[Il 13 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Crispo. [...] In rapporto al carattere democratico della Costituzione penso che debba ripugnare al sentimento democratico — dico di proposito: sentimento democratico, cioè spirito democratico — il pensiero di una guerra intesa come strumento di conquista o di offesa della libertà degli altri popoli. Epperò, esaminando l'articolo 4, osservo che l'espressione usata «L'Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli» non riproduce esattamente il concetto di repugnanza morale per una guerra di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli.

Questa formula fu tratta dal Patto di Parigi del 1928 Briand-Kellogg, e fu già tradotta nella Costituzione spagnola del 1931. Io ritengo che a questa formula si debba sostituire la formula adoperata dalla Costituzione francese, alla quale, del resto, mi sembra si sia attinto nella redazione dell'articolo 4. Nella Costituzione francese è detto:

«La Repubblica francese, memore delle sue tradizioni, non intraprenderà alcuna guerra di conquista». Ecco: vi è come un impegno categorico; e v'è come l'espressione di un dovere morale, insito...

Pertini. Siamo d'accordo.

Crispo. ...insito, dicevo, nello spirito democratico di un popolo, dovendo repugnare ad un popolo che inspira i suoi ordinamenti alle libertà, a tutte le libertà fondamentali consacrate nella Costituzione, il pensiero di una guerra di conquista.

Anche per un'altra ragione penso che occorra sostituire questa espressione: perché, badate, il termine «rinuncia» richiama subito l'idea di un diritto o di una facoltà. Si rinuncia, difatti, ad una facoltà o si rinuncia ad un diritto. E mi sembra inconcepibile che si possa dire che lo Stato democratico abbia il diritto di intraprendere una guerra di conquista.

Non mi sembra, per altro, che il concetto espresso in questa parte dell'articolo 4 sia completo, perché lo Stato può anche altrimenti che con una guerra comprimere le libertà di un altro popolo: si pensi, per esempio, all'esercizio di un protettorato o all'amministrazione di una colonia: in tale esercizio possono essere compressi i diritti del popolo amministrato. E l'articolo 4 non dice nulla, mentre anche questo concetto è scolpito nel preambolo della Costituzione francese, laddove è detto che la Francia non intraprenderà alcuna guerra e non adopererà la forza contro la libertà di un altro popolo. Occorre, a mio avviso, adunque integrare la disposizione. In questo senso io propongo che l'articolo 4 sia redatto nel modo seguente:

«L'Italia non intraprenderà alcuna guerra di conquista né userà mai violenza alla libertà di alcun popolo, ecc.».

[...]

Bencivenga. Non dispiaccia all'Assemblea ch'io la trattenga, come al solito per breve tempo, su quanto il progetto di Costituzione stabilisce circa l'argomento guerra, circa questo evento fatale che scuote profondamente la vita dei popoli.

Ho chiesto di parlare su questo capitolo delle disposizioni generali, perché è in questo capitolo che all'articolo 4 si comincia ad affrontare tale argomento sul quale si ritorna in successivi articoli del testo; ma tutti così strettamente collegati ed interdipendenti, che si rende necessario, per venire a logiche conclusioni, uno sguardo di insieme.

In sintesi dirò che il progetto di Costituzione tocca due questioni: la base etica della guerra, il modo col quale la sovranità del popolo debba essere esercitata per la decisione di far ricorso all'uso delle armi: ed infine — ed in modo alquanto oscuro — chi debba assumere il comando delle forze armate e la responsabilità della condotta della guerra.

È ovvio che tali questioni si presentano in modo diversamente complesso a seconda del reggimento dei popoli. Di massima semplicità, quando essi siano retti da un Capo arbitro della pace e della guerra; di natura assai più complessa quando la sovranità risieda nel popolo.

Nella storia moderna il primo caso ha un esempio tipico nell'impero napoleonico, nel quale il Capo dello Stato era anche il condottiero. In questi si assommavano gli elementi inscindibili: politica e condotta della guerra; fattori codesti strettamente interdipendenti, poiché come ho già detto altra volta, la guerra è la continuazione della politica con le armi alla mano.

E, quando dico politica, mi riferisco non soltanto alla politica estera, ma anche a quella interna, cioè alla preparazione degli animi dei cittadini che dovranno affrontare la morte ed i sacrifici che la guerra impone.

La questione è assai più complessa e le difficoltà cominciano a rivelarsi nelle monarchie costituzionali in senso crescente con la maggiore quantità dei poteri che la Costituzione riserva alle Assemblee che traggono i loro poteri dal popolo. Le difficoltà sono poi grandi negli Stati retti a Repubblica, quando tutto il potere è al popolo; tanto più poi quando in esso difetti educazione politica e non si dimostri vigile ai pericoli derivanti dalla possibilità dei colpi di Stato.

Noi oggi ci troviamo a compiere il gran passo di trasferire quei poteri, che lo Statuto albertino assegnava al sovrano nel campo della decisione della guerra e del comando delle forze armate, ai rappresentanti diretti del popolo. E non è cosa facile e non ci sembra che la Commissione dei settantacinque abbia ben approfondito il problema.

Né è possibile prendere a modello quello che, nelle rispettive Costituzioni, sanciscono altre repubbliche; poiché bisogna tener conto della interpretazione e dell'applicazione che esse hanno ricevuto nel tempo e delle particolari condizioni storiche, geografiche in cui dette repubbliche si trovano.

I nostri colleghi hanno attinto molto dalla recente Costituzione francese, ma non hanno tenuto conto che molti di questi principî risalgono alla rivoluzione del 1789 e sono stati ribaditi in tutte le Costituzioni successive, il che non ha impedito alla Francia di prendere l'iniziativa o partecipare a numerose guerre nel secolo scorso o nel nostro secolo, anche e molto spesso in contrasto — per lo meno letterale — coi principî sanciti nelle varie Costituzioni.

Come è noto, lo Statuto albertino, all'articolo 5, stabiliva:

«Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere, tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune...».

Coll'evolversi delle nostre istituzioni in senso democratico, questi poteri di fatto erano molto diminuiti. Il Parlamento, guidato dalla pubblica opinione, che soprattutto si rivelava per mezzo della stampa, limitava i poteri del sovrano nei trattati di alleanza e soprattutto nella dichiarazione di guerra.

Il comando di tutte le forze di terra e di mare non era assoluto. In tempo di pace era virtualmente esercitato dai Ministri, sotto il controllo del Parlamento; in tempo di guerra il comando effettivo veniva assunto dal Capo di Stato Maggiore, la cui nomina, almeno formalmente, era fatta dal Governo.

Tuttavia il sovrano non restava estraneo alla condotta della guerra. L'educazione e la cultura che veniva data ai principi, li rendeva atti ad un'azione di controllo e talvolta, come avvenne nella grande guerra, ad un deciso intervento, come dopo l'episodio di Caporetto.

Ora si tratta di trasformare tutto codesto processo, ma non si può approvare il semplicismo, adottato dalla Commissione dei settantacinque, di trasferire nella nostra Costituzione quello che è nella Costituzione francese.

Anche perché ogni Paese ha le sue esigenze di carattere tecnico e politico, dipendenti dalla situazione geografica e dai reggimenti politici delle nazioni con esse confinanti, né astrarre dalle ambizioni di conquista che tali nazioni nutrono.

È ovvio infatti che diverse sono le condizioni nelle quali si deve deliberare la guerra quando le frontiere sono chiuse ad ogni invasione immediata, quando cioè nessun pericolo improvviso sia da tenere, quando la cosiddetta «isolation» (che, a dire il vero, oggi non esiste più per nessuno Stato, colla adozione della bomba atomica!) permette di decidere in tutta tranquillità se si debba o no scendere in campo.

Né è lecito fare astrazione dalla natura e dall'aspirazione dei popoli confinanti. È logico che quei Paesi che hanno ai loro confini popoli turbolenti, dai quali possono temere aggressioni, giustificate talvolta dall'infatuazione messianica di apportare nuova civiltà od una particolare ideologia politica (similmente a quanto fece la Francia dopo la rivoluzione del 1789), non possono sottoporre la decisione della pace e della guerra a complesse deliberazioni di Assemblee, nelle quali facilmente si delineerebbe il contrasto tra i fautori di una nuova civiltà e coloro che ad essa fossero avversi.

Abbiamo detto che la nostra Costituzione ha preso a modello la Costituzione francese.

Ebbene, a riguardo dell'articolo 4, secondo il quale l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli — principio indubbiamente nobilissimo — io domando all'Assemblea: siamo anche noi d'accordo nel dare ad esso l'interpretazione che a questo principio, sancito nella Costituzione francese dal 1789 in poi, ha dato la Francia?

Al riguardo mi si consenta di dare qui l'interpretazione che, subito dopo la Costituzione francese del 1848, dava un commentatore della medesima. Si rifletta che detta Costituzione è forse una delle più organiche e complete fra le numerose Costituzioni che si sia data la Francia, e già risente dell'ansia di risolvere quei problemi di natura politico-sociale che oggi angustiano i popoli.

Orbene, il commentatore al quale mi riferisco, il Saint Prix — dirò in sintesi il suo pensiero — esclude dalla classifica di guerre di conquista quelle intese al raggiungimento dei confini naturali (l'eterna ossessione della Francia per la sicurezza!) e giustifica quelle intese a portare la libertà nei popoli che secondo l'autore non è in quelli retti a monarchia! Ed infine l'autore conclude il suo lungo commento con l'osservare che essendo il popolo sovrano, esso ha diritto di fare le guerre che vuole...

E nella realtà il popolo francese ha ritenuto giuste tutte le guerre che ha fatto, anche quando, evidentemente, si proponeva propositi di egemonia e di conquista, naturalmente mascherandole sempre dietro gli immortali principî del 1789.

E poiché noi oggi, per la prima volta, poniamo in testa alla nostra Costituzione detto principio, è doveroso, ripeto, chiedere all'Assemblea se intenda oppure no, dare ad esso l'interpretazione che ne ha dato la Francia dal 1789 ai nostri giorni.

Non dimentichiamo che la Francia, pur avendo nella Costituzione successiva alla disfatta del 1870-71 un tale principio, non cessò mai, come era giusto e naturale, di pensare alla rivendicazione dei territori nazionali perduti, come ne era prova il fatto di aver velato a lutto la statua simboleggiante l'Alsazia e Lorena.

E guardate che la mia domanda ha uno scopo pratico. Perché della pace e della guerra — a senso dell'articolo 75 — dovrebbe decidere l'Assemblea Nazionale: un'Assemblea di circa un migliaio di membri, tra Deputati e Senatori. Aggiungerò anzi che la nostra Costituzione va ancora più in là: cioè (cosa che la nuova Costituzione francese non sancisce) vuole che sia la nostra Assemblea Nazionale a decidere anche della mobilitazione.

Non rilevo tutto l'assurdo di questa disposizione, sulla quale, se sarà il caso, ritornerò a suo tempo. Mi limito ora a far osservare che se dovesse restare in vigore, credo che difficilmente si troverebbe un capo di Stato Maggiore che potesse assumere la responsabilità di un'eventuale guerra. È ovvio infatti che, poche ore dopo la decisione di entrare in guerra presa dall'Assemblea, sarebbe paralizzato dall'uso dell'arma aerea tutto il sistema di trasporti ferroviari, ed anche il traffico sulle rotabili con la distruzione dei ponti.

D'altra parte, non si dimentichi che elemento pressoché decisivo del successo, sia nel campo tattico sia in quello strategico, è la sorpresa, e questo fattore così importante di successo sarebbe escluso, quando la mobilitazione dovesse essere decisa dall'Assemblea. Non è mistero per alcuno, che tutte le guerre moderne sono state precedute dalla cosiddetta mobilitazione occulta, la quale può essere anche una preventiva misura a scopo di difesa.

Se realmente un'Assemblea, di circa un migliaio di persone, dovesse decidere della guerra e della mobilitazione, potrebbe ad esse avvenire quello che avvenne ai coalizzati contro il grande Napoleone, il quale, di fronte alle discussioni sul da fare tra i coalizzati, disse la celebre frase: «Tandis qu'ils délibèrent, la grande armée marche»...

Ma non è sull'argomento della mobilitazione che io voglio indugiarmi, bensì richiamare l'attenzione sul fatto che l'Assemblea Nazionale, secondo il progetto, dovrebbe decidere della pace o della guerra, il che richiede che sia chiarita la portata reale effettiva dell'articolo 4 delle disposizioni generali. Poiché le discussioni potrebbero essere lunghe ed inconcludenti, e, qualora mancasse l'unanimità, esse lascerebbero nel popolo quell'indecisione sulla legittimità e l'opportunità della guerra che costituisce un fattore psicologico di grande importanza, e che, per esperienza, sappiamo aver avuto nella grande guerra (per il dissidio tra i neutralisti ed interventisti) un'influenza che, per poco, non ci condusse al disastro.

Presidente Terracini. Permetta, onorevole Bencivenga: noi non esaminiamo ora l'articolo 75, dove si parla della dichiarazione di guerra.

Bencivenga. Onorevole Presidente, la guerra è un tutto unico; sono stati fatti dei capitoli sull'economia, sulla vita sociale... (Commenti).

Presidente Terracini. Non voglio impedirle di parlare; le facevo presente soltanto questo: che lei si diffonde sul contenuto dell'articolo 75, che è quello che prevede il modo di dichiarare la guerra, mentre l'articolo quarto afferma, e speriamo che valga, che la guerra non si possa fare. (Approvazioni a sinistra).

Bencivenga. Non c'è niente di politico in questo; è una questione tecnica.

Presidente Terracini. Io non le ho fatto una osservazione di carattere politico. Ho cercato soltanto, come cerco con tutti, di contenere le nostre discussioni entro certi limiti; e ricordo, come ho detto all'inizio della seduta, che vi sono 272 iscritti.

Bencivenga. La questione non riguarda soltanto un partito, ma tutti i partiti politici. Si tratta della pace e della guerra e dobbiamo vedere come viene regolata tutta questa materia. Del resto chiedo soltanto dieci minuti ed ho finito.

Presidente Terracini. Prosegua pure, onorevole Bencivenga.

Bencivenga. La recente Costituzione francese, conforme alle sue precedenti, stabilisce bensì essere potere dell'Assemblea, previo parere del Consiglio della Repubblica, di decidere della pace o della guerra (si guarda bene di toccare la questione della mobilitazione), ma su questa prerogativa dell'Assemblea di decidere della pace e della guerra non sarà superfluo ricordare quanto il Saint Prix scrive nel commento alla Costituzione del 1848: «Non si esageri — dice il nostro autore — l'efficacia pratica della regola; introdotta nella Costituzione consolare, essa non impedì a Napoleone di incendiare l'Europa con il pericolo della Francia». Le precauzioni più salutari restano impotenti quando l'opinione pubblica non ne reclami altamente l'esecuzione. Egli è, onorevoli colleghi, che la salvaguardia contro la guerra ingiusta non può essere riposta in rimedi, dirò così, in extremis, ma nel retto funzionamento delle istituzioni democratiche e in definitiva della libertà.

La guerra, come ho ripetutamente detto, soprattutto per aprire le menti di coloro che hanno della guerra e della pace un concetto semplicistico, trova le sue origini nella politica ed è in questo campo che le Assemblee debbono mostrarsi attente e vigilanti ed a loro volta farsi interpreti della pubblica opinione non coartata da leggi che offendono la libertà, soprattutto di quella della stampa, che tanto più potrà agire con senso di responsabilità quanto più essa acquisti coscienza del proprio compito.

Ma io mi avvedo che l'ora passa e mi preme toccare un altro argomento che riguarda il comando delle forze armate.

È questo un punto sommamente delicato per una Repubblica; poiché altro è il diritto che le varie Costituzioni dei regimi monarchici riconoscevano al Sovrano (specie nelle monarchie costituzionali come era divenuta la nostra), altro è quello che si può riconoscere ad un Presidente di Repubblica. Le ragioni sono ovvie. Le forze armate dipendenti da un Presidente possono favorire un colpo di Stato che significherebbe la fine della Repubblica e delle libertà civili.

Orbene, l'articolo 83 del nostro progetto di Costituzione stabilisce quanto segue: il Presidente della Repubblica... «ha il comando delle forze armate; presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall'Assemblea Nazionale».

Quasi con le stesse parole ritroviamo questo articolo nella presente Costituzione francese. Vi è però una differenza, che può apparire trascurabile a chi non vi porti grande attenzione. Ed è là dove, dopo aver detto che presiede il Consiglio superiore e il Comitato di difesa nazionale, aggiunge, «e prende il titolo (sottolineo queste parole) di comandante delle forze armate». Il titolo dunque, non il comando effettivo.

La Costituzione del 1848 era ancora più esplicita. All'articolo 50 diceva: Il «Presidente dispone della forza armata, senza poter «jamais» (sottolineo il jamais) comandarla di persona».

Se voi, onorevoli colleghi, mettete in relazione i due testi del 1848 e quello della recente Costituzione e la lunga tradizione che ne è seguita, non vi è alcun dubbio sulla determinazione che giammai il Capo della Repubblica potrà assumere il comando effettivo, come era del Sovrano, delle forze armate; ma quale interpretazione possiamo noi dare all'articolo 83 della nostra Costituzione?

Chi allora avrà il comando in guerra che una volta aveva il Sovrano, il quale, come è noto, la esercitava attraverso il suo Capo di Stato Maggiore generale? Daremo il comando ad un generale. E se questi avesse le ambizioni di un Buonaparte?

Mi riservo di ritornare a suo tempo, quando verranno discussi a suo tempo i poteri del Presidente della Repubblica, la questione del modo con il quale siano garantite le civiche libertà e siano poste al sicuro le nostre istituzioni democratiche da avventure simili a quelle di Luigi Buonaparte.

E sempre per restare nell'ambito del problema militare, mi sia concesso esprimere il mio dubbio circa l'opportunità di quella, indubbiamente nobilissima, dichiarazione, della seconda parte dell'articolo 4, secondo la quale «l'Italia consente, a condizioni di reciprocità ed eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».

Noi, che conosciamo tutti gli orrori della guerra, perché nessuno come chi ha tenuto elevati comandi di truppe può averne sensazione esatta, siamo tra i più ferventi apostoli della abolizione di tutte le guerre. Ho anche scritto in proposito sulla rivista L'europeo qualunque uno studio circa l'organizzazione militare di una federazione di Stati europei, suscettibile di essere estesa ad un complesso sempre maggiore di Stati aderenti al concetto della unione tra i popoli.

Ma, è ovvio, che nessuna adesione a progetti del genere può essere presa in considerazione dal nostro Paese dopo l'iniquo Trattato di pace. Uno Statuto che si prefiggesse di eternare lo status quo non potrebbe trovare il consenso di quegli italiani che il «Diktat» ha strappato alla Patria!

La Francia ha anch'essa inserito nella sua nuova Costituzione qualche cosa di simile. Ma, onorevoli colleghi, la Francia oggi può permettersi il lusso di dichiararsi disposta ad un accordo internazionale che impedisca la guerra. Essa ha realizzato il suo sogno di egemonia e di sicurezza. E tale sicurezza ha interesse a completare con una garanzia internazionale. Però, per la sua sicurezza, essa non ha esitato a ripudiare quel concetto delle frontiere naturali a nostro riguardo, assicurandosi teste di ponte per la facile invasione del Piemonte!

Io mi domando poi se un articolo analogo avrebbe posto nella sua Costituzione del 1875, dopo la perdita dell'Alsazia-Lorena! Il suo motto allora fu la «revanche». Noi non ne seguiremo l'esempio (Commenti), ma neppure suggelleremo, con un impegno internazionale, il delitto da essa commesso contro il nostro Paese, al quale deve se ha potuto resistere sulla Marna nella grande guerra del 1914-1918. (Approvazioni a destra).

Dato che negli articoli della Costituzione è un principio etico, morale ed un impegno di leale osservanza, io non credo opportuno inserire quella dichiarazione della seconda parte dell'articolo 4, che potrà trovare invece più opportuna sede in dichiarazioni di Governo.

E concludo. Dal breve cenno che abbiamo dato sul complesso problema della guerra appare evidente che il progetto di Costituzione, per questa parte, debba essere riveduto a fondo con il concorso di esperti, non solo nel campo militare, ma di esperti in politica estera, e, perché no, anche di politica interna. E questo voto io faccio al disopra di ogni intendimento politico di partito, ma nel supremo interesse della nostra Patria! (Applausi a destra).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti