[Il 20 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.

Prima di iniziare la discussione, l'onorevole Capua parla sul processo verbale.]

Capua. Desidero chiarire solamente, con due parole, una mia frase con la quale la collega onorevole Mattei, ha voluto polemizzare, forse perché non è stata interpretata nel suo esatto significato.

Dissi scherzosamente, nel mio discorso tenuto alcuni giorni fa, parlando delle urne, e ripetendo un vecchio motto popolare, che si potevano considerare infide, perché di genere femminile.

Ciò ha solamente il valore di una battuta, d'una di quelle scherzose battute che si interpolano in un discorso fra un concetto e l'altro, per renderlo meno barboso, perché, spesso, in questa sede, i discorsi che dobbiamo tenere sono barbosi.

Ora devo dichiarare che ogni parola che da ogni settore, giustamente, si leva in onore delle donne italiane, non può trovare che profonda eco nel nostro settore, perché noi, come tutti gli altri partiti, onoriamo e stimiamo altamente tutte le donne italiane, tutte indistintamente e quindi anche l'avversaria onorevole Mattei.

[...]

Rodinò Mario. [...] Nella relazione che accompagna il progetto di Costituzione, il Presidente della Commissione dichiara che molti avrebbero desiderato di definire, subito e all'inizio del progetto, l'Italia «Repubblica di lavoratori», e che a tanto si è rinunziato soltanto per non creare parallelismi con altre Costituzioni che hanno forme di economia diverse da quella italiana. A me non sembra che ci sia una gran differenza tra il definire l'Italia, a similitudine della Repubblica sovietica, «Repubblica di lavoratori» come si sarebbe voluto fare, o definirla: «Repubblica che ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come si è fatto nel primo articolo delle disposizioni generali. Questa definizione premessa a quella della sovranità popolare, quasi si tratti di affermazione che preesista e superi i poteri di questa stessa sovranità (che, pure, è la base naturale di ogni democrazia), a me sembra ispirata da equivoche formalità demagogiche ed in evidente contraddizione con la precedente affermazione di democraticità della Repubblica, la quale importa e comporta la completa eguaglianza di tutti i cittadini nel diritto di partecipare alla direzione della cosa pubblica.

È di suprema utilità ed interessa specificare esattamente ed individuare, fin dal principio, la portata e la finalità delle affermazioni di questo progetto di Costituzione, ad evitare l'impostazione ufficiale di piani inclinati, che ignoriamo (o, meglio, non ignoriamo) a che cosa potrebbero condurci.

È noto che i testi marxisti e i partiti e le masse marxiste danno alla parola «lavoro» e «lavoratori» un significato molto più stretto e limitato di quello comune del vocabolario. La dizione, dunque, può prestarsi a doppie ed ambigue interpretazioni che, in una legge costituzionale, vanno evitate senza altro.

Gli italiani sono, per definizione tradizionale: «lavoratori»; tutta la loro storia è frutto delle loro braccia e del loro ingegno; tutta la loro terra ed infinite altre terre sono intrise del sudore della loro fronte; tutto il progresso della umanità, in ogni campo e in ogni settore, è legato al lavoro italiano.

Se per «lavoro», come è stato già detto qui dentro, deve intendersi e non può non intendersi, al disopra di ogni accezione di lavoro manuale, ogni azione ed ogni attività intese a procurare col braccio e con la mente un guadagno o una soddisfazione all'individuo ed un contributo materiale, intellettuale e morale alla vita comune, io, mi domando: chi è che non lavora in Italia? Tutti lavorano in Italia, o, meglio, tutti aspirano a lavorare, e, forse, il lavoro più degno è quello di coloro che si affaticano a creare ed ampliare ogni attività di lavoro per gli altri, e il più commovente è quello di tanti che lavorano disperatamente a cercare un lavoro, che per tutti non c'è.

Se dunque il lavoro, inteso nel senso ampio e lato di questa nobile parola, è già base e fondamento, e anzi la sola base e la sola speranza della vita italiana; e se la percentuale di quelli che vogliono non lavorare in Italia e che possono permettersi il lusso di avere questa volontà, ammesso che ve ne siano, è talmente irrisoria e trascurabile da non poter formare oggetto di particolari provvedimenti e individuazioni in tema di legge costituzionale, perché dare proprio all'inizio della nostra Costituzione la sensazione di un possibile conflitto e in ogni caso di una differenziazione fra popolo e lavoratori, quando, come già è stato detto, il popolo italiano è un popolo di lavoratori?

A conti fatti, se porre alla base della Costituzione la santità e la indispensabilità del lavoro, unica speranza e unica sostanza di vita per la Repubblica, è doverosamente sacro, la proclamazione di una non identificata classe di lavoratori, privilegiata nei confronti del laborioso popolo italiano, non ha e non può avere che uno scopo demagogico ed elettorale, quello di giocare sull'equivoco e di permettere a qualcuno di dire, basandosi sulla assonanza di nomi fatti — repubblica di lavoratori, partito di lavoratori, camera dei lavoratori: — «Ecco abbiamo già riservato i posti; di qui e solamente di qui si passa in base alla nuova Costituzione; solamente di qui si entra per partecipare alla organizzazione e alla vita del Paese!». (Commenti).

Dopo avere, e giustamente, affermato che il lavoro è il fondamento della Repubblica, più serio e più onesto sarebbe stato di preoccuparsi del problema di procurare il lavoro ai lavoratori italiani, anziché di quello, tanto più facile, di assicurare loro la partecipazione politica, che non potrebbe mai loro mancare in una repubblica ordinata democraticamente e secondo i principî della sovranità popolare.

A me sembra che, dopo aver proclamato la necessità del lavoro, unica e vera fonte della rinascita della Patria, troppo nel progetto in esame e con troppa sorprendente facilità si parla di assegnazioni di lavoro, di possibilità di lavoro, di benefici derivanti da una sempre più diffusa attività di lavoro, dimenticando che l'impiego di tutte le braccia e di tutti gli intelletti disponibili rimane per tutti i paesi in genere, e per il nostro in ispecie, il problema dei problemi.

Dopo le fandonie del fascismo, i cittadini hanno sete di sincerità ed è obbligo della democrazia, e quindi obbligo nostro, di rispondere a questa precipua e legittima esigenza.

Le manovre equivoche continuano. Durante le ultime elezioni fu affermata e diffusa una falsità: la Costituente vi darà pane e lavoro. Nelle prossime si darà vita ad una altra: la Costituzione ha assicurato a tutti il lavoro.

Non è giusto; consci della nostra responsabilità nei confronti del popolo, e assolutamente indifferenti alle sorti dei prossimi ludi elettorali, noi desideriamo che la Costituzione non rappresenti un inganno per nessuno e che i cittadini sappiano che tutti i provvedimenti derivanti dal lavoro italiano, privo di materie prime, sono e rimangono intimamente connessi e legati alla realizzazione di una sempre più vasta collaborazione economica internazionale. Come nell'articolo 4 di queste disposizioni generali è sancito e praticamente dichiarato che l'Italia, più che sulla forza delle sue armi, che non ha e che non può avere, conta, per i problemi della difesa e delle aggressioni, sull'esistenza di un'organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia ai popoli, così, anche per quanto riguarda i problemi del lavoro, occorrerebbe dichiarare in questa Costituzione, che il popolo italiano, per soddisfare le sue sempre crescenti necessità di lavoro, conta sul progressivo incremento di una collaborazione internazionale che renda possibile, nel nome di una superiore giustizia, lo scambio di materie prime con prodotti finiti.

Nessuno Stato, per quanto ricco e attrezzato, può infatti illudersi di vivere rinchiuso in se stesso, separato dalla comunità internazionale. Le follie dell'autarchia ci fanno oggi sorridere.

Mettere il lavoro quale fondamento della nuova Repubblica, va bene; ma le fondamenta, per rispondere alle funzioni di sostegno, debbono a loro volta essere ben poggiate e basate e non è possibile non domandarsi su che cosa poggeremo noi questo «lavoro-fondamento» che figura garantito a tutti i cittadini e sul quale ci affrettiamo ad imporre tutto l'edificio della nuova Repubblica. Il problema del lavoro, considerato soltanto come problema di carattere interno e nazionale, è del tutto irreale e insolubile, e malamente è stato posto a perno principale dell'organizzazione costituzionale.

[...]

Mi sembra, quindi, opportunissimo stabilire e ricordare chiaramente all'inizio di questa Costituzione, in un preambolo o in una disposizione generale (allo scopo di dare una impostazione base ed una finalità inequivocabile a tutto il testo del progetto) che la nostra esperienza — un'esperienza che ci è costata lacrime e sangue, la morte dei figli e la distruzione del Paese — ci insegna che è lo Stato accentratore e totalitario il principale nemico di quella autonomia e dignità della persona umana, che l'articolo 6 intende proteggere e custodire; è lo Stato accentratore e totalitario che va individuato e combattuto in tutte quelle manovre e quei metodi che gli italiani di oggi conoscono e riconoscono, ma, che quelli di domani potrebbero ignorare.

Ed è proprio in base alla nostra passata esperienza ed ai nostri ricordi totalitari che mi dichiaro nettamente ostile alla dizione dell'articolo 7 delle disposizioni generali, là dove esso assegna alla Repubblica il compito quanto mai imprecisato, elastico ed equivoco di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'uguaglianza degli individui, ecc.».

Questa equivoca dizione con la scusa di tendere ad una sempre maggiore uguaglianza sociale e di favorire lo sviluppo della persona umana, autorizza di fatto lo Stato a compiti ed azioni di così vasta e complessa portata, che potrebbero essere realizzati soltanto da uno Stato non meno autoritario e non meno totalitario di quello che è alla base di tutte le nostre sventure.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti