono trovare l'ambiente adatto all'esercizio di tutti i diritti.

Che la concezione dello Stato come organismo etico abbia ispirato la formulazione dell'articolo 6, risulta evidente dal contesto dell'articolo stesso. E risulta anche evidente dalle parole del relatore. Prima di parlare dei diritti di libertà, è detto nella relazione, è necessario un articolo nel quale si indichi l'orientamento della libertà. E allora si è voluto, prima di parlare dei diritti di libertà dell'individuo, determinare l'orientamento della libertà; si è voluto, nientemeno, finalizzare la libertà stessa.

Par me, la libertà è fine a se stessa e, per dirla alla kantiana, non può essere assunta a valore di mezzo. La libertà è l'essenza stessa dello spirito umano e non può quindi essere costretta a muoversi entro i limiti della legge, perché è la libertà stessa che foggia le leggi come suoi strumenti e, così come le foggia, le modifica ed anche le abbatte. Ma noi non vogliamo limitare la libertà; vogliamo orientarla verso il bene: dicono i sostenitori dello Stato etico. Ma quale bene è più grande, quale bene è più sommo, della stessa libertà?

La libertà esiste — essi dicono — ma intanto lo Stato la deve riconoscere, in quanto è esercitata per il raggiungimento di un determinato fine. Ecco lo Stato etico, lo Stato che vive per i propri fini. Io non riesco a capacitarmi del concetto dello Stato come completa realtà etica.

Per me lo Stato non è una realtà né etica, né anti-etica; per me lo Stato è una realtà politica, sia pure non indifferente all'etica. Nell'ordine morale l'unica realtà è la coscienza e le forme della coscienza, ed io, onorevoli colleghi, non riesco, tra le forme della coscienza, a trovarne una che si chiami lo Stato. Con l'articolo 5, però, questo scopo è stato pienamente raggiunto, perché si è voluto lo Stato etico, tanto è vero che gli si è data anche una religione. Soltanto mi domando allora che valore abbia il primo comma dell'articolo 7, in cui è detto: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge».

La verità è che quando allo Stato si dà una religione, esso deve difenderla. Questo mi sembra ovvio; e in questa difesa esercita una inammissibile pressione sulla coscienza dell'individuo, violando una delle fondamentali libertà della persona umana. Nell'attuale stato di sviluppo della nostra civiltà, il rispetto delle opinioni dei singoli professanti religioni differenti deve assurgere a maggiore pubblica considerazione. I cittadini devono essere effettivamente eguali di fronte alla legge, indipendentemente dalla religione professata.

Dall'articolo 5 delle disposizioni generali appare evidente che la religione è usata come mezzo per agire sul carattere e sul costume della Nazione. Per me un'ingerenza di tale natura, in qualunque modo esercitata dallo Stato, è dannosa, perché incatena la libertà dell'individuo. A mio avviso, non può sussistere alcuna ingerenza dello Stato in materia religiosa, senza che questa ingerenza significhi maggiore o minore favore per determinate professioni religiose. Si potrebbe obiettare che l'incoraggiamento della religione per mezzo delle leggi e delle istituzioni dello Stato è reclamato per la difesa dell'ordine interno, per la moralità. Io sono fermamente convinto che la religione può produrre buone azioni, ma debbo anche dire che la religione è un mezzo d'azione il cui punto d'appoggio è estrinseco allo Stato. Sono anche convinto che le idee religiose concorrono al perfezionamento morale; ma debbo anche dire che per me religione e morale non sono due termini indissolubilmente connessi.

Io chiedo a voi, onorevoli colleghi, se all'infuori di un'idea religiosa vi è l'idea della perfezione spirituale. Se si ammette che all'infuori di qualsiasi religione vi sia l'idea della perfezione spirituale, tale idea è abbastanza grande, è abbastanza sublime per non aver bisogno di una veste e di una forma esteriore. Certamente, la religione insegna agli uomini a sentire la bellezza della virtù; sviluppa senza dubbio il sentimento dell'amore e della solidarietà umana; ma l'uomo che ha la coscienza del proprio valore, della propria esistenza, non sarà certamente meno virtuoso. E questa idea della perfezione non è soltanto una fredda percezione della intelligenza, è anche un caldo sentimento del cuore che fa penetrare l'esistenza dell'uomo in quella dei suoi simili, ed il sentimento d'amore e di solidarietà umana diventerà sempre più fecondo mano a mano che lo spirito umano apprenderà che la sorte dell'uomo dipende dall'uomo stesso.

Mi si potrebbe obiettare che io attribuisco all'uomo una potenza di spirito e di carattere non soltanto non comune, ma affatto eccezionale. Ebbene, onorevoli colleghi, questa obiezione varrebbe anche per coloro i quali ritengono che il sentimento religioso possa determinare una vita veramente bella, egualmente lontana dall'indifferenza e dal fanatismo. Pertanto io ritengo che se non si vuole arrestare l'espansione dello spirito e lo sviluppo delle facoltà dell'animo, si debba attribuire allo Stato soltanto il compito di rimuovere gli ostacoli che menomano la fiducia nel sentimento religioso, e di agevolare lo spirito del libero esame. Se lo Stato va oltre, se lo Stato tenta direttamente di dominare il sentimento religioso o di orientarlo, anziché determinare la vera convinzione religiosa, determinerà una coscienza religiosa che poggia sopra l'autorità.

Foresi. Ma i cattolici italiani costituiscono l'assoluta maggioranza in Italia.

De Vita. Anche se in Italia ci fosse un solo uomo che la pensasse diversamente dalla maggioranza, noi, in omaggio alla libertà dell'individuo, dovremmo assicurargli la piena libertà di coscienza e di pensiero.

Una voce al centro. Ha letto il Concordato, lei?

De Vita. L'ho letto bene, ed ho letto bene anche gli articoli 1 e 5. All'articolo 1 è espressamente detto che la religione dello Stato italiano è la religione cattolica. Quindi è uno Stato confessionale.

All'articolo 5 è contemplata la perdita dei diritti civili e politici per i sacerdoti apostati e questo non è conforme alla libertà che noi vogliamo instaurare. Anche se certi principî religiosi giovano a determinare azioni conformi alla legge, ciò solo non basta ad autorizzare lo Stato a propagare le idee religiose, anche a detrimento della libertà di coscienza e di pensiero.

Il cittadino, lasciato interamente libero in materia religiosa avrà o non avrà nell'animo sentimento religioso, a seconda della sua indole personale; ma è certo in ogni caso che le sue idee saranno più logiche, la sua sensibilità più profonda, e sarà più ammirevole per moralità ed obbedienza alle leggi. Credo quindi, per terminare questo argomento, che si possa stabilire il principio che tutto ciò che si riferisce alla religione sta al di fuori dei limiti dell'azione dello Stato.

Mi si consenta anche di fare alcune osservazioni in ordine al 1° comma dell'articolo 5: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Poiché illustri uomini del passato, e anche del presente, non hanno affrontato in pieno questo argomento e, come si suol dire, sono usciti dal rotto della cuffia, cercheremo, con serenità di spirito, di affrontarlo noi.

A mio parere, il comma in questione, così com'è formulato, anziché assicurare la tanto desiderata pace religiosa, potrebbe portare ad aperti contrasti. Con questo comma, infatti, non si vuole affermare il principio di separazione fra Stato e Chiesa. Lo scopo, evidentemente, è un altro: si vuole non soltanto affermare il principio del riconoscimento dei diritti e dei poteri temporali della Chiesa come Santa Sede — e per ciò ente con personalità internazionale perfetta — ma anche dei diritti e poteri che si estendono oltre i limiti della Città del Vaticano.

Sorge allora spontanea la domanda: chi determina i limiti dell'ordinamento giuridico dello Stato e della Chiesa, se non lo Stato e la Chiesa medesimi, quali enti sovrani? In materia matrimoniale, ad esempio, la Chiesa ritiene di avere la competenza esclusiva non soltanto in ordine al matrimonio come sacramento, ma anche in ordine agli effetti che sono indissolubilmente connessi col matrimonio.

E questi effetti voi sapete quali sono: rapporti fra i coniugi, patria potestà secondo il diritto di natura, legittimità della prole. Sarebbero di competenza dello Stato soltanto gli effetti cosiddetti «meramente civili» del matrimonio, ossia quegli effetti che possono separarsi dal matrimonio e sussistere anche se il matrimonio viene a mancare, come la successione ereditaria.

Ora, deve lo Stato disinteressarsi di tutta questa materia che la Chiesa ritiene di sua esclusiva competenza? Io ritengo di no. Possono Stato e Chiesa legiferare entrambi in questa e in altre materie senza il pericolo di conflitti? Si potrebbe obiettare che, ai sensi del successivo comma dello stesso articolo, il collegamento fra Stato e Chiesa deve essere concordatario. Ma, a mio avviso, l'obiezione non regge, perché col primo comma si riconosce la piena sovranità della Chiesa anche nei rapporti esterni e nel secondo comma è soltanto contenuto un impegno unilaterale dello Stato.

Questa è, per me, la portata dell'articolo 5 che io lascio alla prova di un esame più profondo.

Per quanto riguarda l'ultimo comma dell'articolo 1: «La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi», mi limito ad osservare che molto opportunamente si distingue lo Stato dalla sovranità. Invero, altra è la ragion d'essere dello Stato ed altro il titolo per cui la sovranità si esercita nello Stato. Devo però rilevare che la parola «emana» — e questo rilievo ebbi a farlo in sede di prima Sottocommissione e in sede di Commissione plenaria, insieme all'onorevole Lucifero — che la parola «emana», usata nella formulazione del comma, limita il concetto della sovranità popolare, come ebbe a dire anche qualche collega. Alcune moderne costituzioni repubblicane usano la parola «emana»; per esempio l'Austria, la Spagna, la Cecoslovacchia. Altre usano invece il termine «appartiene al popolo»: la Lettonia, la Lituania, la Turchia, l'U.R.S.S. Soltanto nella costituzione dell'Estonia e della Finlandia è usata la parola «risiede»: la sovranità risiede nel popolo.

Questa espressione a me pare la migliore, perché significa che la sovranità permane nel popolo, mentre invece la locuzione «la sovranità emana dal popolo» sta a significare che la sovranità è bensì generata dal popolo, ma una volta generata si distacca da esso.

E per terminare desidero fare qualche osservazione in ordine al secondo comma dell'articolo 7: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Questa disposizione ha per me questo significato: il nuovo assetto costituzionale non deve produrre soltanto cambiamenti di persone o di possessi, e su questo credo che siamo d'accordo. Questa disposizione racchiude lo spirito che deve informare la soluzione di ogni problema sociale. Orbene, il problema sociale può risolversi soltanto determinando l'armonia degli interessi. Ma il mondo odierno presenta le sue profonde antitesi sociali: differenza di lavoro e proprietà, di lavoro manuale ed intellettuale, di piccola, media, e grande proprietà. Si devono allora sanare queste antitesi. Come? Questa è la domanda che io pongo a questa Assemblea. Per me vi sarebbe un mezzo per sanare queste antitesi, ed è, secondo la formula mazziniana, capitale e lavoro nelle stesse mani. È quella forma di associazionismo, è la partecipazione operosa ed eguale, ed anzitutto e soprattutto cosciente, del lavoro al processo produttivo. Certamente ogni privilegio deve scomparire dalla nostra società, ogni ineguaglianza deve scomparire, ogni distinzione che non derivi dalle opere dell'uomo deve essere condannata come una usurpazione. Su questo credo che siamo d'accordo. Ma io ritengo che in ogni riforma sociale deve sempre — e questo è per me fondamentale — respirare l'anima dell'uomo, deve espandersi l'essenza della natura umana che è la libertà. (Applausi).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

Crispo. Onorevoli colleghi, a me sembra di tutta evidenza la necessità — dico necessità e non opportunità — che il progetto di Costituzione, che è come l'atto di nascita della Repubblica, si preoccupi di determinare il carattere dello Stato repubblicano. Onde il primo articolo del progetto vuole essere la definizione del carattere della Repubblica. L'articolo dice che l'Italia è una Repubblica democratica; dunque, s'intende affermare il carattere democratico della Repubblica. Sennonché, a me sembra che questa definizione abbia bisogno di precisazione, perché quando si è detto che l'Italia è una Repubblica democratica, occorrerà ancora intenderci sul concetto di democrazia.

Che cosa si vuole dire quando si dice che l'Italia è una Repubblica democratica? A quale democrazia, a quale nozione della democrazia ci si intende riferire? Credo che il quesito sia questo, e a questo quesito occorre dare risposta. Si è detto che ci si deve riferire alla democrazia, nel senso storico attuale. Parole per me di colore alquanto oscuro, se non si rapportano all'istituto parlamentare che è una forma storica particolare della democrazia. E credo che ad essa si rifacesse ieri l'onorevole Ruini, quando rilevava la necessità di conservare e di consolidare il regime parlamentare.

Dunque, quando si dice nell'articolo 1 che l'Italia è una Repubblica democratica, noi identifichiamo la democrazia nelle istituzioni parlamentari, diciamo, cioè, che queste istituzioni realizzano la democrazia. Ma si può affermare che siamo tutti d'accordo su questo concetto? L'altro giorno, l'onorevole Nitti mi diceva che pur avendo versato lungo studio e lungo amore nell'esame dei problemi della democrazia, raccogliendo le proprie meditazioni in ben due volumi, egli si era ridotto a questo: che non sapeva più dire che cosa fosse la democrazia, nella confusione delle diverse lingue e delle orribili favelle che s'incrociano su questo terreno.

E, per verità, ad esempio, non dirò cosa nuova, affermando che qui non siamo certo d'accordo nel ritenere che l'istituto parlamentare realizzi la democrazia, se socialisti e comunisti hanno sempre considerato i Parlamenti come l'insegna, come la bandiera degli interessi borghesi.

Una voce a sinistra. No, no.

Crispo. Come no?

Sì, come la bandiera degli interessi borghesi, come l'indice della dominazione borghese, al segno che il Parlamento è apparso come inutile bagaglio ingombrante, di fronte ad una ideologia che pretende di sostituire alla forma democratica parlamentare il cosiddetto Governo del proletariato, attraverso la lotta degli interessi di classe, evidentemente intesa a realizzare la superclasse, vale a dire una classe destinata a sopraffare e a travolgere le altre classi. (Interruzioni a sinistra).

La conseguenza è che, mentre per noi l'istituto parlamentare costituisce la forma nella quale la democrazia si realizza, per i comunisti per i socialisti esso è soltanto un mezzo. Epperò, la valutazione finale di questo mezzo dipenderà dalla idoneità o dalla inidoneità di esso a raggiungere il fine. Sicché, se il mezzo apparirà inidoneo, è evidente che sarà abbandonato; sarà abbandonata, cioè, la democrazia. (Interruzioni, a sinistra).

Una voce a sinistra. Questo lo dice lei.

Crispo. È un procedimento logico.

Una voce a sinistra. È una logica formale e soggettiva la sua.

Una voce a destra. Già, voi non lo pensate nemmeno!

Presidente Terracini. Onorevole Crispo, non raccolga le interruzioni.

Crispo. Con vostra licenza, signori, questa mia logica elementare non mi pare faccia grinze, perché le ipotesi sono due: o siete d'accordo nel ritenere che l'istituto parlamentare realizza la democrazia, o non ritenete questo, ed è evidente, in tal caso, che se l'istituto parlamentare è per voi come un ponte di passaggio, quale mezzo, cioè, è evidente che, ove il mezzo fallisce come inefficace, inidoneo, voi sareste pronti ad abbandonarlo. Per sostituirvi che cosa? Un mezzo diverso, che non potrebbe essere se non un mezzo rivoluzionario. Non vi pare logico questo ragionamento? (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Faccia il ragionamento opposto.

Crispo. E perché no?

Col ragionamento opposto, il risultato sarà identico, perché se il mezzo riuscisse idoneo, realizzando il vostro fine, voi realizzereste la così detta conquista del potere da parte del proletariato. È così?

E se è così, la conquista del potere da parte del proletariato vuol dire niente altro che la sovrapposizione di una classe su tutte le altre, escludendosi le altre.

Una voce a sinistra. È una presunzione la sua. (Interruzioni — Commenti).

Crispo. Non vi scaldate. Per me — e parlo con la parola di parecchi fra voi che coltivarono l'ideologia marxista e la ritennero poi superata — per me, la democrazia si definisce e si concreta, in modo negativo, nell'assenza di qualunque dominazione di classe, e, in modo positivo, in uno Stato, nel quale possa trionfare non solo il diritto all'eguaglianza di tutti i cittadini, ma, soprattutto, il principio che ciascuno ha il diritto di partecipare alle decisioni relative alle sorti della organizzazione politica, economica e sociale del proprio Paese.

Come vedete, la conseguenza è sempre la stessa: la dittatura attuata o con mezzi violenti o con metodo democratico.

Nell'uno e nell'altro caso, la democrazia è favola per bambini. (Interruzione a sinistra).

Presidente Terracini. Forse, onorevole Crispo, qualche collega ha la sensazione che in questo momento non è il problema di analisi di una democrazia o della dittatura che si deve fare, ma è un giudizio sopra la formulazione del primo articolo, dove si parla di Repubblica democratica.

Crispo. Non mi sembra esatta la osservazione, se è vero che la Costituzione vuole definire il carattere democratico della Repubblica, e che tale carattere dovrebbe essere lo stesso per tutti.

Se è così, e se le istituzioni parlamentari sono la forma storica attuale nella quale si realizza la democrazia, mi sembra evidente la necessità che, nella prima parte dell'articolo 1, questo principio sia consacrato, dicendosi, cioè, che l'Italia è una Repubblica parlamentare. E ciò perché non sorga l'equivoco che si possa considerare la Repubblica parlamentare non un punto di arrivo — salva la perfettibilità dell'istituto parlamentare — ma soltanto un modus convivendi nel senso, cioè, che esso possa o debba servire a realizzare una pretesa democrazia, che è la negazione palese della democrazia parlamentare. (Interruzioni a sinistra).

Condorelli. La vostra democrazia è quella della dittatura del proletariato.

Crispo. Propongo, adunque, di dire all'articolo 1: «L'Italia è una Repubblica parlamentare, ordinata democraticamente, secondo il principio della sovranità popolare, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Per le ragioni già espresse, s'intende che nemmeno il 1° capoverso dell'articolo 1, possa, per me, essere approvato. Esso dice: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Ora, a me sembra evidente che si voglia affermare un principio classista.

Spiego subito il mio pensiero.

Se non è possibile configurare una qualunque convivenza umana, che non sia basata sul lavoro, non mi pare, d'altra parte, si possa dire che il lavoro è il fondamento d'una Repubblica.

Fedeli. L'ozio.

Crispo. Come può attribuirmi tale idea? Intendo dire che il lavoro non è il fondamento della Repubblica, in quanto col lavoro concorrono altri fattori, i quali sarebbero negati nella unilateralità dell'affermazione contenuta nel 1° capoverso.

Con la stessa logica di quel capoverso si potrebbe, per esempio, anche dire che fondamento della Repubblica è la religione, e forse i democristiani amerebbero che si dicesse questo.

Cingolani. No; non è vero.

Crispo. O si potrebbe dire...

Fedeli. Il latifondo è la base della Repubblica!

Crispo. ...che La Repubblica ha per fondamento la giustizia, o anche la ragione.

Rubilli. Quale ragione?

Crispo. Quella del signor Voltaire, il quale diceva che solo per opera della ragione l'uomo è perfettibile, perché essa combatte l'esclavage de l'esprit.

Una voce a sinistra. Tutte queste belle cose, senza il lavoro, non fanno niente: questa è la faccenda.

Crispo. Ora, altra cosa è dire che i problemi del lavoro non possono non interessare profondamente l'ordinamento giuridico di uno Stato, o che occorre porsi il problema costituzionale del lavoro, in rapporto alla funzione sociale, alla dignità e alla tutela di esso, e anche in rapporto alle possibilità di sviluppo della posizione del lavoro nell'ordinamento sociale, ed altra cosa è dire che il lavoro è il fondamento della Repubblica, poiché il lavoro non costituisce, e non può costituire — esso solo — il fondamento di una Repubblica. Egli è per questo che io colgo nella formula usata nel 1° capoverso un concetto classista, sì che mi sembra si voglia come preconizzare l'assunzione alla direzione della cosa pubblica di quella classe di lavoratori che, attraverso la conquista proletaria, dovrebbe sovrapporsi alle altre classi.

Una voce a sinistra. È un sofisma.

Crispo. No, non sono sofismi questi. Il vostro Stato s'intende non come una Repubblica di tutti i lavoratori, ma come una Repubblica di operai e di contadini. (Proteste a sinistra).

Una voce a sinistra. Anche gli intellettuali: la conosce lei la Costituzione sovietica?

Crispo. Non ne parlerei, se non la conoscessi.

Una voce a sinistra. Allora s'è sbagliato: la legga un'altra volta.

Crispo. Non è vero: gl'intellettuali, per esempio, vi sono considerati come «strato» delle altre due classi.

Una voce a sinistra. È vecchia questa storia.

Crispo. Ma riproduce fedelmente il pensiero di Marx, tanto che mi sono sempre domandato come mai Marx avesse negato un posto agl'intellettuali nella società da lui descritta, mentre poi il movimento proletario, per lo meno alle sue origini, non è che un movimento squisitamente intellettuale.

Le osservazioni fatte finora possono essere riassunte e concretate nel seguente emendamento:

«L'Italia è una Repubblica parlamentare, ordinata democraticamente secondo il principio della sovranità popolare, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. Il lavoro, nelle sue varie manifestazioni, concorre all'organizzazione politica, economica, sociale della Repubblica». (Commenti Interruzioni).

Fedeli. Al lavoro lasciate un posticino!

Presidente Terracini. Onorevole Fedeli, per favore, non interrompa!

Onorevole Crispo, sarebbe stato preferibile che ella avesse presentato il suo emendamento quarantott'ore fa.

È essenziale che in sede di discussione generale dei titoli non si presentino e non si commentino gli emendamenti; altrimenti si sposta completamente la procedura.

Crispo. In rapporto al carattere democratico della Costituzione penso che debba ripugnare al sentimento democratico — dico di proposito: sentimento democratico, cioè spirito democratico — il pensiero di una guerra intesa come strumento di conquista o di offesa della libertà degli altri popoli. Epperò, esaminando l'articolo 4, osservo che l'espressione usata «L'Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli» non riproduce esattamente il concetto di repugnanza morale per una guerra di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli.

Questa formula fu tratta dal Patto di Parigi del 1928 Briand-Kellogg, e fu già tradotta nella Costituzione spagnola del 1931. Io ritengo che a questa formula si debba sostituire la formula adoperata dalla Costituzione francese, alla quale, del resto, mi sembra si sia attinto nella redazione dell'articolo 4. Nella Costituzione francese è detto:

«La Repubblica francese, memore delle sue tradizioni, non intraprenderà alcuna guerra di conquista». Ecco: vi è come un impegno categorico; e v'è come l'espressione di un dovere morale, insito...

Pertini. Siamo d'accordo.

Crispo. ...insito, dicevo, nello spirito democratico di un popolo, dovendo repugnare ad un popolo che inspira i suoi ordinamenti alle libertà, a tutte le libertà fondamentali consacrate nella Costituzione, il pensiero di una guerra di conquista.

Anche per un'altra ragione penso che occorra sostituire questa espressione: perché, badate, il termine «rinuncia» richiama subito l'idea di un diritto o di una facoltà. Si rinuncia, difatti, ad una facoltà o si rinuncia ad un diritto. E mi sembra inconcepibile che si possa dire che lo Stato democratico abbia il diritto di intraprendere una guerra di conquista.

Non mi sembra, per altro, che il concetto espresso in questa parte dell'articolo 4 sia completo, perché lo Stato può anche altrimenti che con una guerra comprimere le libertà di un altro popolo: si pensi, per esempio, all'esercizio di un protettorato o all'amministrazione di una colonia: in tale esercizio possono essere compressi i diritti del popolo amministrato. E l'articolo 4 non dice nulla, mentre anche questo concetto è scolpito nel preambolo della Costituzione francese, laddove è detto che la Francia non intraprenderà alcuna guerra e non adopererà la forza contro la libertà di un altro popolo. Occorre, a mio avviso, adunque integrare la disposizione. In questo senso io propongo che l'articolo 4 sia redatto nel modo seguente:

«L'Italia non intraprenderà alcuna guerra di conquista né userà mai violenza alla libertà di alcun popolo, ecc.».

Il principio della sovranità dello Stato che, a mio avviso, nella Costituzione deve affermarsi senza menomazione alcuna, m'induce a fare alcune osservazioni sull'articolo 5. Mi sembra, innanzi tutto, che, nella discussione generale, l'esame dell'articolo 5 abbia dato luogo a vere e proprie deviazioni. Qui si tratta solo di un problema costituzionale che, pertanto, va posto in termini costituzionali. Che importa, per esempio, indagare l'origine fascista dei Patti? Comunque siano stati stipulati, essi, allo stato, restano. Pacta sunt servanda.

Che importa, inoltre, sapere se questi Patti, nel momento in cui si stipulavano, rappresentassero o non la coscienza del Paese? Se realizzassero o non realizzassero la pace religiosa? Se, rompendosi questi Patti, sarebbe per avventura turbata questa pace?

Che importa, infine, indagare se, per avventura, sia da preferirsi il regime della separazione, secondo il principio del Locke, al quale il nostro Cavour attinse la formula «Libera Chiesa in libero Stato» e il Luzzatti la formula «Libere Chiese nello Stato sovrano», o piuttosto sia da preferire un regime di collaborazione concretato e definito per mezzo di accordi bilaterali?

Indagini che qui non possono trovar posto; poiché qui l'indagine è una sola, quella che si riferisce al carattere dei Patti, allo scopo di stabilire se costituiscano materia costituzionale, tale da dovere essere inserita nella Costituzione. Indagine che, come è chiaro, non ha nulla di irriverente, e nulla che possa offendere la coscienza e il sentimento dei nostri amici della Democrazia cristiana.

Che cosa, adunque, sono questi Patti? I Patti comprendono il Trattato e il Concordato. Il primo è un trattato di diritto internazionale, nel quale, per ragioni che non mette conto indagare, lo Stato italiano si è disannessa una parte del proprio territorio, ed ha consentito che su questa parte si costituisse uno Stato che si chiama «Città del Vaticano», Stato riconosciuto de jure; riconoscimento solenne, senza riserve e senza condizioni.

Questo Trattato aveva una particolare importanza, e un particolare significato. Non voleva certo, come qualcuno ha erroneamente pensato, restaurare l'antico Stato Pontificio, caduto nel 1870 per debellatio. Poiché lo Stato Pontificio era del tutto distinto, separato dalla Chiesa, ed era espressione tipica di un vero e proprio potere temporale. Come tale, esso non può confondersi con lo Stato Città del Vaticano, costituito col Trattato.

Nondimeno il Trattato aveva una particolare importanza, nel senso che, com'è detto nella premessa del Trattato stesso, per assicurare alla Santa Sede assoluta e visibile indipendenza, esso era inteso a garantire una sovranità indiscutibile, pur nell'ambito internazionale, onde si ravvisava la necessità di costituire, con particolari modalità, la Città del Vaticano, riconoscendo alla Santa Sede esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione territoriale. Che cosa significa questo? Significa che lo Stato Città del Vaticano si pone, nella stipulazione, come un ente di diritto internazionale, cui è riconosciuta personalità internazionale, sia in rapporto al diritto di legazione attivo e passivo (diritto subiettivo internazionale), sia perché lo Stato Città del Vaticano si colloca sul caratteristico terreno normativo internazionale, per compiere, con gli altri Stati, atti internazionali, che hanno non soltanto valore formale, ma valore sostanziale di trattati, con i quali si pongono norme vere e proprie di diritto internazionale quali sono i concordati.

Perché vi ho detto questo? Perché, incorporandosi il Trattato nella Costituzione, quando nell'articolo 5 si dice che lo Stato e la Chiesa sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, evidentemente si collocano, l'una vicina all'altra, due sovranità temporali.

Ora mi domando: se si tratta di un trattato di diritto internazionale, col quale si riconosce de jure la personalità dello Stato Città del Vaticano, quale motivo potrebbe giustificare la inserzione di questo Trattato nella Costituzione? Sarebbe come domandarsi se possa esserci un motivo qualunque perché un altro trattato qualsiasi con altra Nazione possa considerarsi materia costituzionale, sì da far parte della Costituzione. E, badate, non si potrebbe, a mio avviso, andare in opinione diversa, se si volesse tener conto della particolare fisionomia istituzionale dello Stato Città del Vaticano.

Parecchi scrittori hanno sostenuto che, in buona sostanza, lo Stato Città del Valicano non è uno Stato veramente e propriamente, nella comune concezione dello Stato. In ciò si può evidentemente consentire. Si può dire, cioè, che lo Stato Città del Vaticano si differenzia dagli altri Stati, perché è uno Stato sui generis, uno Stato strumentale, uno Stato teleologico, nel senso che la sovranità temporale viene esercitata in funzione della sovranità spirituale, viene, cioè, posta al servizio della missione propria della Chiesa.

Ma quando si è detto questo, non si è detto nulla. Perché questo carattere peculiare che differenzia lo Stato Città del Vaticano dagli altri Stati, nulla toglie alla sovranità dello Stato Città del Vaticano, in quanto Stato, sovranità consacrata nell'articolo 1 della Costituzione dello Stato Città del Vaticano, nel quale è detto: «Il Sommo Pontefice, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

Se, adunque, il Trattato rivendica la potestà temporale della Chiesa, se il Trattato costituisce uno Stato sovrano, se riconosce ad esso personalità di diritto internazionale, la conseguenza qual è? La conseguenza è che, quando nell'articolo 5 si dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, si pongono nella Costituzione due sovranità che evidentemente non possono coesistere. E voglio esprimere un altro concetto. Badate, nell'articolo 1 del Trattato, quando s'incorpora l'articolo 1 dello Statuto, lo s'incorpora con un significato ben diverso da quello che nello Statuto aveva di una professione di fede. Quando nel Trattato si dice che «l'Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell'articolo 1 dello Statuto del regno 4 marzo 1848, per il quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato», e quando il Trattato s'introduce nella Costituzione, ciò significa riconfessionalizzare lo Stato. Perché qui non si vuol dire già che la grande maggioranza dei cittadini italiani professa la religione cattolica: qui si vuol dire che lo Stato ha una religione; mentre lo Stato, come tale, non ha religione, ma garentisce la religione; e si vuole che lo Stato italiano sia uno Stato cattolico, onde è da chiedere se i non cattolici facciano parte della Repubblica italiana. (Commenti al centro).

Tupini. Non bisogna mai commentare per absurdum.

Crispo. Abbiamo parlato del Trattato, parliamo ora del Concordato.

Incorporandosi il Concordato nella Costituzione, si cristallizzano gli accordi, nel senso che non possono esser modificati, per revisione costituzionale, perché bilaterali.

La conseguenza è una condizione di contrasto tra Costituzione e Patti. Difatti, mentre lo Stato si dichiara indipendente e sovrano, si attribuisce, nello stesso tempo, carattere confessionale. E può avvenire che, mentre nell'articolo 27 della Costituzione si dice (e si dice erroneamente) che l'arte e la scienza sono libere (erroneamente, perché dovrebbe dirsi che le manifestazioni dell'arte e della scienza sono libere), nell'articolo 36 del Concordato si stabilisce: «L'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l'insegnamento religioso, ora impartito nelle scuole pubbliche elementari, abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d'accordo fra la Santa Sede e lo Stato».

E mentre si dice, nella Costituzione, all'articolo 94, che la giurisdizione è la espressione precipua della sovranità dello Stato, con l'articolo 34 del Concordato si stabilisce che la Chiesa consente alla giurisdizione dello Stato italiano d'intervenire nei giudizi di separazione coniugale, e che nei giudizi di annullamento del matrimonio, unica giurisdizione è quella della Chiesa. Così, mentre lo Stato rivendica a sé la tutela e l'assistenza della famiglia, il matrimonio può essere celebrato dalla Chiesa, e le cause del dissolvimento della famiglia sono del tutto sottratte al giudice italiano.

Così, per altro, mentre la Costituzione consacra il principio della eguaglianza di tutti i cittadini, per il Concordato tale principio non vale per i sacerdoti colpiti da scomunica o irretiti da censura. E non basta; perché, nello Stato Città del Vaticano vigono il Codice penale del 1889, e il Codice di procedura penale del 1913, e ciò può creare non lievi difficoltà, sia in rapporto al regime della piazza aperta o chiusa di San Pietro, sia in rapporto alla devoluzione della giurisdizione da parte della Città del Vaticano allo Stato italiano, a norma dell'articolo 22. Altre difficoltà potrebbero sorgere a proposito dello status personale e in tema di successione, perché la cittadinanza è regolata nello Stato Città del Vaticano con una legge in contrasto con la legge italiana del 1912 sulla cittadinanza.

Credo opportuno anche ricordare che, mentre per l'articolo 4 delle disposizioni transitorie sono aboliti i titoli nobiliari, per l'articolo 42 del Concordato «L'Italia è obbligata a riconoscere, mediante decreto reale, i titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici, anche dopo il 1870, e quelli che saranno conferiti in avvenire». E ciò crea una vera e propria condizione di privilegio. (Proteste al centro).

Clerici. La conseguenza del suo dire è che i Patti Lateranensi devono essere denunziati?

Crispo. Abbia la cortesia di ascoltarmi ancora.

Rispondo subito a questa osservazione. Vediamo che cosa significa incorporare questi Patti concordatari nella Costituzione. Significa questo: immobilizzarli, cristallizzarli, come ho già detto, non essendo ammessa revisione costituzionale. Né occorreva dirlo, perché si tratta di patti bilaterali, ed è evidente che lo Stato, cioè una delle parti, non potrà riesaminarli e modificarli per conto proprio.

E poi si aggiunge nell'articolo 5 che i Patti potranno essere modificati con accordi consensuali. Ma se il consenso deve essere reciproco, esso può mancare, anche da parte di uno solo dei contraenti, e, in ogni caso, se l'accordo si raggiungesse, esso menomerebbe il carattere rigido della Costituzione. Questa condizione di contrasti creerebbe, adunque, confusione, disordine e contestazioni. Qui, difatti, non si tratta di norme successive, il cui eventuale contrasto potrebbe essere risoluto a norma dell'articolo 15 delle preleggi, per abrogazione espressa, o per abrogazione tacita. Nel caso nostro, i Patti introdotti nella Costituzione costituiscono un tutto unico con la Costituzione stessa, sì che i Patti non potrebbero essere modificati. Non si possono, difatti, denunziare i Patti, perché fanno parte della Costituzione, né si può invocare la clausola rebus sic stantibus, perché non si attribuisce ad essa automatismo di funzionamento. Né, infine, si potrebbe essere inadempienti, perché per il principio della connessione giuridica, consacrato nella nota formula simul stabunt, simul cadent, l'inadempimento del Concordato determinerebbe la decadenza del Trattato, e sarebbe così risollevata la così detta questione romana.

Ecco perché, come vi dicevo — con tutto il rispetto per la vostra coscienza e la vostra fede (Accenna al centro) — io pongo questa questione in termini rigorosamente giuridici, in termini di diritto costituzionale; cioè la pongo così: il Trattato, il Concordato sono — signori — materia costituzionale? Se voi ritenete che lo sono, inseriteli nella Costituzione; ma se dovrete rispondere, per le ragioni che io mi sono permesso di prospettarvi, negativamente, i Patti devono essere esclusi dalla Costituzione.

Per le ragioni esposte, propongo che alla prima parte dell'articolo 5 si sostituisca:

«Lo Stato riconosce l'indipendenza della Chiesa cattolica, con la quale continuerà a regolare i suoi rapporti per mezzo di Patti concordatari».

Se questo emendamento non venisse accettato, e fosse votato l'articolo 5 così com'è, allo scopo di eliminare le contraddizioni denunziate, si potrebbero aggiungere, al primo capoverso, dopo le parole: «i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», le parole: «in quanto non siano contrari alla presente Costituzione». (Commenti).

Come vi ho detto, ho voluto compiere una indagine giuridica, la sola indagine, dico la sola, propria in sede di discussione della Costituzione. Se volessi fare un rilievo morale e un rilievo politico, io dovrei dire che mi sembra una ironia la pretesa di coloro che vorrebbero, niente di meno, che ricongiungere la Costituzione italiana, sia idealmente che rivoluzionariamente, alla Costituzione del 1849, perché, mentre l'articolo primo della Costituzione repubblicana del 1849 proclamava la caduta del potere temporale, la nostra Costituzione lo rivendica, retrocedendo nel tempo, e rinnegando i maggiori valori ideali del nostro Risorgimento.

Ed è davvero strano che proprio io debba ricordare questo ai soci fondatori della Repubblica italiana. (Applausi).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Moro. Ne ha facoltà.

Moro. Mentre mi accingo ad esaminare gli articoli 1, 6 e 7 delle disposizioni generali del progetto costituzionale, mi torna in mente un'espressione adoperata dall'onorevole Togliatti durante una delle prime sedute della Commissione nella quale noi lavoravamo insieme, espressione richiamata nel corso della discussione generale dall'onorevole Lucifero.

Aveva detto l'onorevole Togliatti che bisognava che la nostra Costituzione fosse una Costituzione non ideologica, che in essa e per essa fosse possibile una libera azione non soltanto delle varie forze politiche, ma anche di tutti i movimenti ideologici che stanno nello sfondo delle forze politiche stesse.

Riguardata così questa espressione, non può non trovare il nostro consenso. Preoccupati, come siamo stati e come siamo, di realizzare attraverso la nuova Costituzione italiana uno strumento efficace di convivenza democratica, noi non abbiamo mai cercato e neppure adesso cerchiamo di dare alla Costituzione un carattere ideologico. Però mi sembra necessario fare qualche precisazione su questo punto. Vi è una ideologia che può essere effettivamente qualificata di parte, ed è giusto che uno strumento di convivenza democratica quale è la nostra Costituzione, elimini un siffatto richiamo ideologico. Ma vi è, da un altro punto di vista, una ideologia alla quale una Costituzione non può [non] fare richiamo; ideologia non soltanto non pericolosa, ma necessaria. E quando io avrò spiegato brevemente che cosa intendevo per ideologia in questo senso, non dubito che tanto l'onorevole Togliatti, quanto l'onorevole Lucifero vorranno concordare, come in effetti hanno in gran parte concordato nel corso delle nostre discussioni in sede di Sottocommissione, nel ritenere che un tale richiamo largamente morale ed umano, è necessario nella nostra Costituzione. È necessario perché, elaborando il progetto di Costituzione e preparandoci a votarlo come adesso facciamo, noi attendiamo ad una grande opera: la costruzione di un nuovo Stato. E costruire un nuovo Stato, se lo Stato è — com'è certamente — una forma essenziale, fondamentale di solidarietà umana, costruire un nuovo Stato vale quanto prendere posizione intorno ad alcuni punti fondamentali inerenti alla concezione dell'uomo e del mondo.

Non dico che ci si debba dividere su questo punto, partendo ciascuno da una propria visione ristretta e particolare; ma dico che se nell'atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme, non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi — come siamo — da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un'elementare, semplice idea dell'uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri.

Costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di convivenza, non facciamo soltanto dell'organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell'avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato.

Quando io ripenso a quella che è stata la vigilia del 2 giugno, quando mi ritorna alla mente la mobilitazione spirituale che tutte quante le forze politiche hanno fatto nel nostro Paese — una mobilitazione la quale tendeva appunto a dare alcuni supremi orientamenti di vita umana e sociale — quando ripenso che questa mobilitazione era precisamente determinata dalla coscienza di questo grande atto che si stava per compiere, di questa grande e decisiva ricerca da fare, io dico che veramente di questa fondamentale ideologia che ci accomuna noi non possiamo fare a meno, se non vogliamo fare della nostra Costituzione uno strumento antistorico ed inefficiente.

Diceva l'onorevole Lucifero, nel corso del suo interessante intervento in sede di discussione generale, riprendendo un'idea lungamente espressa nella nostra cordiale discussione in sede di Sottocommissione, che era suo desiderio che la nuova Costituzione italiana fosse una Costituzione non antifascista, bensì afascista.

Io, come già ho espresso in sede di Commissione all'amico Lucifero qualche riserva su questo punto, torno ad esprimerla, perché mi sembra che questo elementare substrato ideologico nel quale tutti quanti noi uomini della democrazia possiamo convenire, si ricolleghi appunto alla nostra comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale. Non possiamo in questo senso fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale. (Applausi).

Guai a noi, se per una malintesa preoccupazione di serbare appunto pura la nostra Costituzione da una infiltrazione di motivi partigiani, dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce e la necessità di un raccordo alla situazione storica nella quale questa Costituzione italiana si pone. La Costituzione nasce in un momento di agitazioni e di emozione. Quando vi sono scontri di interessi e di intuizioni, nei momenti duri e tragici, nascono le Costituzioni, e portano di questa lotta dalla quale emergono il segno caratteristico. Non possiamo, ripeto, se non vogliamo fare della Costituzione uno strumento inefficiente, prescindere da questa comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia. Sono queste le cose che devono essere a base della nostra Costituzione e che io trovo in qualche modo espresse negli articoli che sto per esaminare.

Questa, ripeto, non è ideologia di parte, è una felice convergenza di posizioni. Io posso dare atto, come membro della prima Sottocommissione, che su questi punti non vi è stato mai fra noi e l'onorevole Lucifero e l'onorevole Togliatti alcun patteggiamento, perché effettivamente da ogni, parte si è andato, sia pure attraverso la fatica di alcune iniziali incomprensioni, verso questo punto comune nel quale veramente ci sentivamo uniti. Abbiamo soltanto trovato, pur in questa sostanza, in questa base comune, qualche difficoltà di comprensione. Talvolta i termini da noi usati sembrava che nascondessero qualche interesse di parte, ma poi, quando amichevolmente, cordialmente si conversava, si capiva che la sostanza era eguale e che si poteva passare al di là delle parole per cogliere il fondo comune. In realtà questa ideologia, questa sana accettabile ideologia che io ho racchiuso nelle due espressioni — libertà e giustizia sociale — si ritrova in questi tre articoli della Costituzione che noi esaminiamo e viene espressa come una indicazione dei fini del nostro Stato, del volto storico che assume la Repubblica italiana. Indubbiamente una indicazione di questo genere è indispensabile. Non avremmo ancora detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l'Italia è una Repubblica, o una Repubblica democratica. Occorre che ci sia una precisazione intorno ad alcuni orientamenti fondamentali che storicamente caratterizzano la Repubblica italiana.

Io, per questo, avevo proposto al nostro amabile Presidente della Commissione, onorevole Ruini, che i tre articoli, il primo, il sesto ed il settimo, fossero congiunti insieme, in quanto mi pareva che essi concorressero, da punti di vista diversi, a caratterizzare il volto storico dello Stato italiano. Sono prevalse altre ragioni, che sono ottime e dinanzi alle quali mi inchino, ma non volevo dimenticare questa mia modestissima proposta, la quale riconferma la mia vecchia idea che si tratti di articoli unitariamente confluenti per definire il carattere storico della Repubblica italiana.

Questi tre pilastri, sui quali mi pare che posi il nuovo Stato italiano sono: la democrazia, in senso politico, in senso sociale ed in senso che potremmo chiamare largamente umano.

Io richiamo l'attenzione degli onorevoli colleghi sul secondo comma dell'articolo 1, «La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi». Io non vorrei ora entrare nella disputa sottile che già è affiorata in seno alla prima Sottocommissione ed alla Commissione dei 75, la disputa circa l'appartenenza della sovranità, se sia più corretto dire che la sovranità emana dal popolo, o come ha accennato anche l'onorevole De Vita che la sovranità risiede nel popolo, o, come è stato detto da qualche altra parte, che la sovranità spetta allo Stato anche se emana dal popolo. Io vorrei precisare che non entro, per ragioni di tempo, in questa disputa sottile e degna degli altri oratori assai competenti che siedono in quest'Aula. A me pare, però, che la formula, sia pure indicata in questo modo — e le formule sappiamo che possono cambiare — anche così contrassegnata, serve bene a individuare l'appartenenza della sovranità in senso lato, cioè l'esercizio dei poteri politici, dei poteri di direzione della cosa pubblica in un regime democratico a tutti i cittadini, che sono, in quanto popolo, in condizioni fondamentali di eguaglianza nell'esercizio di questi poteri ed hanno la possibilità di determinare, mediante il loro intervento, la gestione della cosa pubblica nel senso più conforme all'interesse collettivo. È un punto, quindi, che mi pare sia al suo posto, in quanto richiama questo primo aspetto della democrazia italiana, la quale realizza, io credo — malgrado i dubbi che sono stati espressi qualche tempo fa dall'onorevole Crispo — realizza, attraverso la forma parlamentare, il suo carattere di democrazia. Ed è importante anche l'aggiunta, per la quale si dice che questa sovranità «è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Fummo noi, io ed alcuni colleghi, nell'ambito della prima Sottocommissione, che chiedemmo che vi fosse una indicazione di questo genere, la quale servisse a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità dello Stato è la sovranità dell'ordinamento giuridico, cioè la sovranità della legge.

Non è il potere dello Stato un potere o un prepotere di fatto, è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell'ambito dell'ordinamento giuridico formato appunto della Costituzione e delle leggi. E anche questa mi sembra rilevantissima affermazione e dal punto di vista politico e anche da quello pedagogico, direi, che non dovrebbe essere estraneo alle intenzioni di coloro che compilano una Costituzione per un popolo che per 20 anni è stato diseducato e ha bisogno di essere richiamato e riabituato a queste idee fondamentali attraverso le quali soltanto si garantisce la dignità e la libertà degli uomini.

Vengo ora all'altra parte dell'articolo 1: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Permettetemi su questo punto di ricordare, in quanto membro della Commissione, la storia di questo articolo, anche per contribuire a chiarirne il senso e a dissipare alcuni dubbi che già sono affiorati, in seno soprattutto alla Commissione dei 75. Ricordo che questo articolo in sostanza fu proposto dal nostro amico La Pira il quale, nel suo slancio generoso, nel suo desiderio di contribuire in ogni modo all'affermazione più piena della dignità umana, vagheggiava di inserire nella Costituzione un articolo nel quale fosse consacrato quello che egli chiamava lo status del lavoratore, cioè una condizione giuridica particolare dell'uomo che lavora e che doveva essere considerata fondamento di diritti. Furono fatte a questa proposta dell'amico La Pira alcune obiezioni, che in realtà non erano fondate, e, nella dinamica dei lavori per la Costituzione, questa proposta, che pure aveva trovato una prima articolazione, fu fatta cadere. Restò, di quella formulazione primitiva, questa idea che evidentemente è un'idea cristiana, un'idea democratica, che cioè bisogna dare al lavoro una particolarissima considerazione, che bisogna impegnare la nuova democrazia italiana in questo processo di elevazione dei lavoratori e di partecipazione la più piena dei lavoratori stessi all'organizzazione economica, politica e sociale del Paese. Questo il senso della disposizione: un impegno cioè del nuovo Stato italiano di proporsi e di risolvere nel modo migliore possibile questo grande problema, di immettere sempre più pienamente nell'organizzazione sociale, economica e politica del Paese quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall'organizzazione economica e sociale. Nessun intento di esclusione pertanto. Non si voleva, da parte dei proponenti dichiarare che questa qualifica, intesa in senso stretto, come è indicato nell'articolo, fosse la condizione indispensabile per essere considerati cittadini e trattati come tali. Il problema della cittadinanza, cioè della pienezza dei diritti civili e politici, è risolta dalla prima parte dell'articolo 1, in quanto dichiara: l'Italia è Repubblica democratica, cioè stato di tutti i cittadini e risolta dagli altri due o tre titoli della prima parte di questa Costituzione, nei quali si tratta dei cittadini nel senso più largo dell'espressione. Si poneva semplicemente un problema di carattere strettamente politico, indicando come una meta di notevole importanza nella costruzione del nuovo Stato, questa, cioè, di dare accesso in modo reale, pieno e costruttivo, alle forze lavoratrici nella vita del nostro Paese.

Ed io ricordo di più che questa proposta La Pira — chiamiamola così — venne presentata in contrapposto amichevole ad altra proposta dell'onorevole Togliatti, quella alla quale egli si riferiva ancora qualche giorno fa nel suo notevole intervento, in sede di discussione generale, quando domandava ancora che la Repubblica democratica italiana fosse qualificata come Repubblica di lavoratori. Ed assicurava, colla consueta amabilità, l'onorevole Togliatti che tale espressione non doveva essere intesa in nessun modo in senso classista, ma voleva indicare soltanto la convergenza di tutte le forze produttive verso questo punto di incontro, il lavoro, che permette alla Repubblica italiana di essere qualificata, senza esclusioni, come Repubblica di lavoratori.

Ed indubbiamente la suggestione che una simile espressione può avere per un cristiano, in quanto eccita la sua sensibilità tradizionale per la sorte della dignità umana e per la sorte delle classi meno abbienti e più sfortunate, può essere grande. Ma vi era da parte nostra, in sede politica, una considerazione da fare: che quella espressione, sia pure chiarita così nettamente dell'onorevole Togliatti, avrebbe assunto fatalmente un significato classista.

Ed ecco la nostra contro-proposta, che salva di quella dell'onorevole Togliatti la sostanza, assegnando allo Stato italiano questa meta altissima di dare pienezza di vita sociale, politica ed economica alle classi lavoratrici.

Quindi, nessun significato di esclusione; soltanto un impegno della nuova democrazia italiana in questa strada di elevazione morale e sociale. E io credo che nessun uomo onesto, che segga in questa Assemblea — e, quindi, penso, nessuno tra noi — potrà respingere il significato di questa affermazione. Si potrà chiarire la sua portata, si potranno fare delle aggiunte, allo scopo di rendere indubbio che la cittadinanza democratica è cosa indipendente dalla qualifica di lavoro; ma non si potrà negare che il compito storico che sta dinanzi alla democrazia italiana, in quanto essa persegue il potenziamento della dignità umana, sia di immettere nella pienezza della vita del Paese le classi lavoratrici.

A questo punto io credo si debba ricollegare l'altro che costituisce l'ultima parte dell'articolo 7:

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui ed impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Evidentemente siamo, in questa applicazione del principio dell'eguaglianza, nello stesso ordine di considerazione cui adesso facevo cenno.

Si tratta di realizzare in fatto, il più possibile, l'eguale dignità di tutti gli uomini.

Il senso di questo articolo è precisamente questo. Non accontentiamoci di parole, di dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che, il più possibile, siano in fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini.

Quindi anche questa parte dell'articolo 7 ha un significato evidente, discreto, accettabile e non credo che possa dare, così inteso e così inquadrato, alcuna preoccupazione. Comunque, anche qui le possibilità di modificazioni, di chiarimenti formali sono sempre aperte.

E ora permettetemi che io dica qualche cosa sull'articolo 6.

L'articolo 6 era inizialmente l'articolo 1° del progetto della prima Sottocommissione. Vi abbiamo lavorato per molti giorni. Ripeto, non abbiamo incontrato difficoltà di sostanza, abbiamo incontrato delle difficoltà di forma, di comprensione del nostro punto di vista. In fondo in questa rivendicazione della dignità, della libertà dell'uomo, dell'autonomia della persona umana non vi poteva non essere concordanza. L'onorevole Basso che lavorava con noi, dopo qualche esitazione di carattere formale, ha finito per convenire circa l'opportunità di formulare in un articolo i principî inviolabili e sacri di autonomia e di dignità della persona.

È un articolo che ha un duplice riferimento.

A prescindere dall'ultima parte nella quale si parla dei doveri di solidarietà economica, politica e sociale, doveri che sono strettamente connessi con i punti ai quali ora ho accennato, l'articolo 6 ha due riferimenti: alla dignità, autonomia e libertà della persona umana, e ai diritti delle formazioni sociali ove si svolge la personalità umana.

L'opportunità, la necessità di questi riferimenti mi pare scaturiscano da queste considerazioni fondamentali. Abbiamo detto che occorre definire il volto del nuovo Stato in senso politico, in senso sociale, in senso largamente umano. L'articolo 6 riguarda quest'ultimo punto. Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell'uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l'autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità.

Qui non è un problema teoretico che noi solleviamo. Io potrei richiamarmi — non lo faccio perché non credo sia il caso di perder tempo — potrei richiamarmi senz'altro a tutto quello che ha detto qualche giorno fa l'onorevole La Pira nel suo elevatissimo discorso, nel quale ha svolto la concezione del pluralismo sociale e giuridico.

Egli ha chiarito questa caratteristica considerazione della società, la quale non è unica, non è monopolizzata nello Stato, ma si svolge liberamente e variamente nelle forme più imprevedute, soprattutto in quelle fondamentali, che corrispondono più pienamente alle esigenze immancabili della personalità umana.

Vorrei proporre qui non il problema scientifico del pluralismo giuridico, ma il problema del pluralismo pratico e politico, ricordando ancora una volta, perché siamo ancora sotto l'azione degli insegnamenti che ci vengono dalla tirannide donde siamo usciti, ricordando ancora le lunghe, dure compressioni non soltanto della dignità della persona direttamente considerata, ma della dignità della persona considerata nelle formazioni sociali nelle quali essa si esprime e si compie. Io credo che sia più duramente offensiva una menomazione di libertà umana, fatta attraverso i vincoli sociali che sono particolarmente cari, quella che investe un campo più vasto e impegnativo, nel quale si moltiplicano gli interessi e le possibilità individuali. Quando discutevamo di questa materia con l'amico onorevole Basso, qualche volta, da parte sua e da parte dell'amico onorevole Marchesi, ci è venuta questa obbiezione: voi parlate di comunità naturale; ma non vi è nulla di naturale in questo senso. Si tratta sempre di formazioni storiche, si tratta sempre di formazioni sociali. Si diceva: la personalità umana come potete concepirla fuori della società che la determina, fuori della società che contribuisce alla sua configurazione? La stessa famiglia è un prodotto storico ed essa ha una funzione sociale nel senso più largo.

Ma, alla fine, noi siamo riusciti a farci capire. Si parli pure di storicità, in questo senso, come noi parliamo dal nostro punto di vista di naturalità. Non poniamo una cosa contro l'altra, ché non si tratta di cose diverse.

Sta di fatto che la persona umana, la famiglia, le altre libere formazioni sociali, quando si siano svolte sia pure con il concorso della società, hanno una loro consistenza e non c'è politica di Stato veramente libero e democratico che possa prescindere da questo problema fondamentale e delicatissimo di stabilire, fra le personalità e le formazioni sociali, da un lato, lo Stato dall'altro dei confini, delle zone di rispetto, dei raccordi.

Ed io insisto, onorevoli colleghi, su questo punto: quello dei raccordi da stabilire, perché, quando noi parliamo di autonomia della persona umana, evidentemente non pensiamo alla persona isolata nel suo egoismo e chiusa nel suo mondo. Non intendiamo — ritorneremo su questo fra qualche giorno, studiando gli argomenti della famiglia e della scuola — non intendiamo di attribuire ad esse un'autonomia che rappresenti uno splendido isolamento. Vogliamo dei collegamenti, vogliamo che queste realtà convergano, pur nel reciproco rispetto, nella necessaria solidarietà sociale. (Applausi al centro).

Abbiamo con queste norme, con gli articoli uno, sei e sette, garantito, se noi sapremo essere fedeli a questi principî nel corso della futura attività legislativa e politica, l'effettiva democraticità dello Stato italiano.

Questi principî costituiscono, io credo, la chiave di volta della nostra Costituzione, il criterio fondamentale di interpretazione di essa. Come potremo intendere il valore delle norme relative ai diritti civili, ai diritti politici, ai diritti economici, ai diritti etico-sociali, se non avremo chiaramente posto questi principî fondamentali, di cui tutti gli altri non sono che un'applicazione? Si potrà dire: ma, in fondo, noi potremo desumerli questi principî di qua e di là. Prima dalla stampa e poi in questa autorevole sede, è andata serpeggiando la critica che tali cose non fossero da inserire nella nostra Costituzione. Si dice, infatti; che sono cose che, al più fanno parte di un preambolo della Costituzione, ma non sono norme di legge, perché non creano diritti azionabili, non conferiscono possibilità immediate, pretese nei confronti dello Stato. Si dice che la Costituzione regola l'organizzazione dello Stato, ovvero disciplina i diritti concreti, cioè conferisce delle pretese nei confronti dello Stato, in relazione ai limiti posti allo Stato.

Io penso che vi sia nella Costituzione qualche cosa di più; e mi confermo in questa tesi, se penso a quella che è stata ed è la nostra passione, non dico di noi come Assemblea, ma dico di noi come popolo italiano nelle sue più nobili espressioni. Abbiamo sentito nell'atto in cui quest'Assemblea si eleggeva, e di momento in momento, quando essa veniva funzionando, abbiamo sentito che non era in giuoco una piccola cosa, una piccola vicenda accessoria; ma era veramente in giuoco tutta la civiltà del nostro Paese. Io non mi sentirei — dico, ho una certa ripugnanza — a porre un problema tecnico in questa sede, per quanto riguarda queste norme, una pregiudiziale tecnica, quando siamo di fronte ad un documento di importanza storica, qual è questa Costituzione.

Veramente fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principî orientatori di tutta la futura attività dello Stato. Parlare di preambolo sotto questo profilo, mi sembra veramente ancora molto poco. Quando l'onorevole Calamandrei diceva che vi sono dei diritti nella Costituzione, dei quali si deve dichiarare la immutabilità, la superiorità su ogni legislazione positiva, io mi domandavo: «Ma quale diritto più di questo della dichiarazione della dignità umana, della solidarietà sociale, dell'autonomia delle associazioni umane; quali principî più stabili e più immutabili di questi?». E mi pare, vedete, che si possa dare un'espressione tangibile a questa immutabilità, la quale è stata affermata così autorevolmente da un maestro quale l'onorevole Calamandrei, proprio ponendo nella Costituzione questi principî, ponendoli nella Costituzione come norme di legge e facendoli superiori alla legge ordinaria e inattingibili da essa.

Si dice: «Ma qual è l'effetto giuridico che producono queste norme»? L'effetto giuridico è quello di vincolare il legislatore, di imporre al futuro legislatore di attenersi a questi criteri supremi che sono permanentemente validi. Ciò significa stabilire la superiorità della determinazione in sede di Costituzione di fronte alle effimere maggioranze parlamentari. Quando si parla di tante norme che andiamo discutendo e ci si scandalizza che siano norme costituzionali, bisognerebbe dire: ma in fondo questo non significa altro che sottrarle all'effimero giuoco di alcune semplici maggioranze parlamentari. Quindi, lasciamo che queste norme, che rappresentano i principî dominanti della nostra civiltà e gli indirizzi supremi della nostra futura legislazione, restino in sede giuridica, come formulazione di leggi. Io non vedrei contro questo altro che motivi di opportunità. Li potrei capire cioè, ma non li vedo. Io penso che un preambolo si possa fare. Un preambolo io lo intendo come una motivazione storico-politica, una individuazione del momento storico nel quale nasce la Costituzione. Io penso che si possa dire — che sia opportuno dire — qualche cosa su questo punto, se così sembrerà attraverso l'esame che faremo del progetto. Certamente la rivendicazione della libertà della persona, dell'autonomia delle formazioni sociali, della democraticità e socialità dello Stato, sono rivendicazioni che noi facciamo di fronte al fascismo e contro il fascismo; sono quelle da cui emergiamo per creare un avvenire più degno. Ma non sono soltanto una motivazione, onorevoli colleghi: esse sono anche davanti a noi come mete da realizzare. Mi parrebbe, relegandole nel preambolo, di averle come fissate in quel punto, di averle esaurite nel passato, quasi non fossero questi i principî ai quali ispirarsi nella soluzione del nostro quotidiano problema, che non è finito, che non è risolto; esso si porrà sempre più vivo, ogni giorno, perché questa è la debolezza umana, questa è la complessità dei problemi sociali.

Abbiamo bisogno perciò di questo sicuro criterio di orientamento, per una lotta che non è finita adesso e che non può finire, lotta per la libertà e per la giustizia sociale. (Vivi applausi).

(La seduta, sospesa alle 17,45, è ripresa alle 18,10).

Presidente Terracini. E iscritto a parlare l'onorevole Bencivenga. Ne ha facoltà.

Bencivenga. Non dispiaccia all'Assemblea ch'io la trattenga, come al solito per breve tempo, su quanto il progetto di Costituzione stabilisce circa l'argomento guerra, circa questo evento fatale che scuote profondamente la vita dei popoli.

Ho chiesto di parlare su questo capitolo delle disposizioni generali, perché è in questo capitolo che all'articolo 4 si comincia ad affrontare tale argomento sul quale si ritorna in successivi articoli del testo; ma tutti così strettamente collegati ed interdipendenti, che si rende necessario, per venire a logiche conclusioni, uno sguardo di insieme.

In sintesi dirò che il progetto di Costituzione tocca due questioni: la base etica della guerra, il modo col quale la sovranità del popolo debba essere esercitata per la decisione di far ricorso all'uso delle armi: ed infine — ed in modo alquanto oscuro — chi debba assumere il comando delle forze armate e la responsabilità della condotta della guerra.

È ovvio che tali questioni si presentano in modo diversamente complesso a seconda del reggimento dei popoli. Di massima semplicità, quando essi siano retti da un Capo arbitro della pace e della guerra; di natura assai più complessa quando la sovranità risieda nel popolo.

Nella storia moderna il primo caso ha un esempio tipico nell'impero napoleonico, nel quale il Capo dello Stato era anche il condottiero. In questi si assommavano gli elementi inscindibili: politica e condotta della guerra; fattori codesti strettamente interdipendenti, poiché come ho già detto altra volta, la guerra è la continuazione della politica con le armi alla mano.

E, quando dico politica, mi riferisco non soltanto alla politica estera, ma anche a quella interna, cioè alla preparazione degli animi dei cittadini che dovranno affrontare la morte ed i sacrifici che la guerra impone.

La questione è assai più complessa e le difficoltà cominciano a rivelarsi nelle monarchie costituzionali in senso crescente con la maggiore quantità dei poteri che la Costituzione riserva alle Assemblee che traggono i loro poteri dal popolo. Le difficoltà sono poi grandi negli Stati retti a Repubblica, quando tutto il potere è al popolo; tanto più poi quando in esso difetti educazione politica e non si dimostri vigile ai pericoli derivanti dalla possibilità dei colpi di Stato.

Noi oggi ci troviamo a compiere il gran passo di trasferire quei poteri, che lo Statuto albertino assegnava al sovrano nel campo della decisione della guerra e del comando delle forze armate, ai rappresentanti diretti del popolo. E non è cosa facile e non ci sembra che la Commissione dei settantacinque abbia ben approfondito il problema.

Né è possibile prendere a modello quello che, nelle rispettive Costituzioni, sanciscono altre repubbliche; poiché bisogna tener conto della interpretazione e dell'applicazione che esse hanno ricevuto nel tempo e delle particolari condizioni storiche, geografiche in cui dette repubbliche si trovano.

I nostri colleghi hanno attinto molto dalla recente Costituzione francese, ma non hanno tenuto conto che molti di questi principî risalgono alla rivoluzione del 1789 e sono stati ribaditi in tutte le Costituzioni successive, il che non ha impedito alla Francia di prendere l'iniziativa o partecipare a numerose guerre nel secolo scorso o nel nostro secolo, anche e molto spesso in contrasto — per lo meno letterale — coi principî sanciti nelle varie Costituzioni.

Come è noto, lo Statuto albertino, all'articolo 5, stabiliva:

«Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere, tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune...».

Coll'evolversi delle nostre istituzioni in senso democratico, questi poteri di fatto erano molto diminuiti. Il Parlamento, guidato dalla pubblica opinione, che soprattutto si rivelava per mezzo della stampa, limitava i poteri del sovrano nei trattati di alleanza e soprattutto nella dichiarazione di guerra.

Il comando di tutte le forze di terra e di mare non era assoluto. In tempo di pace era virtualmente esercitato dai Ministri, sotto il controllo del Parlamento; in tempo di guerra il comando effettivo veniva assunto dal Capo di Stato Maggiore, la cui nomina, almeno formalmente, era fatta dal Governo.

Tuttavia il sovrano non restava estraneo alla condotta della guerra. L'educazione e la cultura che veniva data ai principi, li rendeva atti ad un'azione di controllo e talvolta, come avvenne nella grande guerra, ad un deciso intervento, come dopo l'episodio di Caporetto.

Ora si tratta di trasformare tutto codesto processo, ma non si può approvare il semplicismo, adottato dalla Commissione dei settantacinque, di trasferire nella nostra Costituzione quello che è nella Costituzione francese.

Anche perché ogni Paese ha le sue esigenze di carattere tecnico e politico, dipendenti dalla situazione geografica e dai reggimenti politici delle nazioni con esse confinanti, né astrarre dalle ambizioni di conquista che tali nazioni nutrono.

È ovvio infatti che diverse sono le condizioni nelle quali si deve deliberare la guerra quando le frontiere sono chiuse ad ogni invasione immediata, quando cioè nessun pericolo improvviso sia da tenere, quando la cosiddetta «isolation» (che, a dire il vero, oggi non esiste più per nessuno Stato, colla adozione della bomba atomica!) permette di decidere in tutta tranquillità se si debba o no scendere in campo.

Né è lecito fare astrazione dalla natura e dall'aspirazione dei popoli confinanti. È logico che quei Paesi che hanno ai loro confini popoli turbolenti, dai quali possono temere aggressioni, giustificate talvolta dall'infatuazione messianica di apportare nuova civiltà od una particolare ideologia politica (similmente a quanto fece la Francia dopo la rivoluzione del 1789), non possono sottoporre la decisione della pace e della guerra a complesse deliberazioni di Assemblee, nelle quali facilmente si delineerebbe il contrasto tra i fautori di una nuova civiltà e coloro che ad essa fossero avversi.

Abbiamo detto che la nostra Costituzione ha preso a modello la Costituzione francese.

Ebbene, a riguardo dell'articolo 4, secondo il quale l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli — principio indubbiamente nobilissimo — io domando all'Assemblea: siamo anche noi d'accordo nel dare ad esso l'interpretazione che a questo principio, sancito nella Costituzione francese dal 1789 in poi, ha dato la Francia?

Al riguardo mi si consenta di dare qui l'interpretazione che, subito dopo la Costituzione francese del 1848, dava un commentatore della medesima. Si rifletta che detta Costituzione è forse una delle più organiche e complete fra le numerose Costituzioni che si sia data la Francia, e già risente dell'ansia di risolvere quei problemi di natura politico-sociale che oggi angustiano i popoli.

Orbene, il commentatore al quale mi riferisco, il Saint Prix — dirò in sintesi il suo pensiero — esclude dalla classifica di guerre di conquista quelle intese al raggiungimento dei confini naturali (l'eterna ossessione della Francia per la sicurezza!) e giustifica quelle intese a portare la libertà nei popoli che secondo l'autore non è in quelli retti a monarchia! Ed infine l'autore conclude il suo lungo commento con l'osservare che essendo il popolo sovrano, esso ha diritto di fare le guerre che vuole...

E nella realtà il popolo francese ha ritenuto giuste tutte le guerre che ha fatto, anche quando, evidentemente, si proponeva propositi di egemonia e di conquista, naturalmente mascherandole sempre dietro gli immortali principî del 1789.

E poiché noi oggi, per la prima volta, poniamo in testa alla nostra Costituzione detto principio, è doveroso, ripeto, chiedere all'Assemblea se intenda oppure no, dare ad esso l'interpretazione che ne ha dato la Francia dal 1789 ai nostri giorni.

Non dimentichiamo che la Francia, pur avendo nella Costituzione successiva alla disfatta del 1870-71 un tale principio, non cessò mai, come era giusto e naturale, di pensare alla rivendicazione dei territori nazionali perduti, come ne era prova il fatto di aver velato a lutto la statua simboleggiante l'Alsazia e Lorena.

E guardate che la mia domanda ha uno scopo pratico. Perché della pace e della guerra — a senso dell'articolo 75 — dovrebbe decidere l'Assemblea Nazionale: un'Assemblea di circa un migliaio di membri, tra Deputati e Senatori. Aggiungerò anzi che la nostra Costituzione va ancora più in là: cioè (cosa che la nuova Costituzione francese non sancisce) vuole che sia la nostra Assemblea Nazionale a decidere anche della mobilitazione.

Non rilevo tutto l'assurdo di questa disposizione, sulla quale, se sarà il caso, ritornerò a suo tempo. Mi limito ora a far osservare che se dovesse restare in vigore, credo che difficilmente si troverebbe un capo di Stato Maggiore che potesse assumere la responsabilità di un'eventuale guerra. È ovvio infatti che, poche ore dopo la decisione di entrare in guerra presa dall'Assemblea, sarebbe paralizzato dall'uso dell'arma aerea tutto il sistema di trasporti ferroviari, ed anche il traffico sulle rotabili con la distruzione dei ponti.

D'altra parte, non si dimentichi che elemento pressoché decisivo del successo, sia nel campo tattico sia in quello strategico, è la sorpresa, e questo fattore così importante di successo sarebbe escluso, quando la mobilitazione dovesse essere decisa dall'Assemblea. Non è mistero per alcuno, che tutte le guerre moderne sono state precedute dalla cosiddetta mobilitazione occulta, la quale può essere anche una preventiva misura a scopo di difesa.

Se realmente un'Assemblea, di circa un migliaio di persone, dovesse decidere della guerra e della mobilitazione, potrebbe ad esse avvenire quello che avvenne ai coalizzati contro il grande Napoleone, il quale, di fronte alle discussioni sul da fare tra i coalizzati, disse la celebre frase: «Tandis qu'ils délibèrent, la grande armée marche»...

Ma non è sull'argomento della mobilitazione che io voglio indugiarmi, bensì richiamare l'attenzione sul fatto che l'Assemblea Nazionale, secondo il progetto, dovrebbe decidere della pace o della guerra, il che richiede che sia chiarita la portata reale effettiva dell'articolo 4 delle disposizioni generali. Poiché le discussioni potrebbero essere lunghe ed inconcludenti, e, qualora mancasse l'unanimità, esse lascerebbero nel popolo quell'indecisione sulla legittimità e l'opportunità della guerra che costituisce un fattore psicologico di grande importanza, e che, per esperienza, sappiamo aver avuto nella grande guerra (per il dissidio tra i neutralisti ed interventisti) un'influenza che, per poco, non ci condusse al disastro.

Presidente Terracini. Permetta, onorevole Bencivenga: noi non esaminiamo ora l'articolo 75, dove si parla della dichiarazione di guerra.

Bencivenga. Onorevole Presidente, la guerra è un tutto unico; sono stati fatti dei capitoli sull'economia, sulla vita sociale... (Commenti).

Presidente Terracini. Non voglio impedirle di parlare; le facevo presente soltanto questo: che lei si diffonde sul contenuto dell'articolo 75, che è quello che prevede il modo di dichiarare la guerra, mentre l'articolo quarto afferma, e speriamo che valga, che la guerra non si possa fare. (Approvazioni a sinistra).

Bencivenga. Non c'è niente di politico in questo; è una questione tecnica.

Presidente Terracini. Io non le ho fatto una osservazione di carattere politico. Ho cercato soltanto, come cerco con tutti, di contenere le nostre discussioni entro certi limiti; e ricordo, come ho detto all'inizio della seduta, che vi sono 272 iscritti.

Bencivenga. La questione non riguarda soltanto un partito, ma tutti i partiti politici. Si tratta della pace e della guerra e dobbiamo vedere come viene regolata tutta questa materia. Del resto chiedo soltanto dieci minuti ed ho finito.

Presidente Terracini. Prosegua pure, onorevole Bencivenga.

Bencivenga. La recente Costituzione francese, conforme alle sue precedenti, stabilisce bensì essere potere dell'Assemblea, previo parere del Consiglio della Repubblica, di decidere della pace o della guerra (si guarda bene di toccare la questione della mobilitazione), ma su questa prerogativa dell'Assemblea di decidere della pace e della guerra non sarà superfluo ricordare quanto il Saint Prix scrive nel commento alla Costituzione del 1848: «Non si esageri — dice il nostro autore — l'efficacia pratica della regola; introdotta nella Costituzione consolare, essa non impedì a Napoleone di incendiare l'Europa con il pericolo della Francia». Le precauzioni più salutari restano impotenti quando l'opinione pubblica non ne reclami altamente l'esecuzione. Egli è, onorevoli colleghi, che la salvaguardia contro la guerra ingiusta non può essere riposta in rimedi, dirò così, in extremis, ma nel retto funzionamento delle istituzioni democratiche e in definitiva della libertà.

La guerra, come ho ripetutamente detto, soprattutto per aprire le menti di coloro che hanno della guerra e della pace un concetto semplicistico, trova le sue origini nella politica ed è in questo campo che le Assemblee debbono mostrarsi attente e vigilanti ed a loro volta farsi interpreti della pubblica opinione non coartata da leggi che offendono la libertà, soprattutto di quella della stampa, che tanto più potrà agire con senso di responsabilità quanto più essa acquisti coscienza del proprio compito.

Ma io mi avvedo che l'ora passa e mi preme toccare un altro argomento che riguarda il comando delle forze armate.

È questo un punto sommamente delicato per una Repubblica; poiché altro è il diritto che le varie Costituzioni dei regimi monarchici riconoscevano al Sovrano (specie nelle monarchie costituzionali come era divenuta la nostra), altro è quello che si può riconoscere ad un Presidente di Repubblica. Le ragioni sono ovvie. Le forze armate dipendenti da un Presidente possono favorire un colpo di Stato che significherebbe la fine della Repubblica e delle libertà civili.

Orbene, l'articolo 83 del nostro progetto di Costituzione stabilisce quanto segue: il Presidente della Repubblica... «ha il comando delle forze armate; presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall'Assemblea Nazionale».

Quasi con le stesse parole ritroviamo questo articolo nella presente Costituzione francese. Vi è però una differenza, che può apparire trascurabile a chi non vi porti grande attenzione. Ed è là dove, dopo aver detto che presiede il Consiglio superiore e il Comitato di difesa nazionale, aggiunge, «e prende il titolo (sottolineo queste parole) di comandante delle forze armate». Il titolo dunque, non il comando effettivo.

La Costituzione del 1848 era ancora più esplicita. All'articolo 50 diceva: Il «Presidente dispone della forza armata, senza poter «jamais» (sottolineo il jamais) comandarla di persona».

Se voi, onorevoli colleghi, mettete in relazione i due testi del 1848 e quello della recente Costituzione e la lunga tradizione che ne è seguita, non vi è alcun dubbio sulla determinazione che giammai il Capo della Repubblica potrà assumere il comando effettivo, come era del Sovrano, delle forze armate; ma quale interpretazione possiamo noi dare all'articolo 83 della nostra Costituzione?

Chi allora avrà il comando in guerra che una volta aveva il Sovrano, il quale, come è noto, la esercitava attraverso il suo Capo di Stato Maggiore generale? Daremo il comando ad un generale. E se questi avesse le ambizioni di un Buonaparte?

Mi riservo di ritornare a suo tempo, quando verranno discussi a suo tempo i poteri del Presidente della Repubblica, la questione del modo con il quale siano garantite le civiche libertà e siano poste al sicuro le nostre istituzioni democratiche da avventure simili a quelle di Luigi Buonaparte.

E sempre per restare nell'ambito del problema militare, mi sia concesso esprimere il mio dubbio circa l'opportunità di quella, indubbiamente nobilissima, dichiarazione, della seconda parte dell'articolo 4, secondo la quale «l'Italia consente, a condizioni di reciprocità ed eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».

Noi, che conosciamo tutti gli orrori della guerra, perché nessuno come chi ha tenuto elevati comandi di truppe può averne sensazione esatta, siamo tra i più ferventi apostoli della abolizione di tutte le guerre. Ho anche scritto in proposito sulla rivista L'europeo qualunque uno studio circa l'organizzazione militare di una federazione di Stati europei, suscettibile di essere estesa ad un complesso sempre maggiore di Stati aderenti al concetto della unione tra i popoli.

Ma, è ovvio, che nessuna adesione a progetti del genere può essere presa in considerazione dal nostro Paese dopo l'iniquo Trattato di pace. Uno Statuto che si prefiggesse di eternare lo status quo non potrebbe trovare il consenso di quegli italiani che il «Diktat» ha strappato alla Patria!

La Francia ha anch'essa inserito nella sua nuova Costituzione qualche cosa di simile. Ma, onorevoli colleghi, la Francia oggi può permettersi il lusso di dichiararsi disposta ad un accordo internazionale che impedisca la guerra. Essa ha realizzato il suo sogno di egemonia e di sicurezza. E tale sicurezza ha interesse a completare con una garanzia internazionale. Però, per la sua sicurezza, essa non ha esitato a ripudiare quel concetto delle frontiere naturali a nostro riguardo, assicurandosi teste di ponte per la facile invasione del Piemonte!

Io mi domando poi se un articolo analogo avrebbe posto nella sua Costituzione del 1875, dopo la perdita dell'Alsazia-Lorena! Il suo motto allora fu la «revanche». Noi non ne seguiremo l'esempio (Commenti), ma neppure suggelleremo, con un impegno internazionale, il delitto da essa commesso contro il nostro Paese, al quale deve se ha potuto resistere sulla Marna nella grande guerra del 1914-1918. (Approvazioni a destra).

Dato che negli articoli della Costituzione è un principio etico, morale ed un impegno di leale osservanza, io non credo opportuno inserire quella dichiarazione della seconda parte dell'articolo 4, che potrà trovare invece più opportuna sede in dichiarazioni di Governo.

E concludo. Dal breve cenno che abbiamo dato sul complesso problema della guerra appare evidente che il progetto di Costituzione, per questa parte, debba essere riveduto a fondo con il concorso di esperti, non solo nel campo militare, ma di esperti in politica estera, e, perché no, anche di politica interna. E questo voto io faccio al disopra di ogni intendimento politico di partito, ma nel supremo interesse della nostra Patria! (Applausi a destra).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.

Vinciguerra. Onorevoli colleghi, sento che si parla con un certo disagio per fare delle pedestri osservazioni in un'atmosfera così incandescente come quella che ci ha portato l'onorevole Bencivenga. (Commenti).

Io cercherò di non scottarmi, e me la sbrigherò rapidamente, annunziandovi subito che parlo, senz'altro sugli articoli 1 e 2.

Noi entriamo, anzi siamo entrati, in un dibattito prevalentemente giuridico, in cui penso che non siano consentite divagazioni, del resto molto facili. C'è una specie di tentazione a fare degli excursus, in quanto trattiamo argomenti fra i più suggestivi, quali la sovranità dello Stato, la sovranità della Chiesa, l'indissolubilità del matrimonio, che spinsero persino l'insigne onorevole Croce a recitare in fine della sua nobilissima orazione il «Veni, creator Spiritus». Sarebbe, dunque; facile addentrarsi in una prova di dottrina, la quale, però, in questa Assemblea esclusivamente politica, sarebbe perfettamente inutile; ovvero, se non fosse un'imbottitura, potrebbe essere un modo come un altro di imbrogliare le carte in tavola. Non lo dico per l'onorevole La Pira, che ha parlato nella massima buona fede, ma per chiunque possa addentrarsi in questo campo esploratissimo. Però, se c'è una cosa che si deve dire senz'altro, è che, avviandoci a questa discussione conclusiva che riguarda la Carta costituzionale della Repubblica, dovremmo tutti, per un impegno reciproco, sentirci liberi da vincoli di mandato. Questo è scritto anche nella Costituzione; mi sembra, però, una delle norme destinata ad essere violata prima ancora che la Costituzione trovi applicazione.

Liberi da mandato, perché dobbiamo decidere di interessi che non sono di questo o di quel partito, ma, io penso, della Nazione.

Per conto mio mi ispirerò a questa condotta, e per ciò nessuno si meraviglierà se qualche mia dichiarazione apparirà poco ortodossa.

Dice l'articolo 1: «L'Italia è una Repubblica democratica.

«La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Sarà chiesta la seguente modifica: «L'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». Ebbene, con tutti questi presupposti di lavoro e di lavoratori, la cosa più strana è che, niente di meno, proprio l'organizzazione sindacale è stata dichiarata libera, in virtù dell'articolo 35; di modo che noi ci diamo tanto da fare per introdurre questi lavoratori o sotto la forma generica di lavoro, o sotto quella concreta e specifica di lavoratori, e i lavoratori invece, nell'organizzazione sindacale, sono in isciopero, per quanto sia vero che questo progetto di Costituzione autorizza lo sciopero anche nei pubblici servizi. Ma l'onorevole La Pira mi insegna che, in tal modo, verrebbe a mancare uno degli elementi essenziali dello Stato: la popolazione. È una stranezza, se penso che una Carta costituzionale del secolo XX — mi pare che viviamo proprio in questo beato secolo — non può ignorare un fenomeno preminente, come quello sindacale, che riguarda la società nel suo complesso. Anzi, se c'è un modo mediante il quale una Costituzione dei nostri giorni possa distinguersi dalle Carte dell'Ottocento, esso è appunto quello di regolamentare il movimento sindacale; tanto più che, a questo movimento era da assegnarsi una funzione costituzionale, visto che, nel progetto, la pluralità di organi costituzionali non è davvero eccessiva. I sindacati dovrebbero, in questo senso, costituire un elemento di equilibrio.

Quando io penso che la teoria della divisione dei poteri non è del tutto superata e che dall'altra è garanzia della libertà, la mia meraviglia aumenta, e pertanto proporrò una modificazione dell'articolo 35, quando verrà in discussione.

Mi piace, ora, rilevare che la dizione di questo articolo — me lo permetta l'onorevole Ruini — è un plagio autentico della 3ª dichiarazione della Carta del Lavoro.

Voi sapete, però, in che modo quel regime rispettò l'impegno: il sindacato servì per i suoi fini, e la costruzione dello Stato corporativo se valse, sotto un'eleganza giuridica, a far conseguire lauti guadagni a parecchi, asservì il sindacato, creò un'atmosfera di polizia, imprigionò le masse.

Quando abbiamo di questi esempi e questi precedenti, in verità è molto dubbio se non ci si voglia giocare lo stesso tiro, se cioè questa organizzazione sindacale non debba essere la massa di manovra, non sappiamo per quale impresa contro la Repubblica quanto meno contro quella democratica. Certo, l'assenza di una disciplina giuridica dell'organizzazione sindacale nella Costituzione è una delle ragioni di sospetto e di preoccupazione che io sinceramente denuncio all'Assemblea.

Ho sentito fare una discussione alquanto bizantina in ordine all'ultimo comma dell'articolo 1. Si dice nel progetto: «La sovranità emana dal popolo»; si è però osservato che la sovranità «risiede» nel popolo, oppure «appartiene» al popolo. Si può anche pensare diversamente, con ogni rispetto e ammirazione per i rilievi degli onorevoli colleghi. Una cosa invece essenziale, che è sfuggita, e che davvero può avere delle ripercussioni sulla vita dello Stato che andiamo a costruire, è l'ultima parte del comma ove si dice:... «ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi». Qui sta l'insidia, forse non voluta, perché io suppongo che i «Settantacinque» abbiano lavorato sempre in perfetta buona fede. Si dice cioè: «Tu, popolo, sei sovrano, con tutti i verbi che ti credi di scegliere, però bada che questa sovranità verrà esercitata come dico io (Commenti): l'Etat c'est moi; cioè l'organizzazione la faccio io, e la tua sovranità deve passare attraverso le forme che io ti preparo».

Io non dico che si sia voluto proprio questo, ma il rilievo è necessario, tanto più che le Costituzioni già emanate, non esclusa quella del 1849, tanto cara al cuore dei repubblicani, si limitano a dire che la radice della sovranità sta essenzialmente nel popolo. Nessuno di noi può dire che la sovranità deve obbligatoriamente esercitarsi attraverso questi stampi che noi le prepariamo, mentre abbiamo poi, d'altra parte, riconosciuto il diritto di referendum al popolo, il che sta a indicare che noi ancora una volta riconosciamo che la sovranità risiede, senza possibilità di alienazioni, nel popolo. E allora, in sede di discussione dei singoli articoli — sempre col rispetto dei termini prescritti dall'onorevole Presidente — mi riservo di proporre un emendamento.

Ma la questione grossa è un'altra. Tutti hanno girato attorno all'articolo 6, che è servito anche di motivo poetico. Si è detto che i principî di autonomia e dignità della persona sono anteriori alla nascita dello Stato, quali diritti naturali, in contrasto con chi ne ha fatto dei riflessi soltanto dello Stato e non altro.

Penso che questa non sia materia di discussione che si tratti di un patrimonio oramai acquisito — sia pure contestato — perché è venuto a noi attraverso molte lotte, non ultima quella contro la dittatura: ma la novità è nella parola; «garantisce».

Noi vogliamo sapere come la Repubblica «garantisce». Una volta tanto c'è uno Stato in formazione che avanza, ci dà la mano e ci dice: io ti garantisco i diritti più sacri. Ma quali diritti? Mi sembra che qui occorra discriminare: sono i cosiddetti diritti di libertà, i diritti naturali, i diritti — come li chiama l'ultima Costituzione francese — sacri e inviolabili della libertà di coscienza, di associazione, di riunione, di stampa, ecc.; sono diritti i quali, quando si verifica un colpo di forza o si instaura un regime di violenza, sono esposti alle aggressioni? Gli altri diritti non si toccano, perché nessun ordine nuovo vuol portare alla distruzione fisica i suoi subietti. Così l'ordine delle famiglie viene regolato più e meglio che si possa; così i rapporti economici, nessuno li tocca. I diritti al miglioramento economico conquistati attraverso tutta la grandiosa lotta che sta conducendo il proletariato nel mondo, sono diritti che non si toccano, che non si possono toccare. Abbiamo visto che è un po' la smania dei dittatori di dichiararsi autori di un certo benessere. È il «festa, farina e forca» dei Borboni.

Io sono stato un avversario di quello che fu il passato regime, e credo che non si possa mettere in dubbio la sincerità di quanto dico. Esso ci ha dato quelle privazioni che ci poteva dare; ma debbo riconoscere che un merito sotto quella dittatura ci fu: che una infinità di persone mangiò e mangiò romanamente — i romani sapevano mangiare anche due o tre volte nel corso del banchetto. Le stesse masse furono (e questo torna a titolo di onore per esse, perché non subirono la suggestione) agevolate; ma, per quanto riflette i diritti di libertà di pensiero, di riunione, di associazione, il regime fu inflessibile verso di loro. Li soppresse tutti.

Di modo che quando questa Repubblica ci viene a dire: «vi garantisco questi diritti», evidentemente intende e deve garantirci i diritti di libertà, diritti sacri, diritti naturali.

Ma qui è il punto: ce li garantisce? Ho premesso che bisogna parlare senza preoccupazioni di parte. Ora è giustificato il dubbio che questa Costituzione — per fortuna è ancora in progetto — ci dia questa garanzia, una garanzia che ci viene promessa, come un impegno di onore, in una specie di proemio.

E qui a me pare che bisogna parlar chiaro, rifacendomi un po' a quello che diceva il Presidente dei Settantacinque, anzi dei Settantaquattro, giacché è da escludersi il Presidente. (Si ride).

L'onorevole Ruini, a proposito dei rapporti economici ha detto che essi segnano una grande conquista della nostra Carta e avviano allo Stato economico. Accetto anch'io questo programma (giacché non trattasi di disposizioni legislative) inserito nella Costituzione e si dovrà solo vedere come la Camera Legislativa lo saprà tradurre in una serie di riforme agrarie, industriali, ecc.

Bisogna frattanto stare accorti a non creare illusioni e specie in ordine a questo futuro Stato economico preannunciato dall'onorevole Ruini.

Ora, io, come socialista, per quello che intendo come dottrina socialista, per quello che ho studiato sui testi, per la mia esperienza, devo dire che non potrei supporre che da queste premesse di rapporti economici debba venir fuori quest'impegno di uno Stato economico.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non ho mai detto Stato economico. Ho detto che è in corso un'economia del lavoro, il che è ben diverso. E per questo la Repubblica assume impegno.

Vinciguerra. Ho ricercato il resoconto stenografico delle sue dichiarazioni e desumo il suo pensiero da un'intervista che ella ha concesso al Momento-Sera.

Comunque, se sia stato detto o non sia stato detto, questo non vuol dire niente, questo non muta la cosa, perché se non è stato detto, potrebbe essere la pretesa di qualcuno.

E su questo terreno si dovrebbero mettere le carte in tavola. Ora noi diciamo: rapporti economici, da tutelarsi costituzionalmente, va bene; ma che poi debba sorgere lo Stato regolamentatore una forma di corporativismo, questo poi no.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. E chi ha detto?

Vinciguerra. È inutile che ella faccia dei dinieghi. Posso anche chiederle scusa di averla chiamata in causa, potendo essere lo Stato economico anche qualche cosa che lei scatena contro la sua volontà e che io temo per le libertà naturali che la Costituzione deve garantire.

Che volete farci? Sono un ingenuo. Chiamatemi, come volete, un primitivo. Voi sapete che sono i primitivi che dettero inizio al Contratto sociale, ed hanno acquistato poi dei diritti, sia pure ridotti. Ora, signori, il mio diritto è di chiarire: che vi siano questi rapporti economici, va bene, ma che vi possa essere la pretesa, dello Stato economico che irreggimenta ed incasella, penso che non possa essere consentito.

Io credo che abbia il diritto di esprimere la mia opinione, che non si arrivi a queste costruzioni di inquadramento, di incasellatura, le quali rappresentano una invasione nel campo dei diritti di libertà, una menomazione di questi diritti, presidio della civiltà e senza dei quali voi potreste anche avere uno Stato perfetto, come quelli costruiti da Platone a Campanella, ma senza anima. Si tratta delle nostre libertà, di un sacrario che va difeso anche contro gli equivoci, che possono aprire la porta ad ulteriori pretese.

Tutto ciò mi sembra che sia un po' sfuggito all'onorevole La Pira, il quale si è mantenuto troppo in metafisica. La metafisica è pericolosa e fu in nome dello Stato etico di Hegel, il grande teologo della filosofia, che il fascismo pretese imporci il suo dominio acquisito prima colla violenza.

Dallo Stato etico venne fuori la mistica fascistica e gli insegnanti di essa.

E ora la nostra giovane Repubblica si avanza, ci dà la mano e dice: vi garantisco questi diritti; ma noi diciamo: grazie, vi prendiamo in parola, ma la vostra garanzia non deve avere sottintesi.

Comunque, resti chiaro che l'attuazione di queste promesse non deve avvenire con mezzi che ripugnano alla mia coscienza di cittadino, e soprattutto alle mie convinzioni socialiste.

Questo ordinamento della Repubblica ha però in sé le garanzie che ci aspettiamo? Non v'è nessuna minaccia, nessuna imboscata, nessun sottinteso?

Diceva l'onorevole Ruini: il nostro progetto è dei più belli, o, per lo meno, dei più semplici e si avvicina molto alla Carta francese.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, non ho detto questo.

Vinciguerra. Comunque ci avete tenuto a dire che non stava a molta distanza dal progetto francese.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, non ho detto questo.

Vinciguerra. Nemmeno questo. Comunque, quando ho avuto l'impressione che ci potesse essere stata questa parentela, questa sororità, avrebbe detto D'Annunzio, ho consultato i dibattiti svoltisi nella prima Costituente francese, dai quali ho appreso che avverso quel progetto furono mosse le stesse obiezioni che si voleva garantire la preminenza di un tripartitismo, ecc.

Pensai allora ad un plagio di argomenti da parte degli oppositori italiani, ma poi lo esclusi, rilevando che il plagio esiste nelle cose e nelle situazioni che si intendono creare. Certo, l'ordinamento della Repubblica come previsto dal nostro progetto minaccia le nostre libertà e necessita che vada rivisto.

Presidente Terracini. Onorevole Vinciguerra, non stiamo trattando dell'ordinamento della Repubblica.

Vinciguerra. Ho finito. Noi vogliamo che l'ordinamento della Repubblica sia la garanzia di tutte le libertà; noi vogliamo soprattutto, ed in ciò sono stato preceduto da autorevolissimi oratori, la riforma dell'articolo 88, che tende ad assicurare il governo ad un sol partito.

Presidente Terracini. Non parli dell'articolo 88. Parli dei primi 7 articoli, la prego.

Vinciguerra. Noi non vogliamo un Governo inamovibile, non vogliamo un primo Ministro che si possa chiamare, come prima, Capo del Governo, ma vogliamo che prevalga la sovranità popolare. E dichiaro che se così non fosse, signori dell'Assemblea, il problema delle autonomie andrebbe ripreso sotto altro profilo. Alberto Mario, la camicia rossa, ed altri, erano favorevoli alle autonomie e le consideravano come un baluardo di libertà contro l'assolutismo regio. Questo bisogno potrebbe ripresentarsi:

Presidente Terracini Onorevole Vinciguerra, non parli delle autonomie, la prego.

Vinciguerra. Onorevoli colleghi, ho prospettato alcuni problemi e credo che, da parte di noi, vi debba essere l'impegno che, dai dibattiti di questa Assemblea, venga fuori una Costituzione che sia garanzia di tutti i diritti per tutti gli italiani. (Applausi a sinistra).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Riccio. Ne ha facoltà.

Riccio. Nel prendere la parola, onorevoli colleghi, sento il bisogno — prima di venire alla dimostrazione della mia tesi — di procedere ad alcune osservazioni generali e confutare qualche obiezione di secondaria importanza.

Ho ascoltato oggi l'onorevole De Vita, il quale ha affermato che tutto quello che si riferisce alla religione sta al di fuori dello Stato. Mi sono domandato se la religione sia anche al di fuori dell'uomo; perché, se la religione non è al di fuori dell'uomo, non può essere neppure al di fuori del popolo; e se non è al di fuori del popolo, non può essere neppure al di fuori dello Stato che è il popolo organizzato.

E quando l'altro giorno ascoltai l'onorevole Basso e sentii questa espressione: «se l'articolo 5 passa, è un'offesa alla nostra civiltà», io mi domandai di quale civiltà egli intendesse parlare. Se dobbiamo riferirci alla civiltà italiana, noi sappiamo che questa civiltà ha per sostanza il cristianesimo e per base la coscienza cattolica. Onde è che, se non passa questo articolo, dobbiamo parlare di un'offesa alla civiltà italiana.

Tonello. Studiate bene la storia. (Commenti).

Riccio. La prego di ascoltare, e vedrà che avrà la risposta anche alle sue osservazioni.

Voi la rinnegate la storia; è questo che volete fare. L'onorevole Togliatti, poi, tra l'altro, si è domandato: che farà la Chiesa nei rapporti della democrazia? E si è richiamato a un testo di un professore della Gregoriana. Noi pensiamo che quel testo debba essere il Wermz, il quale ha scritto in altri tempi e prima che il Codice di diritto canonico fosse stato concretizzato. Ma, a parte questo, vorrei chiedere all'onorevole Togliatti come egli mi giudicherebbe se io volessi comprendere la politica di Stalin da un brano di un libro di un professore dell'università di Mosca?

Se volessi giudicare il pensiero di un uomo soltanto da un brano, io potrei dare la dimostrazione all'onorevole Togliatti che egli ha accettato in pieno l'articolo 5. Invero, nella seduta di Commissione del 21 novembre 1946 (Resoconto, pag. 421) egli ebbe tassativamente ad accettarlo. Si legge nel verbale: «Tutto considerato, non sarebbe contrario ad inserire nella Costituzione un articolo, in cui si dica che la Chiesa Cattolica, che corrisponde alla fede religiosa della maggioranza degli italiani, regoli i suoi rapporti con lo Stato per mezzo dell'esistente Concordato. Una formula di questo genere reputa che potrebbe essere di gradimento dei democristiani».

So bene che in quest'aula l'onorevole Togliatti, rispondendo all'onorevole Orlando, ha detto che egli ebbe a votare contro. Lo so bene. Ciò non toglie che prima aveva accettato il richiamo espresso nella Costituzione del Concordato. Comunque dico: non si giudica degli orientamenti della Chiesa da un brano d'un qualunque volume, anche se di un maestro.

C'è un fatto, ed è opportuno richiamarlo perché questa Assemblea possa giudicare sul contegno della Chiesa in rapporto alla democrazia. È di questi giorni quella correzione nei testi ufficiali, che non è soltanto formale, ma che è sostanziale, in cui al «regno» si sostituisce la «Repubblica». Questo significa che la Chiesa ha riconosciuto l'avvento della Repubblica; questo significa che la Chiesa è sensibile alla democrazia; questo significa che la Chiesa gradisce trattare con la rinata democrazia italiana. (Commenti a sinistra).

L'onorevole Nenni, poi, ha dato una inesatta interpretazione della volontà popolare del 2 giugno. Egli ha detto che il 2 giugno il popolo italiano ha chiaramente manifestato di volere uno Stato, tra l'altro, laico.

Ci aspettavamo una dimostrazione della affermazione. Quando, invece, l'onorevole Nenni si è fermato soltanto a richiamarci che nella lotta clandestina, nella lotta partigiana e nella lotta al nazismo, ci trovammo insieme, cattolici e non cattolici, e non sentimmo allora che vi era una frattura nella pace religiosa, io ho pensato che il 2 giugno non c'entrava. Mi scusi l'onorevole Nenni, ma egli non ha detto e non ha dato un argomento che potrebbe influire sulla sua dimostrazione, perché non ha detto niente in rapporto al 2 giugno. Ma, se vogliamo fermarci per un momento al 2 giugno, credo che si possa e si debba pervenire ad una interpretazione della volontà popolare in un senso completamente contrario a quello al quale pervenne l'onorevole Nenni. Perché certo noi, democristiani, ci siamo presentati al popolo in una posizione precisa, ed abbiamo detto al popolo che sostenevamo i Patti lateranensi.

Se l'avessimo fatto soltanto noi si potrebbe anche discutere. Ma, quando, prima del 2 giugno, altri grandi partiti hanno detto solennemente che essi intendevano non denunziare i Patti lateranensi (Interruzioni), è evidente che il popolo italiano, di fronte a questa affermazione, ha dovuto interpretare l'orientamento di questi partiti nel senso che i Patti lateranensi andavano pienamente rispettati (Interruzioni a sinistra); e vedremo se rispettarli significhi che debbono entrare nella Costituzione.

Una voce. Lo dimostri.

Riccio. Lo dimostrerò; sto al principio soltanto. Noi vogliamo che la pace, la quale esiste, sia mantenuta. È inutile fare salti. Bisogna dire chiaramente se si intende o meno denunziare i Patti lateranensi; bisogna, ripeto, dirlo chiaramente e non già venire in Assemblea a dirci che sì, la pace religiosa si vuole, ma non si vuole il riconoscimento della sovranità della Chiesa e non si vuole il riconoscimento dei Patti lateranensi. (Interruzioni Commenti a sinistra).

Non siamo noi a turbare la pace esistente, perché non poniamo condizioni nuove: siete voi che questa pace intendete turbare. E, in verità, l'onorevole Nenni l'ha turbata questa pace, e non ha turbato soltanto la pace, ma ha turbato l'equilibrio umano della coscienza italiana (Vivaci proteste a sinistra), quando ha detto che al suo gruppo non interessano i problemi dello spirito. Ricordate: egli ha detto che quando si vuol porre all'ordine del giorno la riforma agraria e la riforma industriale, non si vanno a cercare le farfalle sotto l'Arco di Tito. Ma la religione non è la farfalla sotto l'Arco di Tito (Commenti a sinistra).

Non è esatto? L'onorevole Nenni ha detto precisamente questo.

Ebbene, ripeto, la religione non è la farfalla sotto l'Arco di Tito. I problemi dello spirito non sono farfalle. (Commenti). L'uomo ha uno spirito e questi problemi che riguardano la sua vita, e che incidono sulla sua libertà, devono essere affrontati e risolti. Che sarebbe un popolo che questi problemi nella Costituzione non avesse a risolvere?

La riforma agraria e la riforma industriale noi le vogliamo. Non sono soltanto nel nostro programma, ma anche e soprattutto nella nostra volontà di realizzazione, e ne abbiamo già dato la dimostrazione. Ma queste riforme riguardano l'uomo e noi dobbiamo dire se quest'uomo lo guardiamo anche come spirito. Non è filosofia, è politica, perché c'entra la vita della nazione. (Commenti). L'ha posto l'onorevole Nenni il problema; e su questo punto si scontrano il marxismo materialista e il cristianesimo spiritualista. (Commenti).

Ma mi si permetta che io dica con tutta sincerità che se prima del 2 giugno un impegno fu assunto, l'impegno di rispettare i Patti lateranensi, questo significava il mantenimento delle condizioni e dei rapporti attuali tra lo Stato e la Chiesa. Questo impegno è stato assunto...

Tonello. Ma da chi è stato assunto?

Riccio. Dal V congresso del Partito comunista, per esempio; è stato ricordato in questa aula anche dall'onorevole Togliatti. (Interruzione dell'onorevole Tonello).

Presidente Terracini. Onorevole Tonello, non capisco ora le sue interruzioni. Quando ha parlato l'onorevole Crispo ella non ha interrotto.

Riccio. Non parliamo perciò di spirito laico o agnostico — come l'ha definito l'onorevole Nenni — che, portato nella Costituzione, sarebbe la rinnegazione della volontà della maggioranza ed il misconoscimento della libertà dei cattolici d'Italia. (Rumori a sinistra).

Intendiamoci subito.

Il laicismo dello Stato è un postulato essenziale ed originale del Cristianesimo, giacché se gli uomini più non debbono dare a Dio quel che è di Cesare, più non debbono dare a Cesare quel che è di Dio; onde il dualismo dei supremi reggitori dell'umanità risulta ineliminabile.

V'è la duplice sudditanza dei credenti. E vi è la duplice sovranità: quella della Chiesa e quella dello Stato. Il Cristianesimo ha iniziato subito il processo dell'unione nella distinzione. Noi la distinzione la vogliamo; non vogliamo la contrapposizione e, tanto meno, l'eliminazione.

Per aversi uno Stato confessionale è necessario:

a) un giudizio di valore, per cui lo Stato dichiari di aderire ad una determinata confessione, riconosciuta come la sola, vera religione;

b) conseguentemente un regime di particolare favore per siffatta confessione.

Ad aversi perciò uno Stato confessionale non basta il semplice riconoscimento esterno di una data religione come fenomeno storico, né quello dell'eventuale prevalente importanza da essa conquistata nella storia di un popolo. Né un regime giuridico speciale per il culto prevalente contraddice al principio dell'uguaglianza dei culti. Uguaglianza giuridica non significa trattamento uguale di problemi disuguali, ma applicazione dei principî di giustizia alle situazioni concrete. «A ciascuno il suo: non a tutti lo stesso», è il principio di giustizia. L'eguaglianza non è parità aritmetica né quantitativa; come la giustizia è proporzione.

Sostenere principî diversi significa non già soltanto non riconoscere alcuni privilegi alla Chiesa cattolica, ma anzi combattere e negare quella importanza che storicamente essa ha assunto di fronte al nostro popolo; significa negare una realtà sociale attuale, cui deve ispirarsi una Costituzione la quale quella realtà deve pur garantire ed organizzare.

Laicismo dello Stato, se è agnosticismo verso il contenuto dogmatico di una o più confessioni religiose, non è e non può essere — come bene ebbe ad osservare il Del Giudice in un suo scritto (La separazione tra Stato e Chiesa, pag. 85) — disinteresse anche verso le manifestazioni sociali e le formazioni concrete di una data confessione religiosa. Questo significherebbe trattare la Chiesa come una qualunque società privata; come se fosse un club di armi o un circolo di caccia; questo significherebbe disconoscere il diritto dei cattolici all'integrale manifestazione del loro credo religioso. Non è neppure una separazione tra lo Stato e la Chiesa; ma è una sovrapposizione dello Stato sulla Chiesa. Ma ciò sarebbe intollerabile dovunque, e soprattutto in Italia. Noi cattolici italiani abbiamo il diritto di chiedere alla legge fondamentale del nostro Paese che l'Italia non diventi la longa manus dell'anticattolicesimo e dell'anticlericalesimo mondiale nella parvificazione della Santa Sede, del Papato, della Chiesa cattolica.

Tutti uguali di fronte allo Stato; ma ciascuno deve essere libero di credere e di esprimere esternamente il proprio culto. Sarebbe altrimenti un'uguaglianza estrinseca, uniformista, imposta, non quella di uomini liberi che vivono nella loro libertà e realizzano il loro ideale e che in libertà si uniscono e si associano per gli scopi della vita e trasmettono a queste associazioni la loro stessa libertà, per cui anche queste vanno rispettate dallo Stato; onde la concezione pluralista di cui parlava l'onorevole La Pira.

La Chiesa è la società dei credenti, i quali vivono nello Stato. E se Stato e Chiesa si riferiscono allo stesso soggetto umano, cioè necessariamente interferiscono in rapporto ai soggetti destinatari dell'esercizio delle loro funzioni, è evidente che non si possono ignorare reciprocamente. Distinzione sì, ma non contrasto; laicismo dello Stato e uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato, ma non livellamento di tutti i cittadini e di tutte le fedi.

L'Italia ha una sua storia; la Chiesa cattolica costituisce una realtà sociale attualissima. Non si fa e non si può fare una Costituzione rinnegando la storia di un Paese e la realtà sociale che è base e coronamento insieme della Costituzione.

Noi crediamo di poter affermare che nessuna delle obiezioni generali, poste in sede di Sottocommissione e in sede di discussione preliminare, reggono ad una critica obiettiva, e che chi vuole adeguare le leggi alla coscienza sociale deve necessariamente porsi sulla via della realtà sociale e non allontanarsi da essa. In nome di questa realtà sociale e della libertà di coscienza e di culto, espressione nobilissima di quella libertà che è l'anima del progetto di Costituzione, noi riaffermiamo il nostro orientamento religioso e sosteniamo l'articolo 5, la di cui costituzionalità, contrariamente a quanto è stato detto dall'onorevole Crispo, è indiscutibile. Già, diciamo subito che i Patti lateranensi sono stati stretti fra la Chiesa e lo Stato...

Tonello. Dal fascismo! Da un assassino, e non dal popolo italiano!

Riccio. ...e che nello Stato italiano la pace religiosa era sentita come un bisogno assoluto e si poneva come la base potenziatrice della rinascita libera del popolo stesso. L'avvertirono i tanti grandi italiani, che subito dopo il 1870 tutto fecero per giungere alla conciliazione ed eliminare la questione romana.

Si noti che nell'articolo 1 del Concordato si parla dell'Italia, e soltanto dell'Italia; e così negli articoli 1, 2, 3, 6, ecc. del Trattato. L'Italia non fu il fascismo, che la tradì e la scardinò moralmente. (Interruzioni).

Una voce. L'uomo della Provvidenza!

Riccio. Mai è stata pronunziata questa frase: andate a leggere i discorsi del Papa e troverete che l'espressione è del tutto diversa ed ha un significato profondamente diverso.

L'Italia visse prima del fascismo e visse durante il fascismo, nonostante il fascismo; l'Italia vive oggi e vivrà meglio domani quando saranno da essa eliminati tutti i residui di statalismo e la libertà e la democrazia trionferanno in pieno.

I Patti lateranensi non sono una imposizione, né una espressione del fascismo; sono la libera conquista di una coscienza popolare, che volle ricomporre un dissidio intimo, eliminando contrasti che venivano sfruttati da speculatori politici, avvelenatori della libertà. Siamo d'accordo con l'onorevole Togliatti quando critica la classe dirigente italiana prefascista, in quanto essa effettivamente non seppe essere popolare, e cioè non riuscì ad interpretare la coscienza e la volontà del popolo e porsi al servizio del popolo stesso per la sua elevazione e creò una frattura dannosa fra essa e il popolo stesso. Non si lamentino oggi quelli che coscientemente o incoscientemente prepararono il fascismo ieri, quando ieri conculcarono la libertà in nome delle loro idee, come non avranno diritto di lamentarsi domani (Dio non faccia mai verificare questo giorno) ove trionfasse un'altra dittatura se oggi non lottassero con ogni forza e con ogni sacrificio par salvare la libertà dell'individuo, le libertà politiche e la libertà religiosa. È che le libertà sono solidali: l'una è strettamente connessa all'altra; e tutte vivono di una stessa realtà e si alimentano di uno stesso cibo.

La storia di sessant'anni in Italia sta ad indicare che la classe dirigente visse contro il popolo, ma sta ad indicare anche che nessuna classe dirigente può vivere e deve vivere contro il popolo, ignorando i suoi sentimenti, la sua volontà, i suoi bisogni, non soltanto materiali ma anche etici. Sono le forze vive del popolo che hanno preparato i tempi nuovi, furono le forze vive del popolo che crearono la pace religiosa e prepararono la via ai Patti lateranensi. Il popolo di ieri è il popolo di oggi. Non in nome di questo popolo si può chiedere quanto in quest'aula è stato chiesto. Anzi i gruppi parlamentari dei partiti, che noi preferiamo chiamare di popolo e non di massa, se vogliono davvero il rispetto della fede religiosa dei loro aderenti, non devono seguire la tattica da alcuni seguita. L'onorevole Togliatti non coglie nel giusto quando, criticando gli uomini del passato, pare voglia indirettamente anche diminuire l'autorità delle dichiarazioni dell'onorevole Orlando in rapporto alla maturazione dei Patti lateranensi. L'onorevole Orlando fu allora l'interprete fedele della coscienza italiana; egli seppe comprendere a pieno il bisogno dell'anima di questo popolo; la sua sensibilità politica fu allora, come oggi, pienamente aderente alla volontà popolare. Se l'onorevole Orlando allora non stipulò i patti, questa è forse una colpa, perché il popolo italiano li voleva, anche se uomini di vecchia marca politica, e per motivi certo non democratici, li avrebbero ostacolati. E se questo popolo li voleva allora, anche noi dobbiamo volerli oggi. Noi, che pur vogliamo ritornare alla libera tradizione italiana, realizzando in pieno però una vera democrazia, una democrazia sostanziale e non apparente soltanto. È stato detto più volte che Mussolini stipulò i Patti per avere prestigio. Dunque dai patti nasceva anche un prestigio di fronte al popolo italiano. Credo che la riconferma costituzionale dei Patti dia anche alla rinata democrazia italiana un prestigio, un grande prestigio di fronte al popolo e di fronte alle altre nazioni.

Io ricordo non soltanto le dichiarazioni fatte dall'onorevole Orlando in questa aula, non ricordo i tentativi fatti sotto il pontificato di Leone XIII da Padre Tosti, autore del famoso opuscolo: La Conciliazione, con Francesco Crispi, ma i tanti altri tentativi fatti in campo religioso ed in campo laico. Nell'articolo «La preconciliazione», riportato nel volume: Su alcuni miei rapporti di Governo con la Santa Sede (Sabina, 1930) l'onorevole Orlando affermava: «Posso soltanto aggiungere come un chiarimento personale, che io ebbi allora la intuizione che una nuova fase era matura circa la maniera di essere dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato in Italia». E uguale testimonianza ci ha dato l'onorevole Sforza nel suo volume: L'Italia come io la vidi dal 1900 al 1944.

Se dunque la coscienza italiana era matura e questa testimonianza veniva e viene da uomini, che pur vissero il travaglio del passato, e che pur sono sostenitori di idee diverse dalle nostre, vuole dire che nel 1929 si verificò quanto poteva e doveva verificarsi nel 1920. La democrazia riprende il suo cammino e non può rinnegare un fatto storico. Quel fatto storico, su cui ancora, come per riconoscimento unanime, deve poggiare la forza costruttiva del Paese, il potenziamento della unità degli italiani e della coscienza della italianità.

E diciamolo: è inutile fare giuochi politici su questo punto. La pace religiosa in Italia è garantita dai Patti lateranensi. Ogni attacco contro di essi è turbamento di questa pace ed è sopraffazione della realtà sociale. In nome della storia d'Italia e della coscienza del popolo respingiamo ogni attacco e diciamo: «la pace l'abbiamo: eccola. Sono i Patti lateranensi». Manteniamoli. Non turbiamo l'equilibrio che esiste è che è stata faticosa conquista di tanti anni. Se qualche modifica sarà ritenuta necessaria, lo Stato potrà proporla e l'accordo certamente sarà raggiunto con la Chiesa.

Per di più, se la democrazia è la forma necessaria della ragione politica, occorre razionalizzare il potere attraverso la maggiore affermazione dei diritti dell'individuo e cioè la maggiore affermazione dell'indirizzo democratico del diritto. Tutto il mondo, e l'Europa in ispecie, è intento a questa opera. La tutela del bisogno religioso dei popoli nelle Carte costituzionali risponde a questa profonda esigenza democratica. Il superamento dell'individualismo assoluto nelle Costituzioni moderne ed il senso sociale penetrato in esse ci pongono di fronte alla tutela diversa degli stessi diritti. Si è parlato in quest'aula di libertà sociale, cioè della libertà individuale protetta e potenziata socialmente; ebbene, questo è un aspetto della democrazia nuova, per cui, anche nel campo di cui oggi ci occupiamo, occorre costituzionalmente stabilire e regolare non soltanto la libertà religiosa dei singoli, nei singoli e in rapporto allo Stato, ma anche delle e nelle organizzazioni religiose, che uniscono e trascendono i singoli, dal momento che divengono organismi viventi nello Stato e nella più grande società.

La religione, vista nel singolo, è libertà; riguardata nell'associazione, che affascia i singoli, è ancora e sempre libertà. Nei popoli ora si ha la organizzazione non soltanto giuridica, ma anche etica e religiosa; onde il problema religioso non è più ai margini o negli interstizi del diritto, ma si pone e s'impone come un problema centrale del diritto regolatore della vita associata. Una Costituzione non può ignorarlo: deve risolverlo.

La risoluzione non è in un richiamo generico alla libertà di coscienza del singolo. Se vi è la Chiesa, che è la organizzazione dei cattolici, questa non può essere ignorata dallo Stato; e lo Stato, ponendosi la Costituzione, deve necessariamente determinare il regolamento dei rapporti con la Chiesa. Non è, quindi, possibile in una nuova Costituzione ignorare il fatto religioso e tanto meno riguardarlo solo come espressione di mera libertà individuale, perché vi è un'altra ragione.

Lo Stato è l'organizzazione giuridica non solo degli individui, ma anche della Nazione. Nella Nazione l'elemento umano è contrassegnato da caratteri fisici e spirituali, nascenti da una civiltà tutta propria, creatrice di un tipo comune profondamente omogeneo; essa agisce sin dalla nascita, inavvertitamente ma continuamente, sulla persona, imprimendole quel complesso di elementi che le sono propri: lingua, religione, spirito, tradizione. Lo Stato questi elementi prende e li organizza giuridicamente, onde riceve anche una fondamentale unità morale. Al centro dello Stato-nazione vi è una tradizione ed una religione: una tradizione in Italia, che è poggiata sul cristianesimo; una religione, che è quella cattolica.

Quando noi poniamo la Carta dei diritti individuali e sociali, non possiamo dimenticare questa realtà ancora una volta. Se volessimo dimenticarla, ci verrebbe immediatamente richiamata dalla storia, dalla letteratura, dall'arte italiana, che il primato conquistò nel mondo sull'ala del cristianesimo.

È qui, dunque, in questa tradizione, che è la democrazia dei morti, la quale pur si pone come base della democrazia dei vivi; è qui, in questa entità naturale etica e morale, data dalla nazione, che troviamo gli argomenti per dire che nella Costituzione italiana i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica devono trovare necessaria regolamentazione. È la struttura dello Stato stesso che lo impone. In alcune Costituzioni sud-americane (Argentina, Bolivia, Columbia, Paraguay, Perù, ecc.) la Chiesa Cattolica è dichiaratamente riconosciuta e, sia pure con formule diverse, la religione cattolica è espressamente richiamata. Nella Costituzione boliviana, per esempio, è detto: «Lo Stato riconosce e sostiene la religione cattolica apostolica romana». In altre costituzioni, invece, concordati con la Santa Sede le integrano; così per l'Equatore, il Guatemala, l'Honduras, il Salvador, il Venezuela, ecc. Nella Costituzione lituana interessante è l'articolo 84 che dice: «A tutte le organizzazioni confessionali esistenti in Lituania, lo Stato riconosce un diritto eguale di amministrarsi conformemente ai propri canoni o statuti, con la libertà di professare pubblicamente la loro dottrina confessionale e di celebrare le cerimonie della loro religione, di fondare e dirigere gli edifici consacrati al loro culto, scuole ed istituti di educazione e di beneficenza, di fondare monasteri, associazioni confessionali ed associazioni fraterne, di imporre ai propri membri tasse destinate a sovvenire i bisogni delle organizzazioni confessionali, di acquistare beni mobili ed immobili e di amministrarli. Gli ecclesiastici sono esenti da obblighi militari».

Come è evidente, tutto il contenuto sostanziale del concordato fra lo Stato italiano e la Chiesa è stato riportato.

Comunque, in tutte le Costituzioni europee più recenti (tra tutte è opportuno richiamare quella di Weimar, articoli 135-136) vi sono norme riflettenti la vita religiosa ed ecclesiastica e la libertà di coscienza è affermata non già in funzione di premesse indifferentistiche o laiche, ma in virtù del dovere esplicito dello Stato di contribuire, quale tutore del bene comune, allo sviluppo, come dell'arte e della scienza, anche della vita religiosa.

Solo in Italia dovremmo rinnegare la storia e la realtà sociale ed improntare la Costituzione a premesse agnostiche, per cui la religione sarebbe considerata come un fatto privato, quando addirittura non la si vorrebbe porre nella zona oscura del superato? La coscienza italiana a questo tentativo si ribella. Il fatto religioso non può essere ignorato nella Costituzione. La Chiesa cattolica, che fa di Roma anche la capitale del mondo, agendo sul territorio italiano in rapporto con cittadini italiani, dev'essere tenuta presente ed i suoi diritti non possono essere disconosciuti o rinnegati. Essa si pone ovunque di fronte allo Stato come una realtà sociale evidentemente molto diversa da altri fenomeni religiosi, che si concretizzano in altre confessioni o associazioni religiose. Questa realtà, se altrove non è evidente, in Italia è evidente. Onde il richiamo espresso alla sovranità della Chiesa ed ai Patti lateranensi è necessario nella Costituzione Italiana. Ciò non significa che l'Italia non potrà concordatariamente regolare i suoi rapporti con altre confessioni; ove queste lo chiedessero e lo Stato lo ritenesse, nulla vi sarebbe in contrario. Significa soltanto riconoscere un fatto storico e una situazione giuridica, in piena aderenza ad una realtà sociale.

Invero non è creata una situazione di privilegio, lesiva della eguaglianza. Alle confessioni religiose è garantita la piena libertà; ed esse, quando venissero eventualmente a trovarsi nella stessa situazione della Chiesa cattolica, ben potrebbero venire in contatto con lo Stato attraverso un atto bilaterale.

La concretezza storica non può non guidarci e non guidare gli uomini politici. Gli stessi materialisti storici, se vogliono rimanere veramente alla concretezza, devono riconoscere il fatto, e la sua importanza politica e sociale; ed in conseguenza concordare nel riflettere nella Costituzione la struttura reale della società italiana di oggi.

Ed a proposito è opportuno un rilievo. L'articolo 1 dello Statuto albertino non fu, come da più parti è stato affermato, tacitamente abrogato per desuetudine. Già la desuetudine non può invalidare una legge costituzionale; ma il cattolicesimo, in applicazione di quella norma, è stato sempre ritenuto come la religione della maggioranza del popolo italiano. Solo la scuola liberale ne sosteneva la inefficacia e l'apparenza di valore. La osservazione è inesatta, perché non soltanto l'articolo 1 stabiliva un orientamento della coscienza italiana, ma tutto un complesso di disposizioni di legge, come, in particolare, quelle relative ai tribunali ecclesiastici ed alla ammissione nelle carriere statali senza tener conto del requisito della confessione religiosa.

In conclusione, plaudiamo all'onorevole Togliatti quando afferma che la unità conquistata dev'essere mantenuta e difesa. Ma gli diciamo: «Vi è un bene che appartiene alla maggioranza degli italiani; questo è il cattolicesimo. In esso è la base della unità etica.

«Non lo attaccate; creereste la rottura e sareste i responsabili di questa frattura. L'unico mezzo per mantenere l'equilibrio è la riconferma dei Patti; e data la grande importanza di essi, nel momento della rinnovazione sostanziale della vita giuridica italiana, il loro richiamo nella Costituzione costituisce una necessità assoluta ed inderogabile. Questo richiamo è di garanzia che lo Stato domani non si allontani dalla volontà popolare e consideri la Chiesa come una qualunque società privata, invadendone il campo e perseguitandola».

Noi, costruttori di un domani democratico d'Italia (e crediamo che tali siano anche l'onorevole Marchesi e l'onorevole Nenni), non possiamo non volere la garanzia costituzionale delle libertà religiose con il richiamo al Concordato, che è fonte sicura di pace religiosa. La politica religiosa dello Stato Italiano dovrà essere ispirata alla leale realizzazione della Costituzione. Non avverrà, come avvenne in passato, e come è stato acutamente osservato dal professore Iemolo (Per la pace religiosa in Italia, «La nuova Italia», Firenze, pagine 6-7) che il paese legale sia diverso da quello reale, nel senso che si abbia la sopraffazione di una minoranza sulla maggioranza e nel senso che una minoranza ardita, impossessandosi del Governo, abbia a decidere dei destini della maggioranza.

Nel progetto sono stati affermati due principî sostanziali: a) la indipendenza e la sovranità della Chiesa; b) i Patti lateranensi come regolatori dei rapporti tra Stato e Chiesa. A dare la spiegazione della portata della norma e ad individuare l'esatto contenuto della norma stessa, basterebbe la meravigliosa sintesi fatta dall'onorevole Ruini nella relazione alla Presidenza dell'Assemblea e il discorso dallo stesso pronunciato in quest'aula. Pure è necessaria qualche precisazione.

È riconosciuta la sovranità, oltre l'indipendenza della Chiesa: è rinnegato, cioè, sia un giurisdizionalismo separatista, sia un separatismo giusnaturalista, mentre è affermata la originarietà dell'ordinamento giuridico della Chiesa. Questo principio è ormai pacifico, e non solo negli scrittori cattolici, in quanto non è stato affermato soltanto da Leone XIII, sopratutto nella Immortale Dei, ma anche in altri scrittori cattolici e non cattolici, tra cui Santi Romano (L'ordinamento giuridico, Sansoni, 1946), Gismondi (Il nuovo giurisdizionalismo italiano, Milano, Giuffrè, 1946), De Luca (Considerazioni sull'autonomia e la pubblicità della Chiesa nel diritto italiano, Giuffrè, 1946).

È opportuno ricordare soprattutto il pensiero lucidissimo di Santi Romano (pag. 98), per il quale la originarietà della Chiesa, quale ordinamento giuridico, diviene la base di un'altra concezione, quella della pluralità degli ordinamenti giuridici. Ed invero la differenza tra lo Stato e la Chiesa è che mentre il primo è una società, giuridicamente e politicamente organizzata su base territoriale, la seconda è una società giuridicamente ed eticamente organizzata su base non territoriale.

La originarietà dell'ordinamento giuridico della Chiesa significa che esso è a sé, distinto ed indipendente. La Chiesa ha una potestà normativa, che non le deriva dallo Stato, ma che è ad essa propria ed originaria, in quanto essa si presenta come una istituzione organizzata e che ha conseguita una giuridica unità, la quale oltrepassa i confini dello Stato. I caratteri della indipendenza e sovranità, fissati cumulativamente, indicano precisamente la originarietà di quell'ordinamento, cioè l'asseità, nel senso che esso è un ordinamento per sé stante, il cui fondamento non deriva dal riconoscimento di un altro ordinamento. La sovranità della Chiesa, che non è legata al territorio, ma è un dominio spirituale, e, perciò, supera ed abbraccia il territorio del singolo Stato, è una realtà storico-sociale, ormai non più disconoscibile. Rinnegarlo è assurdo; il non riconoscerlo è da politici ciechi. Non bastava, perciò, parlare d'indipendenza; era necessario precisare che si trattava anche di sovranità. E l'articolo 5 bene ha fatto a fissare l'uno e l'altro carattere.

Come bene ebbe ad osservare Iemolo, nelle sue lezioni: «Si può insegnare con assoluta tranquillità che il diritto della Chiesa va considerato dall'angolo visuale dello Stato italiano, così come lo considera la Chiesa, allorché lo ritiene diritto qualitativamente eguale a quello emanato dallo Stato, nel senso che entrambi i diritti emanano da istituzioni che sono fonti di ordinamenti giuridici indipendenti».

La formulazione della norma, quindi, risponde in pieno a principî giuridici ed agli orientamenti sociali.

Ma si osserva: occorreva proprio porre questo principio della sovranità nella Costituzione? E perché parlare anche della sovranità dello Stato?

Precisiamo subito che il richiamo alla sovranità dello Stato è posto soltanto in riferimento ed in coordinamento con la sovranità della Chiesa: è una specificazione particolare, posta soltanto sul piano logico, per individuare a contrario il contenuto della sovranità della Chiesa.

Comunque, Stato e Chiesa agiscono in rapporto agli stessi soggetti e sullo stesso, territorio; onde questa reciproca sovranità è opportuno riconoscere e stabilire, ad evitare equivoche interpretazioni della volontà costituzionale. Si potrebbe forse nel richiamo cogliere anche un richiamo di ordine storico. La questione romana fu chiusa definitivamente, per quanto atteneva al territorio dello Stato italiano, con la istituzione della Città del Vaticano. Come italiano questa affermazione la interpreto anche in un senso storico, cioè come richiamo della rinunzia fatta dalla Chiesa ad ogni ulteriore rivendicazione territoriale. Né si dica che lo Stato fa un soliloquio, perché esso riconferma nella Costituzione un patto, bilateralmente definitivo, e quindi rinnova un colloquio con la Chiesa. Ed è opportuno il richiamo, perché, se dopo è detto che le modificazioni bilateralmente accettate non hanno bisogno di procedimento costituzionale, vuol dire che esse sono possibili, essendo previste dallo Stato italiano. Questo Stato, però, una sola modifica non prevede possibile: quella relativa al territorio. Potrà essere modificato il Concordato, ma questo punto dovrà rimanere fermo. Ecco la volontà dello Stato italiano; ecco la sovranità dello Stato, nel suo ordine, e quindi anche in rapporto al territorio, espressamente richiamata.

Ed è proprio l'argomento portato dall'onorevole Crispo, che ci convince della esattezza di questa osservazione. La prima parte del preambolo al Trattato e la interpretazione logica dell'articolo 26 ne danno conferma. Nell'articolo 26 del Trattato, alla fine della prima parte, è detto: «riconosce il Regno d'Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano». E poi si soggiunge: «Alla sua volta l'Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano». La Repubblica deve riconfermare il suo riconoscimento, quando la Casa Savoia non c'è più, come la Chiesa ha riconosciuto la Repubblica. La soluzione della questione romana, rimane, nonostante che l'Italia sia repubblica e non regno. Così soltanto, come è detto nel surrichiamato preambolo, «ogni ragione di dissidio fra loro esistente» scompare «con l'addivenire ad una sistemazione definitiva dei reciproci rapporti». Ma qui il potere temporale non c'entra più. C'entra la Città del Vaticano e c'entra prima di tutto e soprattutto la Chiesa, starei per dire esclusivamente la Chiesa.

Ed ecco il mio ragionamento, che dà la ragione giuridico-costituzionale dell'articolo 5.

Io appartengo allo Stato ed alla Chiesa. E desidero che lo Stato e la Chiesa siano d'accordo nel regolare la mia condotta, nel rispetto della mia libertà. Ho il diritto di conoscere, a mezzo della legge costituzionale, se la mia libertà religiosa di culto è garantita e se la mia attività religiosa, con l'accordo dello Stato, avrà a conseguire anche rilevanza giuridica nello Stato. Io come cattolico ho il diritto ed il dovere a contrarre matrimonio religioso, che per me è l'unica forma ammissibile. Che farà lo Stato di fronte a questo che io ritengo un diritto ed un dovere? Lo riconosce o lo nega? Ho il diritto di saperlo. Questa è tutela effettiva della mia libertà; e se è così, siamo nel campo strettamente costituzionale, quando viene riaffermata la sovranità della Chiesa e vengono richiamati i Patti lateranensi. Il riconoscimento della duplice sovranità è la base per il coordinamento delle azioni dei soggetti destinatari delle norme e per la precisazione dei limiti dei diritti dei cittadini credenti. Il riconoscimento è necessario, in quanto, a differenza dei trattati internazionali propriamente detti, che sono stipulati tra due organizzazioni statali, le quali agiscono su territori diversi e per lo più in rapporto a cittadini diversi; qui invece il territorio è lo stesso e i soggetti sono gli stessi. Non è fra la Città del Vaticano, come Stato, e lo Stato italiano che vennero stretti i Patti lateranensi; ma è tra la Chiesa e lo Stato. Però il Concordato, pur non essendo un rapporto internazionale in senso stretto, è un rapporto tra due diversi ordinamenti giuridici. Cioè, non siamo nel campo del diritto pubblico interno, ma invece sul terreno dei rapporti e del diritto esterno. È il rapporto, insomma, tra due società di ordine diverso, ma che in un certo senso rappresentano due cerchi concentrici, che hanno lo stesso volume: l'uomo, e la stessa superficie: il territorio.

Né si dimentichi che come lo Stato siamo noi, la Chiesa siamo noi; cioè noi uomini costituiamo lo Stato e la Chiesa che sono delle organizzazioni che devono servire al nostro fine, al conseguimento dei nostri scopi. Il loro regolamento concordatario è regolamento anche delle nostre attività. Incidendo, quindi, la questione sulle libertà e sui diritti dell'individuo, essa va risolta nella Costituzione. Se è stato reclamato da più parti il regolamento dell'attività dei partiti e dei sindacati — ed a me sembra giusto il regolare i rapporti fra lo Stato ed i partiti e lo Stato ed i sindacati — quanto più giusto è però che siano regolati costituzionalmente i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, cioè tra due ordinamenti sovrani!

La coesistenza, invero, di due ordinamenti giuridici sovrani presuppone necessariamente una regolamentazione, ad evitare il conflitto. Altrimenti il conflitto, come purtroppo si è verificato in qualche Stato anche in questi ultimi tempi, viene superato coll'accentramento da parte dell'entità sociale più potente, e cioè dello Stato.

Questo sarebbe un altro aspetto di un assolutismo statale che noi, per la tutela della nostra libertà, non possiamo volere. Forse poteva anche sostenersi l'agnosticismo dello Stato ai tempi del liberalismo, quando effettivamente lo Stato non intendeva entrare nei rapporti delle singole libertà; ma oggi, invece, quando lo Stato si pone anche come regolatore delle libertà economiche e sociali, questo agnosticismo sul terreno etico e religioso è incomprensibile. È strano davvero che in una teoria, la quale pone lo Stato come il creatore unico anche delle libertà individuali, le quali non sarebbero naturali ma troverebbero la loro origine nella concessione dello Stato, si possa sostenere uno Stato agnostico. È che sotto il concetto dell'agnosticismo e della laicità vi è un'altra tendenza ed un'altra realtà: ridurre la Chiesa e la religione a strumenti di governo; affermare la superiorità assoluta dello Stato. Noi questo non possiamo volerlo ed ecco perché ancora una volta diciamo che questi rapporti devono essere costituzionalmente garantiti. In sostanza vogliamo evitare ancora una volta che lo Stato abbia a ritenersi come valore assoluto ed abbia a porsi come negatore delle libertà dell'individuo, guardato non soltanto in sé come singolo, ma proiettato anche sul terreno sociale, e cioè sul terreno delle organizzazioni sociali, in cui egli entra, dalla famiglia alla Chiesa.

E giacché la norma concordataria, preesiste per la volontà dello Stato e della Chiesa, lo Stato, nel momento solenne in cui si dà una struttura costituzionale, non può che riconfermare questi Patti, ponendoli, come ha bene osservato l'onorevole Ruini, in un particolare e speciale rilievo.

Il richiamo espresso, quindi, ai Patti lateranensi, come il riconoscimento specifico della sovranità della Chiesa, rispondono a profonde esigenze di natura storica e giuridica.

Né questo richiamo contrasta, in linea di diritto o in linea di fatto, con il riconoscimento della libertà e della parità di culti, in quanto, come abbiamo più volte rilevato, essi potranno ben ricevere lo stesso regolamento concordato. Noi diciamo: elevate gli altri culti allo stesso trattamento della Chiesa cattolica, se volete, e quando ne sorgerà la opportunità politica in conseguenza della realtà sociale. Ma non abbassate oggi allo stesso piano degli altri culti la Chiesa cattolica, unicamente e solamente in vista della opportunità politica e della realtà sociale, che noi uomini politici non possiamo in nessun momento trascurare.

Una sola parola su alcune obiezioni particolari:

1°) È stato detto che non è opportuno il richiamo, perché il primo articolo del Trattato porterebbe in vita l'articolo 1 dello Statuto albertino. Noi abbiamo sempre parlato dei Patti lateranensi, cioè del Trattato e del Concordato. Ebbene, se non facciamo una questione di forma, ma una questione di sostanza, l'articolo 1 del Trattato bisogna integrarlo con l'articolo 1 del Concordato, che ne stabilisce il contenuto e la portata.

L'articolo 1 del Concordato dice: «L'Italia, ai sensi dell'articolo 1 del Trattato, assicura alla Chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica, in conformità alle norme del presente Concordato; ove occorra, accorda agli ecclesiastici, per gli atti del loro ministero spirituale, la difesa da parte delle sue autorità». La semplice lettura della norma dà la risposta alle osservazioni dell'onorevole Crispo. Come è evidente, non è uno Stato confessionale, sostanzialmente confessionale, che viene ad essere riaffermato, ma soltanto uno Stato che riconosce e regola i diritti della Chiesa, in rapporto ai propri diritti ed in rapporto alle libertà del cittadino. Questo regolamento è indispensabile e non significa riconoscimento di una sola religione, come l'unica religione dello Stato, anche se significa riconoscimento di una situazione di rilievo particolare alla religione della maggioranza degli italiani, come del resto è voluto dalle stesse norme sostanzialmente democratiche, le quali devono garantire i diritti della minoranza, ma non disconoscere quelli della maggioranza, né evitarne in pieno la realizzazione. Ed in verità, in nome della maggioranza dei cattolici, organizzati in tutti i partiti, in quanto tutti i partiti hanno dichiarato di prescindere dalla religione per la iscrizione, noi avremmo il diritto di porre nella Costituzione una dichiarazione espressa che la religione degli italiani è la religione cattolica.

2°) Dall'onorevole Bruni è stato presentato un emendamento, in cui vi è il richiamo alla aconfessionalità dello Stato ed al principio della uguaglianza dei diritti, fissato negli articoli 7, 14 e 15 del progetto.

L'onorevole Crispo ha presentato altro emendamento più generico: «sono regolati dai Patti lateranensi, in quanto non siano contrari alla presente Costituzione», e crede di trovare dei contrasti tra l'articolo 36 del Concordato relativo all'insegnamento religioso e l'articolo 27 del progetto relativo alla libertà dell'arte e della scienza, e tra l'articolo 34 del Concordato relativo alla giurisdizione ecclesiastica e l'articolo 94 del progetto, in cui è posta la giurisdizione unica dello Stato sul territorio.

Non ci fermiamo neppure sul rilievo fatto in rapporto alla giurisdizione penale nella Città del Vaticano. Se la Città del Vaticano è Stato, userà di quel Codice di procedura penale di cui si vorrà servire; di quello del 1889 o di quello del 1930. Se vogliamo cogliere un significato anche in questo, potremmo dire che usa di quello, perché certamente è più rispondente ai principî democratici.

A parte questa risposta, la osservazione dell'onorevole Crispo non è rilevante; come non rilevante quella relativa alla piazza aperta di S. Pietro. Sono le altre osservazioni, a cui dobbiamo rispondere e che concordano con quelle già fatte da Cevolotto, da Basso, da Togliatti, da Marchesi, da Calamandrei; che tutti si sono riferiti al caso Buonaiuti.

Diciamo subito che non vi è nei patti lateranensi nulla che contrasti con i principî di libertà e di uguaglianza dei cittadini. Quando noi concepiamo la libertà sul terreno positivo e nei termini della legalità, ne portiamo la immediata convinzione. L'articolo 7 del progetto dà il fondamento della dignità economica e sociale dell'uomo; ma quanto più è necessario — e dev'essere nella essenza integrale della Costituzione — proclamare la dignità etica e religiosa dell'uomo. Questa, se lo Stato non vuole potenziarla seguendo una specifica direzione, non può disconoscerla o misconoscerla. Se noi cattolici siamo convinti che il completo sviluppo della persona umana si ha sul piano morale e religioso per la conquista dell'al di là, nessuno ci può rinnegare il conseguimento di tale sviluppo. Questo concetto è indicato negli articoli 14 e 15 in rapporto ai credenti di tutte le fedi; e perciò questi articoli non sono in contrasto con il contenuto dell'articolo 5.

Né si può parlare di contrasto tra l'articolo 36 del Concordato ed il 27 del progetto. La libertà della scienza e dell'arte non è in contrasto con l'insegnamento religioso. Per di più gli emendamenti sono assurdi e da un punto di vista logico e da un punto di vista costituzionale. Nello stesso momento in cui noi costruiamo l'edificio, verremmo volontariamente a creare delle crepe nell'edificio stesso; in quanto verremmo a riconoscere che vi potrebbero essere delle contraddizioni tra le diverse norme. Questo è inammissibile; sarebbe uno sfuggire alla risoluzione non dare la risoluzione.

Rimane il caso Buonaiuti. Studiando questo argomento, mi è capitato sotto gli occhi un articolo del professore Ezio Crisafulli, riportato in «Rinascita» (gennaio-febbraio 1947, pag. 15 e seguente). Egli in sostanza dice che il Concordato con l'Italia è più gravoso di quello con la Baviera, in quanto in quello per la Baviera è prevista solo la perdita dell'insegnamento di materie religiose e salvi i diritti del funzionario. Ma, dunque che insegnava il Buonaiuti, se non la Storia del cristianesimo? Ed allora perché scandalizzarsi tanto, quando anche nel concordato con la Baviera, richiamato a modello dal Crisafulli, questo principio è riconfermato?

Ma si noti che è nell'interesse dello Stato stesso che l'articolo 5 del Concordato trova la sua ragion d'essere. In esso non si parla di qualunque ufficio ed impiego; né è detto che i diritti del funzionario apostata o irretito da censura non vadano conservati. Si parla soltanto dell'impiego e dell'ufficio a contatto immediato con il pubblico, il che significa che si vuole evitare quella strana situazione di curiosità, che nasce nel popolo intorno al prete spretato, e si vuole evitare quel nocumento alla psicologia ed alla morale popolare, che fatalmente deriva dal contatto col prete apostata.

Dal punto di vista giuridico vi è di più. Chi va sacerdote, assume volontariamente una disciplina entrando a far parte di una organizzazione giuridica; assume cioè uno stato personale giuridico di fronte alla Chiesa, che ha e non può non avere riflessi anche in ogni altra collettività. Il prete non può essere membro del Governo, né Deputato, né magistrato, né ufficiale, né può divenire capo dello Stato da quando è stato sancito nel Concordato il divieto di iscriversi e militare nei partiti. È evidente che queste limitazioni, nascenti dallo stato particolare del sacerdote, hanno rilevanza soprattutto di fronte allo Stato; né esse offendono o limitano il diritto di nessuno.

Non vi è, quindi, limitazione di libertà, dal momento che quello stato personale, al quale erano connessi quei diritti e quei doveri e per il quale erano previste quelle determinate conseguenze, fu accettato liberamente; non vi è una situazione di privilegio per la Chiesa Cattolica, in quanto il principio può essere sancito per tutte le Chiese; vi è un interesse dello Stato, data la tradizione ed il sentimento religioso, e, vorrei dire anche, data la particolarissima conformazione psicologica del popolo italiano ad evitare nocumento alla morale popolare. In conclusione l'articolo 5 del Concordato non lede il diritto di eguaglianza di tutti i cittadini, non lede la sovranità dello Stato, dal momento che con il Concordato sono reciprocamente definiti i rapporti fra lo Stato e la Chiesa e indicati gli effetti di questo regolamento in rapporto alle libertà dei singoli; non lede la uguaglianza di tutte le confessioni di fronte allo Stato, dal momento che ogni confessione può trattare con lo Stato e concordare gli stessi effetti. Che anzi per i preti cattolici vi è una limitazione — e la Chiesa è stata lieta di concederla per evitare che la lotta politica potesse assumere particolare aspetto di lotta religiosa — in quanto essi non possono partecipare a determinati uffici dello Stato.

Ed io termino.

Nell'articolo 34 e nell'articolo 36 sono espressamente richiamate le tradizioni cattoliche del popolo italiano, ed in nome ed in virtù di esse sono tratte le conseguenze in rapporto alla dignità religiosa del matrimonio ed all'insegnamento religioso nelle scuole.

Neghiamo queste tradizioni e questa storia dell'Italia?

A me pare che neppure l'onorevole Togliatti lo voglia. Egli tra l'altro ha detto: «I problemi già risolti nel passato non ci interessano più, ma cerchiamo che quelle posizioni che hanno conquistato i nostri padri, i nostri avi, attraverso lotte memorabili, e che hanno un valore permanente, — in quanto rappresentano conquista della nostra coscienza, non vadano perdute».

Le conquiste dei nostri padri, e dei nostri avi costituiscono la essenza della tradizione e della civiltà italiana; questa è una conquista permanente della coscienza italiana e della coscienza dei singoli, in quanto, se il sentimento religioso è incancellabile dall'anima dei popoli, dall'anima del popolo italiano è incancellabile il suo sentimento religioso, che è quello cattolico.

In nome di questa anima del nostro popolo; in nome della pace interna e religiosa, che è bene, il quale non va distrutto per l'avvenire dell'Italia nostra, in nome di Dio che è rivelato da ogni pagina della nostra storia e da ogni pietra delle nostre città e dei nostri villaggi, noi sentiamo di aver il diritto di chiedere che l'articolo 5 del progetto sia approvato per il rispetto della volontà della maggioranza degli italiani.

Questo diritto vi chiediamo di rispettare e siamo convinti che tutti in questa Assemblea vorranno rispettarlo ed approvare l'articolo 5. (Vivi applausi al centro ed a destra Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti