[Il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Cairo. [...] E così all'articolo 38, onorevoli colleghi, dove si enuncia che «la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti od a privati». Per la prima definizione mi pare che debbano soccorrere i principî comuni del diritto, poiché il diritto non mi pare conosca altra proprietà che non sia pubblica o privata. Sembra, quindi, pleonastico questo modo di esprimersi del nostro progetto di Costituzione. Ma il punto specialmente controverso, a mio avviso, dovrebbe essere quello in cui si parla di Enti. «I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti o a privati». Il valore della parola Ente è molto generico e oscuro, e a me sembra che tale espressione abbia un significato incerto e incerto profilo giuridico. Ora i beni economici devono appartenere, a mio avviso, allo Stato o al privato, e la soppressione di questa parola sarebbe senz'altro consigliabile.

[...]

Montagnana Mario. [...] Se, fino a ieri, nella direzione della economia italiana, il lavoro non aveva alcun peso, mentre invece, secondo la legge, i diritti della proprietà e della ricchezza non conoscevano quasi alcun limite, con la nuova Costituzione il lavoro diventa la base stessa della società e della Repubblica, e i diritti, i privilegi della proprietà, della ricchezza, del danaro, vengono fissati entro determinati limiti stabiliti dalla legge, affinché essi non siano in contrasto con gli interessi generali della Nazione.

[...]

Bruni. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. «La proprietà privata è riconosciuta e garantita»; la legge avrà cura di «renderla accessibile a tutti»; la legge «aiuta la piccola e la media proprietà...».

Questo è il linguaggio, che tiene il nostro progetto di Costituzione nei riguardi della proprietà, negli articoli 38 e 41.

Su queste affermazioni c'è una osservazione fondamentale da fare: che è riconsacrato, in forma solenne, il pilastro su cui si regge l'attuale ordinamento economico capitalistico; l'istituto della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Mancano, in tutte queste formule del Progetto, degli impegni precisi ed inequivocabili diretti a mutare realmente e durevolmente quel tradizionale istituto. Naturalmente una Costituzione non può essere un Codice di leggi o una raccolta di decreti. Ma è anche passato il tempo in cui le Costituzioni venivano considerate come una nuda elencazione di astratti principî etici e filosofici. Nel nostro progetto di Costituzione si resta ancora troppo nell'indeterminato. Naturalmente, della proprietà il progetto sancisce l'essenziale valore sociale; e non c'è dubbio che si facciano intervenire le ragioni del bene comune per regolamentarla ed eventualmente limitarla. Del resto non c'è Carta costituzionale moderna che manchi di cotali affermazioni oramai largamente acquisite alla coscienza dei contemporanei. Bisogna riconoscere che c'è n'è voluto perché anche filosofi e teologi universalmente riconoscessero il carattere essenzialmente sociale della proprietà. Ma anche questa verità mi pare ormai definitivamente acquisita. Nel 1941, in un memorabile documento pontificio, con dizione chiara ed inequivocabile, si fissò il concetto che il diritto originario e primigenio in economia è il diritto che tutti gli uomini posseggono di usare dei beni materiali. E si aggiungeva, di conseguenza, che questo diritto d'uso, questo «comunismo d'uso», come anche s'esprime certa terminologia di scrittori cattolici, domina tutti gli altri diritti in economia: il diritto di proprietà privata, di scambio e commercio e il diritto di intervento dei pubblici poteri nell'ambito dei beni economici. In altre parole, questi diritti sono secondari rispetto all'altro che è principale. In altre parole il diritto di proprietà, chiunque lo detenga, il diritto di scambio e commercio, il diritto che ha lo Stato di intervenire in materia economica, devono essere intesi in essenziale funzione del diritto, il solo veramente originario e primigenio, posseduto da tutti gli uomini di usare dei beni materiali. Questa posizione è importante in quanto supera la tradizionale e tipicamente pagana concezione di sacra ed assoluta reverenza verso il diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione. E non è mancato tra filosofi e teologi cattolici chi, una volta acquisito tale concetto (del resto tutt'altro che moderno nella tradizione cristiana) si sia auspicato un ordinamento economico analogo a quello che io, onorevoli colleghi, vi propongo, nelle sue linee generali, coi miei tre articoli sostitutivi. Del resto, mi lusingo che la concezione economica fissata nei miei tre articoli possa essere accettata da tutti coloro che intendono abolire il regime capitalistico. Essa vuol essere un superamento, e non una negazione pura e semplice, di quella economia auspicata da tante altre direzioni e con reiterati richiami, specie da un secolo a questa parte.

Com'è noto, da un secolo a questa parte, specie per merito del movimento socialista, una lotta accanita si è ingaggiata contro il sistema capitalistico. I movimenti socialisti hanno però essenzialmente avuto il torto di combattere la loro santa ribellione a nome di una filosofia che non poteva essere accettata da tutti, a nome di una concezione dell'uomo che mortificava l'uomo in ciò che ha di più alto e di più prezioso, hanno avuto il torto di affidare, sia pure in via provvisoria, l'auspicato riordinamento economico, ad una formula statalista. E così avvenne che tali movimenti non furono in grado di convincere tutte le masse diseredate e finirono per esporre il loro fianco a delle critiche, che furono sfruttate onestamente e disonestamente, ma che in definitiva intralciarono la loro azione.

I cristiano-sociali d'Italia, che io rappresento, in questa Assemblea, hanno dato vita nel 1941 ad un nuovo tipo di socialismo, personalista e comunitario, non legato ad alcuna particolare ideologia, ma solo alla ideologia di tutti, che è costituita dalle regole della morale naturale e dai diritti naturali dell'uomo. E solo perché ebbero coscienza del grado di eroismo che occorreva per attuarlo, intesero fare esplicito appello, con la loro etichetta, ai valori, ai costumi, alle energie del popolo cristiano.

Gli odierni partiti delle grandi masse lavoratrici: democristiani, socialisti e comunisti, non si sono trovati ancora una volta d'accordo in una formula chiaramente decisiva su questo problema.

Eppure, interpreti come dovrebbero essere di queste masse, io dovrei supporre che i tre partiti (che assieme raccolsero circa 17 milioni di voti) avrebbero potuto trovare l'unione sopra un punto: sulla liquidazione del sistema capitalistico. Non l'hanno fatto. Il Progetto parla chiaro.

Né si può dire che un'operazione di tal genere, non fosse nella esigenza delle masse, che dicono di rappresentare. Direi che le masse hanno votato per loro, perché una tale operazione fosse portata a termine.

Non credo di poter essere smentito nell'affermare ciò che affermo. Si obietterà che i tre partiti, uniti nel fine da raggiungere, non si sono poi trovati d'accordo nei mezzi da mettere in opera per conseguirlo. Ma non è avvenuto così. In realtà è mancata questa stessa volontà del fine. Se ci fosse stata, essa doveva anzitutto manifestarsi, per divenire efficace, nel partito più forte. L'iniziativa doveva partire dalla Democrazia Cristiana. La Democrazia Cristiana, forte di 8 milioni di voti, forte di 207 deputati, cui è toccata la ventura della direzione del Governo e di tutte, o quasi, le Commissioni governative; che è riuscita ad imprimere in larga misura le sue direttive a tutto il progetto di Costituzione, la Democrazia Cristiana, dico, com'è che non è anche riuscita ad inaugurare una nuova politica economica, quella politica promessa alle masse in tempo di elezioni, radicalmente anticapitalistica?

Una sola scusa avrebbe la Democrazia Cristiana da addurre a sua giustificazione, ed è che socialisti e comunisti abbiano avuto paura di seguirla in questa sua iniziativa rivoluzionaria che, certo, poteva essere realizzata, volendo, in condizioni di piena legalità, essendo oltre 420 i rappresentanti dichiarati delle masse lavoratrici.

Ma non è qui il caso di perdersi in recriminazioni inutili.

Mi sia tuttavia permesso di osservare che le aspettative della grandissima maggioranza del popolo italiano, in questo suo periodo di dopo fascismo e di dopo guerra, sono andate deluse, proprio in un campo dove erano state concepite le maggiori speranze.

A tali speranze permettetemi di rendere, onorevoli colleghi, un omaggio di principio, altro non potendo fare, con questo mio intervento.

Con i miei tre articoli (sostitutivi degli articoli che vanno dal 38 al 43 del progetto di Costituzione) permettetemi di rendere testimonianza, in campo economico, ai principî di libertà, di eguaglianza, di giustizia e di fratellanza, che il Vangelo di Cristo ha reso particolarmente operanti nel mondo.

Questi articoli vogliono essere i pilastri di un nuovo ordinamento economico, avente un carattere, allo stesso tempo, personalista e comunitario.

La concezione economica dei cristiano-sociali ubbidisce ad un motivo fondamentale, ch'essi ritrovano anche nel Discorso della Montagna.

Essa è veramente l'economia dei «poveri in spirito», educativa del «distacco».

I cristiano-sociali sanno che, per vivere una vita ad altezza di uomo, non giova essere «ricco», cioè, possedere il superfluo; e non giova essere «misero», cioè mancare del necessario. Giova essere «poveri».

Solo la condizione del «povero», cioè di colui che si trova in una condizione di mediocrità economica, può facilitare l'esercizio della tanto necessaria virtù del «distacco».

Si tratta di separarsi dal «superfluo», e non limitarsi, nella ricchezza, a sospirare il «distacco».

In via ordinaria occorre essere poveri per poter divenire «poveri in spirito», vale a dire, per potersi arricchire di umanità.

Non si pone la questione di «negare» l'enorme valore che, per la vita dell'uomo, hanno i fattori economici.

È questione di attrarre questi beni nell'orbita dello spirito. Non è questione d'instaurare il «monopolio», ma il «primato» dello spirituale.

La sociologia dei cristiano-sociali è diretta ad eliminare la ricchezza privata, come anche ad eliminare la miseria.

Non è nemica della ricchezza e del fasto in se stessi, e perciò li riserva alla comunità e agli usi e alle manifestazioni comunitarie; ai privati riserva una condizione di mediocrità economica, come la più adatta all'esercizio della virtù.

Ecco in qual senso la sociologia dei cristiano-sociali vuol essere educativa del distacco.

Intende, perciò, legare le cose all'individuo il meno possibile, perché l'uomo possa meglio emergere dalle cose, e meglio servire il suo trascendente destino.

Ed ecco perché questa sociologia cerca di rompere il legame più pericoloso che l'uomo è tentato di stringere con le cose: quel legame che vorrebbe quasi imprigionarlo alla radice di esse: ai mezzi e agli strumenti stessi della produzione.

Vuole sganciarlo dall'ossessione di questo tipo di possesso, e non gli dice: sei «padrone»; ma gli dice: sei «amministratore», procuratore e dispensatore di beni; oppure: non possiederai da solo, ma assieme ad altri, a molti altri, perché ti possa essere più facilmente presente che il tuo possesso è un servizio e che il tuo destino non vale tutto il mondo delle cose sensibili. La natura umana è così fatta che non conviene tentare l'individuo, collegarlo alle cose con una formula troppo stretta come quella rappresentata dal diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il mio primo articolo sostitutivo è stato concepito con questa preoccupazione e dice: «Il diritto di proprietà dei mezzi di produzione è esclusivamente esercitato dalla comunità nazionale attraverso le sue strutture di democrazia decentrata e qualificata, e subordinatamente agli interessi della comunità internazionale. Lo Stato e gli altri enti pubblici rientrano in questo esercizio limitatamente alla loro funzione di difesa e di coordinamento del bene comune». In questo ordinamento della proprietà la maggiore attenzione deve essere posta perché esso non naufraghi (e sottolineo questa parola) nel collettivismo di Stato. A tale scopo il secondo comma del mio articolo limita l'intervento dello Stato e degli altri enti pubblici esplicitamente alla loro «funzione di difesa e di coordinamento del bene comune», che è la loro specifica funzione, la sola legittima in tutti i campi sociali. Dunque non si tratta, repetita iuvant, di sostituire all'attuale sistema capitalistico un sistema collettivistico in cui la proprietà dei mezzi di produzione e la gestione dei mezzi economici è affidata direttamente e integralmente allo Stato. Non si vuole sostituire una servitù — quella del capitale privato — ad un'altra servitù: quella del capitale di Stato. L'ordinamento personalista e comunitario dell'economia non potrà servire i fini umani che intende servire — la dignità e la libertà della persona — se non nel clima e nella struttura di un regime politico di democrazia decentrata, diretta, qualificata, integrata.

È in questo clima, ed è soltanto in questo clima, ed in tali strutture, che va inserito l'ordinamento economico tratteggiato nei miei articoli sostitutivi. Al di fuori di tali strutture, verso le quali pare che, del resto, vada la nostra Costituzione, questo ordinamento economico non potrebbe raggiungere il suo scopo. Esso viene dalla democrazia più autentica, ed è la democrazia più autentica e concreta, tanto diversa dalla forma demoliberale, accentratrice e parlamentaristica — ancien regime — da cui dobbiamo ancora liberarci. Il regolamento del diritto di proprietà, delineato nei miei articoli, è inteso a fare tutti dei proprietari nell'unico modo possibile: facendo tutti comproprietari, e cioè, solidali nella proprietà.

Capitale e lavoro nelle stesse mani: ecco un altro «slogan» molto corrente. Ebbene, ditemi se esiste un altro modo di realizzare tale principio, giusto in sé stesso, al di fuori del regolamento comunitario. Per la reale e concreta salvaguardia della libertà e dignità dell'uomo — che è sociale per natura — la proprietà dei mezzi di produzione deve divenire comunitaria, e deve rimanere individuale la sola proprietà dei beni d'uso. Nel mio articolo sostitutivo non manca la consacrazione del concetto che, anche in materia economica, l'autorità della comunità nazionale non è assoluta, e che un dovere di coordinamento e di subordinazione la lega alla sorte delle altre comunità, nazionali e statuali. Il che è perfettamente conforme all'articolo 6, già votato, della nostra Costituzione.

Tutta la ricchezza della nazione italiana qualunque ne sia il proprietario, dev'essere intesa in essenziale funzione di uso per tutta la famiglia umana. È un principio che non deve mancare nella nostra Carta.

Somma attenzione dev'essere posta al «diritto di gestione» ch'è intimamente legato, benché distinto, al diritto di proprietà dei mezzi di produzione.

Il diritto di gestione di una determinata azienda spetta, innanzi tutto, ai lavoratori di quell'azienda. Ma anche qui deve intervenire il principio comunitario. A seconda dei settori economici sono chiamati a concorrervi le diverse rappresentanze ed organismi politici, economici, sindacali, tenuto conto della loro specifica competenza.

Determinare ciò dovrà essere frutto di amorosa elaborazione da parte del futuro legislatore. Si tratta di costruire tutto un nuovo edificio, dove non può agire esclusivamente il principio della democrazia formale e puramente numerica e quantitativa, ma bensì questo principio armonizzato con quello della democrazia concreta e qualificata, dove i valori morali e tecnici dei singoli possano avere il loro giusto riconoscimento, ed essere messi al servizio del bene comune.

L'articolo sostitutivo, relativo alle gestioni, suona così:

«I lavoratori di un determinato ciclo produttivo acquistano il diritto a gestire la loro azienda. A seconda dei settori economici, esso viene esercitato col concorso, più o meno diretto, dello Stato, delle regioni, dei municipi, dei sindacati, o di altri enti più direttamente interessati.

Nell'ambito del bene comune, le piccole gestioni di tipo individuale e familiare, potranno avere carattere vitalizio con diritto di successione».

In un ordinamento economico ciò che non deve assolutamente mancare è l'assicurazione che tutti i cittadini, che in un modo qualsiasi si rendano utili alla società, possano usufruire dei beni materiali. In altre parole, noi non possiamo alienare nessuno dalla «proprietà d'uso». Solo questo tipo di proprietà privata, è veramente sacro ed inalienabile, perché soltanto esso è legato strettamente alla libertà e dignità dell'uomo, e al suo diritto alla vita.

Alla salvaguardia di questo diritto provvede il terzo ed ultimo articolo sostitutivo, da me proposto, che dice:

«La proprietà dei beni d'uso è assicurata dalla Repubblica a tutti i lavoratori, proporzionatamente alla quantità e qualità del lavoro di ciascuno, e con riguardo delle persone a carico».

Prima di chiudere, mi sia permesso, onorevoli colleghi, fare alcune precisazioni. Da quanto ho detto, sia chiaro che i cristiano-sociali non sono interclassisti; il loro ordinamento economico non importa una forma qualsiasi di associazione tra capitalisti e lavoratori. Non è una forma di collaborazione di classe che essi propugnano. Nel loro ordinamento i soli soggetti di economia sono i lavoratori. È una società di lavoratori che essi propugnano, dove non ci sia più posto per il «mio» e per il «tuo», se non nel campo dei beni d'uso; e dove ci sia soltanto il «nostro», nel campo dei mezzi della produzione.

La formula del capitalismo privato è producente di pochi proprietari e di molti proletari. La formula del socialismo di Stato non sposta quella capitalistica, in quanto, in concreto, anch'essa è producente di pochi proprietari, impersonati nel capo del partito unico, nella direzione del partito unico, e nei funzionari dello Stato, e l'immensa folla dei proletari, dei nullatenenti, e dei nullavalenti politicamente.

La formula dei cristiano-sociali (formula ad un tempo personalista e comunitaria) è la sola veramente rivoluzionaria dell'attuale regime capitalistico di economia classista, in quanto è la sola che è innovatrice di una situazione umana.

 

PrecedenteSuccessiva

Home

 

 

A cura di Fabrizio Calzaretti