[Il 21 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Spallicci. Onorevoli colleghi, dopo che eminenti rappresentanti del diritto, emeriti insegnanti e illustri docenti universitari hanno parlato lungamente, sia concesso anche ai medici, cui non fu dato entrare nelle Sottocommissioni, dire una loro parola. Metterò a fuoco l'articolo 26 del progetto di Costituzione.

Qualcuno vi ha veduto un accenno pleonastico: tutelare la salute, promuovere l'igiene. Che cosa potrebbe fare di diverso uno Stato che si rispetti? Esistono dei doveri fondamentali di civiltà elementare su cui potrebbe sembrare ozioso soffermarsi. Ma, se abbiamo ammesso che la libertà personale è inviolabile, potremmo anche dare diritto di cittadinanza all'articolo che parla della sanità e promuove l'igiene. Questa provvidenza sanitaria non aveva incontrato le simpatie di una Repubblica molto lontana nel tempo, e direi anche nello spazio, perché era soltanto nella fantasia raziocinante di un filosofo, dico della Repubblica di Platone, perché i malati cronici, gli invalidi erano inesorabilmente estromessi da quello stato ideale.

L'assistenza da parte dello Stato era consentita soltanto all'uomo sano che poteva incorrere in malattia di poco conto. Solo l'uomo sano aveva diritto di essere curato dal medico. Voi ricorderete, nella conversazione socratica, quel falegname che si rivolge al medico chiedendogli un rimedio, un revulsivo, un purgante, un emetico, che lo liberi sollecitamente dalla infermità che lo affligge.

Non ho tempo, egli dice, per seguire un lungo regime; io debbo servire il mio lavoro, non posso servire la malattia. E allora, se resiste, bene, altrimenti è abbandonato al suo destino.

Soltanto al ricco è adunque consentito di potersi curare? No, nemmeno a lui, perché l'assiduità delle cure inibisce l'esercizio della mente e della virtù. Qui sarebbero pregiudicati gli interessi della famiglia come là quelli dello Stato. Non metterebbe conto vivere se la vita dovesse scendere goccia a goccia nel lucignolo riarso della lampada prossima a spegnersi.

E allora voi vedete che in questa Repubblica ideale entravano appena per la scala di servizio l'assistenza sociale e la tutela della sanità. L'ombra del Taigeto vi domina. Del resto Socrate, che metteva al bando i troppo cagionevoli di salute come anche i poeti, avrebbe preteso che i medici avessero in precedenza sofferto tutte le malattie, per fare su loro stessi quella esperienza che i nostri giovani fanno negli ospedali e nelle cliniche. D'altro canto si attribuiva al medico un duplice compito, curare i corpi e le anime. Rupe Tarpea e Taigeto, che abbiamo visto ritornare di fosca attualità ad opera del nazismo, col fuoco, coi gas, coi forni crematori per eliminare gli invalidi, i cronici e gli indesiderabili.

Ma il dovere sociale incombe su di noi e ci detta nuovi compiti nella vita civile. Per comune accezione, tutti sanno che lo Stato è tenuto a provvedere nei casi di epidemia alla difesa dei cittadini. Provvede contro assalti violenti o insidiosi, contro l'infezione malarica, ad esempio, che è tornata di triste attualità in Sardegna e nella media e nella bassa valle del Liri, nei pressi di Cassino, dove il provvidenziale, ma costoso D.D.T. riesce a risanare l'ambiente.

Ma vi è un'altra assistenza, che si esplica in momenti di tregua patologica: essa è quella assistenza sociale di cui sono segno tangibile gli istituti per la invalidità e la vecchiaia. In questo campo, noi vediamo che anche l'articolo 34, dei rapporti economici, ritorna sull'argomento, come già vi accenna l'articolo 26.

Chi abbia avuto campo di visitare questa desolata umanità degli invalidi e dei vecchi che si raccolgono nelle corsie di quegli istituti, ha avuto la sensazione di una rassegnata vecchiaia che, nell'affievolimento degli affetti della famiglia, non vede attorno a sé, non dico quella poca gioia dell'urne dopo il compianto dei tempi acherontei, ma neppure alcuna speranza, nella squallida ora del giorno, per questa carenza affettiva che anticipa nei congiunti la rituale rassegnazione per il previsto giorno del lutto.

Le bocche inutili, quando se ne vanno non inducono al pianto. Forse le nostre classi meno abbienti vanno gradualmente assuefacendosi a questa dura legge degli assedi?

Necessità è una spietata legge. L'operaio, l'impiegato, il pensionato, condannato a vivere in quei campi di concentramento che è il grande agglomerato urbano, e in perpetua contesa col caroviveri, col caro-alloggi, col caro-salario, col caro-stipendio, col metro della breve risorsa deve misurare l'indispensabile.

Ed allora non c'è posto per il vecchio. Il vecchio deve essere abbandonato alle cure dello Stato. Se una legge impone ai genitori l'obbligo di alimentare, educare ed istruire i figli, noi pensiamo che ce ne debba essere anche un'altra che imponga ai figli di alimentare i genitori che siano incapaci al lavoro per vecchiaia o per invalidità.

Mi direte: Codice civile. Va bene. Mi direte: principî ovvi di morale; ma pensate che tutta la civiltà millenaria della Cina è basata su questo affetto filiale.

Quando io guardo queste grandi case-alveare delle nostre città, in cui l'aria è contesa al respiro, penso con nostalgia a quelle piccole casette-villette che l'«Umanitaria» aveva costruito a Milano, fuori di Porta Ludovica, con un piccolo quadrato di terra accanto, e penso che questa cubatura d'aria che si va contendendo all'operaio, all'impiegato, al pensionato, domani possa essere ridonata con una maggiore generosità, anche lontana dalle città, come avevano pensato i primi fondatori dell'«Umanitaria» milanese.

Queste bocche inutili che si allontanano, questo esodo dei vecchi dall'ambiente familiare, è ben una triste cosa. Un nuovo vangelo di bontà noi dovremmo predicare alla gente. Dovremmo fare in modo che non sia solo lo Stato a provvedere. Non è soltanto con l'elevare di tono economico la famiglia che noi potremmo ridonare vita al fervore e alla solidarietà degli affetti. Abbiamo bisogno che questo edonismo imperante sia sostituito da una forza morale. Certe forme esteriori di religiosismo interiore rappresentano degli alibi a un egoismo interiore, perché, per la grande maggioranza del popolo, le religioni vivono di rendita di un grande capitale spirituale dei fondatori e degli apostoli.

Abbiamo bisogno così di vivificare questo senso di religiosità nelle nostre folle, nel nostro popolo italiano. In attesa di una resurrezione delle fedi, richiamiamo lo Stato ad un compito suo ben prefisso: «Lo Stato tutela la salute e promuove l'igiene». Noi del Gruppo medico parlamentare composto di rappresentanti di tutti i partiti che vanno dall'estrema destra alla estrema sinistra, al primo comma abbiamo presentato un emendamento che sostituisce il primo comma dell'articolo 26, in cui si parla di cure gratuite garantite agli indigenti: «La Repubblica si propone la tutela della salute come un fondamentale diritto dell'individuo e come un generale interesse della collettività».

Ci sembra che in questo modo possa essere molto bene assolto il compito della Repubblica. Qualcuno aveva accennato ad una eugenetica di Stato.

Nello scorcio del secolo passato, verso il 1865, se non erro, fu un inglese, il Francis Gaerton, che iniziò questo apostolato dell'eugenetica e non era forse la prima voce che si levava perché già il nostro Campanella nella sua Città del Sole aveva pensato di selezionare le coppie destinate al matrimonio. Gaerton si era riproposto il problema. Si era detto: perché essere così provvidi e attenti nelle selezioni dei cani, dei cavalli, dei conigli e non pensiamo alla razza umana? Dal 1865 al 1905 egli lanciò questa idea di una responsabilità eugenica del matrimonio. L'argomento fu molto discusso allora e in vario senso. È noto che certe malattie, come l'epilessia, come la mania depressiva, come la demenza, provocano delle anomalie ereditarie. Come provvedere? In Italia già nel 1913, per opera dell'Artom, del Niceforo, del Mangiagalli, del De Sanctis, si era fondato, presso la Società romana di antropologia, un comitato di studi di eugenetica. Poi, con il Pestalozza ed il Gini, si fondò un'altra società che aveva gli stessi compiti. Ma se l'eugenetica si studia di porre i problemi della trasmissione ereditaria dei caratteri, e pone l'accento sulle devastazioni prodotte nella prole dall'alcoolismo e dalla criminalità, la nostra civiltà latina non varca mai i confini di quella eutanasia che vorrebbe sopprimere i disgeni come antisociali.

Noi ricordiamo le parole di un poeta, Maurizio Maeterlink: I medici e i sacerdoti, accostandosi al letto del malato o del morente, rendono sempre più paurosa l'idea della morte. Si allontanino, rivedano un po' le loro idee — diceva sempre il Maeterlink — giorno verrà in cui la scienza non esiterà ad abbreviare le nostre disgrazie, la morte sarà una cosa dolce e serena. La vita se ne andrà, piano piano, come la luce del giorno cede al crepuscolo della sera.

Ma, dicevo, per la nostra civiltà latina questo argomento è già superato di gran lunga. Possiamo ripetere con orgoglio le parole di un grande maestro, Augusto Murri: «Fra noi ed il malato sta tacito, ma sacro, il giuramento che fino all'ultimo suo respiro noi combatteremo per sottrarlo alla morte».

Ho accennato a questa idea di eugenetica, perché un tempo si parlò a lungo di certificati pre-matrimoniali. Si disse un tempo che bisognava creare delle razze elette, ma io non ho nessuna intenzione di sfogliare davanti a voi le romanticherie di «Un giorno a Madera», né tornare sull'argomento di un tempo, perché questi selezionatori avevano sì, indubbiamente, concetti sani e lodevoli, si preoccupavano realmente della vita della società, ma scordavano anche la vita spirituale. Il matrimonio non ha solo finalità procreative. Dal Soglio pontificale, in una Enciclica del 31 dicembre 1931 si disse che: non terrae et tempori sed coelo et aeternitati generarim. Non dimentichiamo questa duplice missione del matrimonio. Come fra la dittatura e la libertà sconfinata, così fra questa eugenetica, considerata troppo rigorosamente, ed una specie di agnosticismo che considera la malattia come una specie di fatalismo, c'è questa via di mezzo della diffusione delle norme igieniche, per cui tutti quanti dovrebbero realmente porsi il problema del matrimonio ed il problema della ereditarietà, nel giorno in cui scelgono la compagna della propria vita.

Dovremmo noi restare indifferenti, per esempio, a quegli incroci tra razza bianca e razza nera, che hanno tanto preoccupato la nazione inglese?

Lungi da noi il pensiero di razza inferiore o razza superiore.

Chi rivendica a maestro Arcangelo Ghisleri, lascia ben volentieri certi temi ai nazionalismi esasperati delle supernazioni. Ma questi incroci tra razze che hanno scarsa affinità non sono fatti per migliorare il nostro tipo umano.

I mulatti sono scarsamente resistenti al logorio ambientale dei nostri climi e molto vulnerabili dal dente delle malattie.

In Italia ne abbiamo 11.000 (statistica dal gennaio al giugno 1945). Su queste creature noi ci curviamo con la stessa trepidazione con cui ci curviamo sopra tutte le culle, come davanti a un punto interrogativo del mistero della vita. E pensiamo, col rossore nel volto, che questo colore italo-nero, nelle guance di questi bimbi rappresenta il senso di abiezione della Patria; e questo senso di tristezza lo sentiamo tutti quanti nel cuore, come senso angoscioso di responsabilità per tutti. Ad un dato momento, questa ondata di corruzione è passata sul nostro Paese, perché, oltre alle violenze delle truppe saccheggiatoci, liberatrici, ossessionate dal sensualismo, c'è stata anche la prostituzione e la corruzione. Noi ci volgiamo a questi illegittimi collo stesso sguardo con cui guardiamo tutti gli altri nostri bambini.

Nessuno, dunque, nel rinnovato clima della nostra libertà e della nostra democrazia, può pensare alla sterilizzazione. I compiti della salute pubblica sono ben altri. Noi caldeggiamo un'idea, che, naturalmente, non può trovar posto nella nostra Costituzione. Pensiamo alla obbligatorietà della visita. Lo Stato dovrà affacciarsi nella vita civile non soltanto col volto del questurino, a chiedere la carta d'identità, ma a chiedere anche la carta di sanità.

Bisognerebbe che ognuno vincesse quel pudore che si ha a volte di fronte a certe malattie. Dovremmo avere un'anagrafe che indicasse con precisione tutte le malattie cui possiamo andare soggetti. Questo potrebbe valere come difesa della collettività e come difesa dell'individuo.

Pensate, ad esempio, alle devastazioni cancerigne. Il malato non se ne accorge che quando la malattia ha fatto degli inesorabili progressi. Pensate alle devastazioni diabetiche. Ad esempio, un malato, colto da coma in mezzo alla strada e trascinato al pronto soccorso, viene sottoposto dal medico di guardia alla solita iniezione di olio canforato, che può non fargli più riacquistare i sensi, mentre una iniezione di insulina avrebbe potuto ridargli la vita. Ma questo si può ottenere dalla indicazione glicemica della carta di sanità, che il malato potrebbe avere in tasca. Così, il medico di guardia può comprendere questo S.O.S. dell'organismo in sofferenza e provvedere opportunamente.

Noi pensiamo a questa obbligatorietà, ma non ce ne nascondiamo le difficoltà.

In Inghilterra i medici sono stati ostili a questa innovazione. I medici inglesi considerano il malato come cosa privata, non pensano a questo grande sistema di socialità e di assistenza.

Abbiamo degli istituti di assistenza; non vorrei alludere a quelli, che hanno fatto così cattiva prova, come le nostre Mutue, le quali sembra che rendano più agli amministratori, che non ai malati ed ai medici. Dicevo, assistenza; noi dovremmo trovare il modo di assistere l'individuo giovando alla collettività. Vi sono compiti poi che lo Stato dovrebbe incoraggiare. Un giornale medico che ho sott'occhio me ne indica uno: quello della dietetica. In questi giorni, è stato inaugurato, a Niguarda, nell'Ospedale Maggiore di Milano, un corso di dietetica e il professore Ragazzi ha invocato che questo corso non sia soltanto riserbato ai medici, ma che questi ne diffondano le nozioni alle assistenti sanitarie, che dovrebbero, in questa carenza alimentare che ci affligge, sorvegliare le mense collettive, le mense aziendali. Sono avvenuti dei casi d'intossicazione, per totalismo da ingestione di carni guaste, in due stabilimenti industriali milanesi. La sorveglianza delle mense industriali può essere provvidenziale non soltanto per misurare il numero delle vitamine, il che potrebbe sembrare un'algebra alimentare, ma per impedire il consumo di alimenti deteriorati.

È doveroso un accenno sia pure fugace sulla maternità ed infanzia. Il binomio madre-bambino dev'essere affermato. Ci sono delle istituzioni provinciali, regionali che vanno rimesse in onore. Noi siamo dei regionalisti: pensiamo al decentramento della regione, pensiamo che queste iniziative provinciali e regionali devono essere incoraggiate, e rese armoniche in un senso nazionale. Ma pensiamo che la madre che ha ottenuto dei vantaggi, potendosi allontanare a tempo opportuno dallo stabilimento quando si avvicina il momento del parto, può farsi poi portare il bimbo nelle apposite sale di allattamento. Ma dovrebbe anche ottenere licenza quando il bambino è ammalato.

Vorremmo che vi fossero delle scuole nelle quali si potesse insegnare anche il compito della madre. Ho qui delle statistiche, fatte da un egregio collega milanese, le quali riferiscono l'alto numero di madri nubili, raccolte in determinati istituti. In questi istituti che sono di beneficenza si insegna il cucito e il ricamo, ma non si pensa al compito materno che dovrebbe avere la donna. Uscendo da questi istituti di beneficenza la donna potrebbe essere un'infermiera magnifica per i nostri nidi di infanzia. Le istituzioni di assistenza alla maternità ed infanzia erano precedenti al fascismo, che in parte le ha trasformate e ha bene operato: non dobbiamo distruggere quello che di benefico si è fatto, soltanto perché è stato fatto dal fascismo.

Dovremmo istituire nella Capitale una Cassa di compensazione fra tutti gli istituti ostetrici e di pubblica assistenza, con il compito di attuare una giustizia distributiva fra tutte le istituzioni periferiche.

Ho finito. Desidero soltanto aggiungere due parole su un altro argomento. Nell'articolo 26, ultimo capoverso; si accenna al divieto di «pratiche sanitarie lesive della dignità umana».

Dopo le delucidazioni date da un membro della Commissione, l'onorevole Corsanego, dovendo ritenere che le pratiche lesive della dignità umana vogliano indicare la sterilizzazione, crederei di omettere la frase, per non lasciare nessuna traccia di certe pratiche nefande. Come in certi codici non si parlava neppure del parricidio per l'orrore che destava quest'orrendo crimine nell'animo del legislatore, ma si preferiva ignorarlo.

Anche noi non lasciamo traccia di queste barbarie senza nome nella nostra Costituzione.

Dunque, dicevo, assistenza sanitaria, assistenza che non trasformi i malati in postulanti ed i medici in fiscali. Non bisogna rimettere nelle condizioni il medico di essere un fiscale. Chi ha vissuto durante la guerra nei posti di medicazione e di soccorso sa quale ribellione avveniva nell'animo del medico di fronte al soldato che si trasformava in autolesionista. Tutto questo cercheremo che non avvenga negli istituti di protezione della sanità di domani. Dunque, per il medico, la «pietà che l'uomo a l'uom più deve» e per tutti: una salus publica, che deve essere suprema lex; salus che non sia soltanto nel senso politico, ma anche una valetudo effettiva. Noi, che siamo degli ottimisti inguaribili, pensiamo che dopo il tempo buio ci attende una giornata di sole; noi, di fronte all'ignaro tubercoloso che disperde il proprio sputo quasi come un ordigno esplosivo a tutta offesa del prossimo, pensiamo alla Sancetta di Jenner, alla fiala di Behring, ai sulfamidici, alla penicillina; pensiamo che al di là della trincea c'è il vaiolo, le difterite, tutte le malattie infettive e dobbiamo e vogliamo dare uno scudo al cittadino perché si difenda.

Questo grande compito sociale non ci trova divisi, ma tutti riuniti nella difesa della Repubblica che coincide colla difesa dell'umanità.

Se noi abbiamo ammesso che tutti i cittadini, che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge, dobbiamo anche affermare che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla morte, ma dovremmo fare diseguali gli uomini in questo senso: faremo più provvidi e resistenti alle malattie quelli che seguiranno queste regole, questi principî, e quelli che sentiranno che non è soltanto lo Stato che deve tutelare, ma anche i cittadini stessi, che hanno un dovere da compiere ed un impegno che non possono tradire (Applausi Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti