[Il 21 aprile 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali». — Presidenza del Vicepresidente Conti.]

Presidente Conti. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l'onorevole Avanzini. Ne ha facoltà.

Avanzini. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi!

L'onorevole Cevolotto, in sede di Commissione, ha dichiarato — leggo dal verbale — «che la famiglia ha importanza solo in quanto lo Stato la regola giuridicamente: il resto è storia e sociologia».

Dunque ancora una volta lo Stato, tutto per lo Stato, tutto dallo Stato, anche la famiglia: il trionfo pieno della teoria dei diritti riflessi. Poiché noi neghiamo questa teoria, poiché, secondo la nostra dottrina, esistono già dei diritti che precedono, che anticipano anzi la stessa costituzione dello Stato, quali i diritti della persona umana, quali i diritti delle società naturali, noi non possiamo che accettare la formula, quale è contenuta nell'articolo 23 del progetto di Costituzione, o qualunque altra, che però le corrisponda o che meglio anzi la chiarisca, al di sopra di ogni equivoco.

La famiglia, onorevoli colleghi, completa l'individuo, lo integra, lo perfeziona, lo perpetua, e insieme collabora alla saldezza morale e sociale dello Stato.

Intesa così, la famiglia domanda indubbiamente una sua autonomia, quanto meno la domanda sino a quei casi limite, nei quali l'intervento dello Stato può essere giustificato da ragioni morali od economiche. Tale intervento non deve però ammettersi sotto la specie di un'ingerenza nell'ambito familiare, che lo alteri o lo dissolva, ma soltanto perché se mai la famiglia si saldi, prosperi, viva.

Se questa dunque è la famiglia, essa esige, in nome della sua originarietà e della sua funzione sociale, di essere garantita dal principio della sua unità e, in conseguenza, da quello della indissolubilità del matrimonio, che la consacra.

Taluno ha voluto negare l'opportunità che quei due principî siano inscritti nella Carta costituzionale. Primo l'onorevole Togliatti. Anche qui leggo dal verbale: «perché nessuno», egli disse in sede di Commissione, «intende porre sul tappeto la questione del divorzio, questione che personalmente egli ritiene innaturale, anzi dannosa in relazione alle attuali esigenze della società italiana».

In relazione alle attuali esigenze della società italiana. Dunque in relazione alle esigenze di oggi. E domani? Onorevoli colleghi, per noi non può essere riservato al divorzio alcun domani. È quindi necessario che la Carta costituzionale su tal punto parli senza reticenze, secondo la sua natura ed i suoi scopi. La Carta costituzionale infatti deve contenere i principî fondamentali, regolatori della vita nazionale, i principî dai quali dovrà rampollare tutta la futura legislazione italiana. Ebbene, fra quei principî fondamentali, fondamentalissimi siano scritti anche quelli sui quali dovrà riposare l'istituto familiare, quelli cioè destinati a proteggerne l'unità e l'integrità.

Del resto nella Carta costituzionale viene iscritta la dichiarazione di tanti diritti: i diritti della persona, i diritti sociali, i diritti del lavoro. E perché allora non dovrebbe essere iscritta anche la dichiarazione dei diritti della famiglia, se è vero che la famiglia è il fondamento della società, onde tutti gli altri diritti maturano, si perfezionano solo se condizionati al rigoglio dell'istituto familiare? La società è la pianta e la famiglia è la radice donde la società germoglia e si nutre. Perché la pianta viva è necessario quindi guardare la radice. Ora per guardare quella radice devonsi affermare l'unità della famiglia e l'indissolubilità del matrimonio.

Secondo un vigoroso scrittore, la questione dell'indissolubilità del matrimonio può essere considerata sotto un triplice aspetto: in relazione alla legge naturale, in relazione alla legge cristiana, in relazione alla legge civile.

Poiché io parlo in una Assemblea, nella quale non tutti accettano quanto meno tutta la legge cristiana, di questa io trascurerò di parlare. E posso farlo, perché penso e credo che già la legge civile e la legge naturale, di per sé sole, esprimano argomenti e motivi sufficienti ed efficaci al mio scopo; motivi dunque razionali, esclusivamente umani.

Anche e sovra tutto la legge naturale: quella fondata sulla natura umana, data, per chi crede, da Dio, e per chi non crede, riconosciuta al lume della ragione. La legge naturale non può essere negata! Essa si compone di principî, che penetrano la coscienza: ne costituiscono essi il substrato, obbligante sempre. La conosceva anche il mondo pagano. La chiamavano allora la legge non scritta. Per tacere dei filosofi, la invocava Antigone pietosa, davanti al tiranno, dopo aver dato sepoltura, vietata dalla legge scritta, al fratello infelice. Legge non scritta, ma viva, ed eterna, perché posta dagli dei nel cuore degli uomini, essa affermava.

La legge naturale e la legge civile impongono la indissolubilità del matrimonio secondo la natura ed i fini del matrimonio stesso: la funzione integratrice dei sessi, la perpetuità dell'amore coniugale, il bene dei figli, l'assistenza reciproca fra i coniugi, l'utile sociale. Poiché mi impongo la maggiore brevità possibile, non mi attarderò nella dimostrazione di tutte queste enunciazioni. Guarderò a due soltanto di esse: il bene dei figli e l'utile sociale.

Il bene dei figli! Tutto può essere detto; si potrà dire, tentando di spostare quello che è il fine del matrimonio, che questo tende, e deve tendere soltanto alla unità ed alla integrazione spirituale dei coniugi, così che, a cementarlo, dovrebbe bastare soltanto l'amore; l'amore vero, l'amore naturale, l'amore libero, anche se tante, troppe volte l'amore libero è destinato a diventare solo la libertà senza l'amore! Ma la realtà è un'altra, la realtà è un'altra, onorevoli colleghi! Il fine prossimo, il fine immediato del matrimonio ha da essere e resta la procreazione dei figli. È questa la realtà: i figli che nascono, che crescono, che domandano di essere allevati e, badate, di essere allevati soltanto da coloro che li hanno generati; è una realtà insopprimibile. È questo il cemento vero che nessuna legge può frantumare. Poi che ho dei figli, non posso comprendere un padre ed una madre che non sentano così. La passione, che ha l'ardore e la violenza della fiamma, può in certe ore della vita divorare quel sentimento, ma quando la passione languirà, quel sentimento è destinato a ridestarsi prepotente. Dopo il divorzio sarebbe sempre troppo tardi...

Calosso. Ci parli dei principî cristiani. Ci parli dei Patriarchi.

Avanzini. I figli non basta generarli...

Calosso. Lei non parla del punto di vista cristiano per omaggio a noi. Ci parli dei Patriarchi.

Avanzini. I figli! Non basta generarli. Allevarli bisogna; portarli con amore sino alla soglia della vita. Ancora, ancora: accompagnarli con amore oltre quella soglia. In quest'opera, onorevole Calosso, nessun uomo può sostituire il padre, nessuna donna può sostituire la madre. Donde le due indissolubilità. Il padre e la madre sono dei figli, i figli sono del padre e della madre. Ora la indissolubilità del vincolo che si crea e si stringe fra i genitori e i figli e tra i figli e i genitori, domanda, anzi comanda, la indissolubilità del vincolo dei genitori fra loro.

Calosso. Ma non ha risposto alla mia domanda.

Avanzini. È vero che nel matrimonio si integrano i sessi, ma si integrano anche due altissime funzioni: quella dell'amore paterno e quella dell'amore materno. Sono due fonti iridescenti che esercitano una doppia influenza sulla creatura nuova, che diventa uomo.

Ebbene, il divorzio, spezzando il vincolo matrimoniale, inaridisce quelle fonti, ne disperde la linfa, infrange quella doppia influenza e l'opera resta incompiuta e contaminata. Anche contaminata il giorno — e quel giorno è destinato a venire sempre — in cui il figlio si erigerà giudice severo del padre, che ha cambiato la sposa, della madre, che ha cambiato il marito.

Un contratto allora, secondo la legge civile? Ma un contratto particolare, perché ha per oggetto non le cose, ma le persone; perché deriva dalla volontà dei coniugi, cui si aggiungono poi, altre volontà, anche se inespresse. Un contratto che si propone una finalità sociale. Sì: una finalità sociale! Mazzini, che certo non era un clericale, pensava la vita associata disposta in tanti ordini concentrici, sempre più vasti: la città, lo Stato, l'umanità. Ma al centro di questi ordini concentrici egli poneva la famiglia, appunto perché egli pure la intendeva come la prima società, sulla quale tutte le altre si assidono. Da ciò il luogo ormai comune che la famiglia è la cellula della società. È infatti attraverso la famiglia che la società si rinnovella, è la famiglia che assicura alla società la sua perenne giovinezza. Necessità quindi che quella cellula non ammali, perché non ammali tutto l'organo, perché non isterilisca la sorgente per cui la società si rinnova e ritrova quella sua giovinezza.

Del resto l'unità e l'indissolubilità sono leggi costanti di salute e di saldezza!

Ma guardate a voi, o colleghi comunisti: una delle forze vostre non è forse nell'unità e nella inscindibilità del vostro partito? Colleghi socialisti! Nel momento della vostra secessione io ricordo gli appelli, nei discorsi, sui giornali: appelli che deprecavano quella secessione, perché divideva il partito e lo indeboliva. E ricordo le invocazioni perché non si dividesse la base e non vi seguisse nel vostro divorzio! (Rumori). E l'altro giorno! L'onorevole Nitti, con parola accorata...

Presidente Conti. Onorevole Avanzini la prego di non divagare.

Avanzini. Non divago, parlo della legge naturale della unità e della indivisibilità. L'altro giorno, l'onorevole Nitti, con parola accorata, denunciava che l'Italia è sul punto di franare e di perdersi appunto perché va spezzettandosi, va riducendosi in brandelli ed implorava che essa sia mantenuta una e indivisibile. E allora, se la salvezza della Patria deve avere come prezzo questa unità e questa indivisibilità, questa legge deve essere applicata anche alle famiglie, che tutte quante compongono la nostra Patria.

Se la casa, onorevole Calosso, sta per precipitare, non si percuotono le fondamenta per lesionarle, ma le fondamenta invece si rafforzano: i mattoni non vengono tolti, ma ricomposti e cementati.

Lo so: ci sono casi che esprimono la suggestione di una grande pietà: i casi dei matrimoni infelici. In quei casi i coniugi anelano alla evasione, alla liberazione. È umano! Ma quali le conseguenze se la legge legittimasse quelle evasioni?

Su questo punto mi basti solo richiamare le parole del Pisanelli, il quale in un suo discorso diceva: «Quando si collocasse sulla soglia del matrimonio, e nel suo seno, l'idea del divorzio, essa avvelenerebbe la santità delle nozze, ne deturperebbe l'onestà, perché quell'idea si muterebbe, fra le mura domestiche, in un perenne ed amaro sospetto».

Sono parole risolutive, perché incidono una realtà, alla quale il legislatore deve guardare.

Ferita la indissolubilità del matrimonio col divorzio, sarebbe aperta, larghissima, la via dell'abuso; nessuna remora alla tentazione; l'occasione, appena accarezzata, sarebbe accolta, laddove, invece, la consapevolezza della infrangibilità del vincolo darebbe forza a combatterla, a respingerla, a superarla.

Socialmente, poi, potrebbe essere utile che, per consentire la riconquista della felicità dei pochi, fosse messa a repentaglio la tranquillità dei molti?

E sarebbe utile socialmente questo: che, perché taluni potessero fuggire al dolore, tutti gli altri fossero messi all'azzardo di affrontarlo inopinatamente?

Una vita familiare disgraziata è un male, una sventura: certamente.

Ma quanti sono i mali dai quali non possiamo liberarci?

Quante sono le sventure, contro le quali è vano ribellarci?

Il sacrificio è della vita, è di tutta la vita!

La stessa convivenza sociale non impone, tutti i giorni, dei sacrifici, attraverso le limitazioni poste ai nostri egoismi?

Ed allora, il principio ha da essere questo: poiché la legge non può guardare ai casi particolari, ma al bene comune della società, l'interesse individuale deve essere sacrificato all'interesse generale. A questo interesse generale sacrifichino gli infelici del matrimonio, tutti gli infelici del matrimonio, la loro sofferenza!

Ora, tutto ciò che vi ho detto sarebbe vano, se non incontrassi ciò che è stato detto su taluni punti dall'onorevole Calamandrei.

Egli ha detto, anzitutto: «Ma di che vi lagnate? L'articolo 7 del progetto, già approvato, accoglie i Patti lateranensi, di cui l'articolo 34 consente uguale efficacia obbligante al matrimonio civile e al matrimonio religioso. Se il matrimonio religioso è indissolubile, non dovete paventare che esso possa essere aggredito dalla legge civile».

Facile è la risposta: la indissolubilità del matrimonio è sancita e nel diritto canonico e nel diritto civile. Ora, poiché nessuno — sarebbe assurdo il pensarlo — può insidiare la indissolubilità del matrimonio nel diritto canonico, chiediamo che nessuno possa insidiarla nel diritto civile.

Ancora egli ha detto: «Perché vi preoccupate dell'articolo 24, se per la Chiesa il matrimonio civile non è un matrimonio; se è già sciolto appena celebrato?».

Onorevoli colleghi, non siamo qui a parlare in nome della Chiesa, ma in nome anche della Patria; non siamo qui a difendere soltanto il matrimonio religioso, ma tutti i matrimoni, in quanto creano una famiglia e la famiglia appunto deve essere garantita nella sua integrità, non solo per il rispetto d'una fede religiosa, ma in funzione del bene comune, cui essa serve.

E con questo rispondo anche ad altro oratore che, ricordando come la legge ebraica ammette il ripudio, così ci apostrofava: In che vi riguarda il matrimonio degli altri? Ma in questo ci riguarda: che noi vogliamo la società italiana difesa sovra tutto attraverso la integrità di tutte le sue famiglie, qualunque sia la fede religiosa dei coniugi.

Ma l'onorevole Calamandrei ha anche affermato: gli avversari del divorzio combattono contro i mulini al vento, perché il divorzio di fatto esiste già. Così l'articolo 24 consacrerebbe una bugia solenne. L'onorevole Calamandrei ha rivestito con bel garbo il suo discorso, ma tutto quel bel garbo non è riuscito a dissimulare la speciosità del suo argomentare. Superando la differenza fra nullità e scioglimento, egli ha concluso che nella pratica tutti i casi di scioglimento si risolvono in altrettanti casi di divorzio. Potrei rispondergli che in una legge, come quella fondamentale della Carta costituzionale, non può essere consentita la confusione, lo scambio dei concetti giuridici. Una cosa è la nullità e una cosa lo scioglimento, e diverse sono le conseguenze dell'una e dell'altro. Ma la speciosità dell'argomentare dell'onorevole Calamandrei è manifesta anche sul terreno soltanto polemico. Egli ha fatto assurgere a dignità di regola talune rare eccezioni, ha dilatato oltre i limiti di una constatata realtà una situazione modestissima. Innanzi tutto lo stesso onorevole Calamandrei riconosce come sia arduo ottenere l'annullamento del matrimonio civile.

Quanto al matrimonio religioso, altri dirà se è proprio vero che il diritto canonico ha sì grandi braccia da assolvere dal vincolo matrimoniale tutti, o quasi, che a lui si rivolgono.

Ora, io parlo qui solo per la mia lunga esperienza professionale. In tanti anni, tanti che neppure oso confessarli, davanti al mio tribunale le cause di nullità di matrimonio sono state così poche, che a contarle bastano le dita di una mano. E se procedessimo a una statistica nazionale vedremmo come apparirebbe irrisorio il numero dei matrimoni annullati in confronto al numero stragrande di matrimoni che si celebrano quotidianamente, nonché di fronte al numero dei divorzi pronunciati nei paesi divorzisti.

Quanto al matrimonio religioso, davanti alla Sacra Rota, in un anno furono emesse settanta sentenze in materia di annullamento; di queste 45 con esito negativo e solo 35 con esito positivo!

Di quelle settanta cause, ben trentasei erano di poveri! Così che neppure è vero quanto ha affermato l'onorevole Calamandrei: che le cause di annullamento siano esclusivo privilegio dei ricchi. Egli sa pure come davanti ai tribunali civili il povero può chiedere l'ammissione al gratuito patrocinio e deve sapere anche come questa nostra vituperata classe degli avvocati sa prestare con zelo la propria assistenza pur nelle cause degli indigenti.

C'è un altro riflesso, nel discorso dell'onorevole Calamandrei, incontrando il quale concludo. Egli ha detto che l'annullamento è un surrogato del divorzio, surrogato al quale si ricorre subdolamente, spendendo molto e molto danaro. Dunque, per via di un tentativo di smagliare la legge, di contorcerla e di violentarla per piegarla alla prepotenza dell'egoismo. Quasi una frode. E allora, esclama Calamandrei, legittimiamola questa frode! Ma che ragionare è questo? Sarebbe come dire: poiché ci sono quelli che rubano, cancelliamo il delitto di furto dal Codice penale. Ma la strada deve essere un'altra, deve essere diversa. La famiglia ha un suo attributo originario, ha una sua autonomia e una sua funzione sociale, concorre alla saldezza della società, secondo la legge fatale della unità e della indivisibilità? Ed allora la legge, che garantisce l'unità della famiglia, la indissolubilità del matrimonio, resti e sia: sia, se mai, più vigile, più rigida contro tutto e contro tutti che attentino alla compagine familiare.

Onorevoli colleghi: mi darete atto che non ho richiamato nessun argomento di indole religiosa.

Calosso. Non è esatto.

Avanzini. Ho obliato, e di proposito, tutto quello che altamente avrebbe potuto dirci nella questione la legge cristiana. Mi sono valso soltanto di argomenti umani, razionali, oserei dire, laici.

Calosso. Non è esatto.

Avanzini. Perché ho proceduto così? Perché, al di sopra di ogni esigenza di fede, al di sopra di ogni concezione e comunque religiosa, ho parlato convinto di una cosa sola: quella di servire, anche in questo momento, il mio Paese. (Applausi al centro Congratulazioni).

Presidente Conti. È iscritta a parlare la onorevole Bianchini Laura. Ne ha facoltà.

Bianchini Laura. Dopo di aver seguito la discussione sugli articoli riguardanti la scuola, desidererei unirmi allo sforzo di quanti vogliono portare su questo argomento una parola di serenità.

Molte cose sono state dette qui che non avrebbero trovato consenzienti molti moderni cultori delle scienze pedagogiche. Infatti, l'argomento è stato trattato più da giuristi e da politici che da uomini della scuola.

Per togliere le ombre che a volte ostacolano la reciproca comprensione, cominciamo col dissipare, — se è possibile — alcuni malintesi. Il primo, che è tornato con una specie di leit motif, nelle obiezioni e nelle opposizioni mosse agli articoli sulla scuola proposti nello schema di Costituzione sottoposto al nostro esame, è quello di coloro che affermano che i cattolici, dietro lo schermo della libertà di scuola, difendono non si sa bene quali interessi di partito contro l'autorità dello Stato. La posizione è limpida: non vi sono calcoli politici e non si vuol nulla togliere allo Stato di quanto gli appartiene; vi è una superiore dottrina che ispira le nostre richieste in sede legislativa. Ci appelliamo ad un testo che certamente tutti i nostri contraddittori conoscono molto bene, un testo ufficiale, l'Enciclica Della cristiana educazione della Gioventù di Papa Pio XI. I cattolici, in sede di studi giuridici, e in sede di coscienza giuridica non sono secondi a nessuno e simpatizzano profondamente con quella coscienza nazionale, anzi con quella coscienza statale, che è reazione esatta contro tutti gli estremismi, sia dell'individualismo anarchico come dei collettivismi statolatri monopolistici. Essi, i cattolici, non si sentono in nessun modo imbarazzati su questo punto, anche se si tratta di educazione. Papa Pio XI ha posto all'inizio della sua Enciclica sull'educazione questo principio così semplice e luminoso: «L'educazione è opera necessariamente sociale, non solitaria».

Permettetemi di sottolineare questa affermazione che dice la fecondità spirituale dell'uomo in società, negata all'individuo isolato. Poi il Papa prosegue: «Ora, tre sono le società necessarie, distinte e pure armonicamente congiunte da Dio in seno alle quali nasce l'uomo: due società di ordine naturale, quali sono la famiglia e la società civile; la terza, la Chiesa di ordine soprannaturale». E alla fine di questo primo paragrafo conclude: «Per conseguenza, l'educazione, la quale riguarda tutto l'uomo, individualmente e socialmente, nell'ordine della natura e in quello della grazia, appartiene a tutte e tre queste società necessarie, in misura proporzionata, corrispondente alla coordinazione dei loro rispettivi fini».

Se questo testo ha un senso, esso dice che le tre società hanno ciascuna dei diritti positivi propri, che non ricevono dagli altri, e che si tratta solo di definirli in rapporto ai fini propri di queste società, e di delimitarli per una collaborazione normale. La mentalità cattolica nulla ha in contrario a riconoscere i diritti e i doveri dello Stato, in rapporto a un fine proprio e originario che si definisce positivamente. Ci si accusa di pensare ai diritti dello Stato solo in funzione dei diritti della famiglia e dell'individuo, e, quindi, di attribuirgli facoltà insufficienti come il proteggere, l'aiutare, il completare, il difendere. Siamo onesti: questi compiti non rendono giustizia al testo di Pio XI, non definiscono il fine specifico dello Stato, e quindi, i diritti che dalla Chiesa sono riconosciuti allo Stato, in rapporto all'educazione. Dice l'Enciclica che ho precedentemente citata: «Doppia è la funzione dell'autorità civile che risiede nello Stato: proteggere e promuovere. Proteggere i diritti precedenti della famiglia e della persona»; e, come si legge testualmente alcuni comma dopo: ...«in ordine al bene comune promuovere in molti modi la stessa educazione ed istruzione della gioventù».

Lasciamo, dunque, questo malinteso che non ha motivo di sussistere e passiamo al secondo. L'onorevole Preti se la prende con l'onorevole La Pira, perché si fa paladino della dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici e si meraviglia che i democristiani sostengano questa dottrina. Confesso di non capire il perché di questa meraviglia. A quanto pare, l'onorevole Preti sembra dimenticare che la concessione della pluralità degli ordinamenti giuridici poggia sulla constatazione della pluralità delle comunità sociali. Le formazioni sociali non si possono negare, e una Costituzione non si può prescindere da essa, in quanto lo Stato è la forma giuridica della società politica, e non può ignorare che vi è anche una società religiosa, una familiare, una economica, ecc. Queste formazioni sociali hanno dei diritti e una Costituzione, se vuole essere rispettosa della struttura sociale, li deve rispettare e tutelare. Anche nel campo politico scolastico, il principio pluralista pone come base il riconoscimento dei diritti della persona e delle varie comunità sociali intermedie fra il singolo e lo Stato, nelle quali la persona si espande.

Se l'onorevole Preti non volesse accettare questa posizione, se non volesse riconoscere questo fondamentale diritto della persona umana a educare e ad essere educata, e delle varie società a educare, e, in certo senso, potremmo anche dire, ad essere educate, dovrebbe essere logico e arrivare fino in fondo, fino all'assurdo.

Dovrebbe arrivare a negare il diritto di ogni persona moralmente e tecnicamente qualificata a educare e a istruire. Evochiamo qui le ombre benedette di coloro che senza aver ricevuto nessun mandato da nessuno Stato, ma proprio e solo per una vocazione interiore, hanno votato tutta la loro vita alla missione educativa. Ricordiamo i santi educatori e le società da cui fondate, a cui, e le dottrine e la pratica educativa tanto devono: il Calasanzio, Girolamo Emiliani, lo Zaccaria, che ha creato quell'ordine dei Barnabiti, che tutti conoscono; San Giovanni Bosco, fondatore a un altro ordine benemerito dell'educazione, che pure tutti conoscono. Da chi, da quale potenza avevano ricevuto un mandato, se non da quella vocazione interiore che è legata alla stessa natura della persona umana, che possedente una verità, per rispondere a quello che Platone chiama il «demone interiore», questa verità tramanda? (Applausi al centro).

È una generazione; lo leggiamo in quelle meravigliose pagine del «Fedone», in cui viene evocata la visione della bellezza suprema. Il poeta filosofo si appella a quei colloqui, tutti sostanziati e nutriti di affetti, di amore per la verità attraverso ai quali si compie questa «generazione» della virtù, questa generazione della bellezza.

E allora, o riconosciamo fondamentalmente il diritto dell'uomo che, in questo, esercita sempre una funzione di paternità ad educare, sia da solo sia associandosi ad altri uomini per lo stesso fine, e saremo coerenti con queste affermazioni che sentiamo potentemente vive nella nostra anima; oppure vogliamo negare questo diritto, e allora giungiamo ai limiti estremi; il padre non potrà più educare il figlio; la madre non potrà più insegnare al bambino a dire mamma, a dire padre, a dire Dio; la buona Alessandrina Ravizza, che da bambina ho imparato a conoscere come esempio di femminilità popolare, che, nella sua povertà, era pur sempre pronta ad accogliere, anzi a cercare le fanciulle del popolo per educarle; la buona Alessandrina Ravizza, non fornita di nessun diploma, che io sappia, non avrebbe avuto, da nessun Stato, l'autorizzazione ad aprire la sua casa per l'educazione delle bambine del popolo (Commenti a sinistra); e chi, se non un grande cuore, spinse Giovanni Cena, a un'opera di autentico apostolato fra i contadini dell'Agro Romano? Un giorno questa iniziativa che aveva suscitato intorno a sé simpatia e consensi fu assorbita dallo Stato, divenne ordinaria amministrazione. Le forme nuove, i metodi singolari scomparvero per lasciare il posto alle scuole solite, alle normali scuole elementari, poco ambite e poco richieste per le particolari difficoltà di comunicazione con la città.

Calosso. Forse c'è un equivoco; noi socialisti siamo antistatalisti.

Bianchini Laura. Le parole dell'onorevole Preti sono ben diverse dalle sue, onorevole Calosso.

Permettetemi di ricordare un'altra cosa. Non solo i cultori di dottrine pedagogiche, ma tutti gli educatori hanno letto quel gioiello della letteratura pedagogica che è l'Athena Fanciulla di Lombardo Radice: un padre e una madre, perché persone umane, perché uomo e donna, educano nella loro casa in puntuale contatto con la vita due bambine ed un bambino, i loro figlioli, con forme nuove, non legate agli schemi statali, in forme che esulano completamente da quelle che sono le direttive dei programmi scolastici dello Stato. E dico «forme» volutamente, per non dire «metodo», ché non è una esperienza metodica, ma opera ininterrotta d'arte, viva della vitalità stessa della vita, calda del calore dell'amore senza di cui non c'è educazione. Ma se neghiamo i diritti della persona, i diritti della famiglia, e i diritti delle altre società a educare, Lombardo Radice non avrebbe potuto educare i suoi figli; Lucio, Laura e Giuseppina sarebbero rimasti dei modesti — credo — scolari nelle scuole di Stato.

La logica, onorevoli colleghi, ci impegna. Una logica che, tradita, travolgerebbe con sé ogni attività spirituale. Certo — non c'è margine per nessun dubbio — quando diciamo che la Costituzione deve sancire il diritto a educare insieme con quello di essere educato, non sosteniamo che questo diritto sia un diritto despotico, anarchico. Anche noi vogliamo che la legislazione scolastica studi e regoli l'esercizio di tale diritto. Facciamo, quindi, una distinzione tra la questione di diritto e la questione di fatto; la Costituzione sancisca i diritti e i doveri fondamentali, la legislazione fissi le forme del controllare affinché la libertà non diventi anarchia, affinché l'uso della libertà non diventi abuso. Noi crediamo, infatti, che la parola libertà abbia in sé immanente il concetto di autolimite e, quindi, dicendo libertà, proprio per reverenza che abbiamo per questa parola, vogliamo che le venga conservato esatto il suo significato. Proprio per ciò che la libertà significa è inutile e tanto meno logico aggiungervi altri aggettivi. Se però si vuol dare un rilievo particolare a uno dei concetti impliciti nel significato di libertà, diciamo pure «libertà controllata», controllata dalle leggi dello Stato, che hanno proprio l'incarico di fissare la forma e i limiti della libertà effettiva di insegnare, che implica il riconoscimento della libertà di aprire scuole sia per i privati cittadini, che per gli enti e debbo andare un poco oltre. Si fa gli scandalizzati, e pare, dopo avere affermato a parole questa libertà, si cerchi, in tutte le maniere, il modo di limitarla, perché sembra che si abbia del rancore verso la libertà o paura di essa. Abbiamone invece fiducia. Anche quando si accetta formalmente il principio della libertà di scuola, appare da parecchi emendamenti presentati la volontà di non fissare nessuna norma che, nemmeno in forma generalissima, fissi i criteri per renderla effettiva, e questo con la tacita, ma evidente speranza di avere più facile gioco nella legislazione futura. Ma non dimentichiamo che le leggi e i regolamenti in regime di democrazia debbono intervenire a favorire l'esercizio della libertà, non a impacciarlo e imbrogliarlo.

Noi ci avviamo, ci vogliamo avviare, verso forme di democrazia più ampie e concrete.

Chi si rifiuta a uno Stato totalitario, pur riconoscendone i diritti e i doveri dello Stato nella sfera del bene comune, chi accetta la concezione del pluralismo sociale, deve cercare di non isolare le forze di nessun gruppo, facendo convergere gli sforzi di tutti al bene di tutti. Dietro al pluralismo sta una cosa estremamente semplice e pratica, cioè l'avviamento a riconoscere anche in sede giuridica, finalmente, la funzione delle varie espressioni della vita associata, e nel caso dell'educazione e dell'istruzione di quelle associazioni dei genitori, degli uomini di scuola, degli uomini di cultura, che potranno così far sentire la loro voce col diritto di essere ascoltate, quando appunto si tratti di cultura, di educazione, di scuola.

Attraverso queste associazioni, che articolano organicamente il corpo sociale, il principio pluralistico garantisce alla democrazia il passaggio alla realtà concreta. Queste associazioni si snodano in familiari e professionali, con funzione di intermediarie, di arbitre e di regolatrici fra lo Stato e la persona, nella soluzione tanto del problema della scuola, come dei grandi attuali problemi sociali ed economici.

E siamo al terzo malinteso: si è detto qui da qualcuno, che la scuola è un servizio pubblico: mi sembra dall'onorevole Binni.

Preti. No, da me.

Bianchini Laura. Ne prendo atto. La scuola, dunque, sarebbe un servizio pubblico e, pertanto, si dovrebbe garantirla da tutte quelle che sono le intromissioni di coloro che, forse, vedono nella scuola qualche cosa di diverso di quello che non sia un pubblico servizio.

Ora l'espressione è per lo meno ambigua; si può, infatti, sostenere che l'insegnamento non debba essere impartito a tutti i fanciulli, obbligatoriamente, senza un controllo della società, in quanto implica anche una funzione sociale. A questo titolo l'insegnamento è non un servizio pubblico, ma un servizio di utilità pubblica, di pubblico interesse e crediamo che nessuno pensi si tratti di un gioco di parole.

Un servizio pubblico può essere impunemente gestito direttamente e monopolisticamente dallo Stato. Nulla vi si oppone. Ma questo non è appunto un servizio pubblico, ed il diritto di aprire scuole non può essere esercitato e gestito monopolisticamente dallo Stato, e voi stessi onorevoli colleghi me ne avete dato atto, dicendo a mezzo dell'onorevole Calosso e dei commenti che hanno accompagnato alcune mie parole, che non si vuole stabilire un monopolio statale, perché negherebbe i diritti della persona.

Calosso. Il marxismo vuole abolire lo Stato: è la tesi ufficiale. (Commenti).

Bianchini Laura. Ma a proposito della gestione monopolistica dello Stato si è voluto addirittura creare lo scandalo: lo scandalo della scuola privata, della scuola libera, o — come più esattamente si dovrebbe dire — della scuola non statale, sovvenzionata dallo Stato. (Interruzione dell'onorevole Calosso). Perdoni, Onorevole Calosso, io non sostengo affatto questa posizione; io, personalmente, non chiedo che la scuola non governativa sia sovvenzionata dallo Stato.

Il mio personale punto di vista è diverso ed è quello espresso anche nell'articolo proposto nello schema di Costituzione, cioè: è alla persona, in quanto soggetto del diritto di essere istruita ed educata e, subordinatamente, alla famiglia, che si deve far risalire il diritto di essere aiutate nel raggiungimento dei fini propri e della persona; è l'integralità del suo sviluppo e per la famiglia l'allevamento e l'educazione dei figli. Se dunque dico una parola, contro lo... scandalo delle sovvenzioni alle scuole non governative, non è per difendere una posizione da me sostenuta, ma solo per obiettività. È sembrata a qualcuno, anzi a molti una cosa fantastica, una specie di assurda richiesta, mentre non è che un principio di giustizia distributiva.

Mi permettano gli onorevoli colleghi di ricordare che nei moderni ordinamenti scolastici degli Stati democratici anche protestanti, le sovvenzioni sono date a tutte le scuole private: così negli stati scandinavi, in Inghilterra, in Olanda, nel Belgio. Inoltre ci sono modernissimi trattati internazionali che stabiliscono il principio della ripartizione proporzionale dei fondi statali per la scuola. Ne cito alcuni. Il trattato di Versailles, preoccupato giustamente delle minoranze israelite di Polonia, all'articolo 10 stabilisce la costituzione di «Comitati per la scuola, designati sul posto dalle Comunità giudaiche della Polonia, che assicureranno sotto il controllo dello Stato la ripartizione della parte proporzionale dei fondi pubblici assegnati alle scuole».

Prego di prenderne nota. Lo stesso principio della ripartizione proporzionale dei fondi statali per la scuola è stato sancito per l'Austria dal Trattato di Saint-Germain all'articolo 68, per la Bulgaria da quello di Neully all'articolo 55, per l'Ungheria da quello del Trianon all'articolo 59, per la Turchia da quello di Sevres all'articolo 148.

Clemenceau stesso che non era, che io sappia, un democristiano, si era fatto paladino di questi diritti, ed il 24 giugno 1919 scriveva a Pateresky, allora Presidente della Repubblica polacca: «Le disposizioni del Trattato relative all'insegnamento nulla contengono che non sia già previsto per le istituzioni dedite all'insegnamento di molti Stati moderni bene organizzati. Né è affatto incompatibile con la sovranità dello Stato il riconoscere ed il sovvenzionare le scuole nelle quali i fanciulli subiranno l'influsso religioso al quale sono abituati nella loro famiglia». Io non voglio fare inutili polemiche. Ripeto che non intendo affatto sostenere questo principio. Ma ho voluto mostrare che lo scandalo più scandaloso non è quello di sostenere la compartecipazione dei fondi dello Stato, ma piuttosto di credersi moderni sostenendo ciò che giuridicamente non è moderno.

Calosso. Sono buone queste scuole?

Una voce al centro. Spesso migliori di quelle dello Stato.

Bianchini Laura. Io avrei ancora poche parole da aggiungere. Non voglio tediare ed il mio intervento ha solo lo scopo di portare nel dibattito un po' di serenità. Credo che sia un po' — perdonate — la funzione della donna anche in questa sede: evitare che le passioni si accendano e ristabilire la cordialità della discussione e la fraternità degli intendimenti. Vogliamo tutti il bene della scuola, di tutta la scuola; il bene dei nostri figlioli, il bene delle generazioni che crescono: noi donne, perché nella scuola abbiamo esercitato una maternità spirituale che ci ha dato grandi ansie e grandi soddisfazioni; voi perché avete goduto e patito per una paternità diversa, turgida di affetti senza pari. Non dobbiamo cercare i motivi che ci dividono, ma quelli che ci uniscono, per un bene che ci è comune. Devo ora brevemente intrattenervi su due problemi per i quali presenterò due emendamenti.

Presidente Conti. A proposito di emendamenti, la prego di affrettarsi a presentarli.

Bianchini Laura. Uno è sulla educazione della prima infanzia. E mi permetterò di presentare questo emendamento per una constatazione di fatto, che mi sembra pregiudizievole per il bene dell'educazione della prima infanzia. Noi abbiamo da tempo superato in una coscienza educativa e pedagogica ben matura l'idea che gli asili, i giardini d'infanzia, tutte le istituzioni infantili che ormai si chiamano scuole materne, siano solo e semplicemente degli istituti di assistenza infantile. L'abbiamo superata iniziandone il processo fin dai tempi dell'Aporti, giungendo con l'Agazzi e la Montessori a conclusioni su questo punto concordi. L'educazione non si inizia a sei anni, età in cui inizia invece l'obbligatorietà della frequenza scolastica; l'educazione inizia prima, ed è nella scuola materna che i bambini dai quattro ai sei anni trovano l'ambiente e le cure fisiche e spirituali adatte per loro. È un istituto con funzioni realmente educative, in quanto, come tutti sanno, aiuta il bambino che prende contatto con il mondo esteriore, a dare un nome alle cose e ad esprimere, attraverso le varie forme del linguaggio, la propria anima infantile. Questo non esclude che nelle scuole materne non si debba fare anche opera di assistenza con la distribuzione della refezione, delle medicine, del vestiario e con altre provvidenze igieniche e sanitarie. Ma la funzione principale della scuola materna è e resta culla di educare le prime manifestazioni dell'intelligenza, della volontà, della sensibilità infantile. Questo è pacifico; ma che cosa sta avvenendo? Non in sede di disposizioni giuridiche, ma nella pratica sta avvenendo un processo di involuzione. Alcune istituzioni, per un poco illuminato criterio umanitario, stanno riducendo le scuole infantili a sale di custodia. Noi vogliamo che la scuola materna sia sottratta a questa involuzione, ed ecco perché proporrò un emendamento che sarà composto solo di poche parole in cui si dirà che l'istruzione e l'educazione devono cominciare fin dalla prima infanzia, quindi fin dal periodo della scuola materna e non dal periodo della scuola elementare. Credo che sarete concordi nel trovare la formula più opportuna, che escluda una obbligatorietà legale di frequenza che sarebbe dannosa. Penso, infatti, che non sia bene sottrarre a forza il bambino alla madre in un momento in cui ancora ha tanto bisogno del calore delle braccia materne per svolgersi armoniosamente.

Il secondo emendamento che proporrò sarà sull'istruzione professionale. La nostra legislazione scolastica è tutt'ora in un momento di incerta evoluzione. Sembra che coloro che hanno preparato gli articoli sottoposti al nostro esame siano stati ancora molto presi dall'ideale di una scuola in funzione solo della coltura. Infatti, gli articoli si iniziano con una battuta solenne: — «L'arte e la scienza sono libere e libero è il loro insegnamento» — che fissa quasi alle funzioni educative e istruttive un esclusivo tono umanistico-intellettuale. Ma il nostro tempo è il tempo della tecnica, e la scuola, se vuol aderire alla vita, deve formare, come in ogni tempo, l'uomo (ed ecco la necessità di una formazione generale umanistica, proporzionata ai vari gradi di scuola), ma anche l'uomo lavoratore, ed ecco la necessità di una preparazione tecnico-professionale. Noi dovremo preoccuparci di dire una parola, una frase, che dica la nostra volontà di inserire le esigenze del lavoro moderno, tra le preoccupazioni dell'educazione italiana. Come abbiamo posto il lavoro nel primo articolo della Costituzione — «L'Italia è una Repubblica democratica basata sul lavoro» — così dobbiamo sottolinearne le esigenze in sede di preparazione al lavoro. Le attuali statistiche sul numero delle scuole e dei corsi professionali e artigianali sono rivelatrici di carenze impressionanti. Nel 1940-41, 41.837 alunni frequentavano i corsi, le scuole tecniche e gli istituti agrari; 165.539 i corsi, le scuole tecniche e gli istituti commerciali; 167.500 i corsi, le scuole tecniche e gli istituti industriali; 4.527 i corsi, le scuole e gli istituti nautici. E questo in una Italia che non ha altra ricchezza che il lavoro. Perché nel mio emendamento chiederò che venga estesa l'istruzione professionale, invece di chiedere che lo Stato apra nuove scuole professionali? Perché questa espressione è più larga e comprende anche quei corsi di vario genere che, in sé, ogni maestro d'arte, ogni tecnico specializzato nel campo agricolo, o commerciale, o industriale, o nautico, o artigianale potrebbe aprire. L'istruzione professionale è la possibilità offerta ad uno stabilimento, ad un'industria, a una zona agricola di avere la propria scuola specializzata anche nei particolari per l'apprendimento delle nuove tecniche; la possibilità offerta a qualunque comunità di lavoratori di avere la possibilità di qualificarsi e specializzarsi.

Credo che anche su questo sarà facile trovare l'accordo, su una formula che accolga le necessità di una più diffusa istruzione professionale in accordo con le esigenze del lavoro.

Prego gli onorevoli colleghi di accogliere questo invito alla serenità nella discussione del problema della scuola che ci appassiona tutti — della scuola, di tutta la scuola, di Stato e non di Stato — per incontrarci in cordialità di comprensione, per giungere alla affermazione dei diritti della persona, delle società intermedie umane e dei diritti riconosciuti, difesi, e affermati dello Stato. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Presidente Conti. È iscritto a parlare l'onorevole Sardiello. Ne ha facoltà.

Sardiello. Illustre signor Presidente, onorevoli colleghi, cronaca o storia, le piccole e grandi parole scritte in questo progetto di Costituzione? Cronaca o storia?

L'interrogativo è venuto. Ma può non essere importante la classificazione.

Forse anche quando Giuseppe Mazzini ha scritto e rivolto al popolo italiano le pagine immortali dedicate alla famiglia ed ai rapporti di questa con la collettività, qualcuno ha detto: «cronaca». Di quel qualcuno non abbiamo ora il ricordo.

Ma quelle pagine restano e giganteggiano sempre più.

E pure per quelle pagine il Gruppo parlamentare repubblicano vuole intervenire nel dibattito su questo argomento, intorno al quale forse tutto è già detto.

Va espresso anzitutto il compiacimento che la nuova Costituzione italiana, discostandosi dagli schemi delle antiche, porti tra le sue norme i rapporti della famiglia con lo Stato. Questo realizza secondo noi un progresso, e non perché chiami lo Stato quasi a sostituirsi a quelli che sono i doveri, i diritti, i compiti della famiglia, o anche soltanto per invaderne il campo, ma perché — ponendo fra la persona umana e la collettività questo anello essenziale alla catena — realizza in questa Carta costituzionale della Repubblica italiana quella grande visione mazziniana che, attraverso la forza del dovere e del diritto, lega l'individuo alla famiglia, al comune, alla Patria, all'umanità. Ecco perché sentendo così mazzinianamente la famiglia, come «condizione inseparabile della vita», non sappiamo pensarla isolata nella sua vita e nella sua missione, sia pure come una fulgente turris eburnea, ma avulsa dalla realtà che la circonda; la pensiamo invece in armonia viva e profonda con tutta la vita sociale direi come una nota, nel coro di tutte le forze del progresso umano che fra la terra e il ciel sale e discende, al lume di questo pensiero noi rileviamo anzitutto in questo progetto di Costituzione un impaccio di definizione ed una insistente intrusione di principî e di norme che avrebbero il loro posto in altra sede. Definizioni ed inserzioni di concetti che qui non hanno assoluto diritto di cittadinanza e pongono impegni troppo assoluti, e fissano indebite ipoteche sull'avvenire.

Alle prime parole ci imbattiamo in una definizione: «La famiglia è una società naturale». Nel corso dei lavori della Commissione — come si apprende attraverso i verbali — le definizioni venivano avanzate da una parte e dall'altra, si scontravano: ciascuna esclusiva, ciascuna particolaristica. C'è tanto di vero, di fondamentale quando si dice: società naturale, come c'è qualche ragione da parte di chi diceva: società storica od organismo morale. Ma fra le tante esclusive ed incomplete è stata scelta — consentitemi di dirlo — forse la peggiore, perché questa, tacendolo, dà la sensazione che voglia quasi escludere quell'elemento etico che per noi è fondamentale ed essenziale, e che a noi deriva anche dalla sapienza romana che non escludeva, ma anzi chiamava l'affectio maritalis a fondamento dei rapporti fra i coniugi.

Ma, è necessario definire qui la famiglia? C'è qualcuno che contrasta alla famiglia una sfera di diritti suoi, certi ed inalienabili? Se le definizioni sempre nutrono in sé qualche pericolo, questa ne presenta uno grave, perché la definizione dello Stato, se mai si fosse sentito il bisogno di inserirla nella Costituzione, interesserebbe la dottrina dei pubblicisti; la definizione della famiglia invece interessa, deve interessare, anche il sentimento dell'uomo del popolo. Ora io dico e, se non dicessi sarebbe egualmente sentito da tutti, che la Costituzione deve essere chiara, precisa, alla portata di tutti. Ed allora penso all'uomo della strada che domani leggerà nel progetto di Costituzione la definizione della quale stiamo parlando. Le definizioni presuppongono schemi giuridici e filosofici. Coloro ai quali questi son consueti afferrano subito la portata dei principî enunciati; ma l'uomo della strada potrà anche pensare che dietro le profonde parole si celi persino un inganno. L'uomo del popolo non sente il bisogno di definire dottrinalmente la famiglia; egli la definisce col cuore, perché la famiglia è la patria del cuore.

Il compito nostro non è di definire. Il compito della Costituzione è di regolare i rapporti fra i componenti della famiglia e fra essi e la collettività.

In quanto a questo, penso che la dizione dell'articolo 23 offra una enunciazione che può dirsi soddisfacente. Ho presentato un emendamento al capoverso di questo articolo; ma esso non attiene ai principî; si preoccupa soltanto di una voce verbale, di quell'«assicura» che, insieme con i «cura», i «garantisce» ed altre espressioni simili degli articoli 23, 24, 25 e 26, fa cadere sulla Repubblica il peso di impegni che condizioni attuali, ed anche del futuro prossimo, fin dove può giungere il nostro sguardo, ci inducono a pensare non tutte realizzabili. A proposito di queste norme che poggiano su tali promesse ed impegni, c'è una questione preliminare da risolvere: o noi questi concetti li pensiamo come enunciazioni di principî, ed allora vadano al «preambolo», che io ritengo opportuno ci sia, appunto per assolvere a tale funzione; o li pensiamo, e li vogliamo come norme giuridiche, ed allora la loro enunciazione deve essere modificata, deve essere un'altra e diversa.

Il resto, dopo enunciati i principî o dopo elaborate le norme nella forma più consentanea, sarà regolato dalla legge ordinaria.

Troppo spesso, dicevo, abbiamo dimenticato la funzione che avrà, in un domani prossimo, la legge ordinaria, mentre non sono pochi i casi che ci richiamano a questo pensiero.

L'articolo successivo, l'articolo 24 ne offre indicazioni tipiche. Alla enunciazione con la quale si inizia, aderisco: «Il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Non condivido le preoccupazioni affacciate da alcuni colleghi di una parte o dell'altra di questi settori.

La Costituzione non si propone certo di modificare una realtà eterna. C'è tra i coniugi diversità delle funzioni, delle attitudini, determinate dalla diversità del sesso. Ma penso che si incorra in equivoci nella valutazione della dizione del progetto. Qui non si pone, e non si potrebbe porre, una eguaglianza di fatto, ma un'eguaglianza morale e giuridica (Interruzione dell'onorevole Calosso) e, oltre a quella morale, se mi consente l'onorevole Calosso, anche l'eguaglianza giuridica mi pare che possa fissarsi e che debba sussistere al di là delle disuguaglianze di attività e di funzioni.

Calosso. Nella morale la donna è superiore.

Sardiello. Io resto alla formula di eguaglianza; aderisco al concetto che il progetto afferma e contrasto il pensiero di chi ha veduto in ciò una minaccia alla famiglia...

Calosso. Siamo d'accordo.

Sardiello. Come se l'eguaglianza — morale e giuridica, ripeto — dei coniugi dovesse compromettere definitivamente l'unità familiare. Oltreché quella morale, l'eguaglianza giuridica può sussistere anche oltre la disuguaglianza delle funzioni e delle attività.

Come sono state formulate queste preoccupazioni, in concreto, dagli onorevoli colleghi? Con alcuni interrogativi che, appena lanciati, sembrano preoccupare, come quesiti senza soluzione. Chi sarà il capo? Il capo non può essere che uno, e ciò non intacca ancora il concetto della eguaglianza giuridica, sino a quando c'è la possibilità di pensare e realizzare un primus inter pares, espressione di una situazione di fatto che non contrasta col diritto. (Commenti).

Diceva qualche altro oratore: chi designerà il luogo di residenza e chi darà il nome? A me pare che neppure questo sia il colpo di piccone demolitore del concetto dell'eguaglianza morale e giuridica. Mi pare che tutto questo postuli una disciplina dei rapporti sulla base dell'eguaglianza morale è giuridica, che è opera del legislatore nella formulazione della legge ordinaria che questa stessa disposizione della Costituzione invoca, allorquando, dopo enunciato il principio del matrimonio sulla base dell'eguaglianza, continua: «La legge ne regola la condizione».

Calosso. Noi non vogliamo dei re, neanche nella famiglia.

Sardiello. Ma questo richiamo dell'articolo 24 alla legge ordinaria che dovrà regolare quei rapporti, dovrebbe essere un buon esempio anche per quello che viene dopo. Ma i buoni esempi è difficile che siano seguiti sino in fondo; e, appena scritte le parole e fermato il concetto, appena cioè evocata dalla lontananza del futuro prossimo la funzione che dovrà avere anche la legge ordinaria, il testo del progetto si preoccupa di incatenarla. La legge che verrà, regolerà la condizione del matrimonio, della famiglia, ma intanto noi vorremmo dire categoricamente sin da ora a quelli che verranno più tardi a questi banchi ciò che essi dovranno fare. La legge infatti regolerà quella condizione «a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio». Ecco il comando che il progetto vuole dare.

Onorevoli colleghi, non parleremo ancora del divorzio. Tutto è stato detto, non soltanto in questa discussione; tutto era già detto prima; non c'è niente da ricordare. Qui a un certo momento si è discusso come se fosse sul banco della Commissione il progetto di legge per l'istituzione del divorzio. E invece non è. Qui, nell'Assemblea politica, giova forse insistere in un chiarimento. Conviene dire che non si tratta di un'apologia dei molteplici amori; conviene dire che quella visione, evocata egregiamente, eloquentemente or ora dal collega Avanzini, è anche per noi la più bella, la più consolante della vita: la visione di due anime che intrecciano un destino di opere e di sentimenti insino all'ultimo giorno. Ma questa realtà dei felici non è uno scudo per la difesa di quelli che quella felicità l'hanno perduta. Si tratta di un grande problema morale, sociale e giuridico, che non può essere ignorato perché è nella vita, solo che si guardi (perché il divorzio non sarebbe mai certamente il regalo di nozze a tutte le coppie di sposi) a certi casi drammatici, forse anche tragici, della vita individuale, che più profondamente incidono nella vita sociale; solo che si guardi alla povera donna cui è stato strappato il marito a seguito di una tremenda condanna; od al povero lavoratore che torna dalle terre lontane, dove col suo stento ha cercato un tozzo di pane alla famiglia — chi vi parla è di un'antica terra di emigranti — o, più ancora, al soldato, che ha dato il suo sangue nelle battaglie, e tornano e trovano sotto il tetto dove aspettavano la pace e il conforto nuove ferite dell'anima, ed il crollo totale della vita... è un problema sociale e morale, che ha radici nel destino di creature poste allo sbaraglio della miseria e del dolore.

Ma dicevo, colleghi: qui non si parla di introdurre oggi nella legge il divorzio. La questione è stata posta esattamente davanti alle Commissioni: deve esserne inserito nella Costituzione il divieto? Est hic locus?

Il problema come viene a noi è posto artificialmente. Non bisogna perdere di vista la situazione presente.

Lo status della legge in Italia è dell'indissolubilità più rigorosa. Ora, o signori, sono coloro che approvano quella indissolubilità rigorosa a proporre la questione; sono essi a muovere ciò che è quieto e sistemato.

Bisogna allora domandarci: perché? Perché questo proposito, questo tentativo — che noi ci auguriamo rimanga soltanto tentativo — di spostare dalla legge ordinaria, dove ha la sua sede, alla Carta costituzionale l'affermazione del principio dell'indissolubilità matrimoniale? Perché questo privilegio ad un principio privatistico che fa ricordare, tra l'altro, quegli errori di sistematica — causa sempre di situazioni difficili — che erano frequenti nella legislazione fascista?

Perché si è voluto portare la questione su questo terreno?

I motivi sono riassunti, in sintesi esauriente, in un brano della relazione dettata dall'onorevole Ruini, Presidente della Commissione. Da esso apprendiamo che le correnti si sono spiegate in contrasto e divise sul punto se il tema fosse o non fosse da inserire nella Costituzione. Ma la maggioranza si è manifestata del parere che, «per lo stato d'animo del popolo italiano, nonché per i riflessi religiosi, sia questione da non poter essere trattata dalla legislazione ordinaria».

A persuadere la Commissione, a persuadere cioè la maggioranza di essa, sono stati questi due elementi: lo stato d'animo del popolo italiano e i riflessi religiosi.

Neppure — notate — un definito attuale travaglio religioso, annunziatore di tremende conseguenze per il nostro Paese. Comunque, o colleghi, sia l'uno che l'altro motivo, per chi guardi, come noi abbiamo il dovere di guardare, all'avvenire con indipendenza di coscienza e di pensiero, con serenità di visione, nonché con la convinzione — mai quanto nel nostro tempo fondata — che la storia va ed evolve rapidamente, non è difficile pervenire alla conclusione che gli stati d'animo ed i riflessi dei pentimenti, anche i più grandi e profondi, sono fatalmente mutevoli. Quando anche la loro giustezza, la loro rispondenza alla realtà attuale sia riconosciuta non è possibile che questi due elementi presumano di proiettarsi nell'avvenire.

Che cosa si è voluto allora fare? Se oggi lo status è dell'indissolubilità, si è voluto in realtà impegnare il legislatore di domani. Vivaddio! Oggi l'onorevole Avanzini lo ha esplicitamente detto: per noi — ha detto — l'indissolubilità non deve essere toccata né oggi né domani, né mai.

Ora, o signori, la nostra generazione ha patito tanto per le ombre del passato proiettate su di essa. Non proiettiamo sull'avvenire le ombre del nostro tempo.

Questa parte dell'articolo 24 rappresenta un'ipoteca sul legislatore dell'avvenire, che l'Assemblea Costituente non può, non deve, non ha il diritto di prendere. Mi preoccupa la sensazione, — che può già dirsi fondata per qualche autorevole parola che abbiamo udita — che stia per rivivere una situazione eguale a quella manifestatasi nella votazione dell'articolo 7. Abbiamo già udito qualche voce autorevolissima dire: «l'articolo non dovrebbe esserci». E sembrava annunziare prossima questa conclusione: «ma io lo voterò». Per l'articolo 7 è avvenuto così.

Ora, signori, questo criterio di accettare l'articolo solo perché è nel progetto di Costituzione, l'Assemblea deve chiaramente respingerlo. L'Assemblea ha perduto troppe occasioni di affermare la sua sovrana indipendenza. E il popolo quando sente che l'articolo non dovrebbe esserci, ma che viene approvato ugualmente, finisce per non intendere, mentre ora più che mai ha il diritto di intendere e noi abbiamo il dovere di aiutarlo ad intendere le nostre idee, i nostri indirizzi, ed anche il perché di questi.

Abbiamo da risolvere problemi sui quali male aleggiano preoccupazioni che solo eufemisticamente potrebbero dirsi politiche; problemi che vanno risoluti — in un senso o nell'altro — soltanto per ispirazione e dettato della coscienza. Quello di cui ora ho detto è fra questi.

Lasciatemi ora consolare della tristezza di vedere respinto dal progetto di Costituzione un problema che è il riflesso di necessità sociali e di dolori umani; con la parola dell'articolo 25 che reca invece la buona novella ad altri infelici, ad altri sofferenti. La Costituzione annuncia ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità morali e sociali.

Ha detto qualcuno che davanti a questi problemi, meglio forse sarebbe che prendesse il passo la riforma agraria od industriale. Vengano queste riforme: noi le auspichiamo nell'interesse del popolo per l'avvenire dell'Italia. Ma considerate (cronaca o storia, piccole o grandi parole, dove c'è l'eco di un dolore umano e di una ingiustizia sociale da riparare, le parole se non sono, si fanno grandi e la cronaca diventa storia!) che i principî qui riconosciuti tendono a quella ricostruzione morale della Patria che non è meno preoccupante e meno urgente, e in ogni caso è anch'essa una faccia della ricostruzione sociale! Aderisco alla voce di coloro che hanno postulato, come premessa alla norma dell'articolo 25, l'adozione di mezzi più idonei per la ricerca della paternità. Penso che su questo saremo tutti d'accordo, anche perché quella invocazione si disegna nell'Assemblea come un arco che va da quell'estremo (Accenna a destra) a questo estremo (Accenna a sinistra), ai punti terminali del quale vedo con gioia due uomini della mia terra: nella proposta di emendamento del collega Caroleo, nell'adesione ad essa data dall'onorevole Gullo. E, dunque, passi con più alta forza l'articolo 25, fatto più efficace, più fecondo direi. Non si tratta di una questione di pietà, di un gesto di carità. È un problema che nasce anche esso da un grande turbamento sociale, che non meno degli altri, non meno di quello che sta a fondamento del principio che contrasta l'indissolubilità del matrimonio, può qualche volta avere delle espressioni parossistiche.

Or non è molto, la gente di una contrada nobilissima d'Italia è stata commossa, sconvolta nell'anima da un terribile fatto di sangue: due vite stroncate con la violenza, e l'uccisore che gridava davanti al giudice: «Ero in bisogno; ho ucciso i congiunti ed eredi fortunati del mio padre ricchissimo che mi aveva misconosciuto ed obliato: vi dò la prova della filiazione, ho persino nel sangue le tare del suo sangue; ascoltatemi».

Si sentì rispondere dal giudice: «Non posso, perché la legge lo vieta».

L'episodio si richiuse su due tombe ed un ergastolo!

Ed allora, o colleghi, anche questo dovere sociale noi compiremo.

Una preoccupazione ho avanzata e ne ho dato il segno in un altro emendamento proposto. Ancora un «assicura», un «garantisce» dei tanti del progetto di Costituzione!

Noto che, sul principio della eguaglianza di stato giuridico fra i figli nati fuori e nel matrimonio, non mi pare siano affacciate decise avversioni; le eccezioni sono per lo meno pochissime. Però sono state fatte presenti difficoltà di realizzazione pratica almeno nel primo momento, quando forse fra il costume e la legge, mentre questa verrà in un certo senso ad urtarlo, per correggerlo, potrebbe sorgere un contrasto non utile, fosse anche dannoso.

Da questo il mio emendamento, che vuole porre in questi termini il problema: che l'impegno sia dalla legge assunto per una realizzazione graduale, secondo le possibilità più sicure di attuazione sempre con la volontà tesa alla realizzazione più vasta, profonda, totale del principio così come è enunciato.

E la mia preoccupazione è rafforzata da un caso che ricavo dalla legislazione straniera. L'articolo 25 (vedi il caso: lo stesso numero) del Codice sovietico del 1926 enuncia la stessa norma contenuta nell'articolo 25 del nostro progetto di Costituzione. Ma alcuni anni dopo, evidentemente per la pressione di situazioni pratiche che hanno contrastato alla norma scritta, un altro articolo di un ukase del Presidium del Soviet supremo, contestava alla madre il diritto di richiedere gli alimenti per il figlio nato da matrimonio non registrato.

Ora, o signori, noi dobbiamo preoccuparci di non procurare, per quanto è possibile prevedere, smentite a questa Costituzione che noi vogliamo garante della vita nuova democratica e repubblicana d'Italia.

Questo, onorevoli colleghi, è il pensiero del Gruppo repubblicano. Questo pensiero sarà integrato dai colleghi che parleranno sulle norme che riguardano le provvidenze, sociali sanitarie e sui problemi della scuola. Ma nella scuola o nella famiglia o in ogni campo della vita nazionale, esso non ha che una guida: l'idea morale; una forza: la libertà; una meta: la giustizia sociale. (Applausi).

Presidente Conti. È iscritto a parlare l'onorevole Longhena. Ne ha facoltà.

Longhena. Signor Presidente ho davanti a me l'orologio e scrupolosamente osserverò il tempo. Quindi i colleghi non paventino il mio cognome. (Si ride). Ho ascoltato i numerosi discorsi dei colleghi apprezzando la profondità giuridica, la loro profondità filosofica, ed i colleghi non attendano da me nessun discorso o di giurista o di filosofo, benché per anni ed anni io abbia insegnato filosofia. Qui io porto soltanto la mia esperienza di insegnante, porto quarant'anni di vita vissuta in ogni ordine di scuole medie, qui porto l'amore che ho avuto per la scuola, ed anche le sofferenze che ho patito nella scuola, quando l'ho vista imbastardita e corrotta dal fascismo. Cacciato da essa, permettete che da questi banchi io la difenda e difenda, sovrattutto la classe degli insegnanti, che in questa discussione è stata completamente dimenticata.

Ho letto con attenzione, ho riletto ed ho ammirato i discorsi dell'onorevole Moro, dell'onorevole Dossetti, la parola calda del collega onorevole Marchesi; ma, permettetemi che ve lo dica: tutte quelle discussioni hanno turbato la semplicità del problema; e non meravigliatevi se io qui lo riconduco alla sua scarna nudità.

Me ne dà occasione la gentile collega onorevole Bianchini. Sì, noi socialisti (io appartengo da tanti decenni al partito socialista) non abbiamo mai negato o contestato ad alcuno la libertà di aprire scuole. Questa libertà l'Italia l'ha sempre avuta.

È stato più facile aprire una scuola, colleghi carissimi, che non aprire una bottega o uno spaccio di bevande alcooliche. (Commenti).

Questa libertà noi l'ammettiamo; perché noi sappiamo che cos'è l'insegnamento, onorevole collega Bianchini.

Noi sappiamo che opera d'arte è l'insegnamento, e che non è da tutti accostarsi a tale opera di estrema delicatezza.

E quindi, quando qua e là sorge qualcuno che sa plasmare anime, che sa essere fratello all'anima trepida del giovinetto, noi con tutto il cuore applaudiamo.

Aprite tutte le scuole, insegnate nel modo che credete, spalancate gli orizzonti, colleghi della democrazia cristiana; non saremo mai noi che ve lo impediremo.

E noi non apriremo scuole per il nostro partito, nonostante l'invito che ieri ci veniva rivolto da qualche collega della vostra parte. Noi non vogliamo la scuola socialista, comunista, democristiana; vogliamo la scuola, quale l'abbiamo concepita noi vecchi, alla fine del secolo scorso, al principio di questo, quando la scuola italiana era veramente degna di essere ammirata; quella scuola italiana, che ha dato magnifiche prove di sapienza e di probità.

Ora, io credo che il difetto noi l'abbiamo in noi stessi. Abbiamo discusso di questo problema e non abbiamo — permettetemelo — esaminato la scuola, quale è stata nell'ultimo ventennio; ce ne siamo scordati completamente. Gli italiani hanno nobiltà di sentimenti, ma hanno un difetto gravissimo: dimenticano troppo (pensate, oggi è proprio l'anniversario della liberazione di Bologna; ebbene, forse i miei concittadini hanno dimenticato, alzandosi questa mattina, che due anni fa il nostro cuore è sussultato di immensa gioia); noi dimentichiamo troppo spesso, dimentichiamo quasi sempre. Ed abbiamo dimenticato il fascismo. I popoli sono grandi quando amano, ma sono grandi anche quando ricordano; noi manchiamo di fantasia, non sappiamo rappresentare davanti a noi il recente passato, non traiamo da questo recente passato l'insegnamento necessario. Dimentichiamo che il fascismo ha incominciato con una proposizione: fascismo uguale all'Italia. Dopo questa equazione immediatamente si è impadronito della scuola, ed ecco nella scuola la dottrina del fascismo, la prosa balzellante e nevrastenica di Benito Mussolini, eccola davanti agli occhi dei giovani, spiegata ed analizzata dai professori.

E non dimenticate che il fascismo ha incominciato ad impadronirsi della scuola il giorno che ha dichiarato essere la riforma gentiliana la riforma prima del fascismo, la riforma più fascista, quella riforma che è stata considerata base, fondamento e che sola ha resistito al tempo. Però essa ha un grave difetto, difetto (lo ricordino i colleghi quali parole uscirono dagl'insegnanti migliori, quando la riforma gentiliana fu annunziata) che fu subito rilevato: era una riforma che si basava sul sospetto negli uomini che dovevano giudicare alla fine i loro scolari. Ed incomincia da questo momento il disordine della scuola media; sì, signori, incomincia da qui: i professori si sentirono come staccati dalla scolaresca, proprio nel momento in cui essi dovevano constatare l'opera d'arte da loro compiuta, ed allora divennero gli alleati sinceri dei loro alunni, gli alleati per eludere ai nuovi giudici, che non venivano soltanto a giudicare della maturità dei giovanetti, ma a giudicare anche della capacità di insegnare dei loro colleghi.

L'esame di Stato, così come è stato attuato, ha creato le scuole private: le scuole private nascono, fioriscono e si moltiplicano; sono l'ambiente dove si vuole plasmare l'anima del fanciullo e del giovinetto, dove qualche volta si crea una magnifica opera d'arte, dove qualche volta si fa del male. Però, scusate, amici democristiani, di qui alle conseguenze che voi avete tratte corre un abisso. Che voi apriate scuole, è ottima cosa, e noi plaudiamo; che voi insegniate, siamo d'accordo ed approviamo, ma che voi turbiate e contaminiate questo meraviglioso compito che è quello dell'insegnare, con un'altra funzione, che è quella del promuovere, e dar titoli, e distribuire diplomi, no, amici, voi dovreste per primi rinunciare a questa seconda attività. Lo ricordo benissimo quando negli anni lontani venivano le vostre suore a presentare le loro alunne a noi insegnanti pubblici; allora le vostre suore presentavano dei campioni talora eccellenti di preparazione e di attenzione amorosa. Continuate ancora così e non domandate né parificazioni, né pareggiamenti; parole queste che non devono per di più entrare in un articolo di Costituzione. Ma, amici miei, avete notato che l'articolo 27 incomincia con un atteggiamento ed una solennità grandi, affermando che l'arte e la scienza sono libere? Io non avrei parlato così. L'arte e la scienza sono libere indipendentemente dalla proclamazione della Costituzione italiana; anzi, l'arte e la scienza esistono indipendentemente da ogni affermazione. Voi lo sapete. L'arte che s'inchina alla volontà dell'uomo cessa di essere arte, e la scienza la quale diventa schiava degli uomini di parte si vendica di essi e cessa di essere scienza. La Repubblica francese ha parlato più alto e la Repubblica di Weimar ha più semplicemente detto che garantisce all'arte ed alla scienza libertà di insegnamento. Quindi, io presenterò una modificazione, perché non dobbiamo prendere atteggiamenti di soverchia solennità. Però, badate, dopo l'inciso solenne e dopo l'aggiunta «libero è il loro insegnamento», voi arrivate ad una codificazione di piccole cose che sono intollerabili in un progetto di Costituzione.

Se in un progetto di Costituzione voi volete porre la parificazione ed il pareggiamento delle scuole private alle scuole pubbliche, e volete porre i rapporti fra l'una e l'altra, voi fate della legislazione comune che altrove trova il suo posto più adatto. Fate qualcosa di bello e di solenne che i posteri possano ammirare, e non siano tentati a deridere.

Ora, voi democristiani — perché io nella mia piena obiettività so collocarmi anche dal vostro punto di vista — voi avete chiesto che nell'articolo 7 restasse l'accenno ai Patti lateranensi, L'avete sostenuto con grande abilità, l'avete sostenuto con amore, ed io ho ammirato la vostra arte e con sincerità, come si ammirano le cose che sono al di fuori di noi; ma quando mi risento uomo che appartiene ad un partito, allora dico che è necessario che voi non stravinciate. Avete vinto sull'articolo 7: a voi basti la prima vittoria né vogliate aggiungere trionfo a trionfo.

Infatti, se domani collocherete nei vari commi dell'articolo 27 e la parificazione e le scuole private e tutti i rapporti di esse con lo Stato, ditemi un po', la riserva dell'articolo 7, cioè che il Concordato può essere rinnovato senza che la Costituzione abbia ad essere revisionata, questa riserva, sarà possibile? No, perché nella stessa Costituzione è indicato un determinato modo di giudicare gli alunni attraverso l'esame di Stato. È orribile, amici miei, che noi eterniamo, nella nostra Costituzione repubblicana, quella forma particolare di esame che è stata escogitata da Giovanni Gentile e ne porta il nome. E, notate, l'esame di Stato senza tal nome era presente nella legislazione italiana dal 1885 fino al 1890 ed anche oltre, perché io che vi parlo ho dato tutti gli esami di Stato; ma allora non si chiamavano così e non avevano quel volto truce che poi hanno assunto.

Uberti. L'esame di Stato fu presentato da Benedetto Croce per la prima volta.

Tonello. Ma fu da noi bocciato nella Commissione permanente.

Longhena. Non crediate che noi abbiamo uguale venerazione per gli uomini e per le loro idee. Noi siamo liberi e combattiamo anche se le idee che non ci piacciono escano da uomini del nostro partito. Noi perciò combatteremo l'esame di Stato che ha avvelenato la scuola italiana. (Approvazioni).

Ve lo dice uno che per tanti anni ha assistito con occhio indifferente allo svolgersi di tutto ciò, e non è escluso che io possa, raccogliendo tutte le mie modeste memorie, scrivere un libro e, credete a me, ne verrebbe fuori...

Uberti. Un successo editoriale.

Longhena. ...no, un libro che meriterebbe di esser letto; ma non mi interrompano. Io non ho interrotto voialtri; d'altra parte so e posso rispondere.

Presidente Conti. Onorevole Longhena, non tenga conto delle interruzioni.

Longhena. Io non vorrei che la scuola italiana, per la quale io parlo, continuasse con quel volto doloroso che ha avuto dal 1923 fino alla guerra, e con quel volto veramente volgare e laido che ha avuto dal 1940 in poi. Ma non dovete nemmeno voi acconciarvi all'esame di Stato, non dovete invocarlo, se amate la scuola media; se volete che nella scuola media si affermino la bellezza e la bontà dei nostri insegnamenti, non domandate che la scuola media sia ancora, come è stata nel passato, ridotta ad umile cosa con l'esame di Stato. (Approvazioni).

Ora, amici carissimi, io penso che la libertà dell'insegnamento nessun partito debba discuterla. È un fatto che è nella natura umana, e non vorrei nemmeno per sogno che fosse modificato; quando noi parliamo, quando conversiamo, bene spesso insegniamo. Vorrei perciò che l'insegnamento fosse liberissimo, però vorrei anche un'altra cosa: che si garantisse nella Costituzione, come ha detto magnificamente l'onorevole Bernini, libertà per gli insegnanti. No, amici carissimi, l'insegnamento della scienza e dell'arte dichiarato libero si può prestare a due interpretazioni: cioè che tutti possono insegnare liberamente la scienza e l'arte, e che liberi sono nel loro insegnamento gli insegnanti.

Ora questa seconda garanzia noi vogliamo; vogliamo che all'insegnante sia garantita piena libertà; quindi ha ragione Bernini: libertà della scuola, ma anche nella scuola.

Ora, voi avete ottenuto grandi cose: l'insegnamento della religione cristiana, del catechismo in tutte le scuole. Non so se ne abbiate avuto un vantaggio.

Io penso che, se fossi un democristiano, vorrei la revisione di questa concessione, perché io che conoscevo la scuola prima e l'ho vissuta anche dopo, ho visto che l'azione della parola catechistica e cristiana non è arrivata alla meta necessaria. Ora, voi avete ottenuto questo: il sacerdote è come un collega in mezzo ai professori, ha il diritto di discutere degli alunni, ha il diritto di discutere delle promozioni; fermatevi; non vogliate avere anche la scuola da cui si distribuiscano diplomi e licenze, perché mal si combinerebbe la funzione dell'insegnare con la funzione del distribuire titoli, che noi permettiamo soltanto all'insegnante governativo, il quale nella scuola è il tutore della cultura al di fuori ed al di sopra dei partiti; non è legato alla scuola, non è legato da vincoli di interesse. Mentre invece — ed è logico — le vostre scuole alla fine dell'anno mettono persino nel giornale il numero dei promossi. Voi lo vedete che la questione eminentemente spirituale dell'insegnare diventa una questione anche...

Tonello. Bottegaia.

Longhena. Non suggeritemi una parola che non voglio pronunziare, ma, insomma, vi è mescolato l'interesse; non vorrei questo per voi, per l'alto concetto che ho dell'insegnamento.

Ora, amici democristiani ed amici di altre parti di questa Assemblea, io ho davanti agli occhi un ricordo; ho fatto l'insegnante nell'altro secolo ed ho continuato anche in questo, ho frequentato le scuole nell'altro secolo; conosco quelle scuole, le ho davanti; e non è perché il vecchio guardi con compiacenza il lontano passato, quando era povero d'anni; no, perché quelle scuole hanno lasciato nell'animo mio un profondo sentimento di riconoscenza. Io ricordo quel buon professore il quale, avendo uno di noi, in un'ora di leggerezza, lanciato una bestemmia, raccolse il suo capo fra le mani, chinò la testa e dopo un po', col volto rigato di lacrime, ci disse tutto il suo dolore; dolore che non era artifizio, che era sincerità. Ora, io ho davanti quegli uomini, li ricordo tutti, perché con essi feci le prime battaglie nella federazione degli insegnanti delle scuole medie; ricordo i Faifofer, i Decia, gli Albertazzi, i Brocchi; ricordo tutti questi valentissimi uomini, pieni di sapere, pieni di probità, pieni di dignità. Ora, costoro oggi sentirebbero la morte nell'anima se, sollevando il capo dalla tomba o dal chiuso dei loro studi, vedessero la scuola italiana com'è. Non contribuite, o amici democristiani, a renderla ancor più brutta. Salviamola: è necessario. Restituiamo al professore interezza di compiti, completezza di funzioni, come un tempo.

E non è perché io sia un laudator temporis acti: no; ma perché quella scuola era bella. Ricordate il ginnasio-liceo dell'altro secolo? Era un fiore di scuola, serena, lieta, sana.

Restituiamo dunque questa bellezza alla scuola media italiana; allontaniamo da essa tutto ciò che può contaminarla ed intorbidarla. Collega Bianchini, io invoco la sua solidarietà; abbandonate quello che a voi non deve importare, se a voi preme soltanto aprire gli animi e schiudere le coscienze al vero, al bello, al buono. (Applausi Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti