[Il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Colitto. [...] Ma dire «funzione sociale» è dire, in sostanza, «limiti» alla signoria dominicale. Ecco, quindi, la Costituzione, negli articoli 38, 40 e 41 occuparsi di essi, rimandandone, peraltro, la precisazione alla legge. Sarà la legge che: a) determinerà della proprietà i modi di acquisto e di godimento; b) autorizzerà (ripeto qui l'espressione, a mio avviso, inesatta dell'articolo 38) la espropriazione, per motivi d'interesse generale, della proprietà privata, salvo indennizzo; c) determinerà i limiti della proprietà, allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti; d) imporrà obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fisserà i limiti in estensione, abolirà il latifondo, promuoverà la bonifica delle terre e l'elevazione professionale dei lavoratori, aiuterà la piccola e la media proprietà.

Come si vede, si parla ora di «vincoli», ora di «limiti», ora di «obblighi», da imporre alla proprietà privata, usandosi termini diversi per indicare la stessa cosa, il che non è certo da approvarsi in un testo di legge; si stabilisce che «la legge» dovrebbe «autorizzare la espropriazione» per motivi di interesse generale, mentre la legge deve indicare soltanto i motivi, l'autorizzazione alla espropriazione derivando dalla norma primaria, che è la Costituzione; si parla di elevazione professionale dei lavoratori a proposito dello sfruttamento del suolo, mentre non è dubbio che di elevazione professionale dei lavoratori è a parlare in ogni campo nel quale una attività lavorativa si svolga; si parla di aiuti alla piccola e media proprietà, quasi che la grande proprietà fosse da ritenere senz'altro un elemento negativo per il progresso agricolo.

Bisogna, a mio avviso, chiarire, semplificare, precisare. Basterà, all'uopo, fondere insieme gli articoli 38 e 41 in un solo articolo, che io ho proposto doversi redigere così:

«La proprietà privata è garantita entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi che l'ordinamento giuridico stabilisce anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Può essere espropriata per motivi di interesse generale, dichiarati con legge, contro indennizzo».

[...]

d) Anche le parole «abolisce il latifondo» possono, a mio avviso, essere soppresse, sia perché la formulazione da me proposta è così ampia da contenere, ove lo si voglia compiere, pur lo spezzettamento del latifondo, sia perché la condanna a morte del latifondo, senz'altro sentenziata dalla Costituzione, potrebbe, quando che sia, essere ritenuta una ingiusta condanna.

Molti si ostinano a ritenere l'affermazione di cui mi sto occupando puramente demagogica. Hanno torto? Non lo so. Ma economisti di valore mi hanno fatto osservare due cose.

La prima: che i fondi debbano essere coltivati, specie in un Paese come il nostro, il quale deve sperare la più salda fortuna dall'agricoltura, è un fatto più che evidente. Ma non è altrettanto evidente che, per raggiungere il fine, sia indispensabile espropriarli. Nessuno è così sciocco da rinunciare ad un maggior profitto. E però, se non sfrutta, come si vorrebbe, il suo fondo, gli è perché o non è possibile sfruttarlo, o perché gliene mancano i mezzi. Nel primo caso, chiunque al proprietario venga, in forza di legge, sostituito, non potrà fare meglio di lui; nell'altro, non si vede perché quell'aiuto, che si dà ad altri, non si dia invece al proprietario, che è sempre il più interessato al maggiore rendimento delle sue terre.

La seconda: il latifondo ha profonde ragioni economiche di esistenza, in quanto costituisce una forma di adattamento dell'agricoltura alle condizioni fisiche ed ambientali, come dimostrò già, parecchi decenni or sono, Ghino Valenti in uno dei suoi mirabili saggi critici intorno al sistema di Achille Loria.

Il latifondo scompare, senza bisogno di leggi, mano a mano che si modificano le condizioni ambientali. Nell'Italia meridionale, dove esistevano condizioni favorevoli alla piccola proprietà coltivatrice, l'antica proprietà baronale si è rapidamente frazionata. Quando il frazionamento è stato determinato dalla legge — ad esempio, le quotizzazioni di usi civici e di beni demaniali — i risultati sono stati buoni solo là dove sussistevano condizioni adatte alla piccola proprietà, mentre sono stati negativi, dove tali condizioni non sussistevano. A me pare, pertanto, che bisogna muovere guerra non al latifondo in genere, anche se attui le forme più progredite ed intensive di agricoltura, ma alla proprietà capitalistica, che ristagni in un latifondismo incompatibile col progresso tecnico moderno e con una densa popolazione, che cerca lavoro e pane, alla proprietà capitalistica, che sia da considerarsi patologica forma di proprietà afunzionale, in una comunità povera come la nostra essendo necessario che nessuno possieda un bene strumentale, quale è la terra, senza attivarne in pieno la funzione produttiva e, quindi, sociale.

e) È inutile, poi, parlare di «bonifica delle terre», perché non è a dubitare che, quando si parla di funzione sociale-limite, si tiene presente, indagandone il contenuto, anzitutto la bonifica (vedi articolo 857 e seguenti del Codice civile) e, d'altra parte, non si trascurano i vincoli idrogeologici, le difese fluviali, il riordinamento in genere della proprietà rurale.

f) È un errore anche, a mio avviso, (qualcuno ha scritto che è ingenuo e paradossale) scrivere nella Costituzione che «la legge aiuta la piccola e la media proprietà» e «fissa i limiti di estensione della proprietà terriera». È un errore, perché, come ho già innanzi accennato, è vero che esistono in Italia estesi e cospicui tipi di agricoltura (si pensi alla ortofrutticoltura di molta parte del Mezzogiorno), nei quali la piccola impresa del contadino può essere citata ad esempio di alta produttività; ma è vero, altresì, che in altri tipi di coltura — quelli, soprattutto, che hanno per base le comuni grandi produzioni cerealicole ed animali — è indiscutibile la superiorità della grande azienda, per cui sarebbe un vero delitto promuoverne la sostituzione con piccole aziende di contadini. Vi sono perfetti organismi produttivi, come le cascine lombarde, basati sulla grande irrigazione, sulla lavorazione meccanica, sulle colture industriali, nella intelligenza direttiva pronta ed abilissima.

Quale altro tipo mai di azienda potrebbe ora sostituire questo, che si è andato costituendo attraverso una continua opera di perfezionamento e di evoluzione produttiva, che è stato capace di trasformare terreni poveri in una delle più fertili plaghe del mondo? È un errore, perché la struttura della proprietà fondiaria, come ho già rilevato a proposito del latifondo, non nasce per caso e non si mantiene per tradizione o per fobia del nuovo, ma è una conseguenza di un processo di adattamento suo alla linea della convenienza economica, che è determinata da tutto un mosaico di condizioni ambientali. Nella bassa Lombardia irrigua prevalgono le grandi aziende, nell'Italia centrale le grandi e le medie e nell'Italia meridionale e nella montagna alpina le piccole proprietà, e qua e là affittanze collettive, piccole aziende legate e completate da intense attività cooperativistiche, che costituiscono altrettanti temperamenti alle estreme soluzioni della grande e piccola azienda. Questa situazione di cose deriva dal caso e si mantiene per tradizione o per fobia del nuovo? Neanche per sogno. Che cosa può fare ora la legge? Io ritengo che non possa arrecare che danni, ove intervenisse anche solo per accelerare quel processo di adattamento, di cui ho parlato. Ammesso che la legge non sia elusa dal sorgere di tutte quelle possibili forme di evasione di cui è piena la storia, come i contratti cum amico, che sorsero in occasione dell'applicazione delle leggi Liciniae-Sextiae, la limitazione al diritto di proprietà — sia che si attuasse tenendosi conto dell'ampiezza di superficie, sia che si attuasse tenendosi conto della così detta «ampiezza economica» — recherebbe niente altro che danni, perché si avrebbero nel primo caso le più inique e dannose sperequazioni, si verrebbero, nel secondo, a colpire di fatto proprio i patrimoni terrieri più intensamente funzionali ed a premiare quelli più deteriormente condotti, e nell'un caso e nell'altro si svierebbero pericolosamente i capitali dagli impieghi agricoli e si fermerebbe l'ascesa degli agricoltori migliori.

Attenti, quindi, ai mali passi. Chi l'agricoltura italiana — che è un mirabile strumento creato dall'uomo in un ambiente naturale poco favorevole o del tutto sfavorevole, ma profondamente vario — considera come la base fondamentale della nostra vita economica, chi comprende come solo attraverso un suo miglioramento le condizioni di vita del popolo italiano possano cambiare, deve molto riflettere sulle proposte di vincoli, di cui ho parlato, perché non è affatto certo che essi daranno realmente i risultati sperati, mentre è molto più probabile che saranno cagione di crisi e di ulteriore decadenza.

[...]

Maffioli. [...] Ma gli ultimi colpi di grazia veri e propri all'istituto di quella proprietà e di quella privata iniziativa, di cui poco dianzi si era proclamata la legittimità e di cui si era anzi assunta la garanzia, sono dati dagli articoli 38[i], terzo comma, 41 e 43.

L'articolo 41 non si limita, come sarebbe ragionevole, a proclamare l'abolizione del latifondo, ma suggerisce fin d'ora una legge che fissi i limiti di estensione della proprietà privata (limiti che, notisi bene, potrebbero essere pure inferiori alle poche dessiatine riconosciute dal codice russo ai propri contadini...).

[...]

Si potrebbe chiedere, dopo tanto scempio, che cosa resti più dell'affermato e, notisi, garantito istituto della proprietà e dell'iniziativa privata, e se il riconoscimento della loro legittimità non sia fatto per burla.

Con tante riserve esplicite ed implicite, dirette e indirette, formali e sostanziali, con gli ultimi emendamenti perentori che dispongono la limitazione quantitativa della proprietà terriera, nonché la limitazione delle successioni, nonché il diritto dello Stato di scacciare l'erede autentico, per carpirgli l'eredità, e infine il diritto delle cosiddette masse di subentrare nella amministrazione delle aziende che non sono di loro proprietà (Interruzioni a sinistra), come si potrà più parlare seriamente di proprietà privata, di libero esercizio dei diritti inerenti a tale proprietà, in codesto Stato-piovra, che si riserva di controllare e di sfruttare, secondo il capriccio della cricca imperante, persino le secrezioni sebacee di singoli cittadini?

 


 

[i] Il resoconto stenografico riporta erroneamente «30» invece di «38».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti