[Il 18 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Bruni. [...] Onorevoli colleghi! Il soffio innovatore di una Costituzione si rivela da molte cose, ma è soprattutto misurabile, anche a mio parere, come testé ha sottolineato l'onorevole Gullo, dal conto ch'essa fa dell'istruzione e dell'educazione.

Il soffio innovatore di una Costituzione può essere soprattutto avvertito e valutato rispetto alla possibilità concreta che è in grado di offrire ad ogni cittadino di elevarsi moralmente ed intellettualmente.

La risoluzione dei problemi sociali, essendo strettamente legata alla coscienza che i cittadini hanno dei loro doveri e dei loro diritti, è evidente il gran conto che la Repubblica è tenuta a fare dell'istruzione e dell'educazione.

[...]

L'attuale panorama scolastico italiano presenta tre categorie di scuole: primo, le scuole statali; secondo, le scuole non statali che ottengono il riconoscimento giuridico, distinte in «pareggiate» e «parificate»; terzo, le scuole non statali che detto riconoscimento non richiedono.

Nella seconda categoria di scuole non statali (quelle che richiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli) l'articolo 27 del progetto non fa menzione delle scuole così dette «pareggiate», e parla soltanto di «parificazione».

È augurabile che tale omissione possa essere interpretata nel senso che, d'ora in poi, debba cadere la distinzione oggi esistente tra queste due categorie di scuole e che ambedue, d'ora in poi debbano classificarsi, a parità di diritti e di doveri, tra quelle scuole non statali che richiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli.

Ad ogni modo, data la situazione di fatto, non mi pare che la dizione del comma 4° dell'articolo 27 sia, a questo riguardo, sufficientemente chiara e riesca a comunicarci con precisione il pensiero del legislatore sul regolamento delle scuole non statali.

È necessario adottare una dizione inequivocabile che non faccia più uso degli aggettivi «pareggiate» e «parificate», oggi attribuiti alle scuole e ponga in altri termini quello che dovrà essere il nuovo ordinamento delle scuole non statali.

A tale scopo ho proposto di sostituire il quarto comma dell'articolo 27 con il seguente:

«Le scuole che ottengono il riconoscimento giuridico dei loro titoli, acquistano, nella libertà del loro particolare indirizzo educativo, gli stessi diritti, e si sottopongono agli stessi obblighi di quelle statali. La legge determina le condizioni di tale riconoscimento».

Della terza categoria di scuole (di quelle che non chiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli) si dice nel terzo comma dell'articolo 27 che sono soggette «soltanto alle norme del diritto comune e della morale pubblica».

In verità da questo tipo di scuola lo Stato richiede troppo poco. Esso viene meno ai suoi doveri, e dirò in seguito perché.

Come si vede dalla terminologia da me usata nel classificare i diversi tipi di scuole, ho abolito quella corrente di «scuole pubbliche» e «scuole private», essendo una terminologia che tradisce l'esistenza di falsi concetti sulla missione della scuola che non si possono più coltivare, se vogliamo rispondere alle imperiose esigenze di un ordinamento scolastico democratico e nazionale.

Neanche nel progetto di Costituzione viene usata la vecchia terminologia; ma è un fatto che rimane e vi agisce in pieno il vecchio concetto.

Tutte le scuole hanno di fatto un carattere «pubblico».

Tutte le scuole, e cioè ogni tipo di scuola, appartengono alla comunità italiana.

Tra la scuola «statale» e «non statale» non dobbiamo più mantenere quella separazione esistente al giorno d'oggi.

L'attuale ordinamento scolastico è anarcoide, ed il progetto di Costituzione non lo corregge, lo ribadisce.

D'ora in poi bisogna partire dall'idea che l'insegnamento che si impartisce nella scuola non statale, nei suoi vari tipi, è un servizio non meno «pubblico» di quello che s'impartisce nella scuola statale, e che perciò lo Stato, o chi per esso, ha il dovere di sorvegliarle e di far gravare su di esse, nell'ambito della libertà d'insegnamento, tutto il peso della sua autorità, rivolta al bene comune e all'instaurazione della più rigorosa giustizia verso i professori, verso gli alunni, verso le famiglie degli alunni.

Si dice comunemente che lo Stato deve assumere un costante atteggiamento «laico» o di «neutralità» rispetto al problema dell'educazione.

Posso adottare anch'io una tale terminologia. Ma uno solo è il significato, legato a questa terminologia, che stimo accettabile.

C'è, innanzi tutto, da osservare che la così detta «laicità» e «neutralità» dello Stato rispetto all'educazione, non può davvero significare «indifferenza», sic et simpliciter.

Sull'educazione del fanciullo gravitano per così dire, tre diritti: uno del fanciullo stesso, uno della famiglia, uno della comunità politica.

Nella personalità stessa del fanciullo, che deve svolgersi nella spontaneità e non può essere sottoposta a coercizione, né interiore né esteriore, l'educazione della famiglia e della Repubblica trovano dei limiti naturali ed invalicabili.

La famiglia ha il diritto di presentare al fanciullo, nell'ambiente scolastico, il sistema di verità assolute in cui crede, e nell'esercizio di questo suo diritto non solo non può essere disturbata dai poteri pubblici, ma deve essere da questi aiutata.

La Repubblica, oltre a questa sua funzione di difesa e di garanzia dell'educazione familiare, ha, inoltre, una sua missione educativa, derivatale dal dovere di assicurare una base di vita comune alle famiglie, che sono spiritualmente diverse.

La parte di educazione che spetta in proprio alla famiglia e quella che spetta in proprio alla Repubblica sono di per sé complementari e non si dovrebbero escludere l'una dall'altra, e non entrare in collisione. Esse costituiscono due aspetti dell'educazione dell'uomo, che è necessariamente unitaria.

Fedele alla sua stessa verità e specifica missione, lo Stato ha il dovere di impartire in proprio, o comunque, di esigere sia impartito, in tutte indistintamente le scuole, quel tipo di educazione che è atto a conservare la comunità politica e questa comunità politica, e cioè un'educazione «civica» ed «italiana»; allo stesso tempo.

Lo Stato ha «una» sua funzione educativa, diretta a rendere possibile la civica convivenza, delle diverse correnti politiche e spirituali, e a salvaguardare le tradizioni e il carattere della civiltà italiana.

C'è una tradizione storica e culturale italiana, per cui conosciamo ed amiamo il nostro Paese, e questa tradizione dev'essere presentata ai giovani di ogni categoria di scuole, sia statali che non statali.

I poteri pubblici non solo devono sorvegliare l'igiene, la morale, la didattica, ecc., delle scuole non statali, ma anche esigere che l'educazione ideologica e confessionale, che ivi s'impartisce, non uccida l'educazione civica.

Il tipo di educazione che lo Stato è tenuto ad impartire e che deve rigorosamente esigere sia impartito anche nelle scuole non statali, è quello della tolleranza civica; è il civismo di tipo democratico.

Su ciò la Repubblica non può transigere, senza compiere un gesto suicida.

Ho perciò proposto di aggiungere il seguente comma all'articolo 27: «Le scuole di qualsiasi tipo compiono un servizio pubblico e sono tenute ad impartire un insegnamento ed una educazione civica di ispirazione democratica e nazionale».

Dalla mia esposizione risulta che i poteri politici devono compiere due interventi «positivi» in campo educativo.

Uno con l'impartire o col pretendere sia impartita, una educazione «civica e nazionale»; l'altro col garantire di fatto alle famiglie l'esercizio del loro diritto che sia presentato dalle scuole ai loro figli il sistema compiuto di verità, filosofiche o religiose, in cui credono.

A che cosa, dunque, si riduce la «laicità» e «neutralità» dei poteri politici in campo educativo?

Non certo ad un atteggiamento di inimicizia verso la libertà dello spirito e la conseguente libertà di insegnamento.

L'autentico spirito laico consiste nel rifiuto a prendere partito per una determinata corrente spirituale, a scapito delle altre; ma non può manifestarsi come disinteresse perché esse si manifestino e possano convivere politicamente.

In una comunità «politica» giudicherei pertanto iniquo ogni monopolio dell'educazione, esercitato da parte di chi si sia.

Tale essendo la posizione autenticamente «laica» (tanto diversa da quella «laicista»), essa non può manifestarsi ostilmente e aggressivamente verso le diverse correnti spirituali.

In un autentico ordinamento scolastico laico, tali correnti devono tutte trovare un ambiente accogliente. Innanzitutto nelle scuole statali stesse. Così la «laicità» delle scuole statali non può certamente spingersi in Italia sino ad allontanare da esse l'insegnamento, per esempio, della storia della Chiesa, del diritto canonico ed ecclesiastico, della storia dell'arte religiosa, né quella del dogma e del catechismo cattolico, sia pure a titolo facoltativo ed informativo.

Se non vogliamo cadere in un bigottismo laico, possiamo ignorare, non dico la «verità» ma la «realtà» religiosa italiana? E si può dire di professare rispetto ed intelligenza verso la cultura italiana stessa, se ignoreremo l'anima e la storia del cattolicesimo?

Mentre dico questo, non posso che confermare le critiche da me rivolte all'articolo 36 del Concordato lateranense, allorché parlai sull'articolo 7 della nostra Carta costituzionale.

L'articolo 36 su citato ha prodotto alcune situazioni preoccupanti.

Così, per esempio, senza pericolo di irreggimentazione, e perciò di falsare il sentimento religioso, non si può continuare a permettere che si esercitino pressioni, dirette o indirette che siano, su professori ed alunni, volte a far compiere collettivamente determinati atti di culto, come accade in alcune scuole statali oggi in Italia.

Ma l'ordinamento «laico» della scuola italiana deve dimostrarsi ben altrimenti accogliente e liberale. Deve preoccuparsi di realizzare, in misura totale, il principio della libertà d'insegnamento. La libertà d'insegnamento è una libertà di diritto naturale. La comunità politica non può non riconoscere l'incoercibile desiderio dei genitori ad educare ed istruire i loro figliuoli secondo le loro convinzioni, e deve venire incontro a questo desiderio, secondo le circostanze dettano direttamente o indirettamente.

La libertà d'insegnamento fa parte essenziale del gruppo delle libertà democratiche e non può non essere considerata una delle leggi fondamentali della Repubblica italiana.

Il nostro progetto di Costituzione ha fatto bene, perciò, a consacrarla nel secondo comma dell'articolo 27.

Il problema della libertà d'insegnamento investe in pieno la democrazia: esso deriva dalla libertà di pensiero.

Regime di libertà di insegnamento, è regime opposto al totalitarismo.

Diversi sono i modi con i quali lo Stato può esercitare il suo intervento per garantire l'effettiva libertà dell'insegnamento.

La scelta di questi mezzi dipende dalle contingenze sociali in cui essi sono chiamati ad operare.

Tuttavia, in ogni caso, lo Stato ha il dovere di far sì che l'esercizio di questo sacrosanto diritto sia garantito a tutti ugualmente senza distinzione di razza, di nazionalità, di religione, di censo.

Le scuole, sia statali che non statali, dovranno perciò poter accogliere tutti, a seconda delle preferenze di ciascuno. Ciò vuol dire che lo Stato deve sottoporre il suo ordinamento scolastico ad un rigoroso processo di socializzazione.

In Italia, paese povero, non basta limitarsi a riconoscere a privati e ad enti pubblici la facoltà di aprire degli istituti di insegnamento.

Non solo, nelle così dette scuole «private», i metodi didattici e la scelta dei professori generalmente lasciano molto a desiderare, ma le tasse sono così alte che — in via di fatto — sono i figli delle sole famiglie abbienti che finiscono per usufruire di esse.

Il principio della libertà di insegnamento realizzato come lo è oggi in Italia, e come lo ribadisce il progetto di Costituzione, sbocca praticamente in un regime scolastico di privilegio. Come in altri campi, anche in quello della scuola è il principio formale della libertà liberale che agisce; non quello, concretamente liberale, della libertà socialista.

La scuola non statale italiana, cattolica ed acattolica, è, infatti, frequentata dai «figli di papà». Praticamente ne restano lontani i figli delle famiglie diseredate. Lo Stato non può permettere oltre certe vergognose sperequazioni.

I cristiano-sociali non sanno che farsene dell'attuale libertà suicida delle scuole, dove gli istituti privati vivono fuori del beneficio della legge comune; al di fuori di ogni reale controllo statale; con metodi didattici manchevoli; con professori che fanno la fame; con alunni tartassati finanziariamente in ogni modo; scuole che troppo spesso rimangono inaccessibili ai figli del popolo.

I cristiano-sociali guardano ad un ordinamento scolastico non più solo formalisticamente liberale, ma liberale concretamente, con lo sposare — anche su questo terreno — l'esigenza, che è propria del liberalismo, alla esigenza, che è propria del socialismo.

Con ciò non si vuol dire che tutte le attuali scuole private sono scuole per privilegiati. Esistono delle nobilissime eccezioni. Così, scuole veramente popolari sono quelle, per esempio, di alcuni istituti cattolici, quali i Carissimi e i Salesiani.

Purtroppo ora la speculazione, per l'assenza dei poteri pubblici, si estende anche alle scuole serali, che, tra l'altro, non danno alcun serio affidamento didattico.

Lo Stato ha il dovere di eliminare tali disparità di fatto rampollate da una concezione meramente liberale e formale della libertà di insegnamento.

E lo può fare in due modi: o finanziando le scuole non statali esistenti o provvedendo esso stesso, direttamente, ad aprire scuole del tipo voluto da quelle famiglie (e con le garanzie da esse desiderate) che altrimenti si vedrebbero costrette ad inviare i loro figli a scuole che non rispondono ai loro desideri.

Ad ovviare a tutti questi inconvenienti provvede il comma aggiuntivo da me proposto all'articolo 28, che dice: «La Repubblica prenderà tutte le misure necessarie perché l'eguaglianza dei diritti di fronte all'istruzione e all'educazione sia di fatto rispettata anche nelle scuole non statali, col provvedere ad un congruo finanziamento di esse, o con l'istituire scuole statali, nel quadro della libertà di insegnamento, del tipo richiesto dalle famiglie».

Quando lo Stato s'appiglia a quest'ultimo mezzo, aprendo, per esempio, una scuola israelita o una scuola cattolica, con ciò non intende insegnare la «verità» degli ebrei, o la «verità» dei cattolici come la «propria» verità; intende soltanto assolvere al dovere — che è proprio suo — di rendere effettivo l'esercizio della libertà di insegnamento.

Se lo Stato, invece di abbracciare questa neutralità — come chiamarla? — accogliente ed aperta, si chiudesse in una neutralità astiosa e negativa, quasi di semplice tolleranza e sopportazione per l'esistenza di altre scuole, interpreterebbe in direzione dogmatica, e perciò stesso non autentica, la sua missione laica.

E verrebbe ugualmente meno alla sua missione, offenderebbe ugualmente la giustizia, e il diritto delle famiglie e degli alunni; e opererebbe a discapito della stessa serietà degli studi nelle scuole non statali se, accanto a tale affermazione del principio pluralista nel campo dell'insegnamento, parimente non riuscisse ad affermare, con la necessaria energia, il principio unitario, in modo che le scuole italiane escano finalmente dal caos in cui ora si trovano.

Gli emendamenti da me proposti mirano ad armonizzare il pluralismo giuridico, in cui si esprime il diritto delle famiglie, e l'unità, in cui si esprime il diritto della comunità politica.

Non si fraintenda il mio pensiero. Anche io con l'onorevole Binni e con altri sono del parere che l'autorità dello Stato si deve fare più attiva di quello che non è attualmente. Infatti i miei emendamenti mirano a consacrare il carattere «pubblico» di ogni tipo di scuola, a non contemplare più quel tipo di scuola che è oggi la parificata, tipo ibrido che dà scarso affidamento di serietà e sulla quale invece particolarmente insiste il progetto di Costituzione; mirano a riconoscere a queste scuole non statali parità di doveri e di diritti nell'ambito, s'intende, della libertà di insegnamento; mirano a rendere obbligatorio, nelle scuole non statali, l'insegnamento e l'educazione di carattere civico e nazionale.

La sovvenzione alle scuole non statali deve portare al loro pareggiamento e alla parità degli obblighi; la creazione, poi, da parte dello Stato, di scuole a tipo confessionale, mira allo stesso scopo pur nella più leale libertà di insegnamento. Tutti i miei emendamenti, che sono quasi tutti interdipendenti l'uno dall'altro, mirano a creare un ordinamento scolastico organico in cui la libertà di insegnamento, resa finalmente effettiva, non possa più rivolgersi contro la comunità nazionale e si svolga nell'ambito dell'unità civica degli italiani.

Mi creda l'amico onorevole Binni, non è questa l'affermazione di una tesi liberale compiuta con spirito antiliberale come egli direbbe, non è questa per i cristiano-sociali una linea tattica di ripiego; è solo l'ossequio, che sento di dover fare al principio in se stesso della libertà e della dignità della persona che mi fa abbracciare questa tesi pluralista e unitaria nell'ordinamento scolastico.

Non è per la libertà dei soli cattolici che parlo, ma per la libertà di tutti; è per la libertà dei cattolici come per la libertà degli acattolici, e cioè, parlo per la libertà di ciascuno, nel quadro della libertà di tutti, vale a dire nel quadro dell'unità civica e nazionale degli italiani.

 

PrecedenteSuccessiva

Home

 

 

A cura di Fabrizio Calzaretti