[Il 20 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quarto della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti politici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Preziosi. [...] Articolo 45. Indubbiamente è necessario apportare una modifica o, per meglio dire, aggiungere qualche cosa di preciso a quello che è il secondo comma dell'articolo, lì dove dice che «il voto è personale ed eguale, libero e segreto».

L'articolo 45 configura il diritto per tutti i cittadini al voto, però non configura un diritto eguale per i cittadini italiani all'estero, i quali, per il solo fatto che hanno conservato la loro cittadinanza, nonostante tutte le promesse e tutte le lusinghe, hanno diritto, come gli altri, ad esercitare il loro diritto al voto. E d'altra parte non si può dire che nel nostro progetto di Costituzione noi porteremo una innovazione. Sappiamo che in tutti i paesi liberi e democratici, in Inghilterra, in America, questo diritto al voto da parte del cittadino inglese od americano, che per ragioni qualsiasi risiede all'estero, è considerato come diritto imprescindibile. Anzi abbiamo avuto esempi, starei per dire addirittura esagerati, di volere a qualunque costo che il cittadino americano e inglese partecipasse in qualunque momento a quella che era la vita politica nazionale. Abbiamo visto che quando si è dovuto eleggere il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti, si è dato il voto ai soldati che si trovavano sui fronti di combattimento, e si sono superati ostacoli infiniti per ciò realizzare, perché si è pensato che non si poteva in alcun modo tener lontani ed avulsi, nel momento più interessante, dalla vita politica del paese, coloro che erano al di là dei mari a compiere il loro dovere per difendere la loro patria e la libertà del mondo. Come possiamo noi trascurare questo diritto nei confronti dei cittadini italiani all'estero? Io penso che bisogna indubbiamente accogliere quello che è stato un pensiero degli onorevoli Piemonte, Caporali, Villani, Taddia, Filippini ed altri, espresso in un emendamento, i quali alla parola «segreto» vogliono che si aggiungano le altre: «ed è esercitato anche dal cittadino all'estero». Così si darà riconoscimento ai cittadini, che hanno saputo mantenere la loro cittadinanza nonostante tutte le difficoltà, e si concederà ad essi il diritto a votare per le libere istituzioni del proprio paese.

[...]

Di Giovanni. [...] Allo stesso articolo 45, primo capoverso, è detto: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale».

Osservo: bene è stata proposta anche da altri onorevoli colleghi la sostituzione della parola «il voto» con l'espressione «il diritto di voto»; ma devo dissentire dalla formulazione, con la quale si vuol dire che il diritto di voto è personale ed eguale, libero e segreto. Sì, il diritto di voto è personale ed eguale; ma è «l'esercizio» del diritto di voto, che è libero e segreto.

In questo senso ho proposto il mio emendamento.

Poi: la parola «civico» va sostituita con la parola «civile». Ed io eliminerei anche la parola «morale», perché qui siamo di fronte a doveri, che sono espressione della funzione del cittadino, non dell'individuo.

È dovere civile del cittadino quello di esercitare il voto, non è dovere morale. Egli è chiamato uti civis, non uti singulus.

«Non può essere stabilita — dice il terzo comma — nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità». Alla parola «eccezione» io sostituirei l'altra «esclusione».

Quindi: «Non può essere stabilita alcuna esclusione dal diritto di voto».

Non accetterei nemmeno l'emendamento proposto dal compagno onorevole Carboni, che vorrebbe sostituire «eccezione» con «limitazione». Non si tratta di limitazione dell'esercizio del diritto di voto, ma di esclusione.

Laddove è detto «in conseguenza di sentenza penale» l'onorevole Colitto, mi pare, ha proposto di aggiungere «irrevocabile»; sostituirei l'espressione «irrevocabile» con l'altra «definitiva».

La sentenza, anche essendo definitiva, cioè costituente cosa giudicata, e non giudicato (sono delle sottili differenze, che però hanno la loro ragione giuridica sostanziale), potrebbe dar luogo ad una valutazione per un rimedio straordinario; perché anche una sentenzia definitiva può essere revocabile se è investita, per esempio, con l'istanza della revisione; ed allora potrebbe, anche nella attuazione di questa disposizione, sorgere qualche difficoltà, o per lo meno, qualche dubbio di applicazione, mentre aggiungendo «in conseguenza di sentenza penale definitiva» mi sembrano eliminate tutte le possibili preoccupazioni.

[...]

Sullo. [...] Vi sono poi anche in questo Titolo, come in altri Titoli, delle affermazioni ambigue che preferirei fossero rese molto più chiare. Per esempio, all'articolo 45 si afferma che l'esercizio del diritto di voto è un dovere civico e morale. A me pare che in questo caso, da una parte e dall'altra dell'Assemblea, dai rappresentanti delle varie parti e delle varie tendenze non si sia giunti a quel reale punto d'incontro che è augurabile e necessario nella costruzione di questa Costituzione, ma che invece si sia trovata una formula di equilibrio su qualche aggettivo, di equilibrio naturalmente molto instabile, di cui in realtà sarebbe bene fare a meno con una specificazione più chiara di quello che si vuole dire. Infatti l'aggettivo «civico», per quanto venga affermato da illustri giuristi costituenti che ha un suo contenuto giuridico e che quindi potrebbe comportare una sanzione, da una parte della Assemblea potrebbe essere considerato soltanto come un'affermazione di principio che non ha che un valore extra-giuridico e che non comporta quindi nessuna sanzione. Se noi dobbiamo trovare il nostro punto d'incontro soltanto su un vocabolo che poi nella interpretazione subiettiva potrà essere interpretato in un senso o nel senso opposto è un conto; ma se invece dobbiamo trovarlo su qualche termine che anche in questo momento possa avere un significato univoco, dobbiamo parlarci sinceramente, chiaramente.

Io ritengo che in una democrazia organica così come l'andiamo concependo e così come io personalmente la vorrei (e chiarirò meglio il mio pensiero a proposito dell'articolo 47, quando parleremo dell'organizzazione dei partiti), io ritengo che in una democrazia organica l'obbligo del voto debba essere sancito dalla Costituzione. Si tratta di vedere se questo obbligo del voto comporti una o un'altra specie di sanzione.

Per esempio, credo che una sanzione che non ricada unicamente sui diritti politici, che non sia una specie di pena del contrappasso sul piano politico, potrebbe essere una sanzione immorale, che ripugnerebbe alla nostra coscienza. Non comprenderei per esempio l'obbligatorietà del voto con la sanzione di una pena carceraria; capirei benissimo l'obbligatorietà del voto con la sanzione che mi pare sia stata proposta nella legge elettorale che è attualmente allo studio della competente Commissione: cioè con una sanzione che comporti la privazione del diritto di voto per un certo numero di anni, perché chi rinuncia a collaborare alla vita del Paese, a dare il suo contributo all'attività della Nazione, non è degno, almeno per un certo tempo, di essere chiamato a continuare a dare questa opera che concorre a determinare la politica generale, né di essere invitato ad un certo momento ad esprimere il suo parere sulla cosa pubblica.

Per quanto riguarda la sanzione che la legge deve infliggere, è bene che il futuro sia libero e sgombro e che nel futuro ci si possa mettere d'accordo e che, sia la nuova Camera, l'Assemblea ordinaria legislativa, sia la stessa Costituente, allorché giudicherà la legge elettorale, abbiano piena libertà di decisione. Ma in ogni caso ritengo che questo principio dell'obbligo giuridico del voto sia una necessità da affermare in maniera non ambigua. Noi dobbiamo cercare, quando ci mettiamo d'accordo con l'altra parte dell'Assemblea, non una intesa fondata su un vocabolo che possa essere malamente interpretato, ma una intesa fondata sulla sostanza. Mi auguro di aver offerto, con l'emendamento da me presentato (che è stato stampato e distribuito), una forma di intesa ben chiara e netta, anche se altre parti dell'Assemblea ritengano che su questo bisogna dar battaglia. Lasciare la libertà di discussione sulla sanzione, la quale potrà essere minima o massima, di un tipo o di un altro tipo, di un tenore o di altro tenore, è già un mezzo per poter metterci d'accordo senza compromessi deteriori. È onesto chiedere che l'affermazione del dovere civico e morale venga interpretata nel senso esatto, cioè in senso giuridico oltre che etico, e che, se questi due vocaboli non vengono da tutti oggi considerati alla stessa maniera, vengano sostituiti da un vocabolo che dica esattamente quel che si vuole.

[...]

Piemonte. Onorevoli colleghi, il secondo comma dell'articolo 45, così come ci è stato proposto dalla Commissione dei settantacinque, dice che «Il voto è personale ed uguale, libero e segreto».

Io ho presentato un emendamento, firmato anche da parecchi colleghi, che è così formulato:

«Al secondo comma, dopo la parola: segreto, aggiungere le altre: ed è esercitato anche dal cittadino all'estero».

Di che cosa si tratta? Si tratta di permettere agli italiani emigrati di potere votare nel luogo dove si trovano senza dover ricorrere a notevoli spese e danni per rimpatriare.

Questo problema del voto agli emigranti ed agli emigrati non è nuovo, anzi una certa meraviglia ci ha colti quando abbiamo constatato che la Commissione dei settantacinque non se ne è affatto occupata. Eppure il problema è stato agitato da quasi 40 anni. La prima volta se ne parlò nel Congresso degli emigranti friulani tenutosi a San Daniele del Friuli, il 2 dicembre 1908. In seguito ad un voto espresso da questo Congresso il Segretariato dell'emigrazione di Udine, che avevo l'onore di dirigere, fece una specie di inchiesta su questo quesito: se convenisse un provvedimento per disciplinare l'esercizio elettorale dei nostri emigranti continentali. Allora le speranze e i desideri erano più modesti di oggi perché l'America pareva troppo lontana! A questa inchiesta numerose personalità politiche e studiosi risposero accettando il principio del voto agli emigrati. Fra i tanti ricorderò Luigi Luzzatti, Filippo Turati, Angiolo Cabrini, Antonio Maffi, Ettore Sacchi, monsignor Geremia Bonomelli, Napoleone Colaianni, Errico De Marinis, don Romolo Murri.

Anche nel primo Congresso degli italiani all'estero, nel 1908, a Roma, l'argomento fu trattato ed il relatore, Giulio Cesare Buzzatti, concludeva così: «Escludere gli emigrati dall'esercizio del voto politico equivale a togliere ad una parte considerevole e scelta del corpo sociale il modo di esercitare l'influenza che logicamente dovrebbe spettargli».

L'anno dopo, il 17 gennaio 1909, al II Convegno dei Segretariati di emigrazione tenutosi a Padova, l'argomento fu trattato dall'onorevole Cabrini, il quale concludeva anche lui in questi termini: «La partecipazione degli emigranti e degli emigrati alle elezioni renderebbe più sincera la rappresentanza politica di intere province rafforzando quei vincoli onde i figli di una stessa terra ed i cittadini di uno stesso Stato si sentono stretti, solidali, nell'opera di elevazione nazionale».

L'agitazione, i voti, i convegni di emigranti e di emigrati proseguirono con crescente fervore. Con l'avvento del fascismo non se ne parlò più, ma non appena avvenuta la liberazione l'argomento fu ripreso nel primo Congresso dei Comitati italiani di liberazione nazionale esistenti in Francia tenutosi il 7 settembre 1945, congresso a cui parteciparono non meno di 600 rappresentanti di comitati di liberazione dipartimentali e comunali. Fu votato all'unanimità un ordine del giorno con cui soprattutto si deplorò che, nella formazione della Consulta, non si fosse tenuto alcun conto dei cittadini emigrati, e fu domandato che alla elezione di questa Assemblea, ed in tutte le formazioni legislative future, gli emigrati avessero possibilità di parteciparvi. Dopo il convegno di Parigi, altri congressi di comitati di liberazione nazionale, esistenti in Argentina e in Isvizzera, si pronunziarono in identico modo. Non se ne fece nulla, per mille e una ragione, la principale delle quali è quella che gli assenti hanno sempre torto.

Ometto, perché il tempo nol consente, gli interessanti studi compiuti da diversi competenti; dirò solo che fra essi eccellono quelli del Tumedei e del Lo Magro.

Il problema è stato proposto anche in questa Aula molti anni fa, nella seduta del 22 giugno 1909, dall'onorevole Cabrini, il 22 maggio del 1912 dallo stesso onorevole Cabrini a cui si associarono gli onorevoli Daneo e Morpurgo. (L'occasione si presta per ricordare che l'onorevole Morpurgo, vecchio, ammalato, ricoverato in una clinica, fu strappato, per odio razziale, dalle bande nere hitleriane coll'intenzione di portarlo in Germania; durante il viaggio morì. Alla sua memoria il nostro accorato omaggio). Successivamente il 7 maggio 1913 il voto agli emigrati fu riproposto dall'onorevole Mirabelli, il 15 maggio 1914 dall'onorevole Beltrami e nel 1919 dagli onorevoli Sifola, Agnelli e Orano. Infine il 18 luglio 1923, quando si discusse la legge elettorale fascista che, dando un vistoso premio alla lista più forte, soppresse di fatto il Parlamento, assicurando una maggioranza artificiosa al partito prevalente, ancora si discusse del voto agli emigranti coll'intervento degli onorevoli Mucci, Ciriani, Jacini, Canepa, Ellero, Chiesa, Lazzari, Maffi e di chi vi parla. Il relatore della Commissione, onorevole Casertano, d'accordo sul principio, opponeva l'inattualità di esso, pur augurando maggiori possibilità in avvenire e il Governo, bontà sua, non negava il problema e la necessità di risolverlo, e si impegnava (oh ironia!) di presentare presto proposte concrete. Naturalmente non se ne fece nulla.

Ora il problema è sempre insoluto e quella necessità di risolverlo, che il fascismo ammetteva, permane tale quale. Tocca alla Repubblica fare quel che il fascismo non seppe. Certo è che le difficoltà non sono poche né lievi. Alcune sono di ordine interno, altre riguardano i nostri rapporti coll'estero.

Gli ostacoli d'ordine interiore sorgono dalle nostre concezioni giuridiche che non prevedono l'esercizio del voto in territorio straniero e non ammettono deroghe al principio del personale intervento dell'elettore alle urne. Questi principî sono figli della diffidenza e sono il prodotto di un determinato clima politico e morale. Quando col tempo il clima politico e morale cambia, è utile cambiare anche le concezioni giuridiche.

Non si poteva pensare, trenta o quaranta anni fa, che il cittadino italiano residente all'estero votasse, rimanendovi, se non recandosi al Consolato, e non ci si poteva fidare della indipendenza e integrità del console, strumento cieco del governo. Nessuno si fidava allora della sincerità di una votazione fatta presso il Consolato.

Era indispensabile, allora, il personale intervento dell'elettore alle urne, quando il malcostume politico del broglio, della scheda girante, della violenza e della corruzione, aiutate dal diffuso analfabetismo, richiedevano le più minuziose cautele per assicurare la sincerità del suffragio. Ma ora le cose sono cambiate; il console è il rappresentante della Nazione e si può aver fiducia in lui. D'altra parte, la proporzionale ha modificato anche profondamente il costume elettorale: certi brogli e certe pastette, certe manovre, certe manipolazioni che una volta erano possibili, ormai sono vergogne seppellite. L'analfabetismo è pressoché inesistente fra gli emigrati. Ecco perché si può benissimo immaginare che l'emigrato italiano possa votare rimanendo all'estero e che possa dare il voto senza presentarsi alle urne, perché il clima politico sociale e morale attuale ha reso caduche le concezioni giuridiche che sino ad ora hanno dominato.

Così facendo non avremo neanche il merito di innovare, poiché la Norvegia permette ai suoi pescatori quando sono lontani, in acque straniere, di votare senza distaccarsi dal posto del lavoro ed un bastimento va a raccogliere le schede. La Norvegia stessa e l'Australia ammettono al voto gli ammalati e gli assenti. L'Inghilterra concede agli assenti di votare sia per mandato o procura, sia mandando direttamente la scheda. Ed infine la Danimarca e la Norvegia ammettono al voto gli emigranti autorizzandoli a inviare le loro schede alla propria sezione elettorale per posta e in busta chiusa, osservando determinate cautele.

Dunque, se questo problema è stato risolto altrove, non c'è ragione perché non lo risolva l'Italia, che in fondo in questa materia è la più interessata, tanto più che il problema è diventato più facile per la rapidità odierna dei trasporti e per i progressi dell'aviazione; ed il fatto clamoroso che milioni e milioni di soldati inglesi e americani, scaglionati in tutto il mondo, dalla Francia al Giappone ed oltre, abbiano potuto partecipare alle elezioni del loro Presidente — per gli americani — e dei rappresentanti ai Comuni — per gli inglesi — è una dimostrazione pratica che queste difficoltà possono essere ritenute superate.

Più delicati sono i problemi che il voto agli emigranti può determinare nei nostri rapporti con l'estero: evidentemente l'espressione del voto politico è un atto di sovranità. Compiuto in territorio straniero può essere considerato come una lesione alla sovranità dello Stato, sul territorio del quale l'emigrato vota. Questa lesione di sovranità può essere più o meno sopportabile; tutto dipende dallo stato di relazioni fra i due paesi: fra quello dove l'emigrato vota e quello di sua origine. In questo campo vi può essere, a seconda dei casi, condiscendenza, indifferenza, tolleranza, suscettibilità, disappunto, ostilità; ripeto, tutto dipende dallo stato delle relazioni e quindi è sempre necessario l'intervento diplomatico per doverosa franchezza.

Ma noi non dobbiamo sopravalutare queste difficoltà internazionali. Mi soccorre a questo punto il pensiero di Lodovico Zanini, umile manovale fornaciaio in Baviera nella sua prima gioventù, e autodidatta magnifico che, con sacrifici enormi, conquistò la patente di maestro poi la laurea a Padova e adesso è bene amato ispettore scolastico a Udine. Egli preparò la sua tesi di laurea proprio su questo tema del voto agli emigranti; e giustamente osserva che l'emigrazione determina una duplice serie di interessi, ossia non è un fatto economico unilaterale che riguardi il paese di origine dell'emigrato soltanto o che riguardi unicamente il paese dove l'emigrato va a lavorare. L'emigrazione va dove trova il tornaconto ed è accetta in ragione della quantità e della qualità del lavoro, cioè in rapporto alla utilità sociale che arreca. Quindi, nelle sue grandi linee fondamentali, è un fenomeno economico. Conseguentemente le relazioni giuridiche intercedenti fra gli emigrati e il loro stato d'origine, non hanno alcuna influenza sulla qualità e sui valori che rendono produttiva ed accetta l'emigrazione. Se ne deduce che teoricamente questi rapporti non hanno alcuna importanza per lo stato d'immigrazione e che quindi anche l'esercizio del voto dell'emigrato è per esso un fatto di ordine secondario.

L'argomentazione del mio amico democratico cristiano Zanini, se è marxisticamente ineccepibile, non toglie il fatto che non sempre il puro criterio del tornaconto economico regge la politica estera degli Stati. Spesso ragioni di prestigio, di diversa politica interna, o di ripopolazione, di nazionalismo esagerato, possono interferire e turbare il sano principio economico.

Donde la convenienza e talvolta la necessità di aiutare la diplomazia a superare diffidenze e ostacoli. Tale aiuto ed il più efficace degli aiuti — e in questo tutti gli studiosi in materia sono d'accordo — consiste nel dare all'esercizio del voto da parte degli emigrati un carattere il meno appariscente, il meno vistoso possibile, per modo che passi quanto più si può inosservato ed abbia l'apparenza di un atto tutt'affatto normale e posto nella stretta cerchia degli atti privati consueti di relazione col proprio paese d'origine: niente sbandieramenti, niente grandi comizi, niente grandi manifesti multicolori ed espansivi di ingiurie. Cosa fatta alla chetichella, come se si trattasse di un rapporto normale col proprio paese.

Quindi, è necessaria l'autodisciplina della gente emigrata ed io sono perfettamente sicuro che questa autodisciplina ci sarà.

Ma è altresì necessario che il legislatore aiuti l'opera della diplomazia con disposizioni prudenti e avvedute. Esso, per esempio, per aiutarla, deve scartare senz'altro un modo di esercizio del voto che possa assumere il carattere evidente di voler eleggere una rappresentanza diretta degli interessi specifici degli emigrati in confronto del paese in cui risiedono. L'Argentina, la Francia, la Svizzera, qualunque altro paese non consentirebbero che sul loro territorio il corpo elettorale italiano ivi residente procedesse alla elezione di uno o più suoi rappresentanti diretti. Il principio di sovranità dei paesi ospiti sarebbe talmente leso che l'opposizione sarebbe immediata e categorica.

Neanche un collegio nazionale a Roma, quale capitale dello Stato, per tutti gli emigrati sarebbe bene accetto perché anche questo mezzo sarebbe troppo appariscente e perché la partecipazione al voto degli emigrati, anche in questo caso, avrebbe il carattere di tutela degli interessi specifici dell'emigrazione stessa. Ora, questa tutela specifica, determinata da una rappresentanza politica, farebbe supporre implicitamente che ci sia una costante e permanente divergenza fra gli interessi del paese che ospita e gli emigrati.

Non dico mica che gli interessi specifici degli italiani all'estero possano esser trascurati e non abbiano grandissima importanza; però gli stessi emigrati non pensano tanto ad essi quanto a far parte dell'Italia, ad interessarsi dei nostri problemi e della nostra vita politica. Questo è il loro pensiero principale e questo è quello che noi dobbiamo volere permettere loro di realizzare anche nell'interesse del Paese.

Anche per quanto riguarda la rappresentanza degli interessi specifici degli emigrati, vi sono dei precedenti; se ne occupò il 1° Congresso degli italiani all'estero, tenutosi a Roma nell'ottobre 1908, poi nuovamente il 2° Congresso tenutosi a Roma nel giugno 1911 e poi, nel 1919, un convegno delle collettività nazionali all'estero, sempre a Roma.

Ora, il risultato delle discussioni e deliberazioni di questi tre convegni degli interessati è stato questo: tutti d'accordo nel ritenere impossibile una rappresentanza diretta degli emigrati, come tali, nei corpi legislativi; e si chiese che i cittadini di ogni circoscrizione consolare con residenza da un certo tempo avessero il diritto di nominare una consulta per lo studio e per la difesa dei problemi riguardanti gli emigrati, che affiancasse e collaborasse col console.

Si chiese ancora che una rappresentanza delle consulte costituisse una consulta presso l'Ambasciata ed infine si propose che una Commissione centrale costituita da rappresentanti delle consulte d'Ambasciata e delle organizzazioni economiche e culturali principali sedesse permanentemente in Roma presso il Ministero degli esteri a titolo consultivo.

Queste proposte furono prese in considerazione dall'Istituto Coloniale il quale nello stesso anno 1919 promosse una inchiesta in merito presso i corpi diplomatici e consolari. La grande maggioranza delle risposte furono negative, temendosi che le consulte previste potessero essere contrastanti cogli uffici diplomatici e consolari e quindi diminuirne il prestigio.

Fu questa una risposta degna del corpo diplomatico e consolare, che è il meno democratico fra tutti i corpi dello Stato. Tuttavia lo stesso Ministro degli esteri, attraverso il Commissariato per l'emigrazione, (a proposito cosa si attende a ricostruirlo nella sua piena efficienza?), nominò una Commissione di studio con il compito di esaminare il problema; e a capo di essa fu designato il collega Vittorio Emanuele Orlando. Io non so se tale Commissione abbia avuto il tempo di studiare veramente e di proporre qualche cosa, o se invece il fascismo ne abbia troncato l'opera. Ma è certo che il problema è ora ridiventato di attualità. Già infatti gli emigrati in Francia hanno chiesto che siano autorizzate consulte presso i loro Consolati.

Ritornando all'argomento principale del voto agli emigrati, esclusa la Costituzione di grandi collegi all'estero, escluso il collegio unico per tutti gli emigrati a Roma, si potrebbe pensare ad un esercizio del voto politico presso i Consolati. Ma anche questo mezzo è discutibile perché il Consolato, specialmente dove sono molti gli italiani, dovrebbe avere un apparato notevole per la votazione, possedere gli elenchi degli elettori, e via dicendo; in più questo mezzo comporterebbe spese molto gravi di dislocazione degli elettori, infine e sopratutto, anche se si volesse scaglionare la votazione in diversi giorni, si formerebbero sempre delle code e degli aggruppamenti nei pressi dei Consolati, il che renderebbe l'espressione del voto troppo visibile.

Comunque si analizzi e si esamini il problema, il metodo più efficiente, meno perturbatore, meno choquant, meno dispendioso, più semplice, e più a portata di tutti gli emigrati, è quello del voto per lettera indirizzata in busta chiusa dall'emigrato alla sua sezione elettorale, metodo già adottato dalla Norvegia e dalla Danimarca.

Perché fare accedere al voto politico gli emigrati? Prima di tutto perché quali cittadini italiani ne hanno diritto. Questa Costituzione che faticosamente elaboriamo ha già sancito il diritto di emigrare. Adesso voteremo l'articolo 45, che stabilisce essere il voto politico non solo un diritto, ma un dovere civile e morale. Ma come fate a fabbricare un dovere e un diritto di cui l'uno è la negazione dell'altro? Se questa Costituzione non vorrà essere aberrante — come lo è già in qualche punto: confrontate, per esempio, l'articolo 1 coll'articolo 7, tenendo conto dell'articolo 26 dei Patti del Laterano — bisognerà pure che perché questi emigrati possano compiere il loro dovere morale e civico, abbiano la possibilità di votare. Non si avrà mica la pretesa che rimpatrino a loro spese, col pericolo di perdere il posto di lavoro prima del loro ritorno! Se non si dà all'emigrato il mezzo di votare io non capirò mai come si possa dopo mettere una qualsiasi nota di demerito su un qualsiasi documento a danno dell'emigrante che non abbia potuto votare. Tanto peggio poi se, come si propone in qualche emendamento che è stato presentato, si dovesse rendere il voto obbligatorio. Con che diritto penalizzeremo l'operaio, il lavoratore, che non ha potuto votare perché all'estero?

Se questa non è un'argomentazione giuridica — io non sono un giurista — mi pare però sia inoppugnabile come argomentazione dettata dal buon senso.

Ma al disopra del criterio giuridico vi sono altre possenti ragioni per proporre e risolvere il problema.

Chi emigra, per decidersi a partire, per abbandonare il suo paese, la sua famiglia, il suo luogo natale, le sue consuetudini di vita, deve compiere uno sforzo morale, provare una tale somma di dolori, compiere tale un sacrificio, da dare segni evidenti che moralmente valga assai più della media degli uomini, di avere in sé tanta forza morale da renderlo un uomo scelto. E noi vogliamo allontanare dalla vita civile e politica gli uomini migliori di nostra gente? Privarci dell'avviso, nella scelta della rappresentanza legislativa, delle coscienze superiori alla media?

Tanto più che questa emigrazione col tempo si è raffinata, si è evoluta, si è specializzata. Al sorgere dell'unità d'Italia noi non potevamo dare che dei contadini umilissimi alle fazendas brasiliane e manovali per le fornaci di Baviera; poi a poco a poco, attraverso l'esperienza personale dell'emigrazione, attraverso l'aiuto di piccole, povere scuole industriali, create dalle società di mutuo soccorso e dagli enti locali, questa nostra mano d'opera si è affinata, si è civilizzata, si è migliorata, si è valorizzata, tanto da essere ambita non solo per la quantità ma anche per la qualità del lavoro.

Non vi è grande opera che sia stata eseguita nell'universo intero senza la partecipazione del lavoro italiano: i trafori delle Alpi, il taglio dell'istmo di Suez, gli sbarramenti del Nilo, la costruzione della Transiberiana, le fortificazioni di Port Arthur, le ferrovie dell'Africa centrale, le ferrovie dell'America meridionale, la ricostruzione della Francia dopo l'altra guerra sono dovuti in gran parte a mano d'opera italiana.

Noi abbiamo sparso questa nostra mano d'opera in tutto il mondo e col tempo si è differenziata. Il lavoro italiano è infinitamente vario. Supera ogni concorrenza nelle arti edili in tutto il mondo; ha dato uomini alle fornaci d'Austria e di Baviera, minatori alla Pensilvania, segantini e boscaioli all'Austria, all'Ungheria, alla Romania, camerieri e personale d'albergo quasi ovunque, sarti e sarte all'America del Nord, perfino impareggiabili modelle all'arte francese. Da questa massa immensa di sette od otto milioni, si elevano qua e là pure grandi imprenditori, capi d'industria, direttori d'azienda, una moltitudine di commercianti e di artigiani. Tutto l'assieme, tutto questo costituisce una forza meravigliosa, che ha anche influenza nell'ambiente in cui vive.

Sono perfettamente convinto che se tutta l'America ha in questo momento, come durante la guerra, per l'Italia simpatia e benevolenza ciò dipende dal gran numero di italiani che vi si sono stabiliti e dalla loro influenza sull'opinione pubblica locale.

Questa massa che è il fior fiore di nostra gente sparsa per il mondo, vogliamo abbandonarla o unirla alla Patria? Se non vogliamo abbandonarla perché escluderla dalle nostre vicende politiche?

Questa nostra umanità emigrante è altamente apprezzata all'estero e costituisce un magnifico nostro patrimonio. Facciamo in modo di non disperderlo ma di valorizzarlo. Non mi pare che l'attuale politica di emigrazione nostra corrisponda a questa necessità. Alle prime richieste che ci erano state fatte di mano d'opera dopo la guerra, noi dovevamo prima di tutto e soprattutto pensare ad inviare gente che facesse bella figura, gente che almeno — se non proprio il mestiere — conoscesse un po' la lingua, i costumi, l'ambiente del Paese ove doveva recarsi.

Avevamo a casa diecine di migliaia di persone che erano state all'estero e che attendevano impazienti di ritornarvi. Si è preferito partire da un altro concetto: il concetto del disoccupato. E allora si è inviato gente che non conosceva né la lingua né l'ambiente, estranea completamente ai costumi; qualche volta senza mestiere o a conoscenza di un mestiere troppo diverso da quello richiesto: si chiedevano minatori e si mandavano barbieri o sarti! Tutto questo ha portato alti lagni da una parte e dall'altra e tutto questo ha svalutato un po' la nostra ricchezza di energia lavoratrice che prima l'estero ammirava ed ambiva.

Anche qualche altro criterio in questa materia è sbagliato: si è pensato a mandare grandi masse disciplinate, organizzate...

Presidente Terracini. Mi permetta, onorevole Piemonte: forse questo esula dal tema. Quando parleremo degli accordi fatti con gli altri paesi per l'emigrazione, questo può e deve essere detto.

Piemonte. Obbedisco. Solamente volevo fare una raccomandazione alla stampa, soprattutto al Governo.

Si vada adagio nel parlare di emigrazione, si vada adagio, perché si creano delle illusioni che poi non hanno riscontro nei fatti. Abbiamo già attorno a noi un'onda di sfiducia e di disorientamento nel popolo, e non poco ha contribuito a formarla l'annunzio che presto migliaia e migliaia di persone avrebbero trovato lavoro nel Venezuela, in Argentina, in Francia, in Belgio, in Cecoslovacchia e altrove, cosicché nacquero immense speranze che poi andarono in gran parte deluse.

La stampa sia molto prudente in questa materia tanto delicata; il Governo attenda di avere quattro noci nel sacco prima di stamburare successi. Siamo prudenti perché c'è stata della povera gente che ha venduto la casa, le masserizie e tutto quello che possedeva per preparare i soldi per fare il viaggio, e questa gente ha consumato o consuma quel poco che aveva. Dolori e rovine!

Attorno a questi accordi di emigrazione non si faccia troppo chiasso....

Presidente Terracini. Onorevole Piemonte, lei parla del voto agli emigranti. Mi permetta che glielo ricordi.

Piemonte. Allora tronco. Noto, per ritornare all'argomento, che il nostro collega Corbino l'altro giorno ci diceva che un tempo la bilancia commerciale si saldava con milleduecento milioni dati dal turismo e dalla emigrazione. Sarebbe stato bene che egli avesse sceverato la cifra del turismo da quella dell'emigrazione.

Jacini. Circa metà.

Piemonte. Io noto però che un comunicato statistico degli Stati Uniti ci avverte che durante il 1946 le rimesse degli emigranti italiani sono salite a 26 milioni di dollari cifra rispettabile. Non conosciamo le rimesse degli altri paesi, ed il 1946 non è certamente l'anno più florido per la nostra emigrazione, se si tien conto degli sbarramenti ovunque elevati contro di essa e le difficoltà e ostacoli creati per impedire le rimesse dei risparmi.

Siamo legati ai nostri emigrati anche da queste rimesse, da questi aiuti economici che sono destinati ad ingrandire e a potentemente aiutare la nostra ricostruzione. Chi ci sa dire quale è stato il valore dei pacchi alimentari, spediti dai nostri connazionali all'estero ai loro parenti rimasti in Italia? Sono decine di migliaia di famiglie, che hanno ricevuto pacchi dall'America, dalla Francia, da tutte le parti del mondo. In un solo comune, Meduno in Friuli, questi pacchi sono stati circa 1500 e del valore, ognuno di essi, di parecchie migliaia di lire.

Dirò di più: se noi sapremo mettere un poco di ordine nella nostra casa, ridurre il mercato nero all'eccezione, mercato nero che ci sarà sempre sino a che non sarà applicata la pena di morte per tale delitto, se un nuovo prestito potremo lanciare, in modo particolare invitando a parteciparvi i nostri fratelli residenti all'estero, sono sicuro che avremo un risultato molto superiore a quello che tanti, ignorando il patriottismo dei nostri emigrati, potrebbero supporre.

Gli ostacoli all'esercizio del voto di carattere internazionale sarebbero superati facilmente se si adottasse il principio della doppia nazionalità. L'emigrato che va e resta parecchi anni in un determinato paese estero è sempre in una situazione difficile. Se vuol curare i suoi interessi gli occorre diventare cittadino della Nazione in cui si trova, se questo fa, va contro il vincolo naturale di sangue che ha nell'animo e nel cuore. Quando si decide o per l'una o per l'altra cosa, o sono i suoi interessi personali che sono compromessi oppure sono ulcerati i suoi sentimenti più umani e profondi. Questi casi di coscienza sono numerosissimi e variamente risolti, ma sempre con amarezza e scontento.

Il problema della doppia cittadinanza è visto generalmente sotto un angolo nazionalista errato nella sua sostanza. Se si volesse una buona volta comprendere che il principio di nazionalità implica quello di una società internazionale, che rifonda in un'unità superiore le differenze, la doppia nazionalità sarebbe considerata come un gradino, una prima tappa verso queste forme di convivenza supernazionali. Churchill propose un giorno in piena guerra l'attuazione di questo principio alla Francia: la Francia rifiutò; non credo che la Francia abbia fatto bene e abbia ben tutelato i suoi interessi. Per mio conto auguro all'Italia che possa concludere trattati bilaterali di doppia nazionalità prima di tutto con i popoli che sono più vicini a noi dal punto di vista etnico, e poi con quelli coi quali abbiamo maggiore convergenza di interessi. Mi auguro che si possa attuare il massimo numero di questi trattati: più ce ne saranno e più la pace sarà sicura e permanente.

Il nostro emendamento all'articolo 45 darà per ora poche difficoltà al legislatore, perché la legislazione fascista ha messo come condizione all'elettorato la residenza; e poiché i Governi di liberazione nazionale hanno confermato (ironia della sorte) questo principio, tanto che i decreti legislativi che sono stati emanati in materia di elettorato portano ancora la necessità della residenza per esser elettori, quindi se fosse vero che le elezioni avvengano entro l'anno, la riforma che noi proponiamo non potrebbe interessare che le poche decine di migliaia di nostri operai, già elettori, che sono emigrati dopo il 2 giugno.

Spetterà al legislatore futuro perfezionare la legge e rendere accessibile il voto anche agli emigrati non elettori attualmente. Ma la situazione attuale consente di poter questo anno fare la prova nelle migliori condizioni possibili.

Resta a spiegare perché questa proposta fu fatta in sede di Costituzione e non in sede di legge. Ho già detto che quando fu fatta l'inchiesta nel 1908 sull'opportunità del voto agli emigranti vennero date molte adesioni al principio e che furono formulate molte riserve sulla attuabilità della riforma: riserve a cui ho accennato e credo aver confutato. Ma allora vi erano delle riserve mentali, inconfessate e inconfessabili, nascoste dietro il paravento di quelle giuridiche e di inattuabilità della riforma. A sinistra non si vedeva la possibilità del voto agli emigranti se non presso i Consolati; e nei consoli non si aveva nessuna fiducia, perché strumenti ciechi di Governi reazionari; a destra si sapeva che in quel momento l'idea socialista era in un periodo di espansione e di ascensione, e si era sicuri o si temeva che gli emigrati avrebbero votato rosso, cioè pel partito socialista. Oggi le cose sono un po' capovolte. Se non fu dato agli emigrati il voto in modo che potessero partecipare al referendum e all'Assemblea Costituente, se in qualche settore c'è ancora qualche resistenza in merito, è perché si temeva e si teme la partecipazione al voto dei fascisti e monarchici che si trovano oltre confine.

Temere il voto dei monarchici e dei fascisti emigrati, significa non credere alla doverosa epurazione delle liste elettorali, che dovrebbe esser un fatto compiuto e comunque significa porsi sullo stesso piano del fascismo, che sospettava ed odiava l'emigrazione perché non la poteva comandare, né sufficientemente controllare.

Invece noi siamo sicuri che se la Repubblica, permettendo il voto agli emigrati, presenterà ad essi il suo volto severo, ma materno, ne conquisterà la fiducia e gli animi, e questi vani spettri dei monarchici e fascisti di Coblenza o del Cairo, o di Lisbona, o dell'America del Sud o del Nord svaniranno come svaniscono al canto del gallo, annunziatore della luce, tutti gli spiriti maligni delle tenebre.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho finito.

Dalla dittatura e dalla sconfitta l'Italia esce deteriorata nel morale, rovinata nella sua economia; perdute le nuove colonie, quasi irrimediabilmente compromessa la sorte di quelle antiche, mutilata nel territorio nazionale ad oriente ed ad occidente. Ai disastri interni dobbiamo porre rimedio coll'ordine, colla disciplina, coll'austerità nel tenor di vita. Alle perdite territoriali, in attesa che giustizia ci sia fatta, possiamo rimediare saldando maggiormente alla patria i nostri figli dispersi pel vasto mondo, e ritengo che la nostra iniziativa, se accolta, sia di potente aiuto a raggiungere tal fine.

A chi poi si meravigliasse che sia proprio il Partito socialista dei lavoratori italiani a farsi campione e paladino di questa più grande Italia e di questa più intensa unità della stirpe, risponderò che il nostro partito è sicuro, così operando, di essere nel solco marxista.

Marx non ha detto o scritto, come tanta parte del volgo ritiene, «Proletari di tutto il mondo unitevi!», bensì nel suo Manifesto ha lanciato l'appello: «Proletari di tutti i Paesi unitevi!».

Questa differenza di terminologia ha per noi un grande ed altissimo valore, pieno di logiche conseguenze.

Rivolgendosi ai proletari di tutti i Paesi e non ai proletari di tutto il Mondo, segno è che la mente di Marx non mirava ad una universalità socialista che fosse un'enorme caserma, ad una somma meccanica di milioni e milioni di uomini non differenziati da altro che dalle loro qualità fisiche e morali individuali; ma pensava ad una universalità socialista formata dall'apporto dei lavoratori di tutte le Nazioni, di tutte le stirpi, ciascuna delle quali avrebbe dato alla costruzione e alla vita dell'edificio collettivo il meglio di se stessa.

Ebbene, a questo grande, armonioso edificio socialista, che sarà, l'Italia lavoratrice offrirà la sua laboriosità, il suo genio innato dell'arte e lo squisito ed acuto senso di giustizia sociale che tutti i suoi figli, vivano dentro i suoi confini o fuori, posseggono al più alto grado.

Soprattutto questo senso di giustizia sociale che, non placato, si manifesta come una sola voce insofferente che oggi sale dai campi e dalle officine! (Applausi).

[...]

Schiavetti. Al collega ed amico Piemonte è toccato per primo di esporre dinanzi a questa Assemblea il problema dei nostri rapporti con gli italiani all'estero. È quindi naturale che a me tocchi di dire poche cose soltanto, oltre a quelle essenziali che sono state dette dall'amico Piemonte.

Anzitutto si presenta il problema, che ha una certa importanza di sapere con precisione quanti sono questi italiani dimoranti all'estero. È probabile che il numero di questi italiani abbia subìto in questi ultimi anni delle forti diminuzioni. Le cifre più attendibili si riferiscono al 1924 e ci sono state date dall'Annuario statistico del Commissariato generale per l'emigrazione. Era allora un tempo in cui la statistica non era divenuta ancora un servizio politico del Ministero degli interni, come divenne poi con gli sviluppi più o meno fatali del regime fascista. In questo Annuario statistico del Commissariato per l'emigrazione troviamo che alla fine del 1924 vi erano in tutto il mondo poco più di 9 milioni di italiani residenti all'estero; e nel 1927 il Ministero degli esteri fascista confermava sostanzialmente questa cifra, comunicando che il numero degli italiani all'estero era aumentato di circa 150 mila unità. In questi ultimi anni però — come ho già avuto occasione di accennare — è probabile che il numero degli italiani all'estero sia fortemente diminuito a causa delle naturalizzazioni sopravvenute in molti paesi per motivi inerenti allo stato di guerra. Vi sono molti italiani che, travolti dalla folle politica del fascismo e fatti oggetto dell'odio, del risentimento e anche del disprezzo degli ambienti politici in cui vivevano, hanno dovuto rinunciare o sono stati ad ogni modo costretti a rinunciare alla loro nazionalità. Un fenomeno di questo genere, per quel che sappiamo, è stato forte soprattutto negli Stati Uniti. Noi manchiamo di cifre precise, ma alcuni ritengono che gli italiani siano diminuiti in certe zone degli Stati Uniti di circa i 2/3, e che a New York e dintorni restino ora di 1.300.000 italiani di una volta, solo 600.000 nostri concittadini. È probabile che in queste cifre, che rappresenterebbero una catastrofe per la nostra emigrazione, vi sia una forte esagerazione. Ad ogni modo noi dobbiamo tener conto di questa diminuzione del numero degli italiani residenti all'estero. Tuttavia è chiaro, anche ammettendola, che gli italiani residenti all'estero sono ancora molti, moltissimi, e che determinano per noi un problema fondamentale: quello di mantenerli uniti alla madre Patria, di non perdere questo materiale umano con tutti i tesori di civiltà e di forza spirituale ed economica che esso rappresenta.

Vorrei fare anzitutto, a proposito di quello che ha detto il collega Piemonte, una distinzione parziale che serve a centrare il problema. Si tratta di un unico problema che può essere veduto però sotto due aspetti diversi. Vi è il problema della emigrazione, che è un problema prevalentemente economico e che riguarda sopratutto l'assestamento dei nostri concittadini che si recano all'estero. Questo problema è stato già toccato nella nostra Costituzione con l'articolo 30 che noi abbiamo approvato, articolo nel quale si parla di una doverosa tutela da parte della Repubblica italiana del lavoro italiano all'estero.

Ma vi è poi un altro aspetto di questo problema, un aspetto prevalentemente politico e morale: è il problema che riguarda appunto gli italiani già stabilitisi all'estero. Per questi italiani, evidentemente, i problemi più gravi non sono quelli della loro sistemazione e stabilità economica; perché per la maggior parte di loro questa sistemazione è già avvenuta; ma si tratta, in prevalenza, di problemi politici e morali, problemi che riguardano i rapporti con la madrepatria.

La trattazione di questo problema non ha nulla a che vedere con le preoccupazioni che sono state caratteristiche del fascismo ogni qualvolta il fascismo si è occupato degli italiani all'estero. Come voi sapete, il fascismo vedeva negli italiani all'estero una specie di avanguardia per la conquista italiana dell'impero. Erano strumenti politici di penetrazione nazionalistica nei diversi paesi. E il fascismo, con questa sua concezione, soprattutto con l'attuazione, nei limiti che gli sono stati possibili, di questa sua concezione, ha arrecato un danno enorme alla sorte degli italiani all'estero, arrecando anche, come in tanti altri settori, un danno enorme alle fortune della nostra Nazione.

Il fascismo si è infatti preoccupato, per quel che riguardava la disciplina e l'organizzazione delle nostre comunità all'estero, di caporalizzare (uso questa parola prussiana) i rapporti intercedenti tra gli italiani delle diverse comunità. Basterebbe ricordare — perché in certi casi nomina sunt res: i nomi attingono alla realtà delle cose — che il nostro Commissariato dell'emigrazione fu trasformato dal fascismo nella famosa D.I.E., Direzione generale italiani all'estero, dimodoché gli italiani all'estero avevano un direttore generale, erano italiani che avevano la fortuna di essere diretti in tutte le loro attività, e nel seno stesso della comunità il console esercitava la propria autorità come il comandante di una unità in guerra.

A me è toccato, quando ho avuto occasione di andare a visitare in Svizzera la cittadina di Grenchen, nota per la famosa crisi spirituale che vi subì il Mazzini, di leggere una lapide in cui i fascisti della località annunciavano allo spirito di Mazzini che essi, i «soldati d'Italia», erano giunti sulle sue orme fino in quella piccola cittadina.

Si dicevano dunque «soldati d'Italia», non i portatori della nostra civiltà: erano dei soldati che dicevano di seguire le orme di Mazzini per preparare all'Italia fascista la conquista dell'Impero e di determinate posizioni politiche.

Noi vediamo questo problema, è inutile dirlo, con preoccupazioni del tutto diverse e da un punto di vista totalmente diverso: preoccupazioni di carattere politico per quel che riguarda la conquista di posizioni all'estero, sono in noi del tutto assenti. C'è solo una preoccupazione fondamentale, quella di tenere legati alla madre Patria i nostri concittadini, perché assolvano al compito che loro è prefisso nell'economia generale della civiltà. Ciascun paese realizza un determinato tipo di civiltà e dice la propria parola al mondo nella sua lingua ed è più che giusto che i nostri concittadini dicano questa parola di civiltà nelle forme più facili per loro. Questa è la ragione fondamentale della nostra preoccupazione e dell'interesse che noi portiamo al problema del voto degli italiani all'estero e dei nostri rapporti con loro. Ad alcuni sembra che quando si sia assicurato l'esercizio del diritto elettorale ai nostri emigranti, si sia già fatto un gran passo nella soluzione del problema dei nostri rapporti con i nostri concittadini all'estero. Da un punto di vista generale, e in linea di massima, questa cosa è già stata, in un certo senso, realizzata. Proprio stamani alla Commissione che studia il progetto di legge sull'elettorato attivo noi abbiamo avuto occasione di esaminare l'articolo 11, il quale stabilisce che anche ai cittadini italiani che si sono trasferiti all'estero e che hanno perduto la residenza di origine, sia assicurato il diritto di voto; e questo è un riconoscimento di principio che ha un forte valore: per tutto il resto non si tratta che di attuazione e di tecnica. Ma la concessione del diritto di voto non è, a mio parere, sufficiente perché siano sufficientemente stretti e mantenuti i legami con i nostri concittadini all'estero.

Qui io vorrei approfondire qualcuna delle cose che ha detto il nostro amico e collega Piemonte. Il diritto di voto può essere esercitato nelle forme ordinarie, nelle forme che la legge elettorale, a cui ho accennato, stabilisce o stabilirà in avvenire. Questi cittadini possono rimanere iscritti nelle liste elettorali del loro paese e possono rientrare in patria a esercitare il diritto di voto. Ma è evidente che l'esercizio del diritto di voto sotto questa forma riguarderà sempre una piccola minoranza di cittadini italiani; riguarderà soprattutto la minoranza di cittadini italiani che vive in Isvizzera, in Francia, e in qualche altro paese d'Europa: quei cittadini italiani, cioè, che potranno permettersi il lusso di fare un viaggio in Italia durante le elezioni. Ma la maggior parte dei cittadini italiani residenti all'estero, cioè quelli dell'America del Nord e dell'America del Sud non potranno mai esercitare in questa forma il loro diritto di voto che per via di eccezione.

D'altra parte, esercitato all'estero presso i consolati, e sia pure per lettera, come è stato precedentemente accennato, il diritto di voto degli italiani all'estero solleverà, senza dubbio, dei problemi di ordine pubblico da parte degli Stati interessati, i quali non avranno nessun piacere che si svolga nei centri di emigrazione italiana di loro competenza una lotta elettorale, che sarà senza dubbio contrassegnata dalla vivacità caratteristica di noi italiani.

In ogni caso, l'esercizio del voto che si innesti alle circoscrizioni italiane risponderebbe poco in questo momento alla attuale capacità e sensibilità politica dei nostri gruppi all'estero, di cui alcuni sono lontani migliaia e migliaia di miglia dal nostro Paese e che — come è stato facile constatare a coloro che sono vissuti a lungo negli ambienti di emigrazione — sono per molti aspetti arretrati rispetto all'Italia, dal punto di vista culturale, politico e spirituale. È facilissimo, quando noi andiamo in alcuni centri della nostra emigrazione, trovarvi agitati, ad esempio, dei problemi, che sono stati agitati in Italia 20 anni prima, e di trovare trionfanti nel gusto del pubblico scrittori, i quali rappresentano un'arte o un modo di pensare che lo sviluppo del pensiero nazionale ha da noi da lungo tempo sorpassata.

Perché il diritto di voto possa legare veramente queste masse di italiani al nostro Paese, dovrebbe essere esercitato in forma organica, la sola forma idonea a mantenere questo collegamento. Vi dovrebbero essere rappresentanti delle diverse comunità italiane, contraddistinte da interessi determinati e comuni. Se noi volessimo dare una rappresentanza organica a queste masse di italiani, dovremmo invitare alle nostre assemblee in Italia i loro deputati. Ma una soluzione in questi termini del problema solleverebbe delle obiezioni da parte degli Stati interessati. Nessuno Stato ammetterebbe mai che cittadini stranieri, viventi nel suo territorio, possano avere rapporti politici di questo genere con altri Paesi. Questo non può avvenire, soprattutto in un periodo come l'attuale, caratterizzato da nazionalismi esasperati e da diffidenze di carattere politico, e non potrebbe, soprattutto, avvenire per noi, che abbiamo alle nostre spalle l'esperienza fascista, con tutte le diffidenze che essa ha seminato presso gli Stati vicini.

Per tutte queste considerazioni, a me pare che l'assicurazione dell'esercizio del diritto elettorale agli italiani all'estero non possa risolvere in modo fondamentale il problema che ci preoccupa tutti: il problema, cioè, del mantenimento dei rapporti e del collegamento spirituale e politico coi nostri concittadini. Ed è appunto in considerazione di una più efficace soluzione di questo problema che io ho proposto all'Assemblea il seguente emendamento aggiuntivo all'articolo 45:

«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all'estero la possibilità dell'espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».

In questo modo il problema è portato, come è evidente, su un piano diverso.

Esso presume anzitutto la riorganizzazione in forma autonoma e democratica della vita delle nostre comunità all'estero.

Già alla caduta del fascismo molte di queste nostre comunità hanno fatto degli esperimenti originali e spontanei di organizzazione della loro vita autonoma in reazione al predominio fascista. Quando molte comunità si sono trovate in lotta contro i consoli che rappresentavano ormai un regime decaduto, si sono date un ordinamento autonomo; per meglio dire, non sono state comunità intere, ma sono state le minoranze attive e politicamente più intelligenti e progressiste di queste comunità che si sono date un ordinamento autonomo, accogliendo nel loro seno tutti gli italiani, esclusi i fascisti militanti, a qualunque partito politico essi appartenessero. Bisognerebbe lavorare nel solco di questa naturale reazione al dominio fascista e alla organizzazione fascista delle comunità all'estero. Bisogna avere una grande fiducia in tutto quello che è spontaneo, che non risponde a un concetto astratto e teorico, ma che non fa altro che potenziare dei fenomeni che si sono già sviluppati naturalmente nel suolo della nostra vita collettiva. Le nostre comunità si sono date degli ordinamenti autonomi e hanno costituito in molti luoghi comunità e colonie libere.

Questo è accaduto in Svizzera, in Francia ed anche in America.

Questo esperimento dovrebbe essere allargato e il suo allargamento ci concederebbe di poter dare a queste comunità una rappresentanza organica. Che cosa vuol dire una rappresentanza organica? Vuol dire creare degli organi che rappresentino esclusivamente le masse degli emigrati. Al legislatore futuro spetterà naturalmente di precisare i particolari. Non è questo il luogo per scendere nei dettagli. In generale si può prevedere la creazione di un Consiglio di rappresentanti delle comunità italiane all'estero, Consiglio di rappresentanti che si raduni periodicamente in Italia e rappresenti tutti gli italiani viventi all'estero nella loro molteplice varietà, nella loro concordia discorde. Una proposta di questo genere, come è stato già ricordato, è stata formulata nei Congressi degli emigranti del 1908 e del 1911. Questi congressi italiani all'estero hanno proposto che si formassero degli organismi rappresentativi che portassero la voce dei milioni di italiani all'estero e che di questi organismi rappresentativi alcuni fossero temporanei ed altri permanenti. Accanto al su accennato Consiglio di rappresentanti potrebbe esservi una delegazione che curi l'attuazione dei desideri da esso espressi. Per di più nei principali centri di emigrazione, in Francia, negli Stati Uniti, nel Brasile e in Argentina potrebbero esservi altre delegazioni permanenti.

In questo modo noi potremmo avere una rappresentanza organica delle masse degli italiani residenti permanentemente all'estero, una rappresentanza organica che avrebbe naturalmente un valore molto maggiore di quello che risulterebbe solo dall'esercizio del diritto elettorale.

A questa rappresentanza noi potremmo dare dei poteri di carattere consultivo, ma di un grande valore. Sarebbe la voce di tutti i nostri connazionali, di tutti i nostri concittadini all'estero, concittadini che finalmente si sarebbero liberati dalla caporalistica pressione fascista e dall'autorità consolare come era esercitata durante il fascismo, autorità che rispondeva molto a quella di un commissario prefettizio o di un commissario regio in un comune. Queste nostre comunità all'estero sono in coscienza come dei comuni, ma comuni che non hanno libere rappresentanze né amministratori eletti dalla massa degli emigrati. Hanno avute per tutti gli anni del dominio fascista, e del resto li hanno avuti anche prima, degli amministratori che sono stati imposti dal Governo centrale e che quasi sempre non rappresentavano gli interessi, le idee, le aspirazioni della grande massa degli amministrati.

Quando noi avremo introdotto un principio di vita autonoma nelle nostre comunità all'estero, quando avremo assicurato a queste nostre comunità all'estero la rappresentanza organica e disciplinata dei loro interessi, sia pure sotto forma di voto consultivo, noi avremo ben operato per il mantenimento del collegamento fra le masse emigrate all'estero e il nostro Paese, collegamento al quale è affidata in grandissima parte la possibilità per la Repubblica italiana di continuare ad esercitare presso gli italiani all'estero la propria influenza benefica e di progresso. (Applausi).

[...]

Giolitti. [...] Vengo all'esame dei problemi che non trovano, a nostro avviso, adeguata soluzione: mi riferisco all'articolo 45, dove è stabilito il requisito della maggiore età, nella norma costituzionale, per l'esercizio del diritto di voto. Ora su questo argomento, io ed il mio Gruppo riteniamo che possa essere più opportuno, anche se non si vuole sin da ora nella norma costituzionale dare, diciamo, un attestato di maturità alla gioventù italiana — che ha dato prova di coscienza civile, di coscienza patriottica e di coscienza politica nella lotta partigiana, e nella guerra di liberazione — se non si vuole dare questo attestato, ripeto, io credo che si possa dare per lo meno il beneficio della sospensiva, e non precludere con la norma costituzionale quella che potrà essere una diversa norma stabilita dalla legge. Perciò io, a nome del mio Gruppo, propongo un emendamento che tende a rinviare alla legge normale questo requisito dell'età necessaria per l'esercizio del diritto di voto: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto l'età stabilita dalla legge». Osservo d'altra parte che autorevoli Commissari della prima Sottocommissione — gli onorevoli Cevolotto, Tupini, Basso e Togliatti — avevano condiviso questo criterio.

Segue poi la questione del voto, concepito come «dovere civico e morale», per usare l'espressione del progetto di Costituzione. Ora, qui mi sembra che in un certo qual modo riappaia quel tono — sia detto senza intenzione di dispregio — predicatorio che qualche volta abbiamo sentito riecheggiare in altri Titoli e da cui questo Titolo ha il pregio di essere esente. Ma, d'altra parte, domando: che valore giuridico ha una formulazione di questo genere: «dovere civico e morale»? Mi pare che la stessa formulazione manifesti una certa esitazione del legislatore al riguardo. E che cosa è poi un diritto che è al tempo stesso un dovere? Del resto, questa esitazione appare anche un po' negli stessi redattori dell'articolo quando, nel secondo comma, hanno parlato di voto e non di diritto di voto, per aggiungere poi subito dopo che il suo esercizio è un dovere. Evidentemente, la contraddizione sarebbe stata troppo palese. Il diritto di voto appare soltanto nel terzo comma, e, per giustificare questo abbinamento di diritto e dovere, si è ricorso anche, come risulta dagli atti della Sottocommissione, a delle raffinatezze giuridiche, e da un Commissario è stato detto che il diritto è quello di essere iscritti nelle liste elettorali ed il dovere è quello di esercitare il diritto di voto. Comunque, mi pare che queste acrobazie, alle quali è stato necessario ricorrere per sostenere l'obbligatorietà del voto, dimostrino le difficoltà di sostenere un simile concetto.

Mi pare poi che si possa fare quest'altra osservazione: proprio la non obbligatorietà del voto è in un certo senso un correttivo a quella che è l'eguaglianza astratta del diritto di voto, vale a dire che non affermando l'obbligatorietà del voto e lasciando alla libera volontà del cittadino l'esercizio di questo suo diritto, si viene a dare, in un certo senso, un peso anche alla qualità, e cioè si dà un valore allo spirito di attività, di iniziativa del cittadino che vota, a differenza di quello che voterebbe soltanto perché obbligato, per un impulso passivo, per una costrizione esterna. Ed anche in questo senso mi pare che il non sancire l'obbligo del diritto di voto possa concorrere a rendere più democratico l'esercizio di questo diritto. Ed è perciò che, anche a proposito di questo comma, il mio Gruppo presenta un emendamento nel quale il secondo comma dell'articolo 45 risulta così formulato:

«Il voto è personale ed eguale, libero e segreto», sopprimendo la seconda parte: «Il suo esercizio è dovere civico e morale».

[...]

Caporali. Farò alcune considerazioni per ciò che riguarda in modo particolare il voto degli italiani all'estero. I colleghi, onorevole Piemonte e onorevole Schiavetti, hanno esaurientemente esaminato e approfondito la questione. Mi limiterò quindi ad insistere sulla opportunità che l'Assemblea Costituente abbia a riconoscere questo diritto. È necessario anche che il legislatore di domani consideri come gli italiani, i quali hanno acquistato la nazionalità di un altro paese, non debbano essere considerati, come faceva il fascismo, dei rinnegati. Li deve invece considerare come dei figli i quali, al di là dei confini della Patria, continuano a portare in alto il sentimento del nostro Paese e continuano, in modo particolare, ad essere degni figli della Madre Italia. Noi dobbiamo rovesciare su questo tema il vapore, cioè dobbiamo facilitare a mezzo di disposizioni legislative appropriate l'acquisizione del diritto al voto ai nostri emigrati e, nel tempo stesso, dobbiamo fare in modo che disposizioni legislative, anche esse appropriate, rendano possibile il ritorno, per gli emigrati naturalizzati, alla nazionalità italiana quando la richiedano.

In modo particolare queste facilitazioni devono essere riservate agli italiani appartenenti alla emigrazione transoceanica, poiché per quelli dell'emigrazione continentale dell'Europa o dell'Africa, ciò è più facile.

Occorre, soprattutto, considerare l'apporto che gli italiani all'estero offrono e compiono, sul terreno della solidarietà e della propagazione dei principî di pace e di democrazia.

L'onorevole Piemonte e l'onorevole Schiavetti hanno parlato dello sforzo titanico che hanno compiuto gli italiani all'estero.

Il fascismo ha disonorato tutto in Italia; ha cercato di disonorare anche l'emigrazione italiana, quando pretendeva che i nostri compatrioti andassero all'estero con le aquile romane nella valigia.

Gli italiani all'estero, malgrado la diffamazione ventennale del fascismo, hanno saputo conquistarsi un posto di onore; e non ho bisogno di dimostrare tutto quanto essi hanno compiuto in Europa.

Mi soffermerò solo un istante per dirvi che in Francia, nel Lussemburgo, nel Belgio, i lavoratori italiani nelle miniere e negli altiforni, hanno compiuto dei miracoli di energia e di attività.

I nostri contadini nel sud-ovest della Francia hanno saputo rendere produttivi e prosperi migliaia di ettari di terreno, che erano stati abbandonati. E questo è titolo di gloria e di onore del proletariato italiano, dei lavoratori italiani dei campi e delle officine, che non si deve obliare.

L'Assemblea Costituente si onorerà, se darà a questi italiani la possibilità di potere essere rappresentati nel Parlamento italiano.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti