[Il 25 gennaio 1947, nella seduta pomeridiana, la Commissione per la Costituzione in seduta plenaria prosegue la discussione sugli articoli del progetto di Costituzione.]

Il Presidente Ruini, apre la discussione sull'ultimo comma dell'articolo 20:

«Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto i Codici militari di guerra».

Cevolotto crede sia più esatta la dizione «leggi militari di guerra».

Il Presidente Ruini concorda.

Avverte che su tale comma l'onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento firmato anche dall'onorevole Terracini:

«La pena di morte potrà essere ammessa solo nei codici militari limitatamente al periodo di guerra ed eccezionalmente per i reati comuni nei casi di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione».

L'onorevole Lussu, a sua volta, aveva presentato un emendamento soppressivo dell'ultimo comma. Poiché l'onorevole Lussu non è presente si intende che vi abbia rinunciato.

Moro ricorda che vi è anche un emendamento dell'onorevole Leone, che vorrebbe conservata la pena di morte con esclusione dei reati politici.

Rossi Paolo si dichiara contrario all'emendamento Nobile. Senza attardarsi — né potrebbe farlo — ad illustrare la vastissima letteratura mondiale esistente su quest'argomento rileva soltanto che, mentre in altri Paesi l'abolizione della pena di morte può assumere un aspetto tranquillo, freddo, scientifico, in Italia ha un valore sentimentale, tradizionale e politico di altissimo rilievo che non può essere trascurato. Ricorda che la pena di morte, in Italia, fu abolita ben quattro volte con la dichiarazione: «La pena di morte è abolita per sempre». Una prima volta fu abolita dal Granduca Leopoldo di Toscana; la seconda volta nel 1849 dalla Repubblica romana; la terza volta dal Governo provvisorio toscano e la quarta volta dal Parlamento italiano. Un ordine del giorno, presentato in quella seduta da Pasquale Stanislao Mancini, fu approvato dall'intera Camera all'unanimità, in piedi e plaudente. Esso diceva: «La Camera italiana, confermando i suoi voti del maggio 1865 e del novembre 1887, applaude all'abolizione e alla scomparsa della pena di morte dall'unico codice penale l'italiano».

Rileva che la pena di morte è stata abolita ogni qualvolta si aprì in Italia uno spiraglio di libertà e, per converso è stata immediatamente restaurata dalle reazioni che sono seguite a quei primi tentativi di libertà. L'ultimo esempio è dell'ottobre 1922: quando la nascente democrazia italiana fu sommersa dalle bande fasciste, una delle prime leggi con carattere nettamente, squisitamente politico fu la restaurazione della pena di morte, prima limitata ai delitti politici e, quindi, estesa anche ai delitti comuni.

Non crede che la prima Costituzione repubblicana italiana possa, anche in parte soltanto, conservare la pena di morte; essa dovrà ripudiarla dal diritto ordinario totalmente e completamente, confinandola, se mai, nel solo diritto penale militare di guerra.

Venendo in modo specifico all'emendamento Nobile-Terracini, crede che neppure i delitti che sollevino la pubblica indignazione debbano essere puniti con la pena di morte. Intanto vi è una prima obiezione di carattere tecnico: sono precisamente i delitti che sollevano la pubblica indignazione che spesso determinano gli errori giudiziari; c'è un'esigenza, un sentimento di giustizia, un desiderio di restaurazione dell'ordine giuridico e morale violato, così intenso e così caldo, che talora si determina precisamente il clima che genera l'errore giudiziario.

Dal punto di vista preventivo, poi, tutte le statistiche dimostrano che i delitti gravissimi e immorali che ripugnano al generale sentimento non sono affatto influenzati dall'esistenza o meno dalla pena di morte, ma soltanto da circostanze generali, storiche e politiche, che non hanno niente a che fare col diritto.

Dal punto di vista, infine, di una pubblica esigenza di espiazione, crede di poter dire che l'anima del popolo italiano è abbastanza ben costrutta, per non volere questa pratica crudele di una punitiva giustizia del sangue. Se non fosse così, non sarebbero certo i legislatori, con simili mezzi, ad educare il popolo.

Parla a nome di un gruppo di colleghi di una parte della Camera, ma si rivolge anche ai colleghi delle altre parti, sperando di avere la loro piena adesione ad un principio che cancelli dal codice penale ordinario, senza riserve, la pena di morte.

Vi sono nella tradizione cristiana parole altissime in questo senso, parole che precedono il Beccaria. C'è un detto di Lattanzio, che afferma che l'uomo non si può uccidere perché è «un bello inno di Dio!».

Chiede all'Assemblea, in nome delle più pure tradizioni italiane, di votare per l'abolizione pura e semplice della pena di morte.

Nobile ricorda che l'emendamento era stato presentato nella previsione che fosse stato accettato il comma precedente, nel quale si stabiliva che le pene restrittive della libertà personale non dovessero superare la durata di 15 anni.

Esso era stato dettato dalla necessità di eliminare il grave pericolo sociale che deriverebbe dal dover rimettere in libertà, al termine dei quindici anni, dei criminali feroci, che, pur essendo di condizioni mentali normali, si siano resi colpevoli di delitti mostruosi, e siano giudicati incapaci di rieducazione. In un tal caso si sarebbe potuto ammettere come eccezione la pena di morte.

Ma, essendo stata respinta la proposta principale di limitare le pene a quindici anni, viene a cadere anche l'eccezione contemplata nel comma suddetto. Dichiara, perciò, di ritirarlo.

Vuol cogliere, però, l'occasione per affermare di essere avversario deciso della pena di morte e di non ammettere in nessun modo che un corpo giudicante possa, a sangue freddo, decidere di una vita umana di cui nessuno deve poter disporre. Si può spiegare un omicidio compiuto in un momento d'ira; non si può giustificare la fredda soppressione di una vita umana. E va ancora più innanzi: si augura che la pena di morte, crudele necessità del tempo di guerra, abbia a scomparire anche dai codici militari.

Moro, a nome dell'onorevole Leone, non insiste sull'emendamento proposto per l'ultimo comma.

Il Presidente Ruini pone ai voti l'ultimo comma dell'articolo nella dizione proposta, dal Comitato di redazione, salvo la modifica delle parole ai «Codici militari di guerra» con le altre «leggi militari di guerra».

(È approvato).

Avverte che vi è ora un emendamento dell'onorevole Leone Giovanni, il quale propone di aggiungere il seguente comma:

«La detenzione preventiva è ammessa solo per i delitti più gravi e non può ledere la dignità della persona umana».

Moro sostiene l'emendamento, per incarico dell'onorevole Leone, rilevando che esso si ricollega ad un principio già posto nella Costituzione, per cui l'imputato è presunto innocente fino alla condanna definitiva.

In considerazione di molti abusi, cui invece si va incontro attualmente facendo scontare una detenzione preventiva, crede opportuno un richiamo costituzionale in cui si affermi che la detenzione preventiva può essere ammessa solo per i reati più gravi e non deve essere lesiva della personalità umana.

Tupini è dolente di doversi dichiarare contrario all'emendamento dell'onorevole Leone, proprio per le ragioni addotte dall'onorevole Moro, il quale ha accennato a quello che il progetto di Costituzione ha già sancito, cioè che l'imputato si presume innocente fino alla condanna definitiva.

Ricorda anche che nell'articolo 20 è già stabilito che non si possono usare trattamenti crudeli e disumani al condannato; questo si riferisce evidentemente anche alla detenzione preventiva. Vi è inoltre una ragione già accennata nella precedente seduta, cioè che si entra in un campo che deve essere riservato al Codice.

Per queste ragioni pregiudiziali di merito, si dichiara contrario all'emendamento dell'onorevole Leone.

Il Presidente Ruini pone ai voti l'emendamento aggiuntivo dell'On. Leone.

(Non è approvato).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti