[Il 19 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Sulla discussione del Titolo II della parte prima è iscritto a parlare l'onorevole Pajetta Giuliano. Ne ha facoltà.

Pajetta Giuliano. Signor Presidente, onorevoli colleghi, nell'ultimo comma dell'articolo 25 del progetto di Costituzione, vi è un fugace accenno ad una questione che io e numerosi miei colleghi consideriamo di notevole importanza e meritevole di maggiore rilievo, e precisamente l'atteggiamento del nostro nuovo Stato democratico verso la gioventù.

Parlando di gioventù, ci riferiamo ad una vasta massa di cittadini di oggi e soprattutto di cittadini di domani, i quali si trovano in condizioni particolari nella società moderna, ed ancora più particolari nella vita italiana quale essa è oggi, e quale essa sarà per molti anni ancora, ed appunto per questo noi riteniamo indispensabile che nella Costituzione della nostra Repubblica si preveda un'azione particolare per la loro tutela, direi persino per la loro salvezza.

Alla triste eredità di una gioventù educata nel disprezzo di ogni ideale di umanità e di pacifica convivenza sociale, il fascismo ha aggiunto con la sua guerra l'eredità di una gioventù strappata ad una vita normale; strappata alle sue case, ai suoi affetti e ai suoi doveri.

Dieci anni di guerra significano oltre quattro milioni di giovani mobilitati, gettati prima su tutti i fronti, lasciati poi in tutti i campi della prigionia. Più di un milione e mezzo di prigionieri, centinaia di migliaia di morti, di mutilati e di invalidi rappresentano soltanto una parte delle perdite che ha subìto la parte più giovane della nostra nazione durante l'immane tragedia.

Sono giovani uomini che non hanno un mestiere, che non osano neppur sognare un focolare domestico; sono ragazzi cresciuti in un Paese percorso in lungo ed in largo da eserciti stranieri.

Di fronte ad un simile stato di cose, non può il nuovo Stato italiano prendere una posizione agnostica, né considerare che questo problema, direi meglio questo complesso di problemi, possa essere risolto come tanti altri, nel quadro della soluzione di tanti altri.

Non sono mancati, nel corso della discussione preliminare, a proposito dell'articolo 25, coloro che hanno censurato anche il fugace accenno alla gioventù, contenuto nella formulazione attuale di quest'articolo.

Vi è chi pretende di far passare una tale posizione di disinteresse e di negligenza di un problema molto serio, come una posizione molto democratica, e molto liberale: «faccia ognuno quel che vuole; facciano i giovani quel che vogliono; se ci occupiamo di loro faremo come i fascisti».

È curioso come una simile impostazione «antifascista» venga da uomini che non sono stati molto rumorosi quando c'è stato da chiamare la gioventù alla lotta antifascista sul serio.

C'è da attendersi che taluni arrivino a proporci un giorno che, siccome i fascisti camminavano con i piedi, noi dovremmo camminare sulle mani per essere da loro diversi; è probabile, ad ogni modo, che si tratti di gente che differenziandosi poco dai fascisti nella sostanza, cerchi di apparirne diversa nella forma. Cosa faceva allora il Governo fascista per i giovani?

Mi sia concesso citare alcuni dati sull'attività della G.I.L. Vediamo alcuni dati per l'anno 1942-1943: nel bilancio erano stanziati per la G.I.L. un miliardo e duecento milioni di lire di allora; per lo sport erano stanziati quattrocento milioni; per il fondo G.I.L. trecento milioni; per il fondo Dopolavoro, per il C.O.N.I. undici milioni e mezzo dallo Stato e cinque milioni dal p.n.f. e per lo sport del G.U.F. cinquanta milioni.

Nel 1941 funzionavano più di 56.000 colonie climatiche ed erano in funzione 441 ambulatori con 272 apparecchi fissi e trasportabili per inalazioni salsoiodiche e prestavano servizio 17.390 medici; funzionavano 807 ritrovi per giovani operaie e 194 ritrovi per studenti ed operai.

Si occupava molto il fascismo dei giovani. Anche troppo! Mentre negli anni precedenti al fascismo dalla prima legge De Santis del luglio 1878 fino al 1920 vi erano state soltanto 13 leggi in cui lo Stato si occupava dei problemi della gioventù, nel ventennio fascista più di 36 leggi furono emanate riguardanti l'attività ed i problemi della gioventù in generale.

Si era inoltre creato un complesso di attività giovanili assai vasto, e questo, unito a molte affermazioni demagogiche, aveva potuto generare in molti giovani l'illusione di servire veramente gli interessi del loro Paese, di avere un posto nella vita ed un avvenire ricco di speranze. Essi credevano senza capire, ed intanto servivano da cieco strumento ad un regime che trascinava alla rovina la Patria sacrificando spietatamente le giovani generazioni.

A caro prezzo pagavano i giovani le provvidenze fasciste.

Pagavano con la perdita della libertà, dell'indipendenza nazionale, dello sviluppo di una libera arte e di una libera cultura, della possibilità per essi di associarsi e di unirsi, di cercare liberamente la loro strada nella vita.

Questi beni supremi dell'uomo sono stati oggi restituiti al nostro popolo e in primo luogo ai nostri giovani, ma il ripristino di questi diritti civili, politici e sociali, e la loro estensione non può soddisfare da solo le mille esigenze di vita di una generazione che si è trovata colpita così duramente, non solo materialmente, ma anche moralmente dal crollo del mondo in cui era cresciuta.

Sarebbe ingenuo pensare che le belle parole e i dotti sermoni possano essere sufficienti per mettere la nostra gioventù tutta sulla strada del lavoro e dello studio, della democrazia e della pace, per ridarle quella che deve essere, a parer mio, la caratteristica precipua dei giovani, la fiducia nella vita, la sicurezza dell'avvenire.

Ognuno di noi potrebbe fare un esperimento curioso, ma proficuo: uscendo da Montecitorio interpellare a caso 10 giovani. Son certo che alla domanda: «Quale è il tuo sogno nella vita?», la maggioranza risponderebbe: «Fare un dodici alla Sisal».

Quali sono oggi le condizioni di esistenza dei giovani?

Vi sono alcuni dati di fatto che devono essere messi in luce: sono piaghe dolorose ed anche sgradevoli, ma non è nascondendole che possiamo sperare di sanarle.

Abbiamo molti disoccupati in Italia, siamo arrivati con le ultime statistiche a 2.227.866 in confronto di 1.850.000 al 30 settembre 1946. Le indicazioni che ci danno gli uffici competenti ci dicono che circa il 50 per cento di questi disoccupati sono compresi nell'età che va dai 14 ai 28 anni. Dobbiamo aggiungere a questi dati la cifra di centinaia di migliaia di adolescenti e di bambini tragicamente precoci, che la guerra e la rovina materiale e morale delle famiglie hanno messo troppo presto nella vita o semplicemente gettati sul lastrico.

Disoccupazione, per i giovani, non vuol dire soltanto povertà e fame, vuol dire innanzi tutto malattia fisica e lo sviluppo delle malattie nel nostro Paese è impressionante. La più grande e pericolosa malattia sociale, la tubercolosi, segna un aumento notevolissimo. Dai 35 mila morti per tubercolosi nel 1939 arriviamo a 70 mila morti per tubercolosi nel 1946. Ogni statistica ci dice che sono i giovani dai 18 ai 35 anni i maggiormente colpiti. Un'indagine U.N.R.R.A., più o meno completa, ci dà il 2,5 per cento di morbilità, vale a dire un milione e duecento mila affetti da questa malattia nel nostro Paese.

Si tratta di cifre approssimative: più del 2 per cento in generale, ma abbiamo delle punte impressionanti. Le indagini dell'U.N.R.R.A. rivelano che a Napoli si arriva al 3,68 per cento. Negli stabilimenti della Naval-meccanica di Napoli si arriva al 3,95 per cento. Indagini analoghe fatte alla Fiat di Torino hanno rivelato pure cifre impressionanti. Ho sotto gli occhi un rapporto del professor Amodei Zorini, rapporto che dovrebbe avere nel nostro Paese una maggiore pubblicità. Un recente convegno contro la tubercolosi giovanile, tenuto a Torino con la collaborazione e la partecipazione di eminenti scienziati e sanitari, ha sottolineato la gravità di questa situazione. E non è la tubercolosi l'unica malattia. Abbiamo, per la malaria, un aumento tra il 1944 e il 1945 da 374 mila casi denunciati a 411 mila.

Ma disoccupazione non vuol dire soltanto malattia, vuol dire anche aumento della delinquenza minorile. Sotto gli auspici del Ministero della giustizia e per iniziativa di alcuni nostri colleghi e in particolare delle onorevoli Federici e Mattei, è stato tenuto di recente un convegno contro la delinquenza minorile. I rapporti esaminati in questo convegno sono rapporti che abbiamo il dovere di tener presenti. Vorrei citare soltanto due esempi: nel primo semestre 1946 davanti a 19 Corti d'appello sono sfilati 117.711 minorenni. Dal luglio 1945 al dicembre 1946, vale a dire in 18 mesi, davanti al Tribunale di Napoli sono sfilati 40.813 minorenni. Alcune statistiche ci indicano che la maggioranza di questi giovani traviati rivela condizioni fisiche tali che dimostrano come la carenza della loro alimentazione è una fra le cause determinanti del loro comportamento.

Non vorrei tediare ancora con citazioni di questo genere, ma è certo che anche questo aspetto della nostra vita italiana deve essere davanti a noi quando vogliamo vedere su quale strada possiamo muoverci e quali problemi dobbiamo affrontare in futuro.

Questa mattina si è accennato al grande problema della situazione delle nostre scuole e alla necessità che esso venga studiato e dibattuto. Io vorrei soltanto, a questo proposito, indicare un aspetto della questione, ed è l'alta percentuale dell'analfabetismo che abbiamo nel nostro Paese.

È un problema che non si può risolvere soltanto nel quadro della scuola elementare normale, dato che si tratta di giovani, di una generazione intera di giovani che hanno già raggiunto una età in cui non si siederanno più sui banchi della scuola elementare. Statistiche ci dicono che anche nel periodo prebellico, nel periodo fascista, soltanto il 63 per cento dei ragazzi in età scolastica frequentavano regolarmente i corsi elementari. Abbiamo questa situazione paradossale: che di fronte a 45 mila classi elementari nel nostro Paese, vi sono 18 mila quinte classi elementari; il che dimostra la tendenza a fermarsi al primo ed al secondo anno delle scuole elementari sia grave. Dati statistici ci indicano che abbiamo ancor oggi in Calabria il 49 per cento di analfabeti, in Lucania il 48 per cento, nelle Puglie il 40 per cento, in Sicilia il 40 per cento, nella Campania il 36 per cento, in Sardegna il 35 per cento. Sono questi i dati per alcune regioni, particolarmente colpite, dell'Italia meridionale, ma non credo che si debba limitare l'osservazione all'Italia meridionale.

Portiamoci in un altro campo dello studio e della scienza, e qui vorrei citare un brano di un rapporto del nostro illustre collega, il professor Colonnetti, che si occupa con tanto amore dei problemi della ricerca scientifica. È una citazione che credo abbia il suo valore, anche se risale a vari mesi or sono: «Per i quattro Ministeri militari — in quel momento non erano unificati — il Paese ha stanziato un preventivo della somma di oltre 91 miliardi di lire e ne ha già, in realtà, impegnati assai più di 100 miliardi. Di fronte a quei 100 miliardi, i 350 milioni assegnati alla ricerca scientifica mi vengono, a ogni piè sospinto, rinfacciati come uno sperpero, e di essi, 200 milioni vengono considerati come una concessione affatto straordinaria che sono riuscito, per una volta tanto, a strappare al Tesoro, ma che non mi si vorrebbe fare una seconda volta».

Più avanti il professor Colonnetti dice: «Facciamo un confronto con altri Paesi. In Russia, secondo un recente rapporto del Ministro sovietico delle finanze, le spese militari del nuovo esercito ammontano a 72 miliardi di rubli, di fronte ai 5 miliardi di rubli che sono stanziati per la ricerca scientifica. Negli Stati Uniti il rapporto è da 18 miliardi a 2 miliardi di dollari. Così, nel bilancio degli Stati Uniti le spese per la ricerca scientifica rappresentano l'undici per cento delle spese militari; nella Repubblica sovietica il sette per cento. In Italia, non raggiungono il 0,3 per cento».

Vi è un altro aspetto che interessa una massa importante di giovani nel campo dello studio e della scuola, quello dell'Istruzione professionale. Se noi facciamo un confronto fra l'anno 1942, che era già un anno di guerra e l'anno scolastico 1946-47, abbiamo dei dati in proposito che non sono affatto incoraggianti. Il numero degli allievi dei vari istituti professionali diminuisce da 80 mila a 45 mila. Nel momento in cui abbiamo una sola grande ricchezza, cioè la capacità della nostra mano d'opera qualificata, notiamo come la nostra gioventù, in molti casi, non si senta portata ad apprendere un mestiere.

I dati delle scuole artigiane non sono più incoraggianti di questi.

In queste condizioni si può fare qualche cosa per risorgere?

Io ho dipinto un quadro che non vorrei fosse sembrato soltanto nero e soltanto pessimista. Noi crediamo che si possa fare qualche cosa; riteniamo che, nonostante tutto lo sfacelo che ha avuto la nostra vita negli ultimi anni e le conseguenze derivanti da esso, che sono sempre più gravi per i giovani, vi siano immense risorse nel nostro Paese e nella nostra gioventù che possono essere utilizzate. In fin dei conti, poche gioventù hanno dato in un così breve periodo, come quello della nostra liberazione, tanti esempi di sacrificio e di entusiasmo come la nostra gioventù.

Quando abbiamo sotto gli occhi la cifra di 461.000 partigiani o patrioti combattenti nell'insurrezione; la cifra di 76.420 caduti nella guerra di liberazione; l'indicazione sul contributo di sangue dato dai combattenti per la libertà nel corso della liberazione con 27.000 caduti; quando abbiamo questi dati sotto gli occhi, abbiamo — io credo — la testimonianza di quanto questa gioventù vale; abbiamo la testimonianza che in questa gioventù vi possono essere tante risorse e tante energie da non avere solo un'avanguardia entusiastica, ma da avere anche tutta una massa di popolazione che rappresenta una parte attiva nella vita del nostro Paese.

Senza mezzi, senza particolari incoraggiamenti, noi abbiamo l'esempio e la prova di cosa i giovani sono riusciti a fare, soprattutto in quelle regioni d'Italia — e particolarmente l'Emilia — dove essi si erano riuniti e raggruppati non solo come una piccola minoranza, ma come una grande massa di giovani già nella lotta di liberazione.

Ho sott'occhio dei dati generali, sulle realizzazioni dall'aprile 1945 ad oggi, ottenute da una importante associazione giovanile, del «Fronte della Gioventù»: sono migliaia di biblioteche; centinaia e centinaia di scuole, di corsi professionali, ecc.; ma vorrei citare due esempi soltanto, particolari, molto differenti, ma ambedue significativi: il primo è quello della Libera Accademia di Belle Arti creata dai giovani di Torino. Nel Palazzo della moda, semi-rovinato, qualche centinaio di giovani e alcuni professori — professori che rinunciavano non solo a qualsiasi retribuzione, ma anche a gran parte del loro tempo libero e alla possibilità di integrare i loro miseri stipendi — 500 iscritti; 20 professori che lavorano gratuitamente e che qualche volta hanno anche contribuito alle spese di installazione; hanno dato vita a un'Accademia che vive senza mezzi e senza stanziamenti speciali, dove si preparano giovani talenti nel campo della pittura, nel campo dell'architettura, nel campo dello studio della cinematografia e del teatro. Ed ancora un altro esempio: il «Villaggio del Fanciullo», diretto dal benemerito Reverendo don Rivolta. Oggi molti giornali parlano con piacere, con entusiasmo di questo «Villaggio del Fanciullo», propongono nuove sottoscrizioni; però credo che pochi si rendano conto di che cosa abbia dovuto fare questo benemerito sacerdote, quando ha cominciato con 20 mila lire in tasca, quando ha cominciato con questi ragazzi cercando di dar loro una nuova vita. Né dappertutto si può pretendere che pochi ragazzi o che pochi benemeriti possano da soli trovar la strada e possano da soli avere il coraggio di affrontare tutte le difficoltà pratiche di installazione, di organizzazione di simili iniziative. Non abbiamo avuto, da questo punto di vista, un incoraggiamento molto serio, molto regolare. È evidente che il nostro Paese non può provvedere, né immediatamente, né nei prossimi anni, e disporre per la gioventù di enormi somme, però alcune proporzioni possono essere conservate. È possibile fare qualche cosa anche quando non si dispone di enormi somme.

Quando vi è l'incoraggiamento e l'aiuto effettivo, quando vi è l'utilizzazione di questi mezzi da parte di gente che dedica a quest'opera il proprio entusiasmo e la propria buona volontà, si può far molto, e questa buona volontà non manca neanche nel nostro Paese; ed allora anche pochi mezzi rendono immensamente di più dei miliardi che spendeva il fascismo, e che finivano nelle tasche dei gerarchi o nelle tasche di architetti o di imprenditori di spettacoli grandiosi.

Quali sono secondo noi le vie da seguire? Le vie da seguire ci sembrano fondamentalmente tre.

La prima è che vi sia nell'organizzazione statale del nostro Paese e nell'attività governativa la possibilità di utilizzare una particolare legislazione nei confronti della gioventù, che coordini l'attività dei vari organi che si occupano di problemi che interessano la gioventù, in modo che questi problemi trovino una soluzione.

D'altro canto — secondo aspetto — è necessaria l'esistenza ed il funzionamento di un ente statale di assistenza alla gioventù, di un ente statale che fra l'altro può incominciare la sua attività disponendo di un complesso di beni e di impianti, qual è il patrimonio della ex-G.I.L., impianti tecnici importanti, dei quali ho già avuto modo di parlare qui recentemente in un'altra occasione.

Il terzo aspetto è l'aiuto morale e materiale alle associazioni giovanili che già si occupano della gioventù. Accontentarci, come avviene sovente oggi, della presenza di un Ministro o di un Sottosegretario ad un convegno, ad una riunione, è poco. È evidente che il telegramma di saluto di un Ministro, di un Sottosegretario ad una riunione, ad un convegno antitubercolare o ad un convegno per la lotta contro l'analfabetismo ha la sua importanza, perché incoraggia, perché stimola, perché raccoglie più facilmente le energie e la buona volontà provenienti da varie fonti. Però non può essere certo questo sufficiente. È necessario che ci sia a questo proposito anche un aiuto molto più concreto è molto più reale.

Perché queste tre vie? Perché noi non crediamo che sia una posizione giusta quella dell'indifferenza, così come non crediamo che sarebbe giusto, anzi sarebbe in un certo senso ricalcare le orme del fascismo, il pensare di adottare nei confronti dei giovani un atteggiamento paternalistico.

Per risolvere tutti questi problemi crediamo che ci debba essere un indirizzo comune. Quindi, occorre una legislazione che avvii alla soluzione questi problemi, e occorre che sia stabilita una serie di aiuti attraverso un ente statale per l'assistenza alla gioventù; e che ci sia infine una sistematica azione di incoraggiamento e di aiuto alle libere e democratiche associazioni giovanili, non un aiuto generico o indiscriminato, ma secondo la loro efficienza e la serietà del loro lavoro, tale, in ogni caso, che permetta ai giovani di esplicare sempre maggiore iniziativa e valorizzare la loro intelligenza, il loro senso della solidarietà, il loro nuovo spirito democratico.

I problemi da risolvere sono tanti; sono problemi nel campo dell'igiene e della salute. Prima di tutto cominciare a conoscerli e studiarli bene. È una situazione, quella in cui ci troviamo, nella quale l'unico dato che possiamo avere è costituito dai rapporti dell'U.N.R.R.A., che tuttavia sono molto imprecisi. Noi ci troviamo in una situazione in cui, quando veniamo a sapere le cose, non abbiamo i mezzi per risolverle.

Giorni or sono, mi sono trovato ad un convegno per l'assistenza alla gioventù che è stato tenuto a Reggio Emilia, alla presenza di tutte le autorità locali. Ad un certo momento, si viene a dire: «Vi è solo un apparecchio radiografico a disposizione. E volete incominciare a fare delle indagini schermografiche per tutta la gioventù della provincia con un solo apparecchio? Ci vorranno diecine d'anni».

Qualche volta, in tal modo, si è arrivati a delle risoluzioni che hanno poco più valore di quello che può avere la più antica legislazione antitubercolare del nostro Paese: le leggi del Granducato di Toscana del 1754 e quelle del Regno delle Due Sicilie del 1782, in cui si diceva semplicemente: badate che è una brutta malattia e le misure profilattiche sarebbero queste o quelle!

Ma noi abbiamo esempi in altri Paesi di iniziative a favore della gioventù: non vi porto ad esempio la Bulgaria o la Cecoslovacchia, ma mi accontento di portarvi ad esempio fa sola Francia, dove, nel campo della legislazione del lavoro, si è recentemente stabilito che le ferie annuali debbono esser concesse per un periodo di tre settimane per i lavoratori dai diciotto ai ventun anni e di un mese per quelli di età inferiore. Oggi, dunque, anche questo è diventato un problema di Stato.

Un altro aspetto, intimamente legato a questo, è il problema dello sport inteso come garanzia di una gioventù sana che cresca forte nel nostro Paese. Non si tratta più di fare dello sport una preparazione per la guerra, o che la gente ragioni con i muscoli e con i piedi invece che con la testa; ma si tratta di prevenire le malattie che fanno strage nel nostro Paese.

A questo proposito, abbiamo una situazione molto pericolosa; abbiamo decine di migliaia di giovani che vogliono fare dello sport e domandano un minimo di mezzi a quest'uopo. I dati che si sono avuti a questo proposito dall'Ufficio Sport popolare del Comitato Olimpionico Nazionale italiano sono dati interessanti; decine di migliaia di giovani vogliono fare dello sport, ma si trovano in difficoltà, perché non hanno nessun aiuto particolare, mentre nessuno sviluppo è assicurato a quei determinati tipi di sport, quali campeggi, escursionismo e simili, dove con una spesa minima potrebbe essere assicurata la salute a tanta gioventù.

D'altro canto, abbiamo spese enormi che vengono sostenute per lo sport da un'infinità di organizzazioni che hanno carattere speculativo. Vi scelgo un esempio, quello di una squadra che non è alla testa del campionato di football, e questo per evitare accuse di tendenziosità!

Mi scusino i miei amici di Genova, ma voglio loro ricordare che si è arrivati a pagare il mezz'ala Fattori della «Samp-Doria» fino a dieci milioni.

Perché non fare un confronto con quello che avviene in Francia?

Ebbene in Francia 100 milioni di franchi sono stati stanziati nel bilancio dello Stato a favore dello sport, senza contare le spese stanziate per nuovi impianti.

Nella sola città di Parigi esistono oggi 60 piscine che funzionano; nel Comune di Roma due, in quello di Milano 3. A Parigi vi sono 1380 campi di pallacanestro, a Roma 5 e a Milano 10. A Parigi vi sono 65 palestre nella città e 105 nei sobborghi; 60 piste nella città e 40 nei sobborghi.

Questi dati sono significativi e mostrano l'interessamento dello Stato per lo sport negli altri paesi, mentre da noi gli impianti sportivi o non esistono, o spesso sono inutilizzati. La cosa non ci può non preoccupare.

Nel campo dell'istruzione generale professionale c'è molto da fare. C'è già stato un progetto per dei cantieri-scuola legato alla lotta contro la disoccupazione, progetto che chiameremo Morandi-Sereni dal nome dei Ministri che ne presero l'iniziativa. Purtroppo la cosa è rimasta allo stato di progetto. Eppure abbiamo tanto bisogno di fare lavorare e di fare imparare un mestiere anche semplice ai nostri giovani. Anche coloro che non sono competenti, sanno che nell'edilizia manca la mano d'opera qualificata. Avviene così che non si possono far lavorare i manovali perché mancano i muratori.

Non solo si fa poco per i giovani ora in Italia, ma qualche volta si ha l'impressione che nel nostro Paese si abbia paura che la gioventù si metta allo studio della tecnica e della scienza. Recentemente lo abbiamo notato in occasione di un'agitazione di allievi tecnici; si direbbe che nel paese di Leonardo vi sia della gente che abbia paura di una sopraproduzione di intelligenza tecnica!

E lo sviluppo della vita giovanile dovrà trovare la sua integrazione nello sviluppo della vita culturale, e nello sviluppo dei talenti artistici.

Per tutte queste ragioni, insieme ai colleghi Laconi, Giolitti, Corbi ed alla collega Mattei, proponiamo il seguente articolo aggiuntivo:

«La Repubblica cura lo sviluppo fisico della gioventù e ne promuove l'elevazione economica, morale e culturale».

«La legge dispone a tal fine l'istituzione di appositi organi statali e assicura l'assistenza morale e materiale dello Stato alle libere associazioni giovanili».

Mi auguro che un articolo di questo tenore possa trovare il consenso dei colleghi, e per lo meno possa valere per una indicazione, anche se non di carattere pratico e immediato, nel senso che la nuova Italia democratica intende occuparsi di un problema che non è soltanto contingente, ma che resterà aperto per molti e molti anni. Si tratta di vedere se coloro che rappresenteranno nel futuro la parte più viva, più sana, più energica della Nazione, potranno essere avviati a partecipare a questa vita, se saranno educati nei fatti ad uno spirito di democrazia.

Vi è tutta una generazione in Italia per cui il fascismo non è stata una parentesi, ma tutta la vita. Vi è uno generazione che scopre adesso un mondo nuovo. Bisogna fare in modo che questo mondo nuovo non sia soltanto un mondo di parole e di promesse lontane e tanto meno di critiche acerbe ai giovani per un passato di cui essi non hanno la responsabilità; ma che sia un mondo, in cui essi si trovino al loro posto. E forte e sicuro del suo avvenire è un Paese la cui gioventù veda la vita cogli occhi ridenti, ed in cui i giovani e le ragazze non corrano più il rischio di dover passare attraverso una esperienza di vita così difficile e così penosa, come quella attraverso cui è passata tutta una generazione di italiani. (Applausi a sinistra).

Presidente Terracini. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Rescigno, Minella, Persico, Di Giovanni, Pellizzari, Bei Adele, Mattarella, Martino Gaetano. Non essendo presenti; si intende che la loro iscrizione decade.

È iscritto a parlare l'onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

Nitti. Desidero intrattenere l'Assemblea più brevemente che sia possibile sull'ordine e sulla efficienza dei nostri lavori.

Finora si sono discusse questioni, che hanno, per gran parte, valore soltanto teorico o dottrinario e che non compromettono la situazione economica e finanziaria in alcun modo. Abbiamo anche spaziato nei cieli dell'utopia.

Adesso entriamo in un ordine di problemi in cui dobbiamo tener conto della realtà.

Finora abbiamo potuto con tutta serenità intendere discorsi sugli argomenti più diversi. Ci siamo occupati, sia pure con solennità, di cose che non mutano profondamente la storia umana e né meno quella del nostro Paese.

Abbiamo rinunziato seriamente alla guerra di conquista, proprio adesso che di conquiste non avevamo diritto né possibilità di parlare. Abbiamo creduto dare prova di grande bontà annunziando la volontà di ospitare nel nostro territorio tutti quelli che possono venire dai paesi in cui non prevalgono i nostri principî politici! La nostra ospitalità non pare fosse richiesta da alcuni dei nostri colleghi in principio, né fosse possibile per un gran numero di uomini. Abbiamo creduto che in questo periodo, questa materia fosse argomento di trattati o di convenzioni o, più ancora, di Costituzioni. Paesi ricchi e ospitali, paesi di libertà non si son mai occupati di queste cose nelle loro Costituzioni.

Inghilterra e Svizzera, che hanno accolto profughi di tutti i paesi con più larghezza, non ne hanno fatto né meno materia legislativa. L'ospitalità politica dei perseguitati è un sentimento e una pratica: è ridicolo farne materia di trattati e più ancora di Costituzione.

Nell'Inghilterra conservatrice hanno trovato rifugio esuli di tutto il mondo. L'Inghilterra non ha mai chiuso le porte ai perseguitati.

Noi offriamo ospitalità non richiesta e forse non possibile, ne facciamo materia di solenne dichiarazione, anzi di articoli della Costituzione.

Ma queste sono materie che non ci hanno troppo eccitato né meno nelle discussioni; sappiamo che non hanno alcuna efficienza, e sono solo apparenze. Vogliono essere affermazioni di principî più o meno astratti, senza nulla che risponda alla realtà. Ma nessun rischio. Sono cose che noi stessi non sentiamo e non possiamo supporre che possano fuori d'Italia interessare veramente: non interessano alcuno e né meno dunque seriamente noi stessi.

Per quanto riguarda i Patti lateranensi, io avrei visto volentieri che non fossero messi nella Costituzione; si nuoce loro e non si giova. Ma dal momento che furono messi nel progetto di Costituzione, accettai di votarli, e fui forse il primo di opposizione che volle dichiararlo, perché volevo evitare ogni nuova materia di attrito fra lo Stato e la Chiesa.

Noi abbiamo potuto discutere dunque di tutte queste questioni senza pensare che fosse necessario avere grandi mezzi di bilancio per accogliere profughi che non sarebbero venuti, che non era necessario prepararsi con grandi mezzi per evitare che le nostre eccitate passioni ci dessero l'idea e il proposito di nuove grandi guerre di conquista. Non erano presenti e non saranno per molti anni, masse di aeroplani e flotta da guerra per andare alla conquista di territori stranieri. Tutto ciò che abbiamo finora discusso ci ha lasciato calmi e sereni e anche indifferenti. Non sono cose da preoccupare.

Ma ora entriamo in un altro genere di argomenti. I cosiddetti rapporti «etico sociali». Questi rapporti veramente avrei visto volentieri in gran parte fuori della Costituzione. Se non sono materia d'insegnamento morale, sono materia che sta a posto nel Codice civile e nel Codice penale. Non entrano soltanto visioni avveniriste e sentimentali; ma noi accettiamo obblighi effettivi, e non dinanzi soltanto alla storia (sentivo ieri l'onorevole Gullo che si preoccupava della storia), ma nel periodo stesso che traversiamo. Io credo che in questa materia sia meglio parlare della cronaca e non della storia che non si occuperà di noi. Noi ci troviamo di fronte alla realtà pratica. E la realtà è che si creano responsabilità cui non è possibile seriamente provvedere. Con ottimismo inconsiderato si assumono impegni con la certezza di non poterli mantenere. Sono cambiali a vuoto che si vogliono emettere in nome della Repubblica, obblighi che determinano a loro volta gran numero di altri obblighi. Io lascio da parte le questioni di ordine giuridico su cui avrei molto da dire. L'onorevole Calamandrei ha fatto osservazioni che mi hanno impressionato sul matrimonio, sul divorzio. Si tratta di argomenti di grande interesse, che non riguardano però la vita economica dello Stato. Ma anche rispetto alla famiglia proclamiamo non solo principî, ma obblighi economici per lo Stato di cui non misuriamo la estensione. «La famiglia, dunque, secondo il progetto di Costituzione, è una società «naturale»: la Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l'adempimento della sua missione e per la salvezza morale e la prosperità della nazione». Anche prima che questi sacri principî in questa occasione fossero formulati, la famiglia viveva nello Stato, e viveva senza che esistesse questa formula solenne di riconoscimento, senza che si dichiarasse che aveva una missione. La famiglia fino ad ora aveva la sua vita non troppo diversa da quella attuale.

Il Codice civile regolava i rapporti familiari e tutto questo si faceva senza solennità. Adesso il matrimonio viene riconosciuto come se fosse un fatto nuovo, ed «è basato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi».

«La legge ne regola la condizione a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia». Qui una serie di questioni daranno luogo a lunghe controversie. Noi modifichiamo non solo ciò che esiste, ma determiniamo nella Costituzione ciò che è materia di leggi ed è contenuto in generale nei Codici. Vi è qui tutta una serie nuova di disposizioni che vietano il divorzio, stabiliscono l'eguaglianza della donna e dell'uomo. Io non sono mai stato per l'Italia tra i sostenitori del divorzio. Ma si può in una Costituzione vietarlo? E quale paese serio ha fatto cosa simile? Eguaglianza della donna e dell'uomo non so bene che cosa significhi, date anche le disposizioni sui figli illegittimi. Non vi nego che mi sono domandato: fin'ora le donne prendevano il nome dell'uomo; adesso, data l'uguaglianza, chi dà il nome alla famiglia? È un ragionamento, mi pare, puerile, ma data l'eguaglianza che il diritto vuole riconoscere (finiremo con l'introdurre anche qui la proporzionale per i membri della famiglia) io non so questa cosa come sarà regolata alla fine. Si è detto che i genitori hanno verso i figli naturali gli stessi doveri che verso i figli nati nel matrimonio. Queste cose mi interessano relativamente ed io non so che cosa accadrà e non so se approveremo il testo che ci è stato proposto.

Ma vengo alle cose che più mi preoccupano. L'articolo 26 fissa gli obblighi della Repubblica. Si parla sempre di Repubblica, mai dello Stato. Si vuole affermare che la Repubblica esiste. Non avremo bisogno di questa affermazione ripetuta e continua, se veramente ci crediamo. La Repubblica dunque «tutela la salute, promuove l'igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti». Dunque, la Repubblica, fin da ora, assume come obblighi di tutelare la sanità, promuovere l'igiene e garantire cure gratuite agli indigenti. Voglio ben ripeterlo perché non credo ai miei occhi. Voi sapete quale è la situazione dell'Italia, voi sapete che cosa sono gli ospedali, quale è la situazione di almeno i nove decimi dell'Italia, in cui manca e per parecchi anni mancherà un po' di tutto. E noi assumiamo proprio adesso, improvvisamente, l'impegno di assicurare tutte queste cose che non potremo, per parecchi anni, assicurare? Ora, credete che sia buona procedura promettere in nome della Repubblica ciò che non si può mantenere? E perché farne materia di Costituzione? Quando il popolo domani ci domanderà: dal momento che la Repubblica garantisce queste cose, e come e in qual forma le può garantire? Io non vi voglio annoiare con molte cifre; lo farò la prossima volta quando parleremo della situazione finanziaria. Io vi dirò allora quale è la situazione economica e finanziaria. Troppe cose si sono dissimulate e troppe si continuano ancora a dissimulare; parlerò delle cose che potremo fare e anche di quelle che non potremo fare e che si promettono senza serietà. Noi dovremo, infine, se Dio vuole, discutere con linguaggio di realtà quale sia la situazione economica-finanziaria. Dobbiamo dire quali obblighi possiamo assumere e quali no e dovremo dire a quante cose dovremo rinunziare. Lasciate, dunque, che il nome della Repubblica non sia compromesso in questi equivoci, perché le togliamo anche quel prestigio di serietà che le è indispensabile.

Non promettere nulla non potendo mantenere, ma sopra tutto sapendo da prima di non poter mantenere: questa dovrebbe essere prima regola di onestà.

Quando voi avete promesso nella costituzione solennemente di dare al popolo ciò che non potete tra sei mesi, tra un anno, fra parecchi anni, e vi troverete senza aver dato niente e senza poter promettere più niente perché non vi crederanno, quale prestigio avrà la Repubblica?

Vi prego dunque di non continuare a imitare lo stile fascista e di non esagerare e non promettere. Il fascismo mai è stato una consuetudine nella vita così forte come ora; non è l'ondata delle ridicole e inesistenti forze armate fasciste che ci minaccia, è la vita fascista che noi assorbiamo ogni giorno nelle nostre abitudini. Mai forse come ora il fascismo sovrasta tutta la vita nazionale. (Approvazioni).

Noi siamo stati eletti il 2 giugno, siamo venuti qui il 25 giugno. Secondo l'impegno assunto, avremmo dovuto esaurire il nostro compito in otto mesi. Il 25 febbraio il nostro compito doveva essere finito. Ebbene, ciò non è avvenuto. Ma si è fatto peggio. Ci siamo riuniti poche volte in otto mesi, abbiamo avuto soltanto, cosa quasi inverosimile, 88 giorni di seduta pubbliche. Che cosa abbiamo fatto? Vi sono state Commissioni numerose, le quali hanno studiato, troppo lungamente e lentamente, quello schema di Costituzione che dovremmo approvare. Certamente hanno fatto cosa interessante, ma con lenta sovrabbondanza. E quante pubblicazioni costose e inutili! Per la prima volta le Sottocommissioni hanno pubblicato le loro discussioni e anche i loro discorsi del pomeriggio. Tutto in queste discussioni è stato detto, tranne che preparare una Costituzione saggia e realista.

Si è arrivati all'ultima ora. Il termine anzi era finito e la Costituzione non c'era ancora, e non c'è né meno ora completamente. In quegli otto mesi noi avremmo dovuto fare non solo la Costituzione, ma tutte quelle leggi che erano necessarie per l'esecuzione della Costituzione. Non abbiamo che solo enormi e inutili pubblicazioni documentarie, verbali di sedute di Sottocommissioni che proprio non era necessario tramandare ai posteri! Il Governo, da parte sua, non ci ha riunito mai: continue ed enormi vacanze per farci riposare di lavori ipotetici; ottantotto giorni di sedute dal 25 giugno a ora! Il Governo attuale è sempre lo stesso. L'Italia oscilla sempre fra due termini estremi: la inerzia e la fretta, il coma e il tetano. Il Governo si è occupato di tutte le cose, tranne degli argomenti, di cui doveva occuparsi. Nei pochi giorni in cui il Governo ci ha riuniti abbiamo fatto discorsi numerosi e solenni e di vasta natura. Pensate che in questi 88 giorni abbiamo detto moltissime cose, anche le meno necessarie. Tanti giorni sono stati occupati per discutere il giuramento (cosa provvisoria e non necessaria) che si doveva fare innanzi al Presidente provvisorio. Terribile argomento! Ai tempi miei repubblicani e socialisti giuravano, ma ne ridevamo. I repubblicani, i socialisti e comunisti facevano, con poco riguardo, del giuramento materia di motti di spirito nelle conversazioni private e non davano nessuna importanza al fatto di giurare. C'era l'obbligo e c'era l'abitudine di giurare: si giurava. Noi abbiamo dovuto discutere daccapo come questione nuova il giuramento al Capo provvisorio della Repubblica e abbiamo perduto tanti giorni in controversie inutili. Non valeva la pena di perdere dieci minuti del nostro tempo. Abbiamo perduto il nostro tempo in vaniloqui, senza occuparci delle cose più necessarie.

Il Presidente del Consiglio ne ha dato l'esempio. L'ho detto tante volte a lui e non voglio ora farne rimprovero: ci ha riunito il meno possibile. Dopo essersi mostrato dolente delle mie critiche, ha dovuto riconoscerne la giustezza. Per troppo tempo ha occupato tutte le cariche possibili: Presidente del Consiglio, Ministro dell'interno, Ministro degli esteri; ma sopra tutto e al disopra di tutto segretario del partito democristiano. La vita interna del Partito ha dominato tutta la politica.

Non si è trovato mai tempo per un sol viaggio del Ministro degli esteri per provvedere a preparare in tempo utile l'ambiente per una politica più abile e opportuna di fronte ai vincitori, che ci siamo illusi di chiamare alleati quando proprio non lo erano. E così non si è mai trovato tempo per preparare e soprattutto adottare una politica finanziaria che evitasse il baratro. Non abbiamo avuto una vera azione di politica estera. Ora lo Stato non ha una politica economica e finanziaria, continuativa e coerente. Siamo stati tutti rovinati dalla politica dei partiti. Il partito sta soffocando la Nazione. E in questa terribile situazione in cui viviamo, voi tutti potete dire che è inutile che io mi dolga di ciò che è diventata una necessità del momento. Avete forse ragione. Ma io so che non si può risorgere se non ricostituendo lo Stato e tornando, sia pure con indirizzo diverso, al sentimento di Nazione.

Noi dobbiamo fare una Costituzione; purtroppo non la facciamo ancora; ne siamo lontani. Pensate che fino ad oggi abbiamo approvato 22 articoli; i 22 articoli che richiedevano meno discussioni. Arriveremo ora agli articoli che bisognerà discutere a fondo. I diritti e i doveri dei cittadini hanno importanza; ma ora bisogna vedere come vivranno i cittadini; e noi cominciamo a prendere impegni gravissimi che sappiamo con certezza di non poter mantenere. Non abbiamo motivo per ammirarci di ciò che abbiamo già fatto e tanto meno di ciò che facciamo ora.

Vedo nei giornali dei partiti che formano il Governo riprodotti gli articoli già approvati della Costituzione. Sono inquadrati come espressione di grandi avvenimenti o come grandi massime. I partiti che si combattono tra loro, si ritrovano poi nella stessa comune ammirazione per la loro opera. Io non so se noi siamo ammirati dal pubblico nella misura in cui ci ammiriamo. Il pubblico, credo anzi, è piuttosto diffidente e crede ogni giorno meno a noi, perché vede che siamo fuori della realtà.

L'onorevole Gullo ieri volle farmi l'onore di occuparsi di me a proposito della Costituzione, e parlò con ammirazione di quello che facciamo. Egli ha il diritto di ammirare; noi abbiamo il diritto anche di ammirarci; ma la verità è un po' lontana. L'onorevole Gullo, per dare un esempio della importanza storica delle nostre decisioni, parlò di avvenimenti come le Dodici Tavole e anche della presa della Bastiglia. Due cose le quali non so come siano in rapporto tra loro. Le Dodici Tavole non sono il risultato di un periodo rivoluzionario, né sono qualche cosa come la dichiarazione dei diritti dell'uomo; non sono nient'altro che la fissazione in forma scritta di quello che era il diritto di Roma che si andava formando. Le democrazie sorgono quasi sempre in questo modo dalla necessità di avere la legge scritta, cioè di avere la sicurezza. Non si tratta, come forse qualcuno ha pensato, di una Costituente del tempo, si tratta di cosa molto più semplice. I patrizi e i plebei poi non erano quello che si insegna nelle scuole, i ricchi e i poveri; qualche cosa come una concezione anticipata del marxismo. I patrizi erano le famiglie dei fondatori e degli abitatori della città e i plebei erano i nuovi arrivati, i metechi. Questa è la storia della lotta fra i nuovi arrivati e gli antichi abitatori della città. Non vi erano quasi sempre fra patrizi e plebei contrasti economici, ma sopra tutto lotte politiche e oserei dire di razza e di religione. I patrizi non vedevano bene che i plebei avessero né meno gli stessi dei.

In, quanto poi alla presa della Bastiglia, mi permetta l'onorevole Gullo di dirgli che io non so come entri nella discussione attuale. La presa della Bastiglia, si dice, è il fatto che ha cambiato la storia moderna. No, no! La presa della Bastiglia fu un equivoco, che divenne un simbolo di liberazione e di libertà.

Nel 1789 la Bastiglia del passato, la Bastiglia dove erano i perseguitati della tirannia, in realtà non esisteva più.

Tutti gli storici seri hanno spiegato chiaramente che cosa sia stato l'equivoco della Bastiglia.

Era viva ancora la leggenda della vecchia Bastiglia. Si venne facilmente dagli elementi più esaltati all'idea di assalire la fortezza della tirannia. E l'idea venne a un birraio del quartiere, che era un uomo d'affari, certo Santerre. Fu nella sua bottega che si organizzò quello che doveva essere o apparire un movimento di rivolta popolare. Furono inventate e diffuse le leggende più fosche, secondo cui anche i sotterranei della fortezza erano pieni di vittime della tirannia. Poi si eccitarono le folle con i racconti più inverosimili. Così si giunse all'assalto della Bastiglia. Ciò che accadde è noto. Non si trovarono prigionieri e vittime politiche da liberare. I soli ospiti della Bastiglia erano, se ben ricordo, quattro o cinque disgraziati: un degenerato fisico, un pazzoide rinchiuso a richiesta, dei genitori, ecc., ecc. Erano persone che non avevano nulla a che fare con la libertà politica.

Tutti gli storici seri della rivoluzione non raccontano in modo diverso la presa della Bastiglia. Lo storico moderno noto per le idee più avanzate e simpatizzante perfino con il bolscevismo, Mathieu, non differisce da Taine e dai grandi storici.

La folla era guidata da un birraio imbroglione, il quale imbroglione figura in tutti i grandi avvenimenti della rivoluzione francese. Intrigava, non senza vantaggio. Nelle rivoluzioni sono spesso i più ribaldi che prendono i posti più importanti, diceva Danton, che era pratico di rivoluzioni.

Santerre demoliva, ma non rifuggiva dal prendere vantaggio personale anche dalla demolizione. Così dunque, dopo aver contribuito a demolire la Bastiglia, trovò la convenienza di speculare personalmente sull'appalto dei materiali della demolizione.

Lasciamo stare il passato e la storia. La nostra modesta Costituzione, che non so quanto durevole, se sarà approvata com'è stata concepita, non ha nulla che possa interessare il pensiero politico, né nulla che possa essere materia di storia. Preoccupiamoci che possa essere il più che possibile pratica e che giovi a consolidare la Repubblica, che ora non è più un'aspirazione ma un fatto.

Dal momento che l'abbiamo valuta o l'abbiamo accettata, noi abbiamo il dovere di servirla e di difenderla lealmente e soprattutto non dobbiamo discreditarla. E il miglior modo di servire la Repubblica è di darle solidità, di non attribuirle idee e propositi non realizzabili, di dare al pubblico la convinzione che le istituzioni repubblicane sono garanzia per tutti di vita libera e civile e tale da consentire ogni progresso nell'ordine e nel lavoro. Alla nuova Repubblica bisogna dare anche il prestigio della forma insieme col prestigio delle opere. Da tanto tempo oramai che è costituita non si è trovato per essa alcuna cosa che sia espressione di sentimento. Non vi è dunque tra voi, in questa gioventù, un solo poeta, un solo giovane musicista, che abbiano pensato a fare un inno che non sia banale?

L'inno di Mameli sarebbe un bellissimo inno, se non fosse per quel ritornello che mi urta quando dice che «i figli d'Italia son tutti Balilla». Questa è cosa che veramente io avevo sperato di non sentire tornando in Italia. Desidero che non vi siano Balilla. (Ilarità).

Ciò che più mi addolora è di constatare che anche ora, e ora più che mai, il fascismo non è morto e che se anche Mussolini è morto fisicamente, è vivo sempre sopra tutto nelle concezioni e nei metodi dell'antifascismo. Egli è vivo anche negli ordinamenti dello Stato. Egli vive nelle cattive abitudini della vita pubblica, sopra tutto nell'abitudine di promettere ciò che non è vero e non si può realizzare, proprio come facciamo anche in questa Costituzione nella quale promettiamo tutte le cose che non possiamo dare.

Mussolini, dopo Caporetto, rimproverando a noi che formavamo il Ministero, di aver dato notizia della disfatta, disse che, se egli fosse stato al Governo, avrebbe annunziato invece una grande vittoria, e così fece sempre in seguito: anche quando ebbe disfatte e rovesci, fino all'ultimo, fin che potette, annunziò vittorie.

E così il fascismo è andato di vittoria in vittoria fino al disastro.

Mussolini, consentitemi una parola di sincerità, non era uno scellerato, o questa non era la sua qualità prevalente: era un pazzo. Un giorno l'Italia si vergognerà, non di avere avuto lungamente a capo un uomo terribile e sanguinario, ma un pazzo.

Quando io parlavo di Mussolini, all'avvento del fascismo, al maggiore alienista di Roma, che lo aveva avuto in cura, mi diceva: presenta tutti i sintomi della follia, aggravati da una malattia giovanile, non sufficientemente curata. Questo fu l'uomo, e così tutte le cose che egli fece, se anche qualche volta in apparenza imponenti, hanno carattere di follia.

Il torto nostro è che le conserviamo ancora queste cose, in gran parte, e Mussolini è nelle nostre leggi, nelle nostre amministrazioni e sopra tutto nel costume.

Quando io arrivai in Italia, dopo tanta lontananza, una delle cose che più mi sorprese fu che, quando sentivo parlare dei funzionari, mi dicevano che essi erano del grado IV, IX, XII, ecc.

Che cosa è tutto questo? Non esisteva prima nulla. Io sapevo che solo nella vecchia Austria-Ungheria, molto più limitatamente, esistevano classificazioni di funzionari indicati numericamente secondo i gradi.

In Italia tutto era stato fatto numericamente, era stato tutto catalogato, e tutto rimane come prima.

Si è ancora oggi funzionari del numero 9, del numero 7 o del numero 10.

E le leggi e il modo di applicare le leggi e i provvedimenti con cui si crede difendere lo Stato sono concepiti e si attuano fascisticamente.

Ciò che il fascismo ci ha lasciato di peggio sarebbe dovuto scomparire o dovrebbe. Invece cerchiamo rimettere in onore anche le peggiori cose del fascismo.

Noi dovremmo avere la sicurezza che se avessimo fiducia in noi stessi, nella nostra resistenza vogliamo ristabilire il confino e pensiamo ogni giorno a restrizioni di libertà. Stiamo preparando una legge della stampa, la quale sarebbe anche peggiore di quella che Mussolini impose.

Se la legge sulla stampa che si desidera fosse votata, io mi impegno a fare nella stampa internazionale la più grande campagna che mi sarà possibile contro questa forma di follia. La stampa, anche la più cattiva, è migliore di nessuna stampa.

Il fatto che vogliamo distruggere anche la stampa in un Paese in cui non esistono più i sentimenti veri e le tradizioni della libertà, in un Paese come il nostro, dopo tanti anni di fascismo e di violenza e dopo le peggiori violenze che han seguito il fascismo, è grave debolezza.

Anche il più cattivo Parlamento è migliore di nessun Parlamento.

Non vi è niente di peggio che sopprimere la libertà, e la libertà richiede come condizione la stampa e il Parlamento. Senza di essi non vi è libertà.

Nella sua follia, Mussolini fece spesso cose peggiori di un criminale. Fu peggiore.

Un criminale può essere grande. Il creatore vero della Russia moderna, fu Pietro il Grande, che a ragione il Governo bolscevico ammira. Voi conoscete forse il libro o uno dei libri più letti in Russia, diffuso a milioni di esemplari, il libro di Alexis Tolstoj su Pietro il Grande. Tolstoj ci ha descritto con vivaci colori la violenza terribile del grande czar. Io vidi a Parigi...

Una voce a sinistra. Chi? Pietro il Grande?

Nitti. Ignorate forse che Pietro il Grande è morto già da secoli. Vidi dunque lo storico esaltatore di Pietro il Grande, e mi intrattenni con lui a parlare non solo della violenza e della crudeltà di Pietro, ma anche del suo genio creativo e della sua immensa opera per preparare e costruire la Russia moderna. Considerato con la nostra morale è un vero criminale, un criminale di durezza spietata.

Mussolini fu qualche volta crudele e fece uccidere. Piccoli episodi in paragone di Pietro il Grande come crudeltà, poiché lo czar russo non risparmiò alcuno che si opponesse ai suoi disegni o che credeva si opponesse. Non risparmiò i suoi e nemmeno la moglie e il figlio. Assistette, atroce crudeltà, alla tortura di suo figlio. Tutto questo è vero.

Ma Pietro il Grande ha creato in gran parte la Russia moderna. Egli è stato un genio politico, militare ed industriale. Alla grandezza si perdona tutto. Un uomo che ha tanto creato, può anche avere errato e avere la gratitudine e l'ammirazione del suo popolo.

Mussolini era soltanto un folle. Mussolini non vedeva che il dominio spettacolare della sua persona e non ha creato nulla fuori un disordine degli spiriti e della vita nazionale che dura anche ora. Quando però pensiamo alle cose che Mussolini ci ha lasciato in eredità, noi vediamo che molte di esse si ritrovano perfino nei disegni di legge attuali, ed anche in quello di oggi in cui si parla perfino dell'obbligo che la Repubblica assume di aiutare le famiglie più numerose. Io non avevo trovato mai nelle leggi italiane, prima di Mussolini, differenza tra famiglie numerose e famiglie non numerose allo scopo d'incoraggiare la natalità. Le famiglie erano quelle che erano. Ma Mussolini portò il veleno della follia nella vita italiana con l'equivoco delle famiglie numerose come base di potenza e di ricchezza. La teoria balorda che egli espose in centinaia di conversazioni, in articoli e in discorsi, era che «potenza è numero», senza pensare né meno che vi sono popoli numerosissimi e debolissimi. Concepì uno Stato che cresce ogni giorno, si sviluppa, finché, come disse in un suo celebre discorso, esplode: disse proprio «la esplosione». Bisognava accrescere il numero, avere famiglie numerose dovunque e poi arrivare alla esplosione finale. E siccome i pazzi sono sempre conseguenti, arrivò poi alla conclusione di fissare la data dell'esplosione e stabilì, non solo che l'Italia doveva armarsi al massimo e fare guerra in permanenza (vivere pericolosamente), ma anche che doveva nel 1935 (in quella follia vi era anche del metodo) fare l'esplosione finale con le famiglie numerose. Le famiglie numerose erano la base del programma.

Orbene, vedo in questo disegno di legge, proprio nella parte che riguarda la famiglia, un'espressione che si riferisce al dovere di occuparsi specialmente delle famiglie numerose. Questa espressione io non vorrei più sentire, perché è proprio la stupida ammirazione delle famiglie numerose che ha più rovinato l'Italia. Mussolini, nella sua follia, fece tutto metodicamente ed arrivò all'assurdo, all'inconcepibile. Non si poteva, durante l'esaltazione fascista, né meno fare carriera nelle amministrazioni, se non si era ammogliati. Così si regolarizzarono per necessità di carriera vecchi rapporti più o meno indecenti, i funzionari dello Stato furono costretti a sposare e a dare la prova di aver famiglia. E così si passò di mano in mano alle cose più assurde. Mussolini volle assistere personalmente alla glorificazione di madri con figli numerosi come ad un grande avvenimento. A Firenze (io ero all'estero e leggevo nei giornali queste ridicole cose e ne provavo dolore e umiliazione insieme) vi fu un grande ricevimento, in cui le signore dell'aristocrazia fiorentina (Dio perdoni loro!) si erano presentate in fila al «duce» (come si diceva allora) per farsi ammirare. Le presentazioni avvenivano nella forma più comica: la marchesa tale nove figli, la contessa tale sette figli, la duchessa tale cinque figli. Come i conigli, il cui valore doveva consistere soltanto nella prolificità del ventre.

Se ci vogliamo rispettare, cominciamo prima di tutto ad abbandonare le peggiori follie, e fra le peggiori vi è quella che, in un paese come l'Italia, che spontaneamente, fra le grandi nazioni di civiltà occidentale, ha la più grande natalità, si incoraggino artificialmente le conigliere della miseria e dell'ignoranza.

Mussolini non ebbe mai egli stesso vita regolare né famiglia regolare, e non si sapeva né meno chi fossero le madri di alcuni dei suoi figli e fu verso la fine della sua vita che alla sua famiglia diede parvenza di legalità e anche di religione.

Appunto perché la famiglia è la base della società civile, non deve essere turbata da interventi, legislativi che si basano su false concezioni politiche. Non è vero che presso i popoli civili il numero è forza. Non basta aver figli, bisogna poterli nutrire, educare, seguirli nella vita. Avere molti figli pidocchiosi, ignoranti, male educati non è forza, è debolezza. Vi sono pratiche di vizio che bisogna condannare sempre; è virtù solo tutto ciò che è previdenza, disciplina della vita, senso di responsabilità verso i figli.

Base fondamentale della nostra concezione realista è che l'Italia ha troppi uomini: siamo, fra i grandi paesi, il paese più sovrappopolato del continente. In queste condizioni non vi sono che due paesi: l'Italia e la Germania, presso a poco con 140 abitanti per chilometro quadrato. Ma con la differenza che la Germania ha delle immense risorse; basterebbe solo la Ruhr per fare grande un paese! Anche dal punto di vista dell'agricoltura l'Italia ha un territorio coltivabile utilmente assai inferiore a quello della stessa Germania.

La Germania ha tante cose che a noi mancano: la più grande rete fluviale, le più grandi quantità di combustibili fossili, abbondanza e varietà di alcune materie prime.

L'Italia deve vivere del suo sforzo, deve utilizzare tutte le sue risorse, deve evitare lo sperpero di ogni attività produttrice. L'Italia è un grande paese non per quello che la natura gli ha dato, ma per quello che l'uomo ha saputo fare. Mi consenta l'amico Togliatti di rivolgermi a lui. Si parla sempre di borghesia in Italia, come di una classe che va verso la sua fine. La borghesia sarebbe la classe che tramonta. Borghesia e classi medie sarebbero dunque al loro declino. (Interruzioni Commenti). Io dico che le classi medie italiane rappresentano un caso unico in Europa e hanno ancora un grande avvenire. Non sono soltanto molto numerose, ma sono anche molto vitali e, se sono in crisi, è anche perché assorbono ogni giorno nuovi elementi che vengono dal lavoro. Non è vero che la loro storia non ha grandezza. In un paese dove mancavano tutte le materie prime, per virtù delle classi medie l'Italia fino al 1920 è stata grande e ha creato una classe di produttori degni di ogni rispetto.

Le classi medie italiane hanno fatto mirabili sforzi di costruzione. Il nostro paese è il solo in Europa che ha potuto creare la grande industria quasi senza materie prime e con scarsi capitali.

L'Italia ha troppi uomini. L'Italia ha poche risorse e deve perciò sviluppare le sue energie, non disperdere le sue attività.

La vita è già difficilissima e sarà ancora più difficile nel periodo che verrà. L'Italia deve utilizzare tutte le sue risorse e non ha tempo da perdere sopra tutto nell'ora presente. Dobbiamo pensare che viviamo in un paese in cui sopra ogni ettaro di terreno coltivabile utilmente devono vivere più di due persone, caso unico in Europa. Siamo in una situazione difficilissima e dobbiamo diffidare delle follie che spingono alla più dissennata imprevidenza. Dobbiamo preoccuparci della faciloneria con cui si parla di sovvertire le basi della vita sociale, gittando il disordine nelle forme della produzione che come l'agricoltura hanno più bisogno di stabilità.

Ho senso di pena, anzi di angoscia, nel vedere come nello stesso tempo che si disordina la produzione, si disordina anche territorialmente il paese.

Nessuna più grande minaccia di più grande sciagura che le cosiddette autonomie. È un programma di rovina e di dissoluzione. Si degenera ogni giorno più perché le autonomie sono applicate anche prima di esser votate e non si sa dove si arresteranno.

Il tristissimo esempio è venuto proprio dal Governo. Un disgraziato Ministro piemontese, credo un avvocato di pretura; non so perché, volle l'autonomia della Val d'Aosta, che non l'aveva mai chiesta. Fece all'Italia il maggior male possibile, perché non solo apriva le frontiere militari ad ogni possibile invasione futura, ma perché mise l'Italia in una situazione di permanente inferiorità e le tolse ogni possibilità di vera difesa, in ore drammatiche come quelle che seguiranno.

Ci preoccupiamo degli avvenimenti in Sicilia. C'è di peggio, a quel che dicono i giornali. Quante sorprese avremo ancora e non solo in Sicilia!

L'Alto Commissario della Sicilia e l'Alto Commissario della Sardegna hanno sottoscritto un accordo o vorrei dire un trattato, in cui regolano le loro relazioni commerciali, come se fossero due Stati stranieri.

Sembra cosa assurda, ma è pur troppo vera.

Pare che anche Milano sia stata invitata (e non ha preso la cosa sul serio) a partecipare a queste strane vedute di commercio internazionale... interno. Impera in questo periodo la follia. L'Italia dovrebbe tenersi compatta, unita e disciplinata e dominare il disordine, ancor più negli spiriti che nelle cose. Cupio dissolvi: questa pare l'insegna della follia dominante.

Quando noi parliamo della Repubblica, pensiamo a una grande Italia unita, libera e democratica, a una Italia forte perché indivisibile. Ringrazio l'onorevole Togliatti di avere avuto il coraggio di dire, dal primo momento, che bisognava opporsi ad ogni cosa che dividesse l'Italia. Io spero che egli non solo sia fermo in questo proposito, ma che spieghi in questo senso tutta la sua autorità. L'Italia non vivrà, se non sarà unita.

Noi dobbiamo dare all'Italia profondo senso di unità. Se no, l'Italia andrà in rovina.

Non abbiamo politica interna. Conoscete la situazione.

Non abbiamo politica estera: si sono commessi tutti gli errori e si sono date tutte le illusioni. Non abbiamo avuto seria politica finanziaria. Vi è stata e vi è continua imprevidenza e dissipazione. Anche ora si fanno nascere illusioni fatue circa aiuti che non verranno se non in minime proporzioni e a condizioni ben determinate. Non discutiamo mai seriamente le sole cose che dovremmo discutere, né diciamo mai le sole cose che dovremmo dire.

Vi pare che la politica dei partiti o le piccole controversie siano cose così interessanti da assorbirci intieramente ora che si tratta della nostra esistenza?

Mettiamoci di fronte alla realtà, con la volontà di restaurare sopra tutto la unione e la disciplina.

Non vi meravigliate che un uomo come me, vecchio e provato da tutti i dolori, abbia ancora fede nell'Italia e nella sua resurrezione.

L'Italia si deve salvare essa stessa con uno sforzo di volontà, di unione, di libertà. L'Italia deve risorgere; ma deve risorgere col proprio sforzo. E se questa Repubblica deve vivere, come credo e spero, non la dobbiamo profanare fin dal primo momento mentendo alla realtà e diffondendo speranze fallaci e non realizzabili.

Non ho illusioni, non sono, dopo tanti dolori e tante amarezze, facile alla commozione. Ho troppo sofferto per tollerare l'inganno e amare gli equivoci, ed affermo che, senza una fiamma di italianità, non si creerà mai più nulla; e che, se noi dovremo vincere le dure prove che ci attendono, le vinceremo solo obbedendo ad un ideale, di unione e di ricostruzione nazionale. Dovremmo difenderla con tutta l'anima in uno sforzo comune di salvezza, la nostra unione. Ma anche qui non sento parlare che di fazioni, di partiti e sopra tutto di elezioni. Anche qui, nell'aula, nei corridoi che sono vicini all'aula, l'argomento che più interessa è questo: quando si faranno le elezioni? Come si faranno le elezioni?

Io credo che per ora le elezioni decentemente non siano possibili. Forse è prevedibile che si facciano prima della primavera dell'anno prossimo. Quando esaminiamo il lavoro che bisogna compiere ancora per arrivare alle elezioni, quando esaminiamo la legislazione che è necessaria, quando esaminiamo le difficoltà materiali che si oppongono, e quando vediamo quanto ancora siamo indietro, non c'è da illudersi che le elezioni si possano far presto, come si vuole da qualcuno.

Si era parlato di elezioni a giugno. Era uno scherzo di cattivo genere. Possiamo fare anche tre sedute al giorno della nostra Assemblea, come si è detto da taluno. Sarà lavoro vano di abbrutimento (sempre dopo il coma il tetano!). A questo riguardo, io ammiro il Presidente Terracini: consentitemi di fargli sinceramente questa lode, perché ho visto raramente un uomo ancor giovane presiedere con tanta dignità e con tanto senso di responsabilità. (Vivi, generali applausi all'indirizzo del Presidente).

Pur essendo uomo di parte, egli non dimostra mai partigianeria. Ha saputo sempre essere quasi più cortese con gli avversari che con i suoi amici. Ammiro anche la facilità con la quale egli si è orientato in un'Assemblea disordinata e difficile, e la chiarezza con la quale cerca sempre di riportare le questioni alla loro vera essenza. Ma né la sua intelligenza, né la sua dirittura, né la sua chiarezza potranno far sì che qui dentro bastino due o tre sedute al giorno per concludere. Noi abbiamo ancora tali difficoltà di arrivare alla fine della Costituzione che non ci arriveremo senza sforzo e non certo nei due mesi che ci restano. Potremo fare una proroga, se una proroga sarà ancora necessaria. Una proroga può essere necessaria e giuridicamente è anche il nostro diritto.

Nenni. Non è possibile:

Nitti. Una proroga è una necessità.

Nenni. Facciamo allora un'altra Costituente.

Nitti. Questo è un argomento anche da discutere. Io non faccio alcuna proposta. Io constato una realtà. Noi non possiamo fare una Costituzione decente in poche settimane e tanto meno preparare tutto ciò che occorre per applicarla.

Non potremo ad ogni modo creare una situazione improvvisata. Abbiamo il dovere di arrivare alle elezioni in tal modo che tutto sia seriamente preparato e che le condizioni siano tali che si possa votare senza falsità e violenza. Per quanto sia spiacevole dunque, e per quanto possa non essere desiderato, noi dobbiamo, nell'interesse stesso del Paese, accettare questa dura prova e rimanere qui per lavorare seriamente. Intanto, quante vacanze abbiamo fatte? La nostra Assemblea è caratterizzata dalle vacanze. Io ho un elenco dei giorni in cui abbiamo lavorato e dei giorni in cui abbiamo oziato. Ora, bisognerà arrivare ad una situazione chiara così da sapere se vi saranno o se non vi saranno le elezioni, evitando questi stati d'animo di incertezza. Il deputato, anche il più rispettabile, pensa sempre alle elezioni: è una malattia professionale.

In poche settimane, anche con tre sedute al giorno, è difficile fare una Costituzione decente; ed è impossibile preparare ciò che è necessario a far elezioni oneste, non disordinate e tumultuose, ché se non fossero tali aggraverebbero i mali dei quali soffriamo.

Ma intanto noi dobbiamo avere la certezza che possiamo lavorare con serenità. Io, quindi, non desidero fare alcuna pressione sul vostro spirito; né fare alcuna proposta; vi chiedo di considerare quanto ho detto. Quando parlerò la prossima volta mi consentirete che vi parli della situazione (perché bisogna che finisca il fatto di non parlare mai della situazione reale). Noi dobbiamo sapere su che cosa possiamo contare, come possiamo lottare, che cosa sarà di noi, quali sacrifici ci attendono. Questi sacrifici li dobbiamo fare in buona fede, ma non dobbiamo vivere nell'incertezza e, sopra tutto, nella indeterminatezza. Io spero allora di poter parlare e dire ciò che ora non posso e che non riesco a dire, e di potere contare sulla vostra collaborazione amichevole. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. Non essendo presenti, gli onorevoli Perrone Capano, Carpano Maglioli, Bianca Bianchi, Einaudi, Medi, Terranova, Caronia e Gabrieli iscritti a parlare, si intendono decaduti dall'iscrizione a parlare.

Segue, nell'ordine, l'onorevole Delli Castelli Filomena, che è presente. Ha facoltà di parlare.

Delli Castelli Filomena. Dopo il discorso dell'onorevole Nitti, tocca a me riportarvi sulla retta via della discussione sul progetto di Costituzione col mio intervento, e di parlare soprattutto sull'articolo 23. All'onorevole Nitti che diceva non essere veramente necessario inserire nella Carta costituzionale la formulazione di principî, io oso rispondere che quando il codificatore di leggi dovrà pur procedere alle sue enunciazioni legislative, non deve lasciarsi trasportare da una sua libertà di pensiero e di concezione, ma deve pure riportarsi sempre ad una determinata affermazione di principî.

Affronto l'articolo 23 che contiene, in nuce, tutta l'essenza morale, intrinseca dell'istituto familiare, la sua posizione giuridica nei confronti dello Stato, l'opera assistenziale protettiva che questo intende svolgere per assicurare alla famiglia vita e prosperità. È stato facile rilevare, attraverso la lettura dei resoconti della prima Sottocommissione, che durante la discussione si erano formati due gruppi fra i relatori: uno di essi tendente all'applicazione precisa dei principî; l'altro, di cui, mi pare, faceva parte l'onorevole Basso, che sosteneva essere la nostra una pura affermazione ideologica di parte che non doveva assolutamente trovare posto nella Carta costituzionale. Il fatto che la definizione: «La famiglia è una società naturale» (diritto originario), per cui essa, quale società, presenta evidenti caratteri di stabilità e di funzionalità umana, con possibilità evidenti di inserirsi nel corpo sociale, urta veramente chi teme limitazioni allo Stato, che in tal caso deve riconoscere una realtà autonoma da cui è indubitabile che esso prenda le mosse, anche se poi, a sua volta, la influenza. Lo Stato, che non vuole limiti per agire in modo totale, disponendo e preordinando per un fine suo proprio le attività e la libertà dell'uomo.

All'onorevole Cevolotto poi è toccato fare sempre la parte dell'avvocato del diavolo, parte importante, direi necessaria. Egli si è preoccupato che l'estensione oltre l'individuo dell'esistenza di diritti fondamentali possa nuocere al regolare ordinamento della società. Eppure mi sembra che, dando anche uno sguardo rapido alla storia e all'evoluzione dell'istituto familiare, non ci sia da avere alcun dubbio circa l'esistenza del diritto originario familiare, che possiamo anche (tralascio di risalire alle fonti bibliche) veder attestato in quasi tutte le esposizioni di studiosi su tale materia sia italiani che stranieri.

Non sfugge certamente agli illustri colleghi, esperti e validissimi nella storia del giure, che tutti gli storici della famiglia fanno risalire, per esempio, l'originarietà al complesso patriarcale, prima costituzione familiare definita che conosciamo. Se l'onorevole Basso chiama l'articolo 23 definitorio, l'onorevole Cevolotto lo dichiara addirittura pericoloso. Aggiungiamo noi: pericoloso sì, ma per chi? Per lo Stato che vuol praticare la teoria dei cosiddetti diritti riflessi e farsi candidato lui e solo lui alla emanazione di tutte quelle norme che debbono regolare gli uomini come automi e ingranaggi della grande macchina statale, che schiaccia e annulla ogni possibile individualità? Ma mi permetto di osservare che la formulazione: «La Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l'adempimento della sua missione per la salvezza morale e la prosperità della nazione», è motivo di preoccupazione ad onorevoli colleghi; chissà cosa essi minaccerebbero se io mi permettessi di aggiungere che proprio la famiglia potrebbe essere nella nuova Carta costituzionale definita fattore preminente della saldezza morale e della prosperità nazionale, come si scandalizzerebbero se, per esempio, formulassi tutte le mie riserve su quel «ne assume la tutela, ecc.», espressione vaga che ingenera certamente perplessità per il senso di grave minorazione che essa implica e per certi pericoli in cui l'istituto tutelato può incorrere.

Infatti si è rilevato che colleghi di parte democristiana avevano sostituito alla definizione «ne tutela», «la difende»; scaturisce dunque l'osservazione che, allentatisi i saldi vincoli morali della famiglia, unità patriarcale, focolare domestico di pace e di lavoro, oasi di tranquillità, essa possa produrre del nocumento grave al vivere civile e sociale e lo Stato, sempre lo Stato onnipresente, la possa tutelare, raddrizzando ciò che di storto si è venuto a creare in essa. In che modo? Con quali mezzi? Forse con quelle assicurazioni delle condizioni economiche necessarie alla sua formazione? Forse col divorzio? No. Lo Stato credo si sbagli. Io vedo non nella tutela o nel divorzio un rimedio efficace. Ma nella lotta che veramente uno Stato consapevole, cosciente, democratico — teniamo poi conto che nel nostro caso si tratta dello Stato italiano, di un popolo cioè che conserva ancora le tradizioni ed è molto geloso del culto della famiglia — deve condurre contro tutti gli elementi che debilitano l'istituto familiare, e nel potenziamento di tutti quegli elementi positivi che lo rafforzano. Direi che l'opera dello Stato dovrebbe essere di profilassi e non di intervento diretto: prevenire; e ciò sarebbe certamente una grande meta della moderna evoluzione sociale, pur rimanendo nella più sostanziale tradizione.

Oggi che nell'Italia e nell'Europa si mette alla più dura prova il sistema democratico, io credo che solo riconcentrando sulla entità familiare tutta la speranza di formare l'uomo, il quale, come scrive Julien Benda, «può chiamarsi tale quando ha saputo formare in sé il concetto e il diritto dell'uomo, e intende rispettarlo negli altri», si può superare la prova, specie nel nostro Paese, e gettare rinnovate basi di pace e concordia nel lavoro e nella prosperità sociale. Tale uomo, così definito, così libero e così formato, solo la famiglia ce lo può donare, e solo a lei noi possiamo riconoscere pienamente questo diritto e libertà di esercitarlo nella educazione dei figli. Ma, se democratici veramente vogliamo essere, come potremo ancora noi ammettere quello stato di tutele, di protezioni indefinite, che porta in sé certamente germi di corruzione e di avventure politiche?

È vero che il dinamismo della civiltà industriale moderna porta ad esteriorizzare tutto quanto è possibile della nostra vita. E l'istituto familiare è il complesso sociale che risente di più di questo stato di cose.

Le Costituzioni moderne non fanno che prendere atto di questa realtà; solo in alcune troviamo accenni e formulazioni per la tutela — e qui veramente va bene il sostantivo — del piccolo e pur grande mondo spirituale racchiuso nella cellula familiare. La Costituzione jugoslava, per esempio, nell'articolo 26 si preoccupa subito che «il matrimonio e la famiglia sono sotto la protezione dello Stato» e le sue leggi lo regolano giuridicamente; permette — dico permette — che si possano concludere anche matrimoni religiosi; regola la posizione dei figli illegittimi, ecc. Seguono poi le leggi sulla protezione della salute, l'assistenza, la ricreazione, l'assicurazione, ecc.

Il progetto di Costituzione del partito comunista francese, schematico e breve, nell'articolo 4, ultimo comma, pone il problema della famiglia — il sostantivo veramente non vi è usato — solo dicendo che «la legge assicura la protezione della madre e dell'infanzia. Tutti i cittadini e tutte le cittadine hanno uguali diritti, ecc.». La Costituzione francese nell'articolo 24 ha la formula: «La Nazione garantisce alla famiglia le condizioni necessarie al suo libero sviluppo. La Nazione protegge ugualmente tutte le madri e tutti i bambini a mezzo di una legislazione e di istituzioni sociali appropriate».

Tutto ciò forse si crede sia possibile, quando noi sappiamo che le condizioni necessarie al libero sviluppo della famiglia altro non possono essere che pace, progresso civile nell'ordine, l'assoluta libertà di educazione, di pensiero, di parola e di culto?

Abbiamo poi, per esempio, la Costituzione russa, la quale nell'articolo 122 afferma che «alle donne sono accordati nella U.R.S.S. diritti uguali a quelli degli uomini, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale, politica e sociale». La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata alle donne accordando loro lo stesso diritto degli uomini al lavoro, al pagamento del lavoro, al riposo, all'assicurazione sociale e all'istruzione, provvedendo alla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino, accordando alle donne un congedo di maternità, nidi e giardini di infanzia.

Potremmo dare uno sguardo, ad esempio, alla nuova Costituzione giapponese, all'articolo 22 della quale è detto che il matrimonio sarà basato sul consenso reciproco di entrambi i sessi e sarà mantenuto attraverso la collaborazione reciproca sulla base di uguali diritti per il marito e per la moglie.

È pur vero che in tutte queste Costituzioni viene ammesso il divorzio: però io vorrei domandare semplicemente, senza entrare nel merito giuridico, quale di queste nazioni menzionate, all'infuori della Francia, hanno veramente avuto, durante lo svolgimento della loro vita e della storia, una concezione della famiglia così come l'ha l'Italia.

Io vorrei dire che non è mai stato affrontato in pieno da noi, in Italia, questo problema veramente interessante: educare, cioè istradare, illuminare i giovani nella loro vita prematrimoniale. È una cosa difficoltosa, lo so, per diversi e molteplici aspetti. In Italia il problema dovrebbe essere studiato con profondità di amore e profondità di scienza.

Noi sappiamo che stanno facendo progressi di tal genere l'educazione in America e in Isvizzera, che si stanno già preoccupando di istruire, educare i giovani in preparazione della loro missione di genitori: ma in Italia non può non essere ancora appannaggio, diritto e dovere della famiglia educare anche in tal senso la prole.

Qui risiede, secondo me, la sostanza del problema. Data la nostra situazione, dato che su di noi incombono altre ben gravi cose, oggi la famiglia viene ad essere depauperata della sua linfa vitale, perché la nostra vita si esteriorizza sempre più.

D'altra parte, non è possibile pensare che, specialmente tenendo conto di certe parti evolute, di certe regioni evolute, che le mamme che sono occupate oggi nella fabbrica e nell'industria, e che quindi non hanno tanto tempo da rimanere a casa e che, anche quando stanno a casa, hanno il diritto anche loro di godere di un meritato riposo, si possono preoccupare di quella che è la maturità, l'evoluzione dell'adolescenza che si avvia attraverso studi fisici e spirituali alla giovinezza e s'inserirà poi nella vita sociale e politica.

Noi dobbiamo pensare anche ad una cosa, che, nella nostra Patria, non tutti i giovani di tutta l'Italia vivono sul piano di attivismo e dinamismo sociale. E penso che, anche sotto questo punto di vista, lo sviluppo della psicologia soprattutto debba perseguirsi.

Il voler dare la possibilità del divorzio significherebbe per noi incorrere certamente in una forma di demagogia, poiché proprio come demagogia politica esso fa presa sulle masse ignoranti e lontane dal criticare e dal porsi delicatissime questioni di politica; così, la maggioranza degli uomini e delle donne in Italia, con quella leggerezza di cui l'onorevole Nitti si faceva eco, trattando altri problemi che a questo si accostano, potrebbero vedere, accettare, la legge del divorzio.

Il divorzio è una cosa complessa, e certo non è una cosa così facile da affrontarsi e risolversi, né credo si illuminino in Assemblea certi punti salienti della questione.

Noi sappiamo che, quando è avvenuta questa, diciamo, evoluzione, di volersi togliere dai legami imperativi del matrimonio, non c'è altra legge che quella di Condorcet: considerare, cioè, il matrimonio come un contratto civile.

Lo sconquasso della guerra — l'ha ricordato la collega Spano — ha influito su tutto il mondo e le pagine che io ho letto di sopravvissuti ai campi di concentramento in Germania ed altrove dicono che l'ansia, il dolore, la nostalgia, soprattutto della famiglia, era quella che prendeva più l'anima dei derelitti segnati col numero e destinati, nella forma di collettivismo coatto, al progressivo annientamento.

I nazi tedeschi, liberi dai cosiddetti preconcetti vincolativi della religione cattolica, non potevano né indulgere, né comprendere il dolore per la famiglia, il più cocente e il più pressante, dei poveri disgraziati di Auschwitz o di Dachau, perché essi, nazi, erano freddi e liberi dai vincoli stessi del matrimonio religioso.

Nel franamento di tutti gli istituti statali, in Italia, durante l'occupazione, la famiglia finalmente riassume in pieno la sua funzione di vero istituto sociale; è nella famiglia che noi vediamo ricollegarsi i dispersi; è nella famiglia l'animazione per i dubbiosi, il ricovero per i prigionieri fuggitivi, la cospirazione per la liberazione.

Gli Stati, nella loro evoluzione, sorgono, crollano, mutano. La famiglia per noi è la piccola fortezza di libertà che rimane.

E, onorevoli colleghi, se riconosciamo non esservi oggi adeguati mezzi materiali per ovviare a tutti gli inconvenienti e ai pericoli della immaturità, della impreparazione, della diffidenza dei giovani verso il matrimonio, non possiamo noi votare per il divorzio. È la maggiore calamità per la famiglia italiana e se noi comprendiamo tutti gli stati angosciosi dei reduci tornati e delusi di ritrovare le loro compagne nelle case di altri o che hanno formato altre case, dei malati, dei tubercolotici, dei carcerati, noi pensiamo che la maggioranza degli italiani deve essere tutelata con l'indispensabilità riconosciuta del matrimonio sacramentale.

Sinceramente non possiamo non comprendere quella che è la posizione morale e spirituale di questi disgraziati che, nella loro prigionia, che nei loro campi di concentramento, che nella guerra hanno voluto ricongiungersi alle più care cose della Patria attraverso il sentimento familiare.

Ma certo io devo concludere, perché altri colleghi più degnamente e con maggiore competenza giuridica e maggiore esperienza dibatteranno la questione, io devo sinceramente concludere, augurandomi che il nuovo Stato democratico italiano, nei confronti della famiglia, svolga la sua politica in armonia con la tradizione sociale morale e giuridica che è insita nel popolo stesso d'Italia. (Applausi Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18,10, è ripresa alle 18,30).

Presidente Terracini. Non essendo presenti gli onorevoli Cortese, Monticelli, Gui, Schiavetti e Targetti, iscritti a parlare, si intende che vi abbiano rinunziato. È iscritto a parlare l'onorevole Silipo. Ne ha facoltà.

Silipo. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, sarò attico nello stile e, se non sogno di raggiungere, nemmeno in piccolissima parte, l'elevatezza dell'ultimo degli oratori attici, spero almeno di eguagliarli nella brevità. Troppe parole si sono dette, spesso fuori di proposito e che, in ogni caso non avevano alcuna attinenza con l'argomento, e perciò mi voglio augurare che questa mia decisione giovi a noi e ai lavori. Mantenendomi così nei trenta minuti regolamentari, si guadagnerà tempo con vantaggio di tutti.

D'altra parte l'importanza degli articoli che stiamo discutendo è tale che non dovrebbe permettere ad alcuno di lasciarsi dominare da preoccupazioni diverse da quelle che non siano determinate dalla volontà di dare solide basi ai rapporti etico-sociali; dovrebbe essere monito severo a chi, sotto la maschera della democrazia, vorrebbe in realtà imprigionare la nascente Repubblica italiana nelle pastoie di un passato che è morto, ma che, pur morto, ostacola la marcia in avanti di un popolo intero, bisognoso di tutto, in modo particolare di una effettiva giustizia sociale, di quella giustizia sociale, della quale sempre si è parlato, ma che non è stata mai realizzata.

Famiglia e scuola: le colonne di volta della società. Mi occuperò soltanto della seconda, perché altri, più competenti e più qualificati di me, con acutezza d'ingegno e serietà di propositi, si sono già occupati della prima ed altri ancora se ne occuperanno.

Nei riguardi della scuola dirò anzitutto che, riproponendosi alla democrazia italiana, per mezzo della Costituente, le questioni fondamentali della vita nazionale, il problema dell'educazione e dell'istruzione appare in tutta la sua gravità ed urgenza.

Uscita da una guerra disastrosa, dopo un ventennale periodo di oppressione e di depressione di tutti i valori umani, diradatasi infine la caligine della barbarie medioevale in cui la violenza predominò col terrore, la Nazione non vide intorno a sé altro che rovine: rovine materiali e morali; si trovò più che disorientata, smarrita.

Triste la sorte della scuola.

Negli anni della dittatura essa fu offesa, sconvolta; la sua funzione sociale misconosciuta, la moralità del sapere distrutta, di anno in anno fu sottoposta ad una legislazione tumultuosamente caotica, con modifiche su modifiche e modifiche alle modifiche, con una ridda sfrenata di disposizioni, di decreti-legge, di leggi, non di rado in contraddizione tra di loro. Né è cosa da far meraviglia, mancando al passato regime ogni controllo da parte del popolo, il potere diretto ed indiretto di legiferare non conosceva limiti, non aveva freni, per cui il bisogno continuo di ricorrere ad emendamenti, a correzioni, a nuove leggi. Abbiamo forse dimenticato che il Ministero dell'istruzione passò per le mani di ben dodici Ministri, di indirizzo ideologico diverso, non tutti competenti e sufficientemente preparati al delicato compito di presiedere all'educazione del popolo? Abbiamo forse dimenticato che le scuole elementari sono passate per le mani di otto direttori generali, anch'essi non sempre competenti, dandosi durante il fascismo cariche ed incarichi non ai più preparati, ma ai benemeriti del partito?

A dare il colpo di grazia ad un edificio già traballante sono sopraggiunti la guerra e il dopoguerra con la distruzione di edifici e di attrezzature scolastiche, col turbamento degli spiriti di insegnanti ed alunni.

Ora tutto è da fare ex novo.

Come?

Tenaci assertori delle libertà democratiche, noi siamo per la libertà di insegnamento, e non solo per motivi contingenti, quali la lotta contro l'analfabetismo, che per forza di cose ha fatto progressi nel periodo della guerra e del dopoguerra, ed il bisogno di ristabilire il corso di studi dei combattenti e reduci, disorientati e nel tormentoso bisogno di veder chiusa per essi la non breve parentesi, durante la quale furono sottratti a qualsiasi umana attività e gettati nelle braccia del Moloch della guerra dalla volontà ebbra dei moderni Neroni della politica; ma anche perché la riteniamo una necessità dello spirito.

Il fatto però che riconosciamo la libertà di insegnamento non implica esclusione di controllo o limite da parte dello Stato, appunto perché non dimentichiamo che l'assenza di ogni controllo può far degenerare — ed il fascismo fece degenerare col concedere autorizzazioni su autorizzazioni a chi meglio pagava per ottenerle, ad intriganti ed affaristi d'ogni specie — la libertà di insegnamento privato in speculazione sfrenata.

Sentiamo quindi la necessità di un controllo severo ed oculato.

Questa necessità del resto è generalmente sentita e si manifesta evidente in quasi tutte le Costituzioni contemporanee, nelle quali, più o meno, appare accentuato il bisogno dello Stato di disciplinare e controllare il processo educativo del popolo, non per impedirne il libero sviluppo, ma le deformazioni e le degenerazioni, che sarebbero la fatale conseguenza di una malintesa libertà, di una falsa libertà d'insegnamento, che consisterebbe nel permettere a determinati aggruppamenti sociali o, se volete, pseudo-etici, d'insegnare non tutto quello che serve all'armonico sviluppo delle facoltà dell'intelletto e del cuore, ma soltanto quello che potrebbe servire ai loro fini particolaristici ed egoistici, con la conseguenza di trasformare gli educandi in automi che vedrebbero, direbbero, penserebbero, farebbero quello che si vorrebbe che essi vedessero, dicessero, pensassero, facessero.

Falsa educazione, o, meglio, ineducazione, con le conseguenze che le sono proprie: intolleranza settaria da una parte e presunzione dall'altra: quanto basta cioè per spingere un popolo sulla china rovinosa della decadenza.

Se mi fosse lecito un paragone, io paragonerei questo modo di concepire la libertà di insegnamento al metodo seguito dai compilatori di antologie, nelle quali molto difficilmente uno scrittore appare per quello che veramente è e vale, quasi sempre invece come ce lo vuol far vedere e valutare il compilatore stesso, secondo i suoi gusti e secondo le sue tendenze.

A questo punto mi si potrebbe muovere un'obiezione, che però apparirà subito superficiale. Mi si potrebbe dire: un'educazione esclusivamente statale non apporterebbe le stesse conseguenze che tu attribuisci ad un'ampia libertà d'insegnamento, come si è potuto constatare durante l'infausto regime fascista?

Anzitutto, quando parlo di rigoroso controllo statale, non intendo già dire che dovrebbero esistere soltanto scuole di Stato. Io non sono contro la libertà d'insegnamento, ma contro le possibili degenerazioni di questa e che queste siano possibili è una constatazione, dolorosa quanto si vuole, ma che ha una base nella realtà delle cose. In secondo luogo, il fascismo fu dittatoriale e tirannico e in un regime dittatoriale e tirannico non esiste libertà, ma arbitrio, oppressione, sopraffazione, per cui anche la scuola — e non può essere diversamente — è sopraffatta, oppressa, asservita: in un regime dittatoriale non si vogliono uomini liberi e coscienti, ma schiavi. Noi invece, oggi, viviamo nell'Italia repubblicana e democratica, stiamo preparando la Costituzione di un popolo risorto a libertà e perciò dobbiamo difendere questa contro i tentativi di coloro che, proprio in suo nome, vorrebbero comprimerla ed annientarla.

È questa volontà di difenderla che ci rende cauti e preoccupati: mentre lo Stato, democratico, nella forma e nella sostanza, è garanzia che nessun abuso può essere commesso contro la personalità umana nel suo processo educativo, la stessa garanzia ci viene offerta dalla scuola privata, nella quale predominano molto spesso — per non dire sempre — interessi che non sono quelli peculiari dell'educazione?

È questo l'interrogativo che ci rende esitanti e dubbiosi.

Dicevo in precedenza che in quasi tutte le Costituzioni contemporanee si nota una certa diffidenza verso la scuola privata. Difatti, ad eccezione di quanto è detto riguardo alla educazione nel progetto di Costituzione giapponese del 1946, nel qual progetto, all'articolo 21, si parla della libertà di insegnamento — l'articolo suona testualmente così: «La libertà di insegnamento è garantita», e non contiene alcun accenno a controllo o a qualsiasi altra forma d'intervento statale — sia in quella di Weimar del 1919, sia in quella sovietica del 1936, sia in quella francese del 1946, lo Stato ha una posizione predominante in materia. In quella di Weimar, per esempio, è lo Stato che si assume l'obbligo di provvedere all'educazione dei giovani mediante istituti pubblici; è esso che cura la formazione di insegnanti in modo uniforme, controlla il complesso dell'ordinamento scolastico (articoli 142, 143, 144), e, se riconosce la possibilità dell'istituzione di scuole private secondarie, prescrive che ci deve essere l'autorizzazione dello Stato, che la rilascia a condizione che esse diano le necessarie garanzie relativamente ai programmi, all'organizzazione, al trattamento economico e giuridico degli insegnanti. Lo stesso dicasi di quella sovietica, nella quale si stabilisce che la scuola viene fondata, mantenuta e diretta dallo Stato con la collaborazione delle organizzazioni dei lavoratori e delle famiglie degli alunni. In quella francese l'organizzazione dell'insegnamento di ogni grado è considerata come dovere dello Stato (articolo 25). Perfino nell'Inghilterra, che si vanta — non vogliamo dire con quanta ragione — di essere la patria di tutte le libertà, s'è sentito il bisogno, nel 1944, di creare con l'Education Act un vero e proprio Ministero dell'educazione, onde porre fine alla situazione abbastanza caotica dell'istruzione secondaria. Negli Stati Uniti soltanto manca una organizzazione centrale e ogni Stato della Confederazione ha un ordinamento proprio, con il risultato che in alcuni Stati l'organizzazione presenta un accentramento notevole, in altri invece il decentramento è massimo, sino al punto che ogni città, ogni villaggio elegge la sua autorità scolastica, per cui le differenze fra scuola e scuola sono molto rilevanti.

Ma l'organizzazione scolastica statunitense, per gli effetti che produce, non è tale da suscitare entusiasmo e desiderio d'imitazione in alcuno (questa considerazione dovremo tenere presente, allorché, parlando delle autonomie regionali, discuteremo l'articolo 111).

Tutto quanto è detto, non è stato detto per fare sfoggio di varia erudizione, ma perché noi, al lume dell'esperienza degli altri popoli, possiamo evitare eventuali errori e usufruire di sicuri vantaggi: evitare errori che, se sono in tutti i campi nocivi, lo sono molto di più allorché si tratta di formare la mente e lo spirito dei giovani, cioè della Nazione intera; usufruire dei vantaggi che agevoleranno l'avanzare della medesima nel progresso e nella civiltà.

Una sola preoccupazione ci deve animare nel fissare le norme costituzionali relative alla scuola: quella di garantire ai giovani un'educazione che, nel pieno rispetto della libertà umana, li sottrae a qualsiasi influenza settaria o confessionale, la quale deformerebbe, non formerebbe le loro coscienze. Questo deve assicurare e garantire ogni buona Costituzione.

La nostra, ora, risponde in pieno a questa esigenza da tutti sentita?

Dinanzi a questo interrogativo resto esitante, incerto, perché, se, senza dubbio, negli articoli 27 e 28 del progetto vi sono aspetti positivi e confortevoli, ve ne sono altri, diciamo così, ambigui, prodotti dal desiderio, non espresso ma facilmente intuibile nella forma in cui sono stati compilati gli articoli, di servirsi della libertà che la Repubblica dovrebbe concedere alla scuola privata a scopo di personale dominio delle coscienze. Per esempio, durante la discussione, quel persistere da parte di alcune forze politiche ad accentuare i danni di una statizzazione totale delle scuole — danni spesso ipotetici ed irreali in una Repubblica democratica; quel passare ostinatamente e volutamente sotto silenzio quelli non ipotetici e reali delle scuole private e parificate, svelano la preoccupazione di un accaparramento della istruzione, il desiderio di sfruttare lo Stato, pretendendo impegni — anche di carattere finanziario — da parte di questo, senza una necessaria o, comunque, non adeguata contropartita. E, come il fascismo si servì della libertà contro la libertà, così temiamo che alcuni enti ed individui finiscano col servirsi della libertà d'insegnamento proprio contro di questa, se non siano ben nettamente fissati nella Costituzione i limiti di questa e il diritto allo Stato d'intervenire con i suoi organi di controllo in tutte le scuole ed istituti privati — e parificati — intervento nei modi che saranno dalla legge prescritti.

Ed ancora: in quest'aula ho sentito ripetere con insistenza il tema del diritto dei genitori ad educare i figli come vogliono, il tema del diritto di scegliere per essi le scuole e gli educatori. Diritto giusto ed onesto, anche se non riusciamo a comprendere il perché si dovrebbe nutrire sfiducia verso le scuole statali di una Repubblica democratica; ma fino a questo momento non ho sentito alcuno parlare del diritto degli educandi a vedere rispettata la propria personalità.

E sarebbe ora che se ne parlasse!

Sono queste considerazioni ed altre ancora che, per brevità, tralascio che mi rendono esitante e dubbioso.

D'altra parte a me sembra che nel progetto di Costituzione ci sia troppa materia legislativa. È una Costituzione che dobbiamo dare all'Italia o una legislazione? Dobbiamo dettare norme costituzionali o leggi?

In materia scolastica, quando in una Costituzione si afferma il diritto effettivo del cittadino alla istruzione e la libertà d'insegnamento, quando si assegnano allo Stato i compiti di dettare le norme generali sull'istruzione, di organizzare le scuole statali, di vigilare in quelle non statali, di assicurare parità di trattamento per mezzo di esami agli alunni da qualsiasi tipo di scuola provengano, a me pare che sia sufficiente per una Costituzione, essendo tutto il resto materia di legislazione ordinaria.

Invece no: ci si affanna a distinguere tra le scuole che chiedono la parificazione e quelle che non la chiedono, ad elencare le provvidenze per i meritevoli, cose che appesantiscono la struttura costituzionale con elementi contingenti e danno il carattere di ieratica immobilità a quello che invece può essere soggetto a trasformarsi col tempo.

E mentre gli articoli 27 e 28 si esauriscono, in parte, in elencazioni, non appare che essi assicurino in maniera concreta e sufficiente, per il conferimento dei titoli legali di studio, il controllo dello Stato e dei suoi organi di vigilanza nelle scuole parificate, la capacità didattica del corpo insegnante e la sua indipendenza nei confronti degli amministratori o proprietari delle scuole private. Ora bisogna porre bene in rilievo che la parità delle condizioni didattiche è la premessa necessaria non solo per l'eguale trattamento degli alunni, ma anche per la parificazione dell'istituto.

A queste deficienze e agli eccessi accennati, bisogna pur riparare e ne parleremo in sede di emendamenti; qui intendiamo affermare che bisogna stare in guardia contro qualsiasi tentativo di asservire le coscienze, che bisogna salvaguardare la personalità umana nel pieno rispetto della libertà dell'educando — e non solo di quella dei genitori — che bisogna assolutamente impedire che l'educazione si trasformi in speculazione per asservire le menti e gli spiriti, perché, se è vero che l'analfabetismo è uno dei quattro cavalieri della Apocalisse — essendo esso uno dei peggiori nemici della libertà, e noi del Mezzogiorno ben lo sappiamo — non è men vero che una mente ed un cuore, deformati da un'educazione settaria, costituiscano una delle più gravi piaghe sociali, e come il primo fornì al Cardinale Ruffo le orde da scagliare contro gli eroi del forte di Vigliena e di tutta la Repubblica napoletana del 1799, così una gioventù, asservita nella mente e nello spirito, potrebbe fornire domani altre orde, altrettanto pericolose, a chi nutrisse vaghezza di attentare ancora una volta alla libertà del popolo italiano. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Terracini. Non essendo presenti gli onorevoli Lettieri e Spallicci, iscritti a parlare, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l'onorevole Bernini. Ne ha facoltà.

Bernini. Onorevoli colleghi, volge alla fine questa faticosa giornata, come appare dal numero dei presenti e cercherò, quindi, di essere più breve che sia possibile. Non mi pare che, malgrado l'autorevole intervento di alcuni valorosi colleghi, malgrado gli accenni di parecchi altri, il problema della scuola abbia occupato un notevole tempo nei lavori della nostra Assemblea, o almeno non ne abbia occupato in proporzione all'importanza dell'argomento.

L'attenzione del pubblico è stata rivolta verso la scuola in questi giorni, soprattutto da penose e dolorose manifestazioni recenti, le quali dimostrano un profondo disagio di carattere non solo economico, ma anche morale, disagio che potrà essere sì attenuato temporaneamente con provvidenze immediate, ma che certamente ha radici troppo profonde per poter essere curato in questo momento. Eppure io credo che noi tutti siamo d'accordo sul principio che l'educazione e l'istruzione sono la base e il fondamento di ogni vera civiltà umana e tanto più una civiltà quale noi socialisti l'intendiamo, una civiltà che non sia fatta dalle minoranze, ma che sia fatta dal popolo tutto.

Spero, quindi, che, per quanto sia modesta la mia persona e modestissima la mia autorità, voi vorrete, di qualunque parte siate e a qualunque partito apparteniate, ascoltarmi benevolmente, quando io rivolgerò la mia attenzione solo ed esclusivamente su questi due articoli: l'articolo 27 e l'articolo 28 del progetto di Costituzione.

Quali sono i principî fondamentali di questi due articoli? Sono cinque. Il primo, se non nuovo, se non formulato mai in Italia, è profondamente maturo per lo spirito nostro, ed è questo: «L'arte e la scienza sono libere e libero è il loro insegnamento»; il secondo attribuisce allo Stato non già il compito di istruzione, ma quello di determinarne le norme generali; il terzo stabilisce che la scuola privata sia soggetta soltanto alle norme del diritto comune, cioè non sia sottoposta ad alcun controllo da parte dello Stato; il quarto stabilisce che la scuola privata parificata, cioè la scuola privata sottoposta a vigilanza didattica da parte dello Stato, si trovi sullo stesso piano della scuola pubblica — il che, se non sbaglio, significa anche che questa scuola deve essere mantenuta dallo Stato, come la scuola pubblica; il quinto, l'unico principio veramente nuovo e rivoluzionario, stabilisce che i capaci, i meritevoli, anche se privi di mezzi, possono raggiungere i più alti gradi dell'istruzione.

Credo che sia constatazione perfettamente obiettiva la seguente: che in tal modo si conferiscono alla scuola privata, per la prima volta in Italia, diritti quali non si poteva maggiori. Infatti, secondo tali principî, le scuole private o sono perfettamente pari, ad ogni effetto, alle scuole pubbliche, o sono esenti da ogni controllo da parte dello Stato.

Riconosco che i principî di questi articoli non hanno suscitato le diffidenze, le reazioni, le proteste, le discussioni che avrebbero suscitato un tempo, per esempio trent'anni fa. Certuni troveranno una spiegazione nel rinnovato clima politico e sociale dei nostri tempi; io credo invece che la ragione vera e profonda di questa mancata reazione, stia nel fatto che tale reazione al potere dello Stato nel campo della scuola, in nome dei diritti dell'individuo, sia come una reazione al fascismo. Come voi sapete — non ho bisogno di insegnarlo a voi, onorevoli colleghi — secondo il fascismo, la politica era la vita dello Stato nell'individuo; per il medesimo principio la libertà non era nell'individuo, era nello Stato; lo Stato come organismo autonomo, etico, aveva in sé autorità su tutto e su tutti. Lo spettro del fascismo è ancora presente, e poiché il fascismo aveva tutto attribuito allo Stato, così, per una reazione naturale, ma eccessiva, ora si tende a togliere tutto allo Stato, in nome del diritto di libertà. Non si pensa abbastanza che oggi lo Stato non è più lo Stato fascista, ma è lo Stato democratico. E per di più c'è un'altra ragione: si confonde lo Stato con la burocrazia. Ora, noi che veniamo dalla provincia, sappiamo tutti che non c'è nulla di più impopolare in Italia della burocrazia, che ne è l'organo, e di questa Roma, la capitale della burocrazia. Sono certo immensi i mali dell'elefantiasi burocratica, dell'accentramento amministrativo, ma siamo sinceri: alla burocrazia, a Roma, capitale della burocrazia, si attribuiscono tutti i mali, anche quelli che noi portiamo in noi, quei mali che contribuiscono a rendere la burocrazia ciò che essa è.

Poi ci sono le cause più remote di questo antistatalismo, che si vuole identificare con l'antiburocrazia.

Peccato che mi manchi il tempo per esaminare queste cause! Se questa non fosse un'Assemblea politica, sarebbe esame tutt'altro che inutile.

Prima è il campanilismo — detto un giorno, con parola più nobile, municipalismo — vivo in ogni tempo presso gli italiani e rincruditosi straordinariamente, soprattutto nelle classi sociali e nelle regioni politicamente più immature, in questo dopo guerra. La storia si ripete. Già caduto Napoleone, si reagì violentemente contro lo spirito unitario che questi ci aveva imposto. Allora, voi lo ricordate, il Foscolo satireggiò l'aria dei nuovi tempi, con il famoso epigramma contro il «sincero milanese» divenuto «Nemico nato d'ogni maledetto — forestiero italiano — che ci consuma l'aria del paese».

Confluiscono insieme al municipalismo parecchie correnti politicamente inquiete: l'individualismo romantico, il razionalismo religioso e il cattolicismo liberale dell'800 francese, il liberalismo astratto e, più recente, il sindacalismo soreliano e il nazionalismo. Sicuro, anche il nazionalismo — che noi vedemmo qui nella sua attività pratica, statalista e burocratica — il nazionalismo francese di Barrés e di Maurras, fu antistatale, regionalista e decentratore. Barrés chiamò il re presidente delle Repubbliche francesi.

Ma sopratutto si accordano in questo — chi l'avrebbe detto? — le due grandi correnti regionaliste e autonomiste del nostro Risorgimento, figlie di pensiero avverso e inconciliabile quanto altri mai, la repubblicana e la cattolica, sconfitte entrambe dall'unitarismo di Cavour, nel 1861. Da una parte, Rosmini e Gioberti; dall'altra, Ferrari e Cattaneo.

Ma lasciamo stare. Vero è che, se il pensiero cattolico è riuscito a permeare di sé una parte notevole della Costituzione, in particolare è riuscito a far prevalere tutti i suoi principî negli articoli 27 e 28.

Si potranno magari giudicare ottimi tali principî, non si potrà negare la verità di tale affermazione.

Credo d'avere sufficiente conoscenza del pensiero cattolico in materia scolastica per poterla fare.

Chi eventualmente neghi tale prevalenza assoluta, è pregato di precisare quale dei postulati fondamentali del pensiero cattolico vi è stato pretermesso.

È principio generale, in ogni negoziato, che si chieda di più, per ottenere meno. Ma in questo campo è stupefacente come i colleghi democristiani abbiano ottenuto, alla fine della discussione, molto di più di quanto chiedessero in partenza.

Chi voglia persuadersene, confronti gli articoli proposti nella sua acuta relazione dal collega onorevole Moro, Relatore della prima Sottocommissione, con gli articoli definitivamente approvati.

Osservi come gli articoli, passando da una stesura all'altra, divenissero sempre più favorevoli alla tesi democristiana.

Si confronti la prima formula votata all'unanimità, dico all'unanimità, dalla prima Sottocommissione, relativa alla funzione dello Stato in materia di istruzione. È questa: «L'istruzione primaria, media e superiore, è fra le precise funzioni dello Stato». L'ultima formula è: «La Repubblica detta le norme generali dell'istruzione».

Dal confronto, potete trarre delle illazioni molto facili.

Si osservi il terzo comma dell'articolo 27:

«Le scuole che non chiedono la parificazione sono soggette soltanto alle norme per la tutela del diritto comune e della morale pubblica».

Questo terzo comma compare per la prima volta nell'ultima stesura della Sottocommissione di coordinamento.

Ma esaminiamo piuttosto gli articoli nel loro complesso. La critica delle singole parti la faremo semmai in sede di emendamenti.

Taluni hanno affermato che questi articoli sono il risultato di un compromesso. A me non pare se, per compromesso, deve essere inteso quel senso di reciproca, di leale comprensione, di cui ha già parlato acutamente l'onorevole Togliatti.

A me pare che il compromesso, se c'è stato, c'è stato in senso deteriore, cioè nel senso che consiste nell'equivoco.

Infatti noi troviamo abbastanza equivoca la definizione dei compiti dello Stato: «La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione; organizza la scuola, ecc.». In virtù di quale principio? E perché la Repubblica e non lo Stato?

Ed ancora più equivoca è la forma del comma quarto dell'articolo 27, laddove si parla di «parità di trattamento agli alunni a parità di condizioni didattiche». Che vuol dire? Ciò, secondo numerosissime pubblicazioni cattoliche, che io posso esibire a chiunque di voi colleghi si rivolga a me, ciò non può significare che questo, che lo Stato manterrà le scuole private come quelle pubbliche, o peggio ancora contribuirà alle spese di ogni alunno privato, così come contribuisce alle spese di ogni alunno delle scuole pubbliche.

L'onorevole Colonnetti, nel suo discorso onesto, sereno, leale, sincero, senza ambagi di carattere giuridico, lo ha implicitamente ammesso. Qualche altro lo ha negato. Ora chi è autentico interprete, fra gli uni e gli altri?

Molti oratori hanno censurato la tendenza del progetto di Costituzione a invadere il campo costituzionale, con norme puramente Legislative. Ma questo difetto, se c'è nelle altre parti, c'è soprattutto in questo articolo.

In una Carta destinata a vivere, come ci auguriamo, molti anni e secoli, si è fissato l'esame di Stato, si è preteso di pietrificare istituti di incerta natura e carattere e definizione assolutamente impossibili giuridicamente, introdotti in parte recentemente, legati a particolari contingenze. Da qui vengono tutte le inesattezze e le incertezze.

Né con questo, onorevoli colleghi democristiani, io intendo farvi una censura; lo dico con tutta sincerità. Voi siete stati degli abili combattenti, avete combattuto per le vostre idee e di questo voi dovete essere soddisfatti. Io riconosco, e lo riconosco sinceramente, la perfetta vitalità d'un pensiero come il vostro, il quale ha saputo rimanere sostanzialmente immutato attraverso tanti secoli, il quale si è saputo adattare alle varie diverse circostanze, sapendo prendere dagli altri pensieri tutto ciò che vi era di meglio in Italia.

Naturalmente, noi sosterremo invece nel campo istituzionale la tesi opposta. Poi discuteremo tutti gli articoli e tutti gli emendamenti, cercando di essere, per quanto possibile, obiettivi e non settari e speriamo che anche i colleghi dell'altra parte ci seguiranno.

Vorremmo però che, in sede di polemica fra voi e noi, la questione non si ponesse in questo modo: da una parte gli statolatri democratici, dall'altra i cattolici zelatori della libertà. Anche quelli di noi che pongono un particolare accento su questo argomento, sanno bene che in una società progredita le istituzioni scolastiche tendono il più possibile a svincolarsi dalla dipendenza dello Stato, ma lo Stato rimane l'unico tutore, garante della libertà, quando le istituzioni scolastiche non danno piena garanzia di libertà e di indipendenza. Noi affermiamo la libertà, la perfetta libertà di insegnamento nello stesso identico modo con cui affermiamo la libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Riconosciamo ad ognuno il diritto di aprire delle scuole.

E permettetemi un'altra brevissima divagazione storica. Non è vero, neppure in sede storica, che ci sia antitesi fra la democrazia cosiddetta laica e la libertà d'insegnamento. È vero l'opposto. Certo, anche nella democrazia ci fu la tendenza giacobina. È vero che Danton disse «L'enfant est à la République», è vero che Robespierre fece un progetto di legge per cui i francesi erano trattati da Spartiati, e c'erano non scuole, ma conventi di Stato.

Ma Condorcet affermò il diritto di libertà all'insegnamento. Condorcet diceva che i diritti dello Stato si devono conciliare con i diritti naturali della persona umana e della famiglia. Voi vedete in questo, ripetuta presso a poco, la formula cara ai pensatori cattolici. La libertà d'insegnamento fu proclamata dalla Convenzione del 1793 e poi fu ancora proclamata nel 1830, dopo la caduta dei Borboni, e poi ancora nel 1848.

Nel 1848 l'Assemblea nazionale votò un articolo che comincia così: «L'enseignement est libre». Vedete presso a poco la stessa formula che abbiamo ripetuto noi.

E veniamo all'Italia. I principî della legge Casati del 13 novembre 1859 sono ispirati ad un completo spirito di libertà. Per la prima volta in vita mia ho sentito dire, in questa aula, (veramente non l'ho sentito dire, ma l'ho letto nei giornali) dal nostro collega onorevole Tumminelli che la legge Casati è animata da spirito totalitario.

Nel 1907, voci autorevolissime si alzano al Congresso degli insegnanti delle Scuole medie, per dichiarare che la libertà d'insegnamento deve essere affermata come una libertà elementare. La stessa riforma Gentile del 1923 è una riforma di tipo democratico e liberale: è figlia di uno spirito di libertà. L'ha detto altra volta il nostro collega onorevole Preti. Si stupirà di tale affermazione solo chi pensi al Gentile di poi, apologeta e teorico del fascismo, ma ignori che la Riforma Gentile fu il risultato di una lunga elaborazione anteriore, di carattere liberale. Il fascismo, se mai, sciupò, al solito, un principio giusto e nuovo. Ed è tanto vero ciò, che la riforma fu, dopo, attenuata e snaturata, finché fu poi soppressa.

In Francia, dopo la liberazione (e questo è meno noto) la cosiddetta Commissione Philip, presieduta da Andrè Philip, che è un socialista, arrivò perfino a proporre sovvenzioni alle scuole private, ma dopo che si fosse assicurata una ripartizione geografica delle scuole, corrispondente ai bisogni reali delle popolazioni.

Questo dimostra — me lo permetta il collega onorevole Dossetti — che il popolo francese, in tale materia, non è arretrato di 40 anni.

Su che si fonda questo diritto alla libertà dell'insegnamento e della scuola, postulato dal pensiero cattolico?

Come s'è già detto, un tempo poggiava quasi esclusivamente sul diritto della famiglia, diritto considerato nativo e inalienabile, superiore a ogni altro diritto.

Sulla famiglia società naturale s'è già rivolta la critica di parecchi. Non mi soffermerò dunque sull'argomento.

Ora il pensiero cattolico prende piuttosto come fondamento il diritto dell'individuo all'educazione, presso a poco come lo faceva il Condorcet.

Tale pensiero è fondamentale, se non erro, nella relazione del collega onorevole Moro.

Secondo il collega onorevole Moro — cito il testo preciso — l'educazione va intesa «come sviluppo progressivo della personalità umana».

Il diritto del fanciullo «è un diritto che spetta in proprio al fanciullo come uomo in fieri, senza che questa incompleta formazione devii verso terzi, famiglia o Stato, la sua titolarità». (Approvazioni).

Sennonché, perché il diritto del fanciullo sia veramente tale, non deve coincidere con nessun altro diritto:

non con il diritto della famiglia;

non con il diritto della Chiesa;

non con il diritto dello Stato.

Se no, è evidente che s'annullerebbe in essi. Questo è il punto.

Del bambino non si può disporre come d'un bene senza possessore. Non può disporne lo Stato, come l'ha voluto per un istante la Convenzione. Ma neppure può disporne interamente la famiglia, non la Chiesa, perché il bambino è soprattutto se stesso.

A chi dunque spetta la scelta del maestro: allo Stato o alla famiglia?

La famiglia dice: questo ragazzo è mio, perché nato da me, perché esprime nel suo sangue e nelle sue vene coloro che l'hanno generato e la lunga teoria degli avi.

Senza dubbio.

Ma questo bene è soprattutto in deposito. Il bambino è soprattutto se stesso.

Si dice che la scelta del maestro per opera dei genitori è una specie di prolungamento delle loro lezioni, che il maestro non è che il supplente del padre, quasi lui stesso, investito dalla sua fiducia, e quindi dei suoi diritti.

Ammettiamolo pure.

Ma neppure questa scelta investe il maestro dei diritti del fanciullo. Lo ammette anche il collega onorevole Moro.

Così, per noi socialisti, che non ci vergogniamo di essere eredi della civiltà liberale e democratica in tutto ciò che essa ha di vitale, il diritto della famiglia e il diritto dello Stato si limitano a vicenda, perché ambedue sono limitati dal diritto del fanciullo.

In conclusione: diritto del padre nella famiglia e per la scelta dei maestri fuori della famiglia:

soprattutto difesa del fanciullo esercitata dalla famiglia, contro il prepotere dello Stato e della società, se la società e lo Stato si facessero tirannici e oppressivi;

esercitata dallo Stato, in difesa dell'individualità del fanciullo e per la libera esplicazione della sua personalità umana.

È il nostro concetto, e non è neppure socialista, ma è democratico, della scuola che vorrei chiamare laica, se questa parola non avesse sfortunatamente assunto da noi un significato fazioso, più che altrove. Non come in Francia, dove la parola «laico» è stata messa come appellativo della Repubblica, e non solo presso i democratici francesi, ma persino in una lettera pastorale recente dei vescovi di Francia; ma, onorevoli colleghi, questo è soprattutto il pensiero e la formula di Filippo Turati, del nostro Turati, il quale contrapponeva alla formula equivoca di «libertà della scuola» l'altra formula di «libertà nella scuola», cioè duplice libertà, sia da parte del maestro sia da parte del discepolo. E vi è anche la vecchia formula che ci deriva dai secoli: res sacra puer, cioè il fanciullo è cosa sacra. Noi adotteremo quindi la formula della libertà nella scuola.

In nome della libertà effettiva d'insegnamento, il pensiero cattolico chiede che le scuole private siano mantenute dallo Stato come quelle pubbliche.

Orbene, noi, proprio in nome della libertà effettiva di insegnamento, in nome della libertà della scuola e nella scuola, siamo nettamente contrari a ciò.

Dimostreremo altrove con cifre e dati che, per molti versi, la scuola privata si trova oggi in condizioni vantaggiose rispetto alla scuola pubblica e che, se mantenuta dallo Stato, verrebbe a trovarsi in condizioni di tale privilegio, da far sparire, nel corso di pochi anni, la scuola pubblica.

Il collega onorevole Colonnetti, nel suo discorso, riconosce il valore della scuola di Stato, riconosce che debba vivere. Ma come vivrà, se non si prenderanno provvedimenti? Ciò non significa che la scuola pubblica sia incapace di sostenere la concorrenza, a parità di condizioni.

D'altra parte, non ci può essere concorrenza, quando non ci siano almeno due concorrenti. Non ci può essere, se esista un solo tipo di scuola.

Voi dite d'essere contrari alla scuola di Stato, perché essa può portare al totalitarismo. Non neghiamo il pericolo. Proprio per questo siamo favorevoli alla libertà di insegnamento, perché essa può correggere le eventuali deviazioni dello Stato. Ma sta di fatto — permettete che ve lo dica — che il fascismo favorì la scuola privata e confessionale; che, nel 1941, quando la Germania totalitaria stava per vincere, il regime di Vichy, totalitario e complice della Germania, non favorì le scuole pubbliche, ma le scuole private e confessionali.

Recentemente, in una bella e intellettuale rivista cattolica, assai nota, Études, Jean Rolin dichiara deplorevole che la scuola libera si identifichi oggi con la scuola confessionale cattolica.

Uberti. E allora fatela voi.

Bernini. Ritiene che la causa della scuola libera sarebbe più facile a difendersi, se ci fossero, in numero notevole, scuole libere non confessionali. Ma che fare se i protestanti e gli ebrei rinunciano spesso alla scuola confessionale, e accedono volentieri alla scuola pubblica?

Né valgono in contrario gli esempi di alcuni paesi, come il Belgio, dove la scuola privata è posta quasi a pari della scuola pubblica. Là può essere necessità determinata dalla pluralità delle confessioni religiose. Perché dovremmo rinunciare spontaneamente a questo vantaggio nostro dell'unità religiosa? Ancor meno validi gli esempi dell'Inghilterra e degli Stati Uniti, paesi di tutt'altra mentalità e di tutt'altra tradizione scolastica.

Ma, se noi, come ha detto autorevolmente l'onorevole Nenni, siamo contrari alla scuola organizzata dal partito socialista o che ad esso si ispiri, permettetemi di essere contrario anche a quella organizzata o ispirata in qualche modo dal partito democristiano.

Nulla di quanto sopra dovrebbe trovare ostilità nei cattolici, se essi vogliono veramente la scuola libera, la libertà della scuola e la libera concorrenza.

I colleghi democristiani possono in tal modo sfatare le accuse che si sussurrano contro di loro: di voler la libertà per sé e di negarla agli altri. (Proteste al centro).

Noi speriamo che i colleghi democristiani non accettino quanto ho letto recentemente, in una petizione alla Costituente di una associazione cattolica per la scuola: che la libertà d'insegnamento non deve esserci e che «i genitori italiani non intendono lasciare i propri figli a disposizione di questo o quel docente che se ne voglia servire a loro insaputa per sperimentare su di essi nuove teorie sociali o morali».

Se con ciò si vuol dire che nella scuola non deve assolutamente farsi politica, d'accordo. È proprio quello che sosteniamo noi, in difesa della scuola pubblica. Ma se significa che gli insegnanti devono essere di opinione conformistica, dove vanno a finire la libertà e la democrazia?

Secondo e ultimo punto per noi essenziale è che il solo Stato conferisca i titoli legali di studio. In ciò mi pare che mi conforti l'opinione autorevole e decisa del collega onorevole Colonnetti di parte democristiana, là dove egli ha scritto: «Spetta esclusivamente allo Stato il conferimento dei diplomi di abilitazione all'esercizio delle varie professioni».

Noi riconosciamo volentieri che ci sono parecchie scuole private, confessionali o no, serie e degne di ogni considerazione. Noi però affermiamo, e lo affermiamo per conoscenza diretta, che l'odierna spaventevole inflazione dei diplomati e dei laureati si deve in gran parte all'incauto sistema delle parificazioni instaurate dal fascismo e dal cosiddetto esame di Stato della carta della scuola Bottai, per cui gli esami si fanno, non più dinanzi ad una Commissione di Stato unica, ma nell'interno dei singoli istituti.

Ma di ciò parleremo a suo modo, in sede di emendamenti.

Quando, o colleghi della Democrazia cristiana, noi fossimo d'accordo su questi due punti: primo: non ricorrere a provvedimenti che, indirettamente, mettano in grave inferiorità, anzi facciano scomparire la scuola pubblica in confronto della scuola privata, pur nell'ampio riconoscimento della libertà di insegnamento; secondo: riconoscere al solo Stato il conferimento dei titoli di studio, noi potremmo essere d'accordo su tutto.

A questa libera e solenne Assemblea appartengono almeno due uomini illustri, gli onorevoli Bonomi e Orlando, superstiti fra quanti parteciparono a quella che fu, se non erro, l'ultima libera discussione in materia scolastica. (In materia scolastica, come in tutto il resto, il fascismo non conobbe la discussione, ma solo il monologo).

Fu nell'estate 1910, quando si discusse la legge Daneo-Credaro, per l'avocazione allo Stato della scuola elementare. Anche allora, molte proteste si levarono, in nome del diritto della famiglia e dei comuni, contro lo Stato accentratore. Ma oggi non c'è più nessuno, credo, il quale neghi che quella legge giovò alla scuola italiana.

Nel secolo scorso, memorande discussioni sulla scuola risuonarono in tutti i Parlamenti d'Europa.

La Francia ne dette l'esempio in ogni tempo, dalla rivoluzione del 1789 ad oggi. Ricorderò solo i grandi nomi dei cattolici liberali, dopo la restaurazione, Montalembert, Lamennais e Lacordaire.

Anche il Parlamento italiano dette degno esempio, dalla discussione del 1857, che precedette la legge Casati, saggia regolatrice per molti anni della scuola italiana, alla discussione della legge (1877) per l'istruzione elementare obbligatoria, alla discussione (1908) sull'insegnamento religioso.

Tali grandi nomi e grandi esempi non devono intimidirci. Tutt'altro. Permettetemi che lo dica, sarebbe gran danno se una questione così fondamentale passasse in silenzio, votata solo a colpi di maggioranza, fra l'indifferenza dei più.

Spero quindi che nessuno s'impazientirà, anzi tutti saranno lieti, se nella discussione degli emendamenti si cercherà la via migliore. E che nessuno s'impazientirà se, eventualmente, sarà chiesto l'appello nominale in taluni casi.

Per quanto ben modesto fra di voi, mi permetto d'augurarmi che tutte le correnti d'idee e tutti i gruppi e partiti politici partecipino a questa discussione con serenità, ma ben precisando il loro atteggiamento e assumendone la precisa responsabilità.

Preghiamo gli amici repubblicani a considerare questi articoli 27 e 28 non solo in sé e per quello che letteralmente dicono, ma anche in funzione dell'ordinamento regionale che essi sostengono, e viceversa. Ciò vuol dire che, a suo tempo, quando discuteremo della regione, li inviteremo a considerarla in funzione e in relazione agli articoli 27 e 28, quali che essi siano nella loro stesura definitiva.

In altri termini, particolare gravità assumerà l'eventuale posizione di superiorità della scuola privata sulla scuola pubblica, qualora s'introducesse l'ordinamento regionale.

Del genuino pensiero liberale, espresso dal maggior pensatore che onori oggi l'Italia, non dubitiamo. Ma al nostro illustre collega onorevole Einaudi è attribuita nei verbali della seconda Sottocommissione una frase che merita d'essere chiarita. Egli si dichiara favorevole a dare ampio potere legislativo alla regione, non solo per l'istruzione elementare, ma anche per l'istruzione media e universitaria, in quello che è ora l'articolo 109 del progetto, che attribuisce alla regione potere legislativo in armonia con la Costituzione e con i principî generali, «perché non vede quali pericoli all'istruzione elementare potrebbero derivare dal togliere l'ingerenza in questa materia allo Stato, che finora non ha fatto altro che male».

Io temo che l'illustre economista, il quale ha parola di ampia lode e stima per gli insegnanti, sia tratto a vedere nella scuola una impresa puramente economica. Certo, lo Stato non è così abile amministratore come certi gestori di scuole private, ma non è con tale misura che conviene misurarne l'opera. (Approvazioni Applausi a sinistra).

Se ben ricordo, l'onorevole Corbino ha detto recentemente qui dentro che non si può sapere quel che farebbe oggi Cavour, su una determinata questione. Ahimè, è vero! Sia detto senza offesa alla grande ombra di Cavour, noi abbiamo visto troppo spesso gli uomini cambiare di pensiero e di atteggiamento, per essere assolutamente certi di ciò che farebbe Cavour, ma intendo Cavour uomo. Mi pare invece di essere certo sull'atteggiamento della sua dottrina, la quale resta quella che è indicata nella Relazione a sua maestà per la legge Casati. Per quella legge fu lasciata la più ampia libertà all'autorità paterna; ai privati furono richieste quelle prove di capacità e di moralità che possono dare alla società e alle famiglie sufficienti garanzie; ai corpi morali fu consentita notevole larghezza perché potessero utilmente valersi della propria iniziativa e dei propri mezzi. La legge Casati fu insigne monumento di libertà, per tutti, controllata necessariamente dall'autorità dello Stato.

Né noi socialisti temiamo di apparire solo difensori di posizioni liberali e democratiche, difendendo la scuola pubblica. Marx ed Engels hanno dimostrato che le classi proletarie, già escluse dalla vita politica, quanto più entrano in essa e vi acquistano forza, tanto più si fanno portatrici di esigenze universalistiche, fra le quali principalissime l'educazione e l'istruzione.

C'è forse qualcuno qui dentro il quale, permettete che lo dica, con l'ingenuità dell'astuzia, ritiene che dobbiamo puntare solo sulle riforme politiche ed economiche e che il resto verrà da sé. Mi permetto di dire che in questo semplicismo sbaglia; sbaglia anche chi eventualmente pensi che si può concedere qualunque altra cosa nel campo dell'istruzione, perché quando si fosse raggiunto il potere, ci sarebbe sempre modo di limitare il concesso. Un principio scolastico, una volta affermato, non si sradica né si modifica agevolmente. È molto più agevole fare una riforma sociale, quando essa è matura, che non una vera e profonda riforma scolastica, perché è più facile agire sull'organismo giuridico, economico e anche politico che sugli spiriti. Infatti il fascismo, meno che in ogni altro campo riuscì a dominare nella scuola, che pure gli pareva il campo più facile di tutti. E neppure io posso credere a quella che è la tentazione segreta di taluni di noi, che cioè potremo anche noi avvantaggiarci di queste sovvenzioni. Io non lo credo: nessun partito politico può gareggiare con la Chiesa in quella che è l'organizzazione scolastica. Nessuna riforma sociale vive e prospera, se non in terreno adatto. Il terreno adatto non può esser dato che dall'educazione e dall'istruzione.

Noi ci auguriamo, per il bene di tutti e per il bene dell'Italia, che non si facciano qui dentro calcoli politici deprecabili, come quello fatto da Guizot in Francia che abbandonò ai cattolici l'istruzione primaria, ma riservò allo Stato l'istruzione secondaria, cioè l'istruzione della classe media; come quello di Thiers, il quale disse che contro i Falansteriani (in termini moderni sarebbero i comunisti e i socialisti) egli vedeva la salvezza solo nella libertà di insegnamento. Per Thiers, dunque, la cosiddetta libertà di insegnamento era solo mezzo di conservazione sociale. Di qui venne la famosa legge presentata all'Assemblea nazionale legislativa nel 1849 da quel Falloux, ardente sostenitore, oltre che dei diritti della Chiesa, della spedizione francese contro la Repubblica romana. Per quella legge, tutta la scuola francese divenne confessionale. Ma in quei giorni la Repubblica francese era virtualmente morta. Già si profilava all'orizzonte il colpo di stato del terzo Napoleone.

Ora siamo tutti d'accordo sulla libertà di insegnamento. Noi, per parte nostra, domandiamo solo che alla scuola pubblica sia data la possibilità di vivere e di prosperare. Diciamo pertanto ai cattolici, come a tutti: aprite pure liberamente le vostre scuole, ma provvedetevi con i vostri mezzi, come voi ne rivendicate l'autonomia. Tutti gli alunni, di tutte le scuole, sia pubbliche che private, siano sottoposti agli stessi esami, davanti agli stessi esaminatori. Questa è per noi democrazia.

Secondo i resoconti della prima Sottocommissione, uno dei vostri più eminenti ha dichiarato che il vostro programma è «una rivendicazione e una reazione contro tutta una legislazione che dura da centocinquant'anni a questa parte, e precisamente dalla rivoluzione francese in poi». Questa dichiarazione ci lascia perplessi e pensosi. Veda l'onorevole Dossetti — che non è qui presente — noi crediamo invece che sia stata proprio la rivoluzione francese ad affermare la libertà del cittadino e la libertà della coscienza umana.

L'opera della rivoluzione francese può essere superata — anzi, sarà ed è superata — ma non può essere distrutta neppure in nome del diritto della famiglia, e tanto meno in nome dei diritti della personalità umana.

Noi ci apprestiamo a votare, certo concordi, il grande principio rivoluzionario per cui i poveri potranno accedere all'istruzione. Ma questo non basta. Pur riconoscendo ad ognuno il diritto di scegliere la scuola che gli aggrada, noi affermiamo la necessità di una scuola pubblica fiorente, nella quale tutti gli Italiani, senza differenza di fede politica e religiosa, possano andare senza imbarazzo, minorità o costrizione; una scuola che unisca nel vincolo della fratellanza tutti gli italiani al di sopra delle fedi e della politica. E in questo siamo perfettamente certi d'essere sulla via della libertà e della democrazia. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti