[Il 19 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Silipo. [...] Nei riguardi della scuola dirò anzitutto che, riproponendosi alla democrazia italiana, per mezzo della Costituente, le questioni fondamentali della vita nazionale, il problema dell'educazione e dell'istruzione appare in tutta la sua gravità ed urgenza.

Uscita da una guerra disastrosa, dopo un ventennale periodo di oppressione e di depressione di tutti i valori umani, diradatasi infine la caligine della barbarie medioevale in cui la violenza predominò col terrore, la Nazione non vide intorno a sé altro che rovine: rovine materiali e morali; si trovò più che disorientata, smarrita.

Triste la sorte della scuola.

Negli anni della dittatura essa fu offesa, sconvolta; la sua funzione sociale misconosciuta, la moralità del sapere distrutta, di anno in anno fu sottoposta ad una legislazione tumultuosamente caotica, con modifiche su modifiche e modifiche alle modifiche, con una ridda sfrenata di disposizioni, di decreti-legge, di leggi, non di rado in contraddizione tra di loro. Né è cosa da far meraviglia, mancando al passato regime ogni controllo da parte del popolo, il potere diretto ed indiretto di legiferare non conosceva limiti, non aveva freni, per cui il bisogno continuo di ricorrere ad emendamenti, a correzioni, a nuove leggi. Abbiamo forse dimenticato che il Ministero dell'istruzione passò per le mani di ben dodici Ministri, di indirizzo ideologico diverso, non tutti competenti e sufficientemente preparati al delicato compito di presiedere all'educazione del popolo? Abbiamo forse dimenticato che le scuole elementari sono passate per le mani di otto direttori generali, anch'essi non sempre competenti, dandosi durante il fascismo cariche ed incarichi non ai più preparati, ma ai benemeriti del partito?

A dare il colpo di grazia ad un edificio già traballante sono sopraggiunti la guerra e il dopoguerra con la distruzione di edifici e di attrezzature scolastiche, col turbamento degli spiriti di insegnanti ed alunni.

Ora tutto è da fare ex novo.

Come?

Tenaci assertori delle libertà democratiche, noi siamo per la libertà di insegnamento, e non solo per motivi contingenti, quali la lotta contro l'analfabetismo, che per forza di cose ha fatto progressi nel periodo della guerra e del dopoguerra, ed il bisogno di ristabilire il corso di studi dei combattenti e reduci, disorientati e nel tormentoso bisogno di veder chiusa per essi la non breve parentesi, durante la quale furono sottratti a qualsiasi umana attività e gettati nelle braccia del Moloch della guerra dalla volontà ebbra dei moderni Neroni della politica; ma anche perché la riteniamo una necessità dello spirito.

Il fatto però che riconosciamo la libertà di insegnamento non implica esclusione di controllo o limite da parte dello Stato, appunto perché non dimentichiamo che l'assenza di ogni controllo può far degenerare — ed il fascismo fece degenerare col concedere autorizzazioni su autorizzazioni a chi meglio pagava per ottenerle, ad intriganti ed affaristi d'ogni specie — la libertà di insegnamento privato in speculazione sfrenata.

Sentiamo quindi la necessità di un controllo severo ed oculato.

Questa necessità del resto è generalmente sentita e si manifesta evidente in quasi tutte le Costituzioni contemporanee, nelle quali, più o meno, appare accentuato il bisogno dello Stato di disciplinare e controllare il processo educativo del popolo, non per impedirne il libero sviluppo, ma le deformazioni e le degenerazioni, che sarebbero la fatale conseguenza di una malintesa libertà, di una falsa libertà d'insegnamento, che consisterebbe nel permettere a determinati aggruppamenti sociali o, se volete, pseudo-etici, d'insegnare non tutto quello che serve all'armonico sviluppo delle facoltà dell'intelletto e del cuore, ma soltanto quello che potrebbe servire ai loro fini particolaristici ed egoistici, con la conseguenza di trasformare gli educandi in automi che vedrebbero, direbbero, penserebbero, farebbero quello che si vorrebbe che essi vedessero, dicessero, pensassero, facessero.

Falsa educazione, o, meglio, ineducazione, con le conseguenze che le sono proprie: intolleranza settaria da una parte e presunzione dall'altra: quanto basta cioè per spingere un popolo sulla china rovinosa della decadenza.

Se mi fosse lecito un paragone, io paragonerei questo modo di concepire la libertà di insegnamento al metodo seguito dai compilatori di antologie, nelle quali molto difficilmente uno scrittore appare per quello che veramente è e vale, quasi sempre invece come ce lo vuol far vedere e valutare il compilatore stesso, secondo i suoi gusti e secondo le sue tendenze.

A questo punto mi si potrebbe muovere un'obiezione, che però apparirà subito superficiale. Mi si potrebbe dire: un'educazione esclusivamente statale non apporterebbe le stesse conseguenze che tu attribuisci ad un'ampia libertà d'insegnamento, come si è potuto constatare durante l'infausto regime fascista?

Anzitutto, quando parlo di rigoroso controllo statale, non intendo già dire che dovrebbero esistere soltanto scuole di Stato. Io non sono contro la libertà d'insegnamento, ma contro le possibili degenerazioni di questa e che queste siano possibili è una constatazione, dolorosa quanto si vuole, ma che ha una base nella realtà delle cose. In secondo luogo, il fascismo fu dittatoriale e tirannico e in un regime dittatoriale e tirannico non esiste libertà, ma arbitrio, oppressione, sopraffazione, per cui anche la scuola — e non può essere diversamente — è sopraffatta, oppressa, asservita: in un regime dittatoriale non si vogliono uomini liberi e coscienti, ma schiavi. Noi invece, oggi, viviamo nell'Italia repubblicana e democratica, stiamo preparando la Costituzione di un popolo risorto a libertà e perciò dobbiamo difendere questa contro i tentativi di coloro che, proprio in suo nome, vorrebbero comprimerla ed annientarla.

È questa volontà di difenderla che ci rende cauti e preoccupati: mentre lo Stato, democratico, nella forma e nella sostanza, è garanzia che nessun abuso può essere commesso contro la personalità umana nel suo processo educativo, la stessa garanzia ci viene offerta dalla scuola privata, nella quale predominano molto spesso — per non dire sempre — interessi che non sono quelli peculiari dell'educazione?

È questo l'interrogativo che ci rende esitanti e dubbiosi.

Dicevo in precedenza che in quasi tutte le Costituzioni contemporanee si nota una certa diffidenza verso la scuola privata. Difatti, ad eccezione di quanto è detto riguardo alla educazione nel progetto di Costituzione giapponese del 1946, nel qual progetto, all'articolo 21, si parla della libertà di insegnamento — l'articolo suona testualmente così: «La libertà di insegnamento è garantita», e non contiene alcun accenno a controllo o a qualsiasi altra forma d'intervento statale — sia in quella di Weimar del 1919, sia in quella sovietica del 1936, sia in quella francese del 1946, lo Stato ha una posizione predominante in materia. In quella di Weimar, per esempio, è lo Stato che si assume l'obbligo di provvedere all'educazione dei giovani mediante istituti pubblici; è esso che cura la formazione di insegnanti in modo uniforme, controlla il complesso dell'ordinamento scolastico (articoli 142, 143, 144), e, se riconosce la possibilità dell'istituzione di scuole private secondarie, prescrive che ci deve essere l'autorizzazione dello Stato, che la rilascia a condizione che esse diano le necessarie garanzie relativamente ai programmi, all'organizzazione, al trattamento economico e giuridico degli insegnanti. Lo stesso dicasi di quella sovietica, nella quale si stabilisce che la scuola viene fondata, mantenuta e diretta dallo Stato con la collaborazione delle organizzazioni dei lavoratori e delle famiglie degli alunni. In quella francese l'organizzazione dell'insegnamento di ogni grado è considerata come dovere dello Stato (articolo 25). Perfino nell'Inghilterra, che si vanta — non vogliamo dire con quanta ragione — di essere la patria di tutte le libertà, s'è sentito il bisogno, nel 1944, di creare con l'Education Act un vero e proprio Ministero dell'educazione, onde porre fine alla situazione abbastanza caotica dell'istruzione secondaria. Negli Stati Uniti soltanto manca una organizzazione centrale e ogni Stato della Confederazione ha un ordinamento proprio, con il risultato che in alcuni Stati l'organizzazione presenta un accentramento notevole, in altri invece il decentramento è massimo, sino al punto che ogni città, ogni villaggio elegge la sua autorità scolastica, per cui le differenze fra scuola e scuola sono molto rilevanti.

Ma l'organizzazione scolastica statunitense, per gli effetti che produce, non è tale da suscitare entusiasmo e desiderio d'imitazione in alcuno (questa considerazione dovremo tenere presente, allorché, parlando delle autonomie regionali, discuteremo l'articolo 111).

Tutto quanto è detto, non è stato detto per fare sfoggio di varia erudizione, ma perché noi, al lume dell'esperienza degli altri popoli, possiamo evitare eventuali errori e usufruire di sicuri vantaggi: evitare errori che, se sono in tutti i campi nocivi, lo sono molto di più allorché si tratta di formare la mente e lo spirito dei giovani, cioè della Nazione intera; usufruire dei vantaggi che agevoleranno l'avanzare della medesima nel progresso e nella civiltà.

Una sola preoccupazione ci deve animare nel fissare le norme costituzionali relative alla scuola: quella di garantire ai giovani un'educazione che, nel pieno rispetto della libertà umana, li sottrae a qualsiasi influenza settaria o confessionale, la quale deformerebbe, non formerebbe le loro coscienze. Questo deve assicurare e garantire ogni buona Costituzione.

La nostra, ora, risponde in pieno a questa esigenza da tutti sentita?

Dinanzi a questo interrogativo resto esitante, incerto, perché, se, senza dubbio, negli articoli 27 e 28 del progetto vi sono aspetti positivi e confortevoli, ve ne sono altri, diciamo così, ambigui, prodotti dal desiderio, non espresso ma facilmente intuibile nella forma in cui sono stati compilati gli articoli, di servirsi della libertà che la Repubblica dovrebbe concedere alla scuola privata a scopo di personale dominio delle coscienze. Per esempio, durante la discussione, quel persistere da parte di alcune forze politiche ad accentuare i danni di una statizzazione totale delle scuole — danni spesso ipotetici ed irreali in una Repubblica democratica; quel passare ostinatamente e volutamente sotto silenzio quelli non ipotetici e reali delle scuole private e parificate, svelano la preoccupazione di un accaparramento della istruzione, il desiderio di sfruttare lo Stato, pretendendo impegni — anche di carattere finanziario — da parte di questo, senza una necessaria o, comunque, non adeguata contropartita. E, come il fascismo si servì della libertà contro la libertà, così temiamo che alcuni enti ed individui finiscano col servirsi della libertà d'insegnamento proprio contro di questa, se non siano ben nettamente fissati nella Costituzione i limiti di questa e il diritto allo Stato d'intervenire con i suoi organi di controllo in tutte le scuole ed istituti privati — e parificati — intervento nei modi che saranno dalla legge prescritti.

Ed ancora: in quest'aula ho sentito ripetere con insistenza il tema del diritto dei genitori ad educare i figli come vogliono, il tema del diritto di scegliere per essi le scuole e gli educatori. Diritto giusto ed onesto, anche se non riusciamo a comprendere il perché si dovrebbe nutrire sfiducia verso le scuole statali di una Repubblica democratica; ma fino a questo momento non ho sentito alcuno parlare del diritto degli educandi a vedere rispettata la propria personalità.

E sarebbe ora che se ne parlasse!

Sono queste considerazioni ed altre ancora che, per brevità, tralascio che mi rendono esitante e dubbioso.

D'altra parte a me sembra che nel progetto di Costituzione ci sia troppa materia legislativa. È una Costituzione che dobbiamo dare all'Italia o una legislazione? Dobbiamo dettare norme costituzionali o leggi?

In materia scolastica, quando in una Costituzione si afferma il diritto effettivo del cittadino alla istruzione e la libertà d'insegnamento, quando si assegnano allo Stato i compiti di dettare le norme generali sull'istruzione, di organizzare le scuole statali, di vigilare in quelle non statali, di assicurare parità di trattamento per mezzo di esami agli alunni da qualsiasi tipo di scuola provengano, a me pare che sia sufficiente per una Costituzione, essendo tutto il resto materia di legislazione ordinaria.

Invece no: ci si affanna a distinguere tra le scuole che chiedono la parificazione e quelle che non la chiedono, ad elencare le provvidenze per i meritevoli, cose che appesantiscono la struttura costituzionale con elementi contingenti e danno il carattere di ieratica immobilità a quello che invece può essere soggetto a trasformarsi col tempo.

E mentre gli articoli 27 e 28 si esauriscono, in parte, in elencazioni, non appare che essi assicurino in maniera concreta e sufficiente, per il conferimento dei titoli legali di studio, il controllo dello Stato e dei suoi organi di vigilanza nelle scuole parificate, la capacità didattica del corpo insegnante e la sua indipendenza nei confronti degli amministratori o proprietari delle scuole private. Ora bisogna porre bene in rilievo che la parità delle condizioni didattiche è la premessa necessaria non solo per l'eguale trattamento degli alunni, ma anche per la parificazione dell'istituto.

A queste deficienze e agli eccessi accennati, bisogna pur riparare e ne parleremo in sede di emendamenti; qui intendiamo affermare che bisogna stare in guardia contro qualsiasi tentativo di asservire le coscienze, che bisogna salvaguardare la personalità umana nel pieno rispetto della libertà dell'educando — e non solo di quella dei genitori — che bisogna assolutamente impedire che l'educazione si trasformi in speculazione per asservire le menti e gli spiriti, perché, se è vero che l'analfabetismo è uno dei quattro cavalieri della Apocalisse — essendo esso uno dei peggiori nemici della libertà, e noi del Mezzogiorno ben lo sappiamo — non è men vero che una mente ed un cuore, deformati da un'educazione settaria, costituiscano una delle più gravi piaghe sociali, e come il primo fornì al Cardinale Ruffo le orde da scagliare contro gli eroi del forte di Vigliena e di tutta la Repubblica napoletana del 1799, così una gioventù, asservita nella mente e nello spirito, potrebbe fornire domani altre orde, altrettanto pericolose, a chi nutrisse vaghezza di attentare ancora una volta alla libertà del popolo italiano. (Applausi Congratulazioni).

[...]

Bernini. Onorevoli colleghi, volge alla fine questa faticosa giornata, come appare dal numero dei presenti e cercherò, quindi, di essere più breve che sia possibile. Non mi pare che, malgrado l'autorevole intervento di alcuni valorosi colleghi, malgrado gli accenni di parecchi altri, il problema della scuola abbia occupato un notevole tempo nei lavori della nostra Assemblea, o almeno non ne abbia occupato in proporzione all'importanza dell'argomento.

L'attenzione del pubblico è stata rivolta verso la scuola in questi giorni, soprattutto da penose e dolorose manifestazioni recenti, le quali dimostrano un profondo disagio di carattere non solo economico, ma anche morale, disagio che potrà essere sì attenuato temporaneamente con provvidenze immediate, ma che certamente ha radici troppo profonde per poter essere curato in questo momento. Eppure io credo che noi tutti siamo d'accordo sul principio che l'educazione e l'istruzione sono la base e il fondamento di ogni vera civiltà umana e tanto più una civiltà quale noi socialisti l'intendiamo, una civiltà che non sia fatta dalle minoranze, ma che sia fatta dal popolo tutto.

Spero, quindi, che, per quanto sia modesta la mia persona e modestissima la mia autorità, voi vorrete, di qualunque parte siate e a qualunque partito apparteniate, ascoltarmi benevolmente, quando io rivolgerò la mia attenzione solo ed esclusivamente su questi due articoli: l'articolo 27 e l'articolo 28 del progetto di Costituzione.

Quali sono i principî fondamentali di questi due articoli? Sono cinque. Il primo, se non nuovo, se non formulato mai in Italia, è profondamente maturo per lo spirito nostro, ed è questo: «L'arte e la scienza sono libere e libero è il loro insegnamento»; il secondo attribuisce allo Stato non già il compito di istruzione, ma quello di determinarne le norme generali; il terzo stabilisce che la scuola privata sia soggetta soltanto alle norme del diritto comune, cioè non sia sottoposta ad alcun controllo da parte dello Stato; il quarto stabilisce che la scuola privata parificata, cioè la scuola privata sottoposta a vigilanza didattica da parte dello Stato, si trovi sullo stesso piano della scuola pubblica — il che, se non sbaglio, significa anche che questa scuola deve essere mantenuta dallo Stato, come la scuola pubblica; il quinto, l'unico principio veramente nuovo e rivoluzionario, stabilisce che i capaci, i meritevoli, anche se privi di mezzi, possono raggiungere i più alti gradi dell'istruzione.

Credo che sia constatazione perfettamente obiettiva la seguente: che in tal modo si conferiscono alla scuola privata, per la prima volta in Italia, diritti quali non si poteva maggiori. Infatti, secondo tali principî, le scuole private o sono perfettamente pari, ad ogni effetto, alle scuole pubbliche, o sono esenti da ogni controllo da parte dello Stato.

Riconosco che i principî di questi articoli non hanno suscitato le diffidenze, le reazioni, le proteste, le discussioni che avrebbero suscitato un tempo, per esempio trent'anni fa. Certuni troveranno una spiegazione nel rinnovato clima politico e sociale dei nostri tempi; io credo invece che la ragione vera e profonda di questa mancata reazione, stia nel fatto che tale reazione al potere dello Stato nel campo della scuola, in nome dei diritti dell'individuo, sia come una reazione al fascismo. Come voi sapete — non ho bisogno di insegnarlo a voi, onorevoli colleghi — secondo il fascismo, la politica era la vita dello Stato nell'individuo; per il medesimo principio la libertà non era nell'individuo, era nello Stato; lo Stato come organismo autonomo, etico, aveva in sé autorità su tutto e su tutti. Lo spettro del fascismo è ancora presente, e poiché il fascismo aveva tutto attribuito allo Stato, così, per una reazione naturale, ma eccessiva, ora si tende a togliere tutto allo Stato, in nome del diritto di libertà. Non si pensa abbastanza che oggi lo Stato non è più lo Stato fascista, ma è lo Stato democratico. E per di più c'è un'altra ragione: si confonde lo Stato con la burocrazia. Ora, noi che veniamo dalla provincia, sappiamo tutti che non c'è nulla di più impopolare in Italia della burocrazia, che ne è l'organo, e di questa Roma, la capitale della burocrazia. Sono certo immensi i mali dell'elefantiasi burocratica, dell'accentramento amministrativo, ma siamo sinceri: alla burocrazia, a Roma, capitale della burocrazia, si attribuiscono tutti i mali, anche quelli che noi portiamo in noi, quei mali che contribuiscono a rendere la burocrazia ciò che essa è.

Poi ci sono le cause più remote di questo antistatalismo, che si vuole identificare con l'antiburocrazia.

Peccato che mi manchi il tempo per esaminare queste cause! Se questa non fosse un'Assemblea politica, sarebbe esame tutt'altro che inutile.

Prima è il campanilismo — detto un giorno, con parola più nobile, municipalismo — vivo in ogni tempo presso gli italiani e rincruditosi straordinariamente, soprattutto nelle classi sociali e nelle regioni politicamente più immature, in questo dopo guerra. La storia si ripete. Già caduto Napoleone, si reagì violentemente contro lo spirito unitario che questi ci aveva imposto. Allora, voi lo ricordate, il Foscolo satireggiò l'aria dei nuovi tempi, con il famoso epigramma contro il «sincero milanese» divenuto «Nemico nato d'ogni maledetto — forestiero italiano — che ci consuma l'aria del paese».

Confluiscono insieme al municipalismo parecchie correnti politicamente inquiete: l'individualismo romantico, il razionalismo religioso e il cattolicismo liberale dell'800 francese, il liberalismo astratto e, più recente, il sindacalismo soreliano e il nazionalismo. Sicuro, anche il nazionalismo — che noi vedemmo qui nella sua attività pratica, statalista e burocratica — il nazionalismo francese di Barrés e di Maurras, fu antistatale, regionalista e decentratore. Barrés chiamò il re presidente delle Repubbliche francesi.

Ma sopratutto si accordano in questo — chi l'avrebbe detto? — le due grandi correnti regionaliste e autonomiste del nostro Risorgimento, figlie di pensiero avverso e inconciliabile quanto altri mai, la repubblicana e la cattolica, sconfitte entrambe dall'unitarismo di Cavour, nel 1861. Da una parte, Rosmini e Gioberti; dall'altra, Ferrari e Cattaneo.

Ma lasciamo stare. Vero è che, se il pensiero cattolico è riuscito a permeare di sé una parte notevole della Costituzione, in particolare è riuscito a far prevalere tutti i suoi principî negli articoli 27 e 28.

Si potranno magari giudicare ottimi tali principî, non si potrà negare la verità di tale affermazione.

Credo d'avere sufficiente conoscenza del pensiero cattolico in materia scolastica per poterla fare.

Chi eventualmente neghi tale prevalenza assoluta, è pregato di precisare quale dei postulati fondamentali del pensiero cattolico vi è stato pretermesso.

È principio generale, in ogni negoziato, che si chieda di più, per ottenere meno. Ma in questo campo è stupefacente come i colleghi democristiani abbiano ottenuto, alla fine della discussione, molto di più di quanto chiedessero in partenza.

Chi voglia persuadersene, confronti gli articoli proposti nella sua acuta relazione dal collega onorevole Moro, Relatore della prima Sottocommissione, con gli articoli definitivamente approvati.

Osservi come gli articoli, passando da una stesura all'altra, divenissero sempre più favorevoli alla tesi democristiana.

Si confronti la prima formula votata all'unanimità, dico all'unanimità, dalla prima Sottocommissione, relativa alla funzione dello Stato in materia di istruzione. È questa: «L'istruzione primaria, media e superiore, è fra le precise funzioni dello Stato». L'ultima formula è: «La Repubblica detta le norme generali dell'istruzione».

Dal confronto, potete trarre delle illazioni molto facili.

Si osservi il terzo comma dell'articolo 27:

«Le scuole che non chiedono la parificazione sono soggette soltanto alle norme per la tutela del diritto comune e della morale pubblica».

Questo terzo comma compare per la prima volta nell'ultima stesura della Sottocommissione di coordinamento.

Ma esaminiamo piuttosto gli articoli nel loro complesso. La critica delle singole parti la faremo semmai in sede di emendamenti.

Taluni hanno affermato che questi articoli sono il risultato di un compromesso. A me non pare se, per compromesso, deve essere inteso quel senso di reciproca, di leale comprensione, di cui ha già parlato acutamente l'onorevole Togliatti.

A me pare che il compromesso, se c'è stato, c'è stato in senso deteriore, cioè nel senso che consiste nell'equivoco.

Infatti noi troviamo abbastanza equivoca la definizione dei compiti dello Stato: «La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione; organizza la scuola, ecc.». In virtù di quale principio? E perché la Repubblica e non lo Stato?

Ed ancora più equivoca è la forma del comma quarto dell'articolo 27, laddove si parla di «parità di trattamento agli alunni a parità di condizioni didattiche». Che vuol dire? Ciò, secondo numerosissime pubblicazioni cattoliche, che io posso esibire a chiunque di voi colleghi si rivolga a me, ciò non può significare che questo, che lo Stato manterrà le scuole private come quelle pubbliche, o peggio ancora contribuirà alle spese di ogni alunno privato, così come contribuisce alle spese di ogni alunno delle scuole pubbliche.

L'onorevole Colonnetti, nel suo discorso onesto, sereno, leale, sincero, senza ambagi di carattere giuridico, lo ha implicitamente ammesso. Qualche altro lo ha negato. Ora chi è autentico interprete, fra gli uni e gli altri?

Molti oratori hanno censurato la tendenza del progetto di Costituzione a invadere il campo costituzionale, con norme puramente Legislative. Ma questo difetto, se c'è nelle altre parti, c'è soprattutto in questo articolo.

In una Carta destinata a vivere, come ci auguriamo, molti anni e secoli, si è fissato l'esame di Stato, si è preteso di pietrificare istituti di incerta natura e carattere e definizione assolutamente impossibili giuridicamente, introdotti in parte recentemente, legati a particolari contingenze. Da qui vengono tutte le inesattezze e le incertezze.

Né con questo, onorevoli colleghi democristiani, io intendo farvi una censura; lo dico con tutta sincerità. Voi siete stati degli abili combattenti, avete combattuto per le vostre idee e di questo voi dovete essere soddisfatti. Io riconosco, e lo riconosco sinceramente, la perfetta vitalità d'un pensiero come il vostro, il quale ha saputo rimanere sostanzialmente immutato attraverso tanti secoli, il quale si è saputo adattare alle varie diverse circostanze, sapendo prendere dagli altri pensieri tutto ciò che vi era di meglio in Italia.

Naturalmente, noi sosterremo invece nel campo istituzionale la tesi opposta. Poi discuteremo tutti gli articoli e tutti gli emendamenti, cercando di essere, per quanto possibile, obiettivi e non settari e speriamo che anche i colleghi dell'altra parte ci seguiranno.

Vorremmo però che, in sede di polemica fra voi e noi, la questione non si ponesse in questo modo: da una parte gli statolatri democratici, dall'altra i cattolici zelatori della libertà. Anche quelli di noi che pongono un particolare accento su questo argomento, sanno bene che in una società progredita le istituzioni scolastiche tendono il più possibile a svincolarsi dalla dipendenza dello Stato, ma lo Stato rimane l'unico tutore, garante della libertà, quando le istituzioni scolastiche non danno piena garanzia di libertà e di indipendenza. Noi affermiamo la libertà, la perfetta libertà di insegnamento nello stesso identico modo con cui affermiamo la libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Riconosciamo ad ognuno il diritto di aprire delle scuole.

E permettetemi un'altra brevissima divagazione storica. Non è vero, neppure in sede storica, che ci sia antitesi fra la democrazia cosiddetta laica e la libertà d'insegnamento. È vero l'opposto. Certo, anche nella democrazia ci fu la tendenza giacobina. È vero che Danton disse «L'enfant est à la République», è vero che Robespierre fece un progetto di legge per cui i francesi erano trattati da Spartiati, e c'erano non scuole, ma conventi di Stato.

Ma Condorcet affermò il diritto di libertà all'insegnamento. Condorcet diceva che i diritti dello Stato si devono conciliare con i diritti naturali della persona umana e della famiglia. Voi vedete in questo, ripetuta presso a poco, la formula cara ai pensatori cattolici. La libertà d'insegnamento fu proclamata dalla Convenzione del 1793 e poi fu ancora proclamata nel 1830, dopo la caduta dei Borboni, e poi ancora nel 1848.

Nel 1848 l'Assemblea nazionale votò un articolo che comincia così: «L'enseignement est libre». Vedete presso a poco la stessa formula che abbiamo ripetuto noi.

E veniamo all'Italia. I principî della legge Casati del 13 novembre 1859 sono ispirati ad un completo spirito di libertà. Per la prima volta in vita mia ho sentito dire, in questa aula, (veramente non l'ho sentito dire, ma l'ho letto nei giornali) dal nostro collega onorevole Tumminelli che la legge Casati è animata da spirito totalitario.

Nel 1907, voci autorevolissime si alzano al Congresso degli insegnanti delle Scuole medie, per dichiarare che la libertà d'insegnamento deve essere affermata come una libertà elementare. La stessa riforma Gentile del 1923 è una riforma di tipo democratico e liberale: è figlia di uno spirito di libertà. L'ha detto altra volta il nostro collega onorevole Preti. Si stupirà di tale affermazione solo chi pensi al Gentile di poi, apologeta e teorico del fascismo, ma ignori che la Riforma Gentile fu il risultato di una lunga elaborazione anteriore, di carattere liberale. Il fascismo, se mai, sciupò, al solito, un principio giusto e nuovo. Ed è tanto vero ciò, che la riforma fu, dopo, attenuata e snaturata, finché fu poi soppressa.

In Francia, dopo la liberazione (e questo è meno noto) la cosiddetta Commissione Philip, presieduta da Andrè Philip, che è un socialista, arrivò perfino a proporre sovvenzioni alle scuole private, ma dopo che si fosse assicurata una ripartizione geografica delle scuole, corrispondente ai bisogni reali delle popolazioni.

Questo dimostra — me lo permetta il collega onorevole Dossetti — che il popolo francese, in tale materia, non è arretrato di 40 anni.

Su che si fonda questo diritto alla libertà dell'insegnamento e della scuola, postulato dal pensiero cattolico?

Come s'è già detto, un tempo poggiava quasi esclusivamente sul diritto della famiglia, diritto considerato nativo e inalienabile, superiore a ogni altro diritto.

Sulla famiglia società naturale s'è già rivolta la critica di parecchi. Non mi soffermerò dunque sull'argomento.

Ora il pensiero cattolico prende piuttosto come fondamento il diritto dell'individuo all'educazione, presso a poco come lo faceva il Condorcet.

Tale pensiero è fondamentale, se non erro, nella relazione del collega onorevole Moro.

Secondo il collega onorevole Moro — cito il testo preciso — l'educazione va intesa «come sviluppo progressivo della personalità umana».

Il diritto del fanciullo «è un diritto che spetta in proprio al fanciullo come uomo in fieri, senza che questa incompleta formazione devii verso terzi, famiglia o Stato, la sua titolarità». (Approvazioni).

Sennonché, perché il diritto del fanciullo sia veramente tale, non deve coincidere con nessun altro diritto:

non con il diritto della famiglia;

non con il diritto della Chiesa;

non con il diritto dello Stato.

Se no, è evidente che s'annullerebbe in essi. Questo è il punto.

Del bambino non si può disporre come d'un bene senza possessore. Non può disporne lo Stato, come l'ha voluto per un istante la Convenzione. Ma neppure può disporne interamente la famiglia, non la Chiesa, perché il bambino è soprattutto se stesso.

A chi dunque spetta la scelta del maestro: allo Stato o alla famiglia?

La famiglia dice: questo ragazzo è mio, perché nato da me, perché esprime nel suo sangue e nelle sue vene coloro che l'hanno generato e la lunga teoria degli avi.

Senza dubbio.

Ma questo bene è soprattutto in deposito. Il bambino è soprattutto se stesso.

Si dice che la scelta del maestro per opera dei genitori è una specie di prolungamento delle loro lezioni, che il maestro non è che il supplente del padre, quasi lui stesso, investito dalla sua fiducia, e quindi dei suoi diritti.

Ammettiamolo pure.

Ma neppure questa scelta investe il maestro dei diritti del fanciullo. Lo ammette anche il collega onorevole Moro.

Così, per noi socialisti, che non ci vergogniamo di essere eredi della civiltà liberale e democratica in tutto ciò che essa ha di vitale, il diritto della famiglia e il diritto dello Stato si limitano a vicenda, perché ambedue sono limitati dal diritto del fanciullo.

In conclusione: diritto del padre nella famiglia e per la scelta dei maestri fuori della famiglia:

soprattutto difesa del fanciullo esercitata dalla famiglia, contro il prepotere dello Stato e della società, se la società e lo Stato si facessero tirannici e oppressivi;

esercitata dallo Stato, in difesa dell'individualità del fanciullo e per la libera esplicazione della sua personalità umana.

È il nostro concetto, e non è neppure socialista, ma è democratico, della scuola che vorrei chiamare laica, se questa parola non avesse sfortunatamente assunto da noi un significato fazioso, più che altrove. Non come in Francia, dove la parola «laico» è stata messa come appellativo della Repubblica, e non solo presso i democratici francesi, ma persino in una lettera pastorale recente dei vescovi di Francia; ma, onorevoli colleghi, questo è soprattutto il pensiero e la formula di Filippo Turati, del nostro Turati, il quale contrapponeva alla formula equivoca di «libertà della scuola» l'altra formula di «libertà nella scuola», cioè duplice libertà, sia da parte del maestro sia da parte del discepolo. E vi è anche la vecchia formula che ci deriva dai secoli: res sacra puer, cioè il fanciullo è cosa sacra. Noi adotteremo quindi la formula della libertà nella scuola.

In nome della libertà effettiva d'insegnamento, il pensiero cattolico chiede che le scuole private siano mantenute dallo Stato come quelle pubbliche.

Orbene, noi, proprio in nome della libertà effettiva di insegnamento, in nome della libertà della scuola e nella scuola, siamo nettamente contrari a ciò.

Dimostreremo altrove con cifre e dati che, per molti versi, la scuola privata si trova oggi in condizioni vantaggiose rispetto alla scuola pubblica e che, se mantenuta dallo Stato, verrebbe a trovarsi in condizioni di tale privilegio, da far sparire, nel corso di pochi anni, la scuola pubblica.

Il collega onorevole Colonnetti, nel suo discorso, riconosce il valore della scuola di Stato, riconosce che debba vivere. Ma come vivrà, se non si prenderanno provvedimenti? Ciò non significa che la scuola pubblica sia incapace di sostenere la concorrenza, a parità di condizioni.

D'altra parte, non ci può essere concorrenza, quando non ci siano almeno due concorrenti. Non ci può essere, se esista un solo tipo di scuola.

Voi dite d'essere contrari alla scuola di Stato, perché essa può portare al totalitarismo. Non neghiamo il pericolo. Proprio per questo siamo favorevoli alla libertà di insegnamento, perché essa può correggere le eventuali deviazioni dello Stato. Ma sta di fatto — permettete che ve lo dica — che il fascismo favorì la scuola privata e confessionale; che, nel 1941, quando la Germania totalitaria stava per vincere, il regime di Vichy, totalitario e complice della Germania, non favorì le scuole pubbliche, ma le scuole private e confessionali.

Recentemente, in una bella e intellettuale rivista cattolica, assai nota, Études, Jean Rolin dichiara deplorevole che la scuola libera si identifichi oggi con la scuola confessionale cattolica.

Uberti. E allora fatela voi.

Bernini. Ritiene che la causa della scuola libera sarebbe più facile a difendersi, se ci fossero, in numero notevole, scuole libere non confessionali. Ma che fare se i protestanti e gli ebrei rinunciano spesso alla scuola confessionale, e accedono volentieri alla scuola pubblica?

Né valgono in contrario gli esempi di alcuni paesi, come il Belgio, dove la scuola privata è posta quasi a pari della scuola pubblica. Là può essere necessità determinata dalla pluralità delle confessioni religiose. Perché dovremmo rinunciare spontaneamente a questo vantaggio nostro dell'unità religiosa? Ancor meno validi gli esempi dell'Inghilterra e degli Stati Uniti, paesi di tutt'altra mentalità e di tutt'altra tradizione scolastica.

Ma, se noi, come ha detto autorevolmente l'onorevole Nenni, siamo contrari alla scuola organizzata dal partito socialista o che ad esso si ispiri, permettetemi di essere contrario anche a quella organizzata o ispirata in qualche modo dal partito democristiano.

Nulla di quanto sopra dovrebbe trovare ostilità nei cattolici, se essi vogliono veramente la scuola libera, la libertà della scuola e la libera concorrenza.

I colleghi democristiani possono in tal modo sfatare le accuse che si sussurrano contro di loro: di voler la libertà per sé e di negarla agli altri. (Proteste al centro).

Noi speriamo che i colleghi democristiani non accettino quanto ho letto recentemente, in una petizione alla Costituente di una associazione cattolica per la scuola: che la libertà d'insegnamento non deve esserci e che «i genitori italiani non intendono lasciare i propri figli a disposizione di questo o quel docente che se ne voglia servire a loro insaputa per sperimentare su di essi nuove teorie sociali o morali».

Se con ciò si vuol dire che nella scuola non deve assolutamente farsi politica, d'accordo. È proprio quello che sosteniamo noi, in difesa della scuola pubblica. Ma se significa che gli insegnanti devono essere di opinione conformistica, dove vanno a finire la libertà e la democrazia?

Secondo e ultimo punto per noi essenziale è che il solo Stato conferisca i titoli legali di studio. In ciò mi pare che mi conforti l'opinione autorevole e decisa del collega onorevole Colonnetti di parte democristiana, là dove egli ha scritto: «Spetta esclusivamente allo Stato il conferimento dei diplomi di abilitazione all'esercizio delle varie professioni».

Noi riconosciamo volentieri che ci sono parecchie scuole private, confessionali o no, serie e degne di ogni considerazione. Noi però affermiamo, e lo affermiamo per conoscenza diretta, che l'odierna spaventevole inflazione dei diplomati e dei laureati si deve in gran parte all'incauto sistema delle parificazioni instaurate dal fascismo e dal cosiddetto esame di Stato della carta della scuola Bottai, per cui gli esami si fanno, non più dinanzi ad una Commissione di Stato unica, ma nell'interno dei singoli istituti.

Ma di ciò parleremo a suo modo, in sede di emendamenti.

Quando, o colleghi della Democrazia cristiana, noi fossimo d'accordo su questi due punti: primo: non ricorrere a provvedimenti che, indirettamente, mettano in grave inferiorità, anzi facciano scomparire la scuola pubblica in confronto della scuola privata, pur nell'ampio riconoscimento della libertà di insegnamento; secondo: riconoscere al solo Stato il conferimento dei titoli di studio, noi potremmo essere d'accordo su tutto.

A questa libera e solenne Assemblea appartengono almeno due uomini illustri, gli onorevoli Bonomi e Orlando, superstiti fra quanti parteciparono a quella che fu, se non erro, l'ultima libera discussione in materia scolastica. (In materia scolastica, come in tutto il resto, il fascismo non conobbe la discussione, ma solo il monologo).

Fu nell'estate 1910, quando si discusse la legge Daneo-Credaro, per l'avocazione allo Stato della scuola elementare. Anche allora, molte proteste si levarono, in nome del diritto della famiglia e dei comuni, contro lo Stato accentratore. Ma oggi non c'è più nessuno, credo, il quale neghi che quella legge giovò alla scuola italiana.

Nel secolo scorso, memorande discussioni sulla scuola risuonarono in tutti i Parlamenti d'Europa.

La Francia ne dette l'esempio in ogni tempo, dalla rivoluzione del 1789 ad oggi. Ricorderò solo i grandi nomi dei cattolici liberali, dopo la restaurazione, Montalembert, Lamennais e Lacordaire.

Anche il Parlamento italiano dette degno esempio, dalla discussione del 1857, che precedette la legge Casati, saggia regolatrice per molti anni della scuola italiana, alla discussione della legge (1877) per l'istruzione elementare obbligatoria, alla discussione (1908) sull'insegnamento religioso.

Tali grandi nomi e grandi esempi non devono intimidirci. Tutt'altro. Permettetemi che lo dica, sarebbe gran danno se una questione così fondamentale passasse in silenzio, votata solo a colpi di maggioranza, fra l'indifferenza dei più.

Spero quindi che nessuno s'impazientirà, anzi tutti saranno lieti, se nella discussione degli emendamenti si cercherà la via migliore. E che nessuno s'impazientirà se, eventualmente, sarà chiesto l'appello nominale in taluni casi.

Per quanto ben modesto fra di voi, mi permetto d'augurarmi che tutte le correnti d'idee e tutti i gruppi e partiti politici partecipino a questa discussione con serenità, ma ben precisando il loro atteggiamento e assumendone la precisa responsabilità.

Preghiamo gli amici repubblicani a considerare questi articoli 27 e 28 non solo in sé e per quello che letteralmente dicono, ma anche in funzione dell'ordinamento regionale che essi sostengono, e viceversa. Ciò vuol dire che, a suo tempo, quando discuteremo della regione, li inviteremo a considerarla in funzione e in relazione agli articoli 27 e 28, quali che essi siano nella loro stesura definitiva.

In altri termini, particolare gravità assumerà l'eventuale posizione di superiorità della scuola privata sulla scuola pubblica, qualora s'introducesse l'ordinamento regionale.

Del genuino pensiero liberale, espresso dal maggior pensatore che onori oggi l'Italia, non dubitiamo. Ma al nostro illustre collega onorevole Einaudi è attribuita nei verbali della seconda Sottocommissione una frase che merita d'essere chiarita. Egli si dichiara favorevole a dare ampio potere legislativo alla regione, non solo per l'istruzione elementare, ma anche per l'istruzione media e universitaria, in quello che è ora l'articolo 109 del progetto, che attribuisce alla regione potere legislativo in armonia con la Costituzione e con i principî generali, «perché non vede quali pericoli all'istruzione elementare potrebbero derivare dal togliere l'ingerenza in questa materia allo Stato, che finora non ha fatto altro che male».

Io temo che l'illustre economista, il quale ha parola di ampia lode e stima per gli insegnanti, sia tratto a vedere nella scuola una impresa puramente economica. Certo, lo Stato non è così abile amministratore come certi gestori di scuole private, ma non è con tale misura che conviene misurarne l'opera. (Approvazioni Applausi a sinistra).

Se ben ricordo, l'onorevole Corbino ha detto recentemente qui dentro che non si può sapere quel che farebbe oggi Cavour, su una determinata questione. Ahimè, è vero! Sia detto senza offesa alla grande ombra di Cavour, noi abbiamo visto troppo spesso gli uomini cambiare di pensiero e di atteggiamento, per essere assolutamente certi di ciò che farebbe Cavour, ma intendo Cavour uomo. Mi pare invece di essere certo sull'atteggiamento della sua dottrina, la quale resta quella che è indicata nella Relazione a sua maestà per la legge Casati. Per quella legge fu lasciata la più ampia libertà all'autorità paterna; ai privati furono richieste quelle prove di capacità e di moralità che possono dare alla società e alle famiglie sufficienti garanzie; ai corpi morali fu consentita notevole larghezza perché potessero utilmente valersi della propria iniziativa e dei propri mezzi. La legge Casati fu insigne monumento di libertà, per tutti, controllata necessariamente dall'autorità dello Stato.

Né noi socialisti temiamo di apparire solo difensori di posizioni liberali e democratiche, difendendo la scuola pubblica. Marx ed Engels hanno dimostrato che le classi proletarie, già escluse dalla vita politica, quanto più entrano in essa e vi acquistano forza, tanto più si fanno portatrici di esigenze universalistiche, fra le quali principalissime l'educazione e l'istruzione.

C'è forse qualcuno qui dentro il quale, permettete che lo dica, con l'ingenuità dell'astuzia, ritiene che dobbiamo puntare solo sulle riforme politiche ed economiche e che il resto verrà da sé. Mi permetto di dire che in questo semplicismo sbaglia; sbaglia anche chi eventualmente pensi che si può concedere qualunque altra cosa nel campo dell'istruzione, perché quando si fosse raggiunto il potere, ci sarebbe sempre modo di limitare il concesso. Un principio scolastico, una volta affermato, non si sradica né si modifica agevolmente. È molto più agevole fare una riforma sociale, quando essa è matura, che non una vera e profonda riforma scolastica, perché è più facile agire sull'organismo giuridico, economico e anche politico che sugli spiriti. Infatti il fascismo, meno che in ogni altro campo riuscì a dominare nella scuola, che pure gli pareva il campo più facile di tutti. E neppure io posso credere a quella che è la tentazione segreta di taluni di noi, che cioè potremo anche noi avvantaggiarci di queste sovvenzioni. Io non lo credo: nessun partito politico può gareggiare con la Chiesa in quella che è l'organizzazione scolastica. Nessuna riforma sociale vive e prospera, se non in terreno adatto. Il terreno adatto non può esser dato che dall'educazione e dall'istruzione.

Noi ci auguriamo, per il bene di tutti e per il bene dell'Italia, che non si facciano qui dentro calcoli politici deprecabili, come quello fatto da Guizot in Francia che abbandonò ai cattolici l'istruzione primaria, ma riservò allo Stato l'istruzione secondaria, cioè l'istruzione della classe media; come quello di Thiers, il quale disse che contro i Falansteriani (in termini moderni sarebbero i comunisti e i socialisti) egli vedeva la salvezza solo nella libertà di insegnamento. Per Thiers, dunque, la cosiddetta libertà di insegnamento era solo mezzo di conservazione sociale. Di qui venne la famosa legge presentata all'Assemblea nazionale legislativa nel 1849 da quel Falloux, ardente sostenitore, oltre che dei diritti della Chiesa, della spedizione francese contro la Repubblica romana. Per quella legge, tutta la scuola francese divenne confessionale. Ma in quei giorni la Repubblica francese era virtualmente morta. Già si profilava all'orizzonte il colpo di stato del terzo Napoleone.

Ora siamo tutti d'accordo sulla libertà di insegnamento. Noi, per parte nostra, domandiamo solo che alla scuola pubblica sia data la possibilità di vivere e di prosperare. Diciamo pertanto ai cattolici, come a tutti: aprite pure liberamente le vostre scuole, ma provvedetevi con i vostri mezzi, come voi ne rivendicate l'autonomia. Tutti gli alunni, di tutte le scuole, sia pubbliche che private, siano sottoposti agli stessi esami, davanti agli stessi esaminatori. Questa è per noi democrazia.

Secondo i resoconti della prima Sottocommissione, uno dei vostri più eminenti ha dichiarato che il vostro programma è «una rivendicazione e una reazione contro tutta una legislazione che dura da centocinquant'anni a questa parte, e precisamente dalla rivoluzione francese in poi». Questa dichiarazione ci lascia perplessi e pensosi. Veda l'onorevole Dossetti — che non è qui presente — noi crediamo invece che sia stata proprio la rivoluzione francese ad affermare la libertà del cittadino e la libertà della coscienza umana.

L'opera della rivoluzione francese può essere superata — anzi, sarà ed è superata — ma non può essere distrutta neppure in nome del diritto della famiglia, e tanto meno in nome dei diritti della personalità umana.

Noi ci apprestiamo a votare, certo concordi, il grande principio rivoluzionario per cui i poveri potranno accedere all'istruzione. Ma questo non basta. Pur riconoscendo ad ognuno il diritto di scegliere la scuola che gli aggrada, noi affermiamo la necessità di una scuola pubblica fiorente, nella quale tutti gli Italiani, senza differenza di fede politica e religiosa, possano andare senza imbarazzo, minorità o costrizione; una scuola che unisca nel vincolo della fratellanza tutti gli italiani al di sopra delle fedi e della politica. E in questo siamo perfettamente certi d'essere sulla via della libertà e della democrazia. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti