[Il 19 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Pajetta Giuliano. Signor Presidente, onorevoli colleghi, nell'ultimo comma dell'articolo 25 del progetto di Costituzione, vi è un fugace accenno ad una questione che io e numerosi miei colleghi consideriamo di notevole importanza e meritevole di maggiore rilievo, e precisamente l'atteggiamento del nostro nuovo Stato democratico verso la gioventù.

Parlando di gioventù, ci riferiamo ad una vasta massa di cittadini di oggi e soprattutto di cittadini di domani, i quali si trovano in condizioni particolari nella società moderna, ed ancora più particolari nella vita italiana quale essa è oggi, e quale essa sarà per molti anni ancora, ed appunto per questo noi riteniamo indispensabile che nella Costituzione della nostra Repubblica si preveda un'azione particolare per la loro tutela, direi persino per la loro salvezza.

Alla triste eredità di una gioventù educata nel disprezzo di ogni ideale di umanità e di pacifica convivenza sociale, il fascismo ha aggiunto con la sua guerra l'eredità di una gioventù strappata ad una vita normale; strappata alle sue case, ai suoi affetti e ai suoi doveri.

Dieci anni di guerra significano oltre quattro milioni di giovani mobilitati, gettati prima su tutti i fronti, lasciati poi in tutti i campi della prigionia. Più di un milione e mezzo di prigionieri, centinaia di migliaia di morti, di mutilati e di invalidi rappresentano soltanto una parte delle perdite che ha subìto la parte più giovane della nostra nazione durante l'immane tragedia.

Sono giovani uomini che non hanno un mestiere, che non osano neppur sognare un focolare domestico; sono ragazzi cresciuti in un Paese percorso in lungo ed in largo da eserciti stranieri.

Di fronte ad un simile stato di cose, non può il nuovo Stato italiano prendere una posizione agnostica, né considerare che questo problema, direi meglio questo complesso di problemi, possa essere risolto come tanti altri, nel quadro della soluzione di tanti altri.

Non sono mancati, nel corso della discussione preliminare, a proposito dell'articolo 25, coloro che hanno censurato anche il fugace accenno alla gioventù, contenuto nella formulazione attuale di quest'articolo.

Vi è chi pretende di far passare una tale posizione di disinteresse e di negligenza di un problema molto serio, come una posizione molto democratica, e molto liberale: «faccia ognuno quel che vuole; facciano i giovani quel che vogliono; se ci occupiamo di loro faremo come i fascisti».

È curioso come una simile impostazione «antifascista» venga da uomini che non sono stati molto rumorosi quando c'è stato da chiamare la gioventù alla lotta antifascista sul serio.

C'è da attendersi che taluni arrivino a proporci un giorno che, siccome i fascisti camminavano con i piedi, noi dovremmo camminare sulle mani per essere da loro diversi; è probabile, ad ogni modo, che si tratti di gente che differenziandosi poco dai fascisti nella sostanza, cerchi di apparirne diversa nella forma. Cosa faceva allora il Governo fascista per i giovani?

Mi sia concesso citare alcuni dati sull'attività della G.I.L. Vediamo alcuni dati per l'anno 1942-1943: nel bilancio erano stanziati per la G.I.L. un miliardo e duecento milioni di lire di allora; per lo sport erano stanziati quattrocento milioni; per il fondo G.I.L. trecento milioni; per il fondo Dopolavoro, per il C.O.N.I. undici milioni e mezzo dallo Stato e cinque milioni dal p.n.f. e per lo sport del G.U.F. cinquanta milioni.

Nel 1941 funzionavano più di 56.000 colonie climatiche ed erano in funzione 441 ambulatori con 272 apparecchi fissi e trasportabili per inalazioni salsoiodiche e prestavano servizio 17.390 medici; funzionavano 807 ritrovi per giovani operaie e 194 ritrovi per studenti ed operai.

Si occupava molto il fascismo dei giovani. Anche troppo! Mentre negli anni precedenti al fascismo dalla prima legge De Santis del luglio 1878 fino al 1920 vi erano state soltanto 13 leggi in cui lo Stato si occupava dei problemi della gioventù, nel ventennio fascista più di 36 leggi furono emanate riguardanti l'attività ed i problemi della gioventù in generale.

Si era inoltre creato un complesso di attività giovanili assai vasto, e questo, unito a molte affermazioni demagogiche, aveva potuto generare in molti giovani l'illusione di servire veramente gli interessi del loro Paese, di avere un posto nella vita ed un avvenire ricco di speranze. Essi credevano senza capire, ed intanto servivano da cieco strumento ad un regime che trascinava alla rovina la Patria sacrificando spietatamente le giovani generazioni.

A caro prezzo pagavano i giovani le provvidenze fasciste.

Pagavano con la perdita della libertà, dell'indipendenza nazionale, dello sviluppo di una libera arte e di una libera cultura, della possibilità per essi di associarsi e di unirsi, di cercare liberamente la loro strada nella vita.

Questi beni supremi dell'uomo sono stati oggi restituiti al nostro popolo e in primo luogo ai nostri giovani, ma il ripristino di questi diritti civili, politici e sociali, e la loro estensione non può soddisfare da solo le mille esigenze di vita di una generazione che si è trovata colpita così duramente, non solo materialmente, ma anche moralmente dal crollo del mondo in cui era cresciuta.

Sarebbe ingenuo pensare che le belle parole e i dotti sermoni possano essere sufficienti per mettere la nostra gioventù tutta sulla strada del lavoro e dello studio, della democrazia e della pace, per ridarle quella che deve essere, a parer mio, la caratteristica precipua dei giovani, la fiducia nella vita, la sicurezza dell'avvenire.

Ognuno di noi potrebbe fare un esperimento curioso, ma proficuo: uscendo da Montecitorio interpellare a caso 10 giovani. Son certo che alla domanda: «Quale è il tuo sogno nella vita?», la maggioranza risponderebbe: «Fare un dodici alla Sisal».

Quali sono oggi le condizioni di esistenza dei giovani?

Vi sono alcuni dati di fatto che devono essere messi in luce: sono piaghe dolorose ed anche sgradevoli, ma non è nascondendole che possiamo sperare di sanarle.

Abbiamo molti disoccupati in Italia, siamo arrivati con le ultime statistiche a 2.227.866 in confronto di 1.850.000 al 30 settembre 1946. Le indicazioni che ci danno gli uffici competenti ci dicono che circa il 50 per cento di questi disoccupati sono compresi nell'età che va dai 14 ai 28 anni. Dobbiamo aggiungere a questi dati la cifra di centinaia di migliaia di adolescenti e di bambini tragicamente precoci, che la guerra e la rovina materiale e morale delle famiglie hanno messo troppo presto nella vita o semplicemente gettati sul lastrico.

Disoccupazione, per i giovani, non vuol dire soltanto povertà e fame, vuol dire innanzi tutto malattia fisica e lo sviluppo delle malattie nel nostro Paese è impressionante. La più grande e pericolosa malattia sociale, la tubercolosi, segna un aumento notevolissimo. Dai 35 mila morti per tubercolosi nel 1939 arriviamo a 70 mila morti per tubercolosi nel 1946. Ogni statistica ci dice che sono i giovani dai 18 ai 35 anni i maggiormente colpiti. Un'indagine U.N.R.R.A., più o meno completa, ci dà il 2,5 per cento di morbilità, vale a dire un milione e duecento mila affetti da questa malattia nel nostro Paese.

Si tratta di cifre approssimative: più del 2 per cento in generale, ma abbiamo delle punte impressionanti. Le indagini dell'U.N.R.R.A. rivelano che a Napoli si arriva al 3,68 per cento. Negli stabilimenti della Naval-meccanica di Napoli si arriva al 3,95 per cento. Indagini analoghe fatte alla Fiat di Torino hanno rivelato pure cifre impressionanti. Ho sotto gli occhi un rapporto del professor Amodei Zorini, rapporto che dovrebbe avere nel nostro Paese una maggiore pubblicità. Un recente convegno contro la tubercolosi giovanile, tenuto a Torino con la collaborazione e la partecipazione di eminenti scienziati e sanitari, ha sottolineato la gravità di questa situazione. E non è la tubercolosi l'unica malattia. Abbiamo, per la malaria, un aumento tra il 1944 e il 1945 da 374 mila casi denunciati a 411 mila.

Ma disoccupazione non vuol dire soltanto malattia, vuol dire anche aumento della delinquenza minorile. Sotto gli auspici del Ministero della giustizia e per iniziativa di alcuni nostri colleghi e in particolare delle onorevoli Federici e Mattei, è stato tenuto di recente un convegno contro la delinquenza minorile. I rapporti esaminati in questo convegno sono rapporti che abbiamo il dovere di tener presenti. Vorrei citare soltanto due esempi: nel primo semestre 1946 davanti a 19 Corti d'appello sono sfilati 117.711 minorenni. Dal luglio 1945 al dicembre 1946, vale a dire in 18 mesi, davanti al Tribunale di Napoli sono sfilati 40.813 minorenni. Alcune statistiche ci indicano che la maggioranza di questi giovani traviati rivela condizioni fisiche tali che dimostrano come la carenza della loro alimentazione è una fra le cause determinanti del loro comportamento.

Non vorrei tediare ancora con citazioni di questo genere, ma è certo che anche questo aspetto della nostra vita italiana deve essere davanti a noi quando vogliamo vedere su quale strada possiamo muoverci e quali problemi dobbiamo affrontare in futuro.

Questa mattina si è accennato al grande problema della situazione delle nostre scuole e alla necessità che esso venga studiato e dibattuto. Io vorrei soltanto, a questo proposito, indicare un aspetto della questione, ed è l'alta percentuale dell'analfabetismo che abbiamo nel nostro Paese.

È un problema che non si può risolvere soltanto nel quadro della scuola elementare normale, dato che si tratta di giovani, di una generazione intera di giovani che hanno già raggiunto una età in cui non si siederanno più sui banchi della scuola elementare. Statistiche ci dicono che anche nel periodo prebellico, nel periodo fascista, soltanto il 63 per cento dei ragazzi in età scolastica frequentavano regolarmente i corsi elementari. Abbiamo questa situazione paradossale: che di fronte a 45 mila classi elementari nel nostro Paese, vi sono 18 mila quinte classi elementari; il che dimostra la tendenza a fermarsi al primo ed al secondo anno delle scuole elementari sia grave. Dati statistici ci indicano che abbiamo ancor oggi in Calabria il 49 per cento di analfabeti, in Lucania il 48 per cento, nelle Puglie il 40 per cento, in Sicilia il 40 per cento, nella Campania il 36 per cento, in Sardegna il 35 per cento. Sono questi i dati per alcune regioni, particolarmente colpite, dell'Italia meridionale, ma non credo che si debba limitare l'osservazione all'Italia meridionale.

Portiamoci in un altro campo dello studio e della scienza, e qui vorrei citare un brano di un rapporto del nostro illustre collega, il professor Colonnetti, che si occupa con tanto amore dei problemi della ricerca scientifica. È una citazione che credo abbia il suo valore, anche se risale a vari mesi or sono: «Per i quattro Ministeri militari — in quel momento non erano unificati — il Paese ha stanziato un preventivo della somma di oltre 91 miliardi di lire e ne ha già, in realtà, impegnati assai più di 100 miliardi. Di fronte a quei 100 miliardi, i 350 milioni assegnati alla ricerca scientifica mi vengono, a ogni piè sospinto, rinfacciati come uno sperpero, e di essi, 200 milioni vengono considerati come una concessione affatto straordinaria che sono riuscito, per una volta tanto, a strappare al Tesoro, ma che non mi si vorrebbe fare una seconda volta».

Più avanti il professor Colonnetti dice: «Facciamo un confronto con altri Paesi. In Russia, secondo un recente rapporto del Ministro sovietico delle finanze, le spese militari del nuovo esercito ammontano a 72 miliardi di rubli, di fronte ai 5 miliardi di rubli che sono stanziati per la ricerca scientifica. Negli Stati Uniti il rapporto è da 18 miliardi a 2 miliardi di dollari. Così, nel bilancio degli Stati Uniti le spese per la ricerca scientifica rappresentano l'undici per cento delle spese militari; nella Repubblica sovietica il sette per cento. In Italia, non raggiungono il 0,3 per cento».

Vi è un altro aspetto che interessa una massa importante di giovani nel campo dello studio e della scuola, quello dell'Istruzione professionale. Se noi facciamo un confronto fra l'anno 1942, che era già un anno di guerra e l'anno scolastico 1946-47, abbiamo dei dati in proposito che non sono affatto incoraggianti. Il numero degli allievi dei vari istituti professionali diminuisce da 80 mila a 45 mila. Nel momento in cui abbiamo una sola grande ricchezza, cioè la capacità della nostra mano d'opera qualificata, notiamo come la nostra gioventù, in molti casi, non si senta portata ad apprendere un mestiere.

I dati delle scuole artigiane non sono più incoraggianti di questi.

In queste condizioni si può fare qualche cosa per risorgere?

Io ho dipinto un quadro che non vorrei fosse sembrato soltanto nero e soltanto pessimista. Noi crediamo che si possa fare qualche cosa; riteniamo che, nonostante tutto lo sfacelo che ha avuto la nostra vita negli ultimi anni e le conseguenze derivanti da esso, che sono sempre più gravi per i giovani, vi siano immense risorse nel nostro Paese e nella nostra gioventù che possono essere utilizzate. In fin dei conti, poche gioventù hanno dato in un così breve periodo, come quello della nostra liberazione, tanti esempi di sacrificio e di entusiasmo come la nostra gioventù.

Quando abbiamo sotto gli occhi la cifra di 461.000 partigiani o patrioti combattenti nell'insurrezione; la cifra di 76.420 caduti nella guerra di liberazione; l'indicazione sul contributo di sangue dato dai combattenti per la libertà nel corso della liberazione con 27.000 caduti; quando abbiamo questi dati sotto gli occhi, abbiamo — io credo — la testimonianza di quanto questa gioventù vale; abbiamo la testimonianza che in questa gioventù vi possono essere tante risorse e tante energie da non avere solo un'avanguardia entusiastica, ma da avere anche tutta una massa di popolazione che rappresenta una parte attiva nella vita del nostro Paese.

Senza mezzi, senza particolari incoraggiamenti, noi abbiamo l'esempio e la prova di cosa i giovani sono riusciti a fare, soprattutto in quelle regioni d'Italia — e particolarmente l'Emilia — dove essi si erano riuniti e raggruppati non solo come una piccola minoranza, ma come una grande massa di giovani già nella lotta di liberazione.

Ho sott'occhio dei dati generali, sulle realizzazioni dall'aprile 1945 ad oggi, ottenute da una importante associazione giovanile, del «Fronte della Gioventù»: sono migliaia di biblioteche; centinaia e centinaia di scuole, di corsi professionali, ecc.; ma vorrei citare due esempi soltanto, particolari, molto differenti, ma ambedue significativi: il primo è quello della Libera Accademia di Belle Arti creata dai giovani di Torino. Nel Palazzo della moda, semi-rovinato, qualche centinaio di giovani e alcuni professori — professori che rinunciavano non solo a qualsiasi retribuzione, ma anche a gran parte del loro tempo libero e alla possibilità di integrare i loro miseri stipendi — 500 iscritti; 20 professori che lavorano gratuitamente e che qualche volta hanno anche contribuito alle spese di installazione; hanno dato vita a un'Accademia che vive senza mezzi e senza stanziamenti speciali, dove si preparano giovani talenti nel campo della pittura, nel campo dell'architettura, nel campo dello studio della cinematografia e del teatro. Ed ancora un altro esempio: il «Villaggio del Fanciullo», diretto dal benemerito Reverendo don Rivolta. Oggi molti giornali parlano con piacere, con entusiasmo di questo «Villaggio del Fanciullo», propongono nuove sottoscrizioni; però credo che pochi si rendano conto di che cosa abbia dovuto fare questo benemerito sacerdote, quando ha cominciato con 20 mila lire in tasca, quando ha cominciato con questi ragazzi cercando di dar loro una nuova vita. Né dappertutto si può pretendere che pochi ragazzi o che pochi benemeriti possano da soli trovar la strada e possano da soli avere il coraggio di affrontare tutte le difficoltà pratiche di installazione, di organizzazione di simili iniziative. Non abbiamo avuto, da questo punto di vista, un incoraggiamento molto serio, molto regolare. È evidente che il nostro Paese non può provvedere, né immediatamente, né nei prossimi anni, e disporre per la gioventù di enormi somme, però alcune proporzioni possono essere conservate. È possibile fare qualche cosa anche quando non si dispone di enormi somme.

Quando vi è l'incoraggiamento e l'aiuto effettivo, quando vi è l'utilizzazione di questi mezzi da parte di gente che dedica a quest'opera il proprio entusiasmo e la propria buona volontà, si può far molto, e questa buona volontà non manca neanche nel nostro Paese; ed allora anche pochi mezzi rendono immensamente di più dei miliardi che spendeva il fascismo, e che finivano nelle tasche dei gerarchi o nelle tasche di architetti o di imprenditori di spettacoli grandiosi.

Quali sono secondo noi le vie da seguire? Le vie da seguire ci sembrano fondamentalmente tre.

La prima è che vi sia nell'organizzazione statale del nostro Paese e nell'attività governativa la possibilità di utilizzare una particolare legislazione nei confronti della gioventù, che coordini l'attività dei vari organi che si occupano di problemi che interessano la gioventù, in modo che questi problemi trovino una soluzione.

D'altro canto — secondo aspetto — è necessaria l'esistenza ed il funzionamento di un ente statale di assistenza alla gioventù, di un ente statale che fra l'altro può incominciare la sua attività disponendo di un complesso di beni e di impianti, qual è il patrimonio della ex-G.I.L., impianti tecnici importanti, dei quali ho già avuto modo di parlare qui recentemente in un'altra occasione.

Il terzo aspetto è l'aiuto morale e materiale alle associazioni giovanili che già si occupano della gioventù. Accontentarci, come avviene sovente oggi, della presenza di un Ministro o di un Sottosegretario ad un convegno, ad una riunione, è poco. È evidente che il telegramma di saluto di un Ministro, di un Sottosegretario ad una riunione, ad un convegno antitubercolare o ad un convegno per la lotta contro l'analfabetismo ha la sua importanza, perché incoraggia, perché stimola, perché raccoglie più facilmente le energie e la buona volontà provenienti da varie fonti. Però non può essere certo questo sufficiente. È necessario che ci sia a questo proposito anche un aiuto molto più concreto è molto più reale.

Perché queste tre vie? Perché noi non crediamo che sia una posizione giusta quella dell'indifferenza, così come non crediamo che sarebbe giusto, anzi sarebbe in un certo senso ricalcare le orme del fascismo, il pensare di adottare nei confronti dei giovani un atteggiamento paternalistico.

Per risolvere tutti questi problemi crediamo che ci debba essere un indirizzo comune. Quindi, occorre una legislazione che avvii alla soluzione questi problemi, e occorre che sia stabilita una serie di aiuti attraverso un ente statale per l'assistenza alla gioventù; e che ci sia infine una sistematica azione di incoraggiamento e di aiuto alle libere e democratiche associazioni giovanili, non un aiuto generico o indiscriminato, ma secondo la loro efficienza e la serietà del loro lavoro, tale, in ogni caso, che permetta ai giovani di esplicare sempre maggiore iniziativa e valorizzare la loro intelligenza, il loro senso della solidarietà, il loro nuovo spirito democratico.

I problemi da risolvere sono tanti; sono problemi nel campo dell'igiene e della salute. Prima di tutto cominciare a conoscerli e studiarli bene. È una situazione, quella in cui ci troviamo, nella quale l'unico dato che possiamo avere è costituito dai rapporti dell'U.N.R.R.A., che tuttavia sono molto imprecisi. Noi ci troviamo in una situazione in cui, quando veniamo a sapere le cose, non abbiamo i mezzi per risolverle.

Giorni or sono, mi sono trovato ad un convegno per l'assistenza alla gioventù che è stato tenuto a Reggio Emilia, alla presenza di tutte le autorità locali. Ad un certo momento, si viene a dire: «Vi è solo un apparecchio radiografico a disposizione. E volete incominciare a fare delle indagini schermografiche per tutta la gioventù della provincia con un solo apparecchio? Ci vorranno diecine d'anni».

Qualche volta, in tal modo, si è arrivati a delle risoluzioni che hanno poco più valore di quello che può avere la più antica legislazione antitubercolare del nostro Paese: le leggi del Granducato di Toscana del 1754 e quelle del Regno delle Due Sicilie del 1782, in cui si diceva semplicemente: badate che è una brutta malattia e le misure profilattiche sarebbero queste o quelle!

Ma noi abbiamo esempi in altri Paesi di iniziative a favore della gioventù: non vi porto ad esempio la Bulgaria o la Cecoslovacchia, ma mi accontento di portarvi ad esempio fa sola Francia, dove, nel campo della legislazione del lavoro, si è recentemente stabilito che le ferie annuali debbono esser concesse per un periodo di tre settimane per i lavoratori dai diciotto ai ventun anni e di un mese per quelli di età inferiore. Oggi, dunque, anche questo è diventato un problema di Stato.

Un altro aspetto, intimamente legato a questo, è il problema dello sport inteso come garanzia di una gioventù sana che cresca forte nel nostro Paese. Non si tratta più di fare dello sport una preparazione per la guerra, o che la gente ragioni con i muscoli e con i piedi invece che con la testa; ma si tratta di prevenire le malattie che fanno strage nel nostro Paese.

A questo proposito, abbiamo una situazione molto pericolosa; abbiamo decine di migliaia di giovani che vogliono fare dello sport e domandano un minimo di mezzi a quest'uopo. I dati che si sono avuti a questo proposito dall'Ufficio Sport popolare del Comitato Olimpionico Nazionale italiano sono dati interessanti; decine di migliaia di giovani vogliono fare dello sport, ma si trovano in difficoltà, perché non hanno nessun aiuto particolare, mentre nessuno sviluppo è assicurato a quei determinati tipi di sport, quali campeggi, escursionismo e simili, dove con una spesa minima potrebbe essere assicurata la salute a tanta gioventù.

D'altro canto, abbiamo spese enormi che vengono sostenute per lo sport da un'infinità di organizzazioni che hanno carattere speculativo. Vi scelgo un esempio, quello di una squadra che non è alla testa del campionato di football, e questo per evitare accuse di tendenziosità!

Mi scusino i miei amici di Genova, ma voglio loro ricordare che si è arrivati a pagare il mezz'ala Fattori della «Samp-Doria» fino a dieci milioni.

Perché non fare un confronto con quello che avviene in Francia?

Ebbene in Francia 100 milioni di franchi sono stati stanziati nel bilancio dello Stato a favore dello sport, senza contare le spese stanziate per nuovi impianti.

Nella sola città di Parigi esistono oggi 60 piscine che funzionano; nel Comune di Roma due, in quello di Milano 3. A Parigi vi sono 1380 campi di pallacanestro, a Roma 5 e a Milano 10. A Parigi vi sono 65 palestre nella città e 105 nei sobborghi; 60 piste nella città e 40 nei sobborghi.

Questi dati sono significativi e mostrano l'interessamento dello Stato per lo sport negli altri paesi, mentre da noi gli impianti sportivi o non esistono, o spesso sono inutilizzati. La cosa non ci può non preoccupare.

Nel campo dell'istruzione generale professionale c'è molto da fare. C'è già stato un progetto per dei cantieri-scuola legato alla lotta contro la disoccupazione, progetto che chiameremo Morandi-Sereni dal nome dei Ministri che ne presero l'iniziativa. Purtroppo la cosa è rimasta allo stato di progetto. Eppure abbiamo tanto bisogno di fare lavorare e di fare imparare un mestiere anche semplice ai nostri giovani. Anche coloro che non sono competenti, sanno che nell'edilizia manca la mano d'opera qualificata. Avviene così che non si possono far lavorare i manovali perché mancano i muratori.

Non solo si fa poco per i giovani ora in Italia, ma qualche volta si ha l'impressione che nel nostro Paese si abbia paura che la gioventù si metta allo studio della tecnica e della scienza. Recentemente lo abbiamo notato in occasione di un'agitazione di allievi tecnici; si direbbe che nel paese di Leonardo vi sia della gente che abbia paura di una sopraproduzione di intelligenza tecnica!

E lo sviluppo della vita giovanile dovrà trovare la sua integrazione nello sviluppo della vita culturale, e nello sviluppo dei talenti artistici.

Per tutte queste ragioni, insieme ai colleghi Laconi, Giolitti, Corbi ed alla collega Mattei, proponiamo il seguente articolo aggiuntivo:

«La Repubblica cura lo sviluppo fisico della gioventù e ne promuove l'elevazione economica, morale e culturale».

«La legge dispone a tal fine l'istituzione di appositi organi statali e assicura l'assistenza morale e materiale dello Stato alle libere associazioni giovanili».

Mi auguro che un articolo di questo tenore possa trovare il consenso dei colleghi, e per lo meno possa valere per una indicazione, anche se non di carattere pratico e immediato, nel senso che la nuova Italia democratica intende occuparsi di un problema che non è soltanto contingente, ma che resterà aperto per molti e molti anni. Si tratta di vedere se coloro che rappresenteranno nel futuro la parte più viva, più sana, più energica della Nazione, potranno essere avviati a partecipare a questa vita, se saranno educati nei fatti ad uno spirito di democrazia.

Vi è tutta una generazione in Italia per cui il fascismo non è stata una parentesi, ma tutta la vita. Vi è uno generazione che scopre adesso un mondo nuovo. Bisogna fare in modo che questo mondo nuovo non sia soltanto un mondo di parole e di promesse lontane e tanto meno di critiche acerbe ai giovani per un passato di cui essi non hanno la responsabilità; ma che sia un mondo, in cui essi si trovino al loro posto. E forte e sicuro del suo avvenire è un Paese la cui gioventù veda la vita cogli occhi ridenti, ed in cui i giovani e le ragazze non corrano più il rischio di dover passare attraverso una esperienza di vita così difficile e così penosa, come quella attraverso cui è passata tutta una generazione di italiani. (Applausi a sinistra).

[...]

Nitti. [...] Mussolini era soltanto un folle. Mussolini non vedeva che il dominio spettacolare della sua persona e non ha creato nulla fuori un disordine degli spiriti e della vita nazionale che dura anche ora. Quando però pensiamo alle cose che Mussolini ci ha lasciato in eredità, noi vediamo che molte di esse si ritrovano perfino nei disegni di legge attuali, ed anche in quello di oggi in cui si parla perfino dell'obbligo che la Repubblica assume di aiutare le famiglie più numerose. Io non avevo trovato mai nelle leggi italiane, prima di Mussolini, differenza tra famiglie numerose e famiglie non numerose allo scopo d'incoraggiare la natalità. Le famiglie erano quelle che erano. Ma Mussolini portò il veleno della follia nella vita italiana con l'equivoco delle famiglie numerose come base di potenza e di ricchezza. La teoria balorda che egli espose in centinaia di conversazioni, in articoli e in discorsi, era che «potenza è numero», senza pensare né meno che vi sono popoli numerosissimi e debolissimi. Concepì uno Stato che cresce ogni giorno, si sviluppa, finché, come disse in un suo celebre discorso, esplode: disse proprio «la esplosione». Bisognava accrescere il numero, avere famiglie numerose dovunque e poi arrivare alla esplosione finale. E siccome i pazzi sono sempre conseguenti, arrivò poi alla conclusione di fissare la data dell'esplosione e stabilì, non solo che l'Italia doveva armarsi al massimo e fare guerra in permanenza (vivere pericolosamente), ma anche che doveva nel 1935 (in quella follia vi era anche del metodo) fare l'esplosione finale con le famiglie numerose. Le famiglie numerose erano la base del programma.

Orbene, vedo in questo disegno di legge, proprio nella parte che riguarda la famiglia, un'espressione che si riferisce al dovere di occuparsi specialmente delle famiglie numerose. Questa espressione io non vorrei più sentire, perché è proprio la stupida ammirazione delle famiglie numerose che ha più rovinato l'Italia. Mussolini, nella sua follia, fece tutto metodicamente ed arrivò all'assurdo, all'inconcepibile. Non si poteva, durante l'esaltazione fascista, né meno fare carriera nelle amministrazioni, se non si era ammogliati. Così si regolarizzarono per necessità di carriera vecchi rapporti più o meno indecenti, i funzionari dello Stato furono costretti a sposare e a dare la prova di aver famiglia. E così si passò di mano in mano alle cose più assurde. Mussolini volle assistere personalmente alla glorificazione di madri con figli numerosi come ad un grande avvenimento. A Firenze (io ero all'estero e leggevo nei giornali queste ridicole cose e ne provavo dolore e umiliazione insieme) vi fu un grande ricevimento, in cui le signore dell'aristocrazia fiorentina (Dio perdoni loro!) si erano presentate in fila al «duce» (come si diceva allora) per farsi ammirare. Le presentazioni avvenivano nella forma più comica: la marchesa tale nove figli, la contessa tale sette figli, la duchessa tale cinque figli. Come i conigli, il cui valore doveva consistere soltanto nella prolificità del ventre.

Se ci vogliamo rispettare, cominciamo prima di tutto ad abbandonare le peggiori follie, e fra le peggiori vi è quella che, in un paese come l'Italia, che spontaneamente, fra le grandi nazioni di civiltà occidentale, ha la più grande natalità, si incoraggino artificialmente le conigliere della miseria e dell'ignoranza.

Mussolini non ebbe mai egli stesso vita regolare né famiglia regolare, e non si sapeva né meno chi fossero le madri di alcuni dei suoi figli e fu verso la fine della sua vita che alla sua famiglia diede parvenza di legalità e anche di religione.

Appunto perché la famiglia è la base della società civile, non deve essere turbata da interventi, legislativi che si basano su false concezioni politiche. Non è vero che presso i popoli civili il numero è forza. Non basta aver figli, bisogna poterli nutrire, educare, seguirli nella vita. Avere molti figli pidocchiosi, ignoranti, male educati non è forza, è debolezza. Vi sono pratiche di vizio che bisogna condannare sempre; è virtù solo tutto ciò che è previdenza, disciplina della vita, senso di responsabilità verso i figli.

Base fondamentale della nostra concezione realista è che l'Italia ha troppi uomini: siamo, fra i grandi paesi, il paese più sovrappopolato del continente. In queste condizioni non vi sono che due paesi: l'Italia e la Germania, presso a poco con 140 abitanti per chilometro quadrato. Ma con la differenza che la Germania ha delle immense risorse; basterebbe solo la Ruhr per fare grande un paese! Anche dal punto di vista dell'agricoltura l'Italia ha un territorio coltivabile utilmente assai inferiore a quello della stessa Germania.

La Germania ha tante cose che a noi mancano: la più grande rete fluviale, le più grandi quantità di combustibili fossili, abbondanza e varietà di alcune materie prime.

L'Italia deve vivere del suo sforzo, deve utilizzare tutte le sue risorse, deve evitare lo sperpero di ogni attività produttrice. L'Italia è un grande paese non per quello che la natura gli ha dato, ma per quello che l'uomo ha saputo fare. Mi consenta l'amico Togliatti di rivolgermi a lui. Si parla sempre di borghesia in Italia, come di una classe che va verso la sua fine. La borghesia sarebbe la classe che tramonta. Borghesia e classi medie sarebbero dunque al loro declino. (Interruzioni Commenti). Io dico che le classi medie italiane rappresentano un caso unico in Europa e hanno ancora un grande avvenire. Non sono soltanto molto numerose, ma sono anche molto vitali e, se sono in crisi, è anche perché assorbono ogni giorno nuovi elementi che vengono dal lavoro. Non è vero che la loro storia non ha grandezza. In un paese dove mancavano tutte le materie prime, per virtù delle classi medie l'Italia fino al 1920 è stata grande e ha creato una classe di produttori degni di ogni rispetto.

Le classi medie italiane hanno fatto mirabili sforzi di costruzione. Il nostro paese è il solo in Europa che ha potuto creare la grande industria quasi senza materie prime e con scarsi capitali.

L'Italia ha troppi uomini. L'Italia ha poche risorse e deve perciò sviluppare le sue energie, non disperdere le sue attività.

[...]

Delli Castelli Filomena. [...] Non sfugge certamente agli illustri colleghi, esperti e validissimi nella storia del giure, che tutti gli storici della famiglia fanno risalire, per esempio, l'originarietà al complesso patriarcale, prima costituzione familiare definita che conosciamo. Se l'onorevole Basso chiama l'articolo 23 definitorio, l'onorevole Cevolotto lo dichiara addirittura pericoloso. Aggiungiamo noi: pericoloso sì, ma per chi? Per lo Stato che vuol praticare la teoria dei cosiddetti diritti riflessi e farsi candidato lui e solo lui alla emanazione di tutte quelle norme che debbono regolare gli uomini come automi e ingranaggi della grande macchina statale, che schiaccia e annulla ogni possibile individualità? Ma mi permetto di osservare che la formulazione: «La Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l'adempimento della sua missione per la salvezza morale e la prosperità della nazione», è motivo di preoccupazione ad onorevoli colleghi; chissà cosa essi minaccerebbero se io mi permettessi di aggiungere che proprio la famiglia potrebbe essere nella nuova Carta costituzionale definita fattore preminente della saldezza morale e della prosperità nazionale, come si scandalizzerebbero se, per esempio, formulassi tutte le mie riserve su quel «ne assume la tutela, ecc.», espressione vaga che ingenera certamente perplessità per il senso di grave minorazione che essa implica e per certi pericoli in cui l'istituto tutelato può incorrere.

Infatti si è rilevato che colleghi di parte democristiana avevano sostituito alla definizione «ne tutela», «la difende»; scaturisce dunque l'osservazione che, allentatisi i saldi vincoli morali della famiglia, unità patriarcale, focolare domestico di pace e di lavoro, oasi di tranquillità, essa possa produrre del nocumento grave al vivere civile e sociale e lo Stato, sempre lo Stato onnipresente, la possa tutelare, raddrizzando ciò che di storto si è venuto a creare in essa. In che modo? Con quali mezzi? Forse con quelle assicurazioni delle condizioni economiche necessarie alla sua formazione? Forse col divorzio? No. Lo Stato credo si sbagli. Io vedo non nella tutela o nel divorzio un rimedio efficace. Ma nella lotta che veramente uno Stato consapevole, cosciente, democratico — teniamo poi conto che nel nostro caso si tratta dello Stato italiano, di un popolo cioè che conserva ancora le tradizioni ed è molto geloso del culto della famiglia — deve condurre contro tutti gli elementi che debilitano l'istituto familiare, e nel potenziamento di tutti quegli elementi positivi che lo rafforzano. Direi che l'opera dello Stato dovrebbe essere di profilassi e non di intervento diretto: prevenire; e ciò sarebbe certamente una grande meta della moderna evoluzione sociale, pur rimanendo nella più sostanziale tradizione.

Oggi che nell'Italia e nell'Europa si mette alla più dura prova il sistema democratico, io credo che solo riconcentrando sulla entità familiare tutta la speranza di formare l'uomo, il quale, come scrive Julien Benda, «può chiamarsi tale quando ha saputo formare in sé il concetto e il diritto dell'uomo, e intende rispettarlo negli altri», si può superare la prova, specie nel nostro Paese, e gettare rinnovate basi di pace e concordia nel lavoro e nella prosperità sociale. Tale uomo, così definito, così libero e così formato, solo la famiglia ce lo può donare, e solo a lei noi possiamo riconoscere pienamente questo diritto e libertà di esercitarlo nella educazione dei figli. Ma, se democratici veramente vogliamo essere, come potremo ancora noi ammettere quello stato di tutele, di protezioni indefinite, che porta in sé certamente germi di corruzione e di avventure politiche?

È vero che il dinamismo della civiltà industriale moderna porta ad esteriorizzare tutto quanto è possibile della nostra vita. E l'istituto familiare è il complesso sociale che risente di più di questo stato di cose.

Le Costituzioni moderne non fanno che prendere atto di questa realtà; solo in alcune troviamo accenni e formulazioni per la tutela — e qui veramente va bene il sostantivo — del piccolo e pur grande mondo spirituale racchiuso nella cellula familiare. La Costituzione jugoslava, per esempio, nell'articolo 26 si preoccupa subito che «il matrimonio e la famiglia sono sotto la protezione dello Stato» e le sue leggi lo regolano giuridicamente; permette — dico permette — che si possano concludere anche matrimoni religiosi; regola la posizione dei figli illegittimi, ecc. Seguono poi le leggi sulla protezione della salute, l'assistenza, la ricreazione, l'assicurazione, ecc.

Il progetto di Costituzione del partito comunista francese, schematico e breve, nell'articolo 4, ultimo comma, pone il problema della famiglia — il sostantivo veramente non vi è usato — solo dicendo che «la legge assicura la protezione della madre e dell'infanzia. Tutti i cittadini e tutte le cittadine hanno uguali diritti, ecc.». La Costituzione francese nell'articolo 24 ha la formula: «La Nazione garantisce alla famiglia le condizioni necessarie al suo libero sviluppo. La Nazione protegge ugualmente tutte le madri e tutti i bambini a mezzo di una legislazione e di istituzioni sociali appropriate».

Tutto ciò forse si crede sia possibile, quando noi sappiamo che le condizioni necessarie al libero sviluppo della famiglia altro non possono essere che pace, progresso civile nell'ordine, l'assoluta libertà di educazione, di pensiero, di parola e di culto?

Abbiamo poi, per esempio, la Costituzione russa, la quale nell'articolo 122 afferma che «alle donne sono accordati nella U.R.S.S. diritti uguali a quelli degli uomini, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale, politica e sociale». La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata alle donne accordando loro lo stesso diritto degli uomini al lavoro, al pagamento del lavoro, al riposo, all'assicurazione sociale e all'istruzione, provvedendo alla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino, accordando alle donne un congedo di maternità, nidi e giardini di infanzia.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti