[Il 28 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo primo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti civili».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Della Seta. [...] Quanto all'articolo 21, superfluo dire che concordiamo pienamente sul fine educativo che debbono avere le pene. Queste, oltre ad una necessità di difesa sociale, oltre il richiamare il colpevole alla responsabilità espiatrice delle proprie azioni, obbediscono anche all'esigenza etica di riabilitare, se possibile, il condannato, attraverso un lavoro che, oltreché riabilitazione, sia in certo qual modo riparazione del danno, del turbamento che all'ordine sociale ha apportato il fatto delittuoso. Fine pedagogico della pena che determina, naturalmente, tutto un nuovo orientamento dell'ordinamento penitenziario. Ed è necessario, dopo questo, il dichiarare che anche noi siamo, incondizionatamente, per i delitti comuni, per l'abolizione della pena di morte? Se anche ragioni umane già per sé stesse non esistessero, la irreparabilità dell'errore giudiziario è tale un argomento che dovrebbe far tacere i più tenaci fautori di questa pena.

Quanto alle pene, di cui si parla nell'articolo 21 del progetto, mi si consenta un'ultima osservazione.

Voi ricordate, onorevoli colleghi, la storica seduta del 25 marzo. Voi ricordate come il Presidente del Consiglio, il Ministro De Gasperi, pur difendendo, come democristiano, i Patti lateranensi, dichiarò, in risposta al mio discorso poco prima pronunciato, dichiarò, fra il consenso unanime dell'Assemblea, che avrebbe assunto, dopo maturo esame, formale impegno di fare eliminare dal Codice penale vigente quelle disposizioni che, in rapporto al reato di offesa al sentimento religioso, comminano pene diverse secondo il contenuto teologale della religione dell'offeso; pena più grave se l'offeso è cattolico, meno grave se viene offesa la religione delle minoranze.

Orbene, come buono auspicio a più ampie rivendicazioni, perché non consacrare, nell'articolo 21, la promessa solenne del Presidente del Consiglio e lì dove si parla di pene non aggiungere un inciso che dica: le pene — eguali nella qualità e nella gradualità, pel medesimo reato, senza discriminazioni confessionali — devono tendere alla rieducazione del condannato, ecc.?

[...]

Fusco. [...] Per quanto riguarda l'abolizione definitiva della pena di morte, si è osservato che non sarebbe questo il luogo della statuizione: l'ha sostenuto un mio illustre amico e valoroso penalista, l'onorevole Giovanni Leone. Ebbene, io mi permetto di dissentire. La pena di morte, per noi, è definitivamente soppressa; è così sacro il rispetto della vita umana, che noi intendiamo sia consacrato, con la più esplicita e incondizionata esclusione dell'abominevole pena, soprattutto nella nostra Costituzione. E ci teniamo perché, quando l'onorevole Giovanni Leone avverte che potrebbero sorgere delle possibilità, in tempi futuri, per le quali potrebbe essere ristabilita la pena di morte, io — che vivamente mi auguro che tali possibilità non siano per sorgere mai — vorrei sapere quali siano, secondo lui, queste possibilità, e perché e come dovrebbero sorgere.

O si è favorevoli alla pena di morte, o si è contrari: io sono decisamente contrario. E me ne sono convinto non già per ragioni di carattere dottrinario, né per le grandi ed ammonitrici voci del passato, a cominciare da Cesare Beccaria, e del presente (la più recente è stata quella dell'onorevole Paolo Rossi); ma soprattutto per quello che è stato l'esperimento della pena di morte nel periodo fascista. Noi non potremo, infatti, se non inorridire di fronte al caso Sbardellotto, che va a morire, sotto il piombo del plotone di esecuzione, non per altro che per avere avuto l'intenzione di uccidere Mussolini. E l'episodio dei due condannati di Caltanissetta? Qualche ora prima del momento fissato per l'esecuzione della sentenza, il duce comunicò che ad uno dei due condannati era stata accordata la grazia. Colui che ricevette l'ordine perdette la bussola e non comprese quale dei due era stato graziato. E la sentenza si doveva eseguire di lì a qualche ora. La situazione drammatica fortunatamente si risolse per l'intervento di un funzionario che aveva seguito lo svolgimento della domanda di grazia, ma intanto — chi me l'ha raccontato è un ufficiale di polizia che merita tutta la credibilità — ma intanto, dicevo, fu tale il terrore di quel povero funzionario, il quale, neanche a farlo apposta, si chiamava Capobianco, che tornato alla propria casa, si vide respingere dalla propria moglie che non lo riconosceva, perché tutti i capelli gli erano diventati bianchi in quella tragica notte.

E il caso Uras, chi non lo ricorda? Gennaro Escobedo ne fece l'ultima grande battaglia della sua carriera professionale, strappandolo alla morte, cui era stato condannato. E la storia di quell'imputato che fu condannato a morte dalla Corte d'Assise di Udine e che fu invece posteriormente assolto, perché alla Corte d'Assise di Trieste venne fuori una prova lampante di innocenza?

Io non so quanto sia esatto e quanto voi lo apprezziate quello che un componente della Commissione disse: che in definitiva lo Stato, uccidendo un condannato, commette un altro assassinio. Questa non è, s'intende, che un'opinione, la cui responsabilità va tutta a chi l'ha formulata. Si può anche quindi dissentire da essa. Ma è certo che la persona umana deve essere tutelata nella sua integrità fisica: la persona umana, voluta dal Creatore, deve morire quando è destinato che muoia: non un minuto prima.

E dirò di più: io non mi accontento dell'abolizione della pena di morte in periodi normali; non la vorrei, questa pena, neppur nei periodi di guerra. C'è stato l'onorevole Cevolotto che ha detto, durante i lavori preparatori della Commissione, che essa è assolutamente necessaria in periodi di guerra. Io non mi sono convinto di questa necessità. Valga quel che valga la mia opinione, io dico e sostengo che proprio durante il periodo di guerra, per quello spirito di tumultuosità, di confusionismo, per quella che è la frettolosità del contenuto dei provvedimenti, senza pacatezza, senza calma, senza la tranquillità che è necessaria in giudizi di così grande importanza e che possono avere conseguenze letali, io dico che proprio durante i periodi di guerra è ancora più pericolosa la condanna a morte. Si potrebbero segnare dei confini, dei limiti; si potrebbero stabilire con precisione quali sono i casi nei quali questa pena di morte è un'espressione di giustizia vera e propria: il delitto di lesa Patria, l'aiuto al nemico, o un'altra di queste circostanze. Ma lasciate che io pensi che sia un paradosso che colui che uccide il proprio padre, magari con sevizie e brutalità, non sia più passibile della pena di morte, ma della condanna all'ergastolo, mentre il soldato che si renda colpevole di una insubordinazione, con vie di fatto, verso un superiore, debba andare alla morte.

[...]

Fusco. [...] In ultimo, signori, io vi domando che per davvero l'articolo che riguarda il trattamento umano da fare ai condannati sia tale; e sia tale in maniera efficiente, non in maniera soltanto empirica ed astratta; perché noi conosciamo che non si può raggiungere una rieducazione del reo, se non lo si mette in una condizione in cui egli non senta ogni giorno la desolazione e l'asprezza di un sistema carcerario che in Italia deve essere modificato alle fondamenta.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti