[Il 12 settembre 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Rubilli. [...] Questo è il momento in cui si decide dell'avvenire della Nazione, la quale si poggia nelle sue legittime esigenze di ogni genere sulla bontà e l'efficacia delle leggi che verranno emanate. All'uopo occorre prima di ogni altro che ci occupiamo della istituzione di una seconda Camera, per vedere se ora si riconosca indiscutibile la sua utilità. Io so che di questo si è largamente discusso anche in seno alla Commissione, e vi sono stati pareri in diverso senso. È prevalso in maggioranza il parere di mantenere la seconda Camera, ma debbo pure ricordare che anche qui, nell'ambiente dell'Assemblea, non tutti i pareri siano concordi ed orientati nello stesso senso; difatti, quando io presi la parola in quella che si chiamò discussione generalissima della legge costituzionale, accennai appunto al Senato e dimostrai che così come è congegnato nella legge costituzionale può anche rappresentare una superfetazione, perché non sarebbe che la riproduzione fedele della Camera dei deputati, con gli stessi partiti più o meno nello stesso numero; quindi non avverrebbe che una inutile ripetizione, ed ogni partito nel Senato si sentirebbe legato al proprio partito della Camera dei deputati, il che porterebbe ad una votazione identica a quella della Camera dei deputati e perciò completamente inutile. Ricordo che allora da questi banchi di sinistra e da molte parti mi si interruppe e si disse: riconosciamo questa inutilità, ed è per ciò che noi non la volevamo e non la vogliamo la seconda Camera.

Qualche giorno dopo parlò l'onorevole Nenni e disse, ricordando quello che io avevo esposto qui in Assemblea: «Forse ha ragione Rubilli; la seconda Camera diventa inutile. Che ne facciamo?».

Credo perciò che non ancora ci siamo completamente intesi sulla utilità, anzi su quella che io credo una necessità della seconda Camera. E questo dissenso, secondo me, può derivare anche dal fatto che noi teniamo, di solito, troppo presente quello che è stato il nostro Senato.

Si sa che rappresentava il vecchio Senato: è stato sempre un organismo molto debole un organismo di scarsa vitalità e di più scarsa efficacia politica, sebbene costituito da persone per la maggioranza autorevolissime. Gli uomini politici guardavano con diffidenza al Senato, anzi, e sarei quasi per dire, che lo consideravano con una certa ripugnanza. Ognuno preferiva di essere deputato attraverso le elezioni, dopo di aver sostenuto lotte talora accanitissime, ma col conforto, con l'appoggio, con la fiducia dei propri elettori. Nessuno voleva andare al Senato: finché era possibile, preferiva rimanere alla Camera dei deputati.

Il Senato rappresentava una specie di collocamento a riposo; e si sa che al collocamento a riposo ci si rassegna quando proprio la invalidità è completa e non ci permette di fare altro; quindi alla Camera che per lo più si chiamava alta, si arrivava tardi e stanchi.

Ora, s'intende che il Senato, inteso in questo senso, e circondato da un'aureola poco simpatica, destava diffidenze e non era molto apprezzato. Spesso poi la nomina a senatore rappresentava il mezzo per consolare un povero deputato sconfitto, che pure era stato tanto fedele al Governo, fin troppo fedele, e qualche volta per troppa fedeltà sacrificando i suoi sentimenti, e perfino i veri interessi nazionali; veniva quindi aspettato e meritato il premio di consolazione e si andava al Senato. Talora il laticlavio rappresentava una semplice espressione di omaggio, e bisogna riconoscere quasi sempre giustificata, ma con l'effetto di mandare in un'Assemblea politica uomini che di politica non si erano mai occupati e ne erano rimasti sempre lontani, completamente ignorandola.

Vi può essere, per esempio, un uomo più elevato, più grande di Giuseppe Verdi, il Genio italiano nella sua più fulgida, mirabile espressione, che ha commosso tante generazioni nel mondo e che continuerà a commuoverle, le farà esultare, piangere o sorridere per tanti e tanti secoli ancora? Ebbene, nessuno può venir meno al sentimento della più profonda, della più spontanea ammirazione per chi ha tanto onorato l'umanità e non l'Italia soltanto. Ma perché mandarlo al Senato? Che vi andava a fare? Vi erano tanti altri modi e più appropriati, e migliori ancora per esprimergli la venerazione e la gratitudine della Patria!

Non so se sia vero un aneddoto che mi venne riferito, oppure soltanto verosimile, poiché non posso garantirne l'autenticità; mi si disse che in una delle poche volte in cui intervenne ad una seduta, non trovò di meglio da fare che rivestire di note musicali un piccolo diverbio fra due Senatori. Questa era la sua vera, la sua grande e nobile missione, l'arte, non la politica.

Ho citato un esempio dei più impressionanti, ma altri ancora e non pochi ne potrei ricordare. Insomma, in virtù di quelle nomine regie, spesso non si sapeva bene se si trattasse di un più o meno onorato collocamento a riposo oppure di un pietoso conforto ad una sconfitta elettorale o anche di qualche cosa che rimanesse incerta tra la carica politica e l'onorificenza.

E poi generali, ammiragli, alti funzionari dello Stato, persone munite di alti titoli nobiliari e di ricco censo, per lo più tutta gente che non brillava troppo per attitudini politiche, di guisa che non di rado sorgevano voci autorevoli invocanti una riforma del Senato.

Si capisce perciò che i Governi solevano trascurare la seconda Camera, e non la temevano affatto; nessuna crisi dalla medesima, per quanto io ricordi, è stata mai provocata.

Il Governo, di cui del resto ben di rado facevano parte e molto limitatamente dei senatori, si preoccupava soltanto della Camera dei deputati che frequentavano e vigilavano assiduamente, mentre al Senato di tanto in tanto apparivano membri del Governo, e spesso di quelli che non erano poi tra i più autorevoli.

Se fosse stato consentito, forse vi sarebbero andati anche soltanto dei Sottosegretari, ma a questi ne era inibito l'accesso; era un modo d'onorare almeno nella forma la Camera Alta.

Sono venute poi le epurazioni, le discriminazioni, le decadenze, le impressioni che si trattasse di un'Assemblea troppo permeata di spirito fascista e di attaccamento al regime; anche questo ha contribuito a lanciare un certo discredito verso il vecchio Senato.

Di simili concetti ed anche assai esagerati, se pure posti su di un fondamento di verità, hanno indubbiamente risentito alcuni uomini politici, e forse anche un poco i componenti della Commissione, per esprimere una certa perplessità sulla creazione di una seconda Camera o sul modo di costituirla.

Ma noi non dobbiamo pensare a quello che era il Senato; noi dobbiamo pensare al Senato che desideriamo, al Senato che vogliamo, quale ente davvero attivo e vitale per l'interesse del Paese. Così, allontanata ogni diffidenza, risulterà chiaro che non bisogna affatto respingere l'idea di ottenere una maggiore valutazione ed un perfezionamento delle leggi, specialmente di quelle più importanti, con una sapiente, oculata collaborazione delle due Camere.

Basterà del resto al riguardo osservare che una seconda Camera esiste in quasi tutte le Nazioni, così in quelle che si trovano in una condizione meno evoluta di fronte a noi come in quelle che ci eguagliano o anche ci superano per importanza e tradizione politica. Anche questa persistenza dovunque del sistema bicamerale, deve indurci a ritenere che ne sia stata a lungo sperimentata l'utilità.

Conviene adunque soltanto ora preoccuparsi del modo migliore di organizzazione e di funzionamento. Ora, se la seconda Camera deve essere conservata, è assolutamente necessario che ad essa sia conferita la stessa dignità, lo stesso prestigio che ha la Camera dei deputati. Questo concetto mi pare assolutamente fondamentale: che non si venga a creare un Senato cui si possa anche nelle apparenze attribuire una minore importanza; le due Camere debbono essere due entità identiche, sempre però nei rapporti della rispettiva autorità e del rispettivo prestigio.

Ora, a me pare che questo concetto non sia stato seguito dalla Commissione; e perciò dicevo che la Commissione ha potuto forse lasciarsi alquanto impressionare da quegli apprezzamenti cui poc'anzi accennavo, sempre se si vuol tener presente il Senato di un tempo ormai sorpassato. Intanto, se, come abbiamo detto, la Camera Alta deve essere in tutto pari per dignità e prestigio a quella dei deputati, mi pare non vi sia dubbio che uguale ne debba essere anche il numero dei componenti. (Commenti). Perché infatti questo numero dovrebbe essere minore?

Una voce a sinistra. Perché l'Aula è più piccola! (Si ride).

Rubilli. Bella ragione! Se l'Aula è piccola, andranno magari all'aperto o si troveranno un'altra Aula, o un posto che sia pure capace e decoroso. (Interruzione dell'onorevole Micheli). Ebbene, anche noi nei primi tempi avevamo un'Aula piccola, e tu te ne devi ricordare, caro Micheli.

Avevamo un'Aula assai più piccola di questa e molti di noi stavano in piedi. Vogliamo scherzare un poco, e sia, ma non si opporrà sul serio la difficoltà dell'Aula.

Mentre adunque parto dall'idea di un egual numero di componenti, vedo che mentre per la Camera è stabilito un deputato per ogni 80.000 mila abitanti, per il Senato la proporzione è di uno ogni 200.000 abitanti. (Commenti). Io dico che si potrebbe ridurre pure il numero dei deputati; non vi sarebbe niente di male: i partiti potrebbero essere anche contenti se invece di dieci, ad esempio, mandassero cinque rappresentanti; potrebbero scegliere i migliori: la designazione sarà più oculata. Non so perché vi debbano essere 555 o 556 deputati; diminuitene pure il numero, se volete; l'Assemblea funzionerà lo stesso. Vedete: non funziona bene anche nella seduta odierna, quando non siamo molti poi qui riuniti? Numero ridotto ed Assemblea ugualmente perfetta: il popolo allo stesso modo ben rappresentato anche con una riduzione alla metà in questa Aula, tanto più che è il popolo medesimo che per la maggior parte dovrà eleggere i suoi senatori. Ma se volete mantenere questo numero elevato per i deputati, dovete concederlo anche al Senato. Stabilendo un deputato ogni 80.000 abitanti e un senatore ogni 200.000, avreste un Senato che per il numero dei componenti sarebbe al di sotto della metà della Camera dei deputati. Ritorneremmo così agli antichi inconvenienti, perché senza dubbio l'inferiorità di numero importerebbe una minore considerazione della seconda Camera, la quale influirebbe assai meno della Camera dei deputati, il che non è giusto, nelle vicende della vita e dell'attività parlamentare. Anche di fronte all'azione ed alle decisioni del Governo, quale importanza avrebbe una piccola Assemblea di fronte ad una grande e numerosa Assemblea? Non avrebbe mai la possibilità di determinare un voto di sfiducia efficace o una crisi qualsiasi. È più che sufficiente allora al Governo per mantenersi una buona maggioranza nella Camera dei deputati.

È vero però che vi sono in aggiunta cinque senatori per ogni Regione. Donde e come sia sorta l'idea di questi cinque, davvero non me lo so spiegare. Perché? È un omaggio alla Regione? Una nuova impronta che derivi dal concetto regionale? Non bastava aver fatta una folle riforma con i relativi Parlamenti? I rappresentanti dei Consigli regionali devono intervenire per la nomina del Capo dello Stato; e vada pure; ma che debbano dare anche cinque componenti al Senato per conto loro, non riesco proprio a spiegarmelo. (Commenti). Lo so che tutto quello che riguarda la Regione per voi è sempre giusto e merita la più grande considerazione.

Ma, aggiungendo anche i cinque componenti per ogni Regione, non si arriva che ad un centinaio e si avrà così un Senato che sarà poco più della metà per numero di componenti della Camera dei deputati. Eh no! Io desidero una seconda Camera eguale per numero, per dignità e per prestigio alla prima Camera, a quella dei deputati. Che volete fare? Una Camera ed una cameretta? No, no. Le due Camere devono essere delle stesse dimensioni. (Commenti). Intendiamoci bene adunque prima di ogni altro su questo punto, che pure attiene ad un efficace e valido funzionamento del Senato. Ed allora rimane un problema che riconosco di non agevole soluzione. Come organizzare il Senato? Io ho presentato un ordine del giorno che rappresenta quello che di meglio son riuscito ad escogitare. Trovate voi se vi è possibile altra soluzione più giusta ed opportuna. Ma consideriamo e riflettiamo bene ora che ne è il momento. Perché, se vogliamo un Senato che funzioni con eguale zelo, con eguale efficacia e utilità della Camera dei deputati, dobbiamo stare attenti al modo col quale esso deve essere costituito, sempre informandoci sin quanto e dove è possibile ai concetti fondamentali di una sana democrazia.

[...]

La Rocca. [...] La ragion d'essere delle Camere Alte consisteva nell'impedire il trionfo dei movimenti liberali al tempo delle monarchie, passate dalla tappa dell'assolutismo allo stadio costituzionale.

In altri termini, la seconda Camera era uno strumento nelle mani dell'autorità regia, per imbrigliare l'impeto della volontà popolare.

Già nel secolo XIX, la dottrina democratica è nettamente unicameralista: in Francia, essa si sviluppa sotto il secondo Impero e nel primo periodo della terza repubblica con i discorsi di Goblet, di Naquet, di Clemenceau, e poi, verso la fine del secolo, con le proposte dei radicali, che presentano un disegno di legge per la soppressione del Senato.

Secondo le correnti ideologiche più strettamente legate alle grandi masse popolari, gli argomenti addotti da Siéyès sulla questione sono più che mai validi.

È la teoria della sovranità nazionale, secondo la quale il Parlamento rappresenta la volontà popolare, che non ha bisogno di esprimersi che una volta sola.

Se vi sono due Camere, o queste non hanno sopra un determinato oggetto la medesima opinione, e allora una di esse tradisce la volontà nazionale e la sua esistenza è un male; oppure le due Camere si dimostrano d'accordo, e, in questo caso, la seconda è inutile.

Per venire al concreto: o il Senato esprime la stessa volontà della Camera dei Deputati e non serve a niente; o esprime una volontà diversa, e allora una delle due Camere riflette meno fedelmente dell'altra la volontà del Paese.

Ci sarebbe da aggiungere che se il contrasto fra i due rami del Parlamento si riferisce non al carattere più o meno democratico della loro elezione, ma alla diversità delle persone e ad altri fattori accidentali, il risultato è causa di complicazioni, di confusione e di ritardo.

Da parte dei sostenitori del sistema bicamerale, si oppone invece che la volontà della legge non dev'essere confusa con l'elaborazione della legge, la quale richiede riflessione, maturità, esperienza particolare, preparazione tecnica, ecc.

In definitiva, il grande argomento a sostegno del bicameralismo, è questo: che le leggi debbono passare per il filtro di un minuto, attento, pacato esame e che il dare un solo organo alla formazione e all'espressione della volontà nazionale è un rendere questa formazione e questa espressione troppo subitanea, precipitosa, inconsiderata: onde l'opportunità di doppie e più meditate decisioni, e l'utilità del contributo che può dare, con un nuovo esame, «nella sua diversa composizione e competenza», una seconda Camera.

Questo compito può essere ritenuto ancora utile. Ma non vorrei che si trattasse di altro: di tradurre in pratica politica il pensiero di Hallam: che le assemblee numerose inclinano agli eccessi, con passioni concitate e irresponsabilità collettiva: sì che la democrazia, il regno assoluto della maggioranza, sarebbe il più tirannico degli ordinamenti.

Alcuni bicameralisti dichiarano, infatti, apertamente che un'assemblea unica, eletta a suffragio universale, tende a concentrare in sé tutto il potere dello Stato, a rendere l'esecutivo e il giudiziario suoi servitori, senza possibilità di limiti o di freni: lungo Parlamento o Convenzione, non importa.

Si cita Robespierre, che aspirava ad un Governo costituzionale; si tira in ballo l'autorità di Proudhon, che è autorevole fino ad un certo punto.

La maggioranza, ritenendosi fonte del diritto, affermando, anzi, di costituire il diritto, diventerebbe dispotica.

Di qua, secondo alcuni, la necessità, per la democrazia, di organizzare un centro di resistenza contro il suo prepotere.

È, in ultima analisi, la tesi esposta nel Governo rappresentativo da Stuart Mill, e rimessa più o meno a nuovo.

Impedire che un'assemblea unica possa esercitare la sua volontà, senza il concorso o il controllo di alcun altro.

Stuart Mill scriveva: «In ogni Costituzione dovrebbe esistere un centro di resistenza contro il potere predominante. Di conseguenza, in una Costituzione democratica, occorrerebbe creare un centro di resistenza contro la democrazia».

E, nella concezione del filosofo inglese, questo «centro di resistenza» s'identificava in un «corpo conservatore, inteso a moderare e a regolare «l'influsso democratico», prendendo a modello, per la composizione di detto corpo, che avrebbe dovuto avere, come suoi tratti caratteristici, la saggezza, la competenza e una speciale educazione, l'antico Senato romano, formato, come tutti sanno, dei capi della gente patrizia, e dei consoli, dei censori, dei pretori, degli edili, dei questori, dei tribuni.

Così, da un lato, la Camera dei Deputati, come espressione e rappresentanza del sentimento popolare, e, dall'altro, il merito personale, sperimentato e avvalorato da pubblici servizi reali e confermato dalla pratica, in una Camera di riflessione, chiamata a correggere gli errori del popolo e a contenerne gl'impulsi.

Ma, oltre le difficoltà e gl'inconvenienti di un tale modo d'impostare il problema, già rilevate da Cavour in un articolo sul Senato, Mill e i suoi seguaci tendono a trasportare, nel clima moderno, un sistema che diede i suoi frutti nell'antichità, in altre circostanze e in una diversissima situazione storica: senza notare che il Senato romano, al tempo della Repubblica, se fu un corpo politico di gran rilievo e tra i più importanti finora conosciuti, ebbe, per altro, in una certa misura, un'impronta democratica, perché i suoi membri erano eletti alle cariche pubbliche, da cui derivavano, nei comizi centuriati e tributi e dovevano, pertanto, considerarsi levati al seggio senatoriale dalla fiducia popolare, sia pure con una indicazione di secondo grado, mentre oggi, gli alti posti negli uffici pubblici hanno il crisma del potere esecutivo e una Camera costituita, generalmente, di competenze acquistate nella carriera amministrativa, non sarebbe se non il braccio lungo dell'esecutivo in un ramo del Parlamento, proprio come il vecchio Senato di nomina regia.

[...]

Allo stato, la Camera dei senatori è, come già si è detto, sul medesimo piano di quella dei deputati: e la prevalenza numerica della prima Camera sulla seconda può pesare, forse, soltanto nella unione dei due rami del Parlamento in Assemblea Nazionale.

Che cosa dice sulla questione l'onorevole Orlando, che è, indubbiamente, il tecnico più autorevole dell'Assemblea?

Dal punto di vista teorico, egli sostiene che il bicameralismo deve servire a questo: a stabilire un «sistema di equilibrio» con la prima Camera, «per impedire che una Camera sola si attribuisca un potere senza limiti e senza contrappesi».

Mutatis mutandis, è un po' il concetto di Mill e dei suoi seguaci; ed è, in un certo senso, il compito che Mill assegna alla seconda Camera.

Intanto, nel campo dottrinale, l'onorevole Orlando si discosta dal filo del pensiero politico liberale sull'argomento: da quello di Cavour, per esempio.

Cavour, scrittore, si occupò dell'istituto del Senato, in pagine che, ancora oggi, si leggono con interesse.

Egli scriveva: «Noi non esitiamo a dichiararci fautori dello stabilimento di due Camere legislative: non già per giungere con ciò ad ottenere l'equilibrio dei poteri, ma per assicurare l'azione progressiva e regolare delle nostre istituzioni politiche. L'equilibrio in meccanica indica lo stato d'immobilità, stato che mal si addice alle società moderne, spinte irresistibilmente nelle vie della civiltà: epperciò riputiamo fallace ed erronea la trita metafora, con la quale tanti pubblicisti hanno cercato di provare l'utilità di una seconda Assemblea.

«Gli ordini politici dello Stato debbono essere stabili in vista di un moto continuo, di un non interrotto svolgimento; ma di un moto, di uno svolgimento ordinati e progressivi; e, quindi, riputiamo indispensabile il dividere il potere legislativo fra due assemblee, nell'una delle quali l'elemento popolare, la forza motrice, predomini, mentre nell'altra l'elemento conservatore, coordinatore, eserciti una larga influenza.

«Respingendo l'idea dell'equilibrio, vogliamo costituire la gran macchina politica in modo che l'impulso acceleratore sia combinato con la forza moderatrice; vogliamo, accanto alla molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme. Ma, per ciò ottenere, non basta scrivere nello Statuto che vi saranno due Camere: bisogna ancora far sì che quella il cui ufficio si è di temperare l'ardore dell'altra possegga una forza intrinseca tale da opporre efficace resistenza alle passioni violente degl'impeti popolari disordinati, alle fazioni incomposte e sovvertitrici dell'ordine».

Ed ecco il punto sul quale tutti i politici e gli scrittori di una determinata corrente si trovano d'accordo: la necessità di una Camera alta, a carattere conservatore, che sia un muro contro le spinte o le intemperanze di un'Assemblea popolare.

L'onorevole Orlando, che, primo fra tutti, vuole la seconda Camera, ma non è contento del modo con cui s'intende istituirla, perché, alla stregua del Progetto, gli pare che sia un «doppione» della prima e, perciò, manchi della «differenza qualitativa», riconosce che la funzione della seconda Camera sta, principalmente, nell'essere un «freno» «contro la temuta onnipotenza dell'altra».

La realtà politica ha un suo linguaggio, non confondibile.

Nei Paesi, dove il parlamentarismo è nato e si è svolto, sia pure con uno spirito e una attuazione diversi, in Inghilterra e in Francia, la seconda Camera è stata, ormai, decapitata, è stata ridotta concretamente a nulla: è diventata un ricordo storico.

Nel Regno Unito, dopo il Parliament act del 1911, non accade di discutere sulla necessità tecnica della Camera dei Lords, che non ha il potere di «frenare» i bills più importanti, e, sopra tutto, i money bills. La Camera dei Lords, che ha avuta tanta parte nello svolgimento della storia inglese, della grandezza nazionale inglese e nella formazione del regime parlamentare, non è più un Corpo politico: è una tradizione.

In Francia, il Senato è una Camera consultiva: esprime dei pareri, e non esercita alcun controllo politico sull'esecutivo.

Nell'U.R.S.S., la seconda Camera, tanto per intenderci, ha una fisionomia e un compito particolari: esprime gl'interessi e i bisogni delle varie Nazioni che compongono la grande Repubblica federale; ha, perciò, una sua ragione di essere.

Ma l'onorevole Orlando, per portare acqua al molino del bicameralismo, che, tra parentesi, non ha nulla da vedere col principio del regime parlamentare, interpreta la storia a suo modo, lasciando intendere che, alla luce dell'esperienza, una Camera sola costituisce, oltre tutto, un pericolo o una minaccia per la democrazia.

Egli dice, in sostanza, che il secondo bonapartismo, che chiama il fascismo francese, nacque anche dal fatto che la Costituzione repubblicana del 1848 non creò una seconda Camera.

Questa non è un'accademia e non può essere consentito di stendersi in divagazioni e polemiche di natura storica, anche se di molto interesse.

Qui ci troviamo in sede politica: abbiamo la responsabilità di porre i fondamenti di una democrazia che vogliamo durevole, siamo chiamati a creare un nuovo Stato; ed è opportuno, e giova, chiarire alcuni concetti, di grande portata, anche dal punto di vista pratico, concreto.

Il bonapartismo ha altre radici, al di fuori dell'esistenza o meno del sistema bicamerale. Il suo principale carattere storico è dato dal potere, appoggiato alle baionette, che, cercando di sembrare indipendente dai partiti, manovra tra due forze sociali ostili, che più o meno si controbilanciano; e profitta della lotta politica, giunta al più alto grado di acutezza, per levarsi ad arbitro del destino del Paese e mettersi, praticamente, al servizio di determinati interessi, che sono quelli del capitale.

E sarebbe un grave errore credere che la democrazia escluda il bonapartismo. È precisamente il contrario. Il bonapartismo nasce proprio nel seno della democrazia, come ha mostrato due volte la storia di Francia, come ha confermato, in diverse condizioni, l'esperienza ultima dell'Europa al tempo del nazi-fascismo, quando certi rapporti si stabiliscono tra le classi sociali e il contrasto politico entra in una certa fase.

Chi va a scuola dai fatti e si nutre delle lezioni della storia, sa che il bonapartismo è una forma di Governo che nasce dallo spirito controrivoluzionario di alcuni gruppi della borghesia, in mezzo a riforme democratiche e alla rivoluzione democratica.

Questo conviene rilevare, oggi, in sede di Assemblea.

La creazione o meno di una seconda Camera non entra in alcun modo nella questione del sorgere e dell'affermarsi del bonapartismo.

Del resto, proprio la Convenzione, tanto temuta e calunniata, dette il primo passo verso il sistema bicamerale, assicurando alle decisioni del legislatore il vaglio successivo di due Camere, sia pure in posizione diversa, cioè con diversa potestà.

Ma i due Consigli legislativi non impedirono il 18 brumaio del generale Bonaparte, che si levò, con la frusta e con i cannoni, sulla separazione e sull'equilibrio dei poteri, posti rigorosamente a base della Costituzione del 5 fruttidoro.

Il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, a proposito della unicameralità o della bicameralità, sembra perseguitato dal fantasma della Convenzione che, pure, compì un'opera grandiosa: proclamò la Repubblica; istituì il suffragio universale; batté, con eserciti improvvisati, l'Europa reazionaria e monarchica, coalizzata contro l'Ottantanove; salvò la Francia e la civiltà borghese dalla corda di Brunswick, che si avvicinava a Parigi con la forca «in fronte alle sue schiere» e minacciava d'impiccare mezzo mondo.

Egli teme sempre che si possa scivolare sul piano inclinato del Governo d'Assemblea.

In realtà, questo Governo non lo vuole né lo propone nessuno: e, tanto meno, lo abbiamo prospettato o sostenuto noi.

Ma non mi sembra che si debba averne tanta paura, come se si trattasse della porta dell'inferno.

Il Governo d'Assemblea non è, nel suo principio, essenzialmente diverso dal Governo parlamentare.

In concreto, sia nel Governo d'Assemblea che nel Governo parlamentare, il Gabinetto, che costituisce il Governo nel senso stretto della parola, ha bisogno, per vivere, della fiducia del Parlamento.

È questo il tratto caratteristico che distingue il Governo parlamentare e il Governo d'Assemblea dal Governo presidenziale e da quello direttoriale, che fanno eleggere il Gabinetto per una durata fissa.

Il Governo d'Assemblea, che rappresenta un tipo particolare del regime parlamentare (alcuni pubblicisti scrivono: una specie di alterazione di detto regime); ha una sua concezione della funzione dell'esecutivo e del legislativo.

Mentre il Governo parlamentare classico, che ha il suo modello nel Gabinetto inglese, richiede un esecutivo forte, armato del diritto di scioglimento delle Camere, che dirige il Parlamento, che ha l'alta mano sul lavoro legislativo ed è in pratica, il motore dello Stato; il Governo detto «convenzionale», in una posizione subordinata di fronte all'Assemblea, tende a concentrare nel Parlamento l'iniziativa e la responsabilità, a rendere il controllo parlamentare incessante e rigoroso, in breve, a dare al Parlamento, oltre la supremazia giuridica, la supremazia funzionale.

E non lo dico io. Riassumo, fedelmente, il pensiero di un tecnico di chiara fama: del francese Giraud, che non può essere considerato un giacobino sovvertitore e neanche uno scrittore d'avanguardia.

In linea di principio, non mi pare che una tale concezione significhi dare calci alla democrazia: o abbassarla, degradarla, corromperla.

Da noi, lo stesso onorevole Mortati, che è da ritenersi uno scolastico ortodosso del diritto costituzionale, ammette che il Governo d'Assemblea, se ha un posto a sé e un carattere suo proprio per la fissità di durata, data la mancanza della podestà di scioglimento, rientra nel tipo parlamentare, «per la necessità del costante accordo fra il Parlamento e il Governo e della compenetrazione fra i due poteri».

Il nocciolo del problema, che è il nocciolo della scienza politica, sta qui: nei vitali rapporti fra il Parlamento e il Governo, tra il legislativo e l'esecutivo, che il sistema, nel suo fondamento, tiene separati e distinti, assegnando i due poteri ad organi sovrani di legislazione e di esecuzione, i quali, pure compenetrandosi e controllandosi, possono essere contrastanti.

Tra i due, chi ha la prevalenza?

Questo è il punto.

Abbiamo, dunque, due Camere, con eguale potestà, che si attua e si esaurisce nel momento solenne della formazione della legge.

Sul piano politico, oltre un'azione di critica o un controllo in senso generale, esse, come organi distinti, non possono, in concreto, nulla.

Il voto contrario di una Camera non determina le dimissioni del Ministero, che, alla stregua del progetto, rimane in carica, se vuole, non ostante sia stato posto in minoranza in un ramo del Parlamento; e si presenta all'Assemblea nazionale, cioè alle due Camere riunite, per la fiducia o la sfiducia.

Ed ecco una prima questione da risolvere.

Accettato, in via di massima, il sistema bicamerale, la cui necessità è presentata dalla maggioranza dei teorici del diritto costituzionale come un dogma per il buon funzionamento del regime parlamentare; ammesso che, contrariamente alla tesi di Sièyès, non esiste, sopra ogni argomento, minimo o importante, semplice o complesso, una netta e precisa volontà nazionale che il Parlamento debba tradurre in articoli di legge; che, tra le diverse soluzioni possibili di un problema politico, e, sopra tutto, fra le numerose modalità di una stessa soluzione, non vi è, necessariamente, una scelta sola e mette conto studiare e discutere, prima di decidere, la opinione di una seconda Camera che, per effetto di circostanze diverse e per la competenza specifica dei suoi membri, può avere una reale efficacia.

Accettato e ammesso tutto questo, giova mantenere le due Camere sopra un piede di eguaglianza assoluta, secondo il progetto, con le conseguenze che ne derivano di eventuali dissidi insanabili nel Parlamento, di una probabile anchilosi o impotenza della funzione legislativa, di continui interventi del popolo, nel suo insieme, per una pronunzia diretta sulla materia controversa; o non conviene piuttosto limitare, entro certi limiti, la parità giuridica nei confronti dell'attività legislativa, o anche dell'attività d'indirizzo politico generale, e accogliere il principio della prevalenza di una Camera sull'altra? E, nella specie, della più numerosa su quella più ristretta, in determinati casi, per determinate materie e subordinatamente al verificarsi di determinate circostanze (riesame, cioè rinnovo di deliberazione con maggioranza speciale, decorso di tempo, ecc.), come avviene in quasi tutta l'Europa continentale, dove la seconda Camera è un che di mezzo fra la tradizione e la superstizione, come si praticava, del resto, anche in Italia, vigente lo Statuto albertino, ritenendosi dai nostri parlamentari che il Senato fosse incompetente a qualsiasi iniziativa in materia finanziaria e dovesse, in ultima analisi, passare in secondo piano di fronte alle deliberazioni prese dalla Camera dei Deputati.

Lo stesso onorevole Ruini inclina a desiderare una certa prevalenza dell'una Camera sull'altra, da collocarsi in una giusta inquadratura costituzionale.

Una seconda questione, e di grande importanza, è quella della composizione della Camera dei senatori.

Ed è chiaro che il modo con cui questa Camera sarà formata, eserciterà una notevole influenza sulla soluzione del tema della parità, intiera o limitata, dei due organi legislativi.

L'onorevole Orlando afferma che il problema di maggior rilievo nei riguardi della Camera dei Senatori è d'istituirla «in maniera diversa» da quella dei deputati; che, ove la seconda Camera dovesse essere, nella sua costituzione, un duplicato della prima, «sarebbe inutile farne due»; e aggiunge che, nelle condizioni organizzative fissate dal progetto, egli, bicameralista convinto, è quasi indotto a rinunciare a una seconda Camera che, su per giù, è la stessa dell'altra.

Ma, relativamente ai modi di formazione della seconda Camera, di cui il diritto comparato dà un ampio schema, respinto il criterio di una nomina, anche parziale, da parte del Capo dello Stato o della Camera dei deputati o per coaptazione della stessa Camera dei Senatori; esclusa, nettamente, la possibilità di nomina per ereditarietà, per appartenenza a dati uffici, per il possesso di determinati requisiti, ecc., anche se, nello stabilire le categorie degli eleggibili, non si è peccato di soverchia fedeltà alla democrazia e si è ristretta la sfera dell'elettorato passivo a strati sociali in cui si vede riapparire il sistema del censo; riconosciuto e affermato il principio che la seconda Camera deve rappresentare, come la prima, l'emanazione della sovranità popolare, dev'essere democraticamente espressa dal popolo e non deve tendere a correggere o a spostare, in una qualsiasi maniera, il risultato del suffragio universale; posto tutto ciò, appare evidente la difficoltà e l'impossibilità, forse, di costituire due Camere che, se non sono fatte proprio con il medesimo stampo, risultino profondamente o radicalmente differenziate.

Al riguardo, quale fu l'orientamento di Cavour? quale posizione egli prese, nella discussione sull'argomento, al tempo della preparazione della Carta albertina? quale direttiva egli diede agli uomini di parte sua, anche se l'eredità da lui lasciata sulla questione non è stata raccolta, e si è via via coperta di muffa?

In primo luogo, egli ammetteva, esplicitamente, che il sistema elettivo, per la formazione della seconda Camera, era «il solo razionale, il solo opportuno», anche nelle condizioni dell'Italia di allora.

E continuava: «Perché due Camere popolari? Perché creare due istituzioni identiche, destinate a concorrere al medesimo scopo? È questo un accrescere le complicazioni del meccanismo costituzionale, senza renderlo più regolare e più perfetto; è un aumentare le difficoltà di governare, senza rendere il potere più solido, le libertà popolari più estese».

Qui, come si vede, Cavour riconosceva che il bicameralismo, contrariamente alle affermazioni di taluni ideologi, i quali lo propugnano per garantire stabilità al Governo, ecc., non rafforza la potenza del legislativo, non isnellisce la macchina statale e non ne accresce il rendimento; che un potere concentrato in un solo organo ha, in generale, maggior vigore e che le decisioni sono prese molto più rapidamente e facilmente da una assemblea che da due.

Ma, accennato al solito argomento, cioè, al vantaggio di sottoporre le disposizioni legislative a una duplice discussione in assemblee distinte, a patto che il modo di elezione delle due Camere non sia identico, concludeva: «Noi crediamo facile il costituire una seconda Camera, animata da un istinto conservatore bastevole a porre un argine efficace agli impulsi talvolta eccessivi della Camera dei deputati, senza costituire un corpo elettorale privilegiato: e ciò soltanto con l'imporre ai candidati alcune condizioni di eleggibilità e col variare la composizione dei collegi elettorali e con l'aumentare la durata del mandato dell'eletto».

Ecco l'opinione di Cavour sulla seconda Camera.

Tale opinione, a parte il termine più lungo del mandato, da rigettarsi per varie ragioni: per non appesantire ulteriormente il procedimento legislativo, già lento e farraginoso, e non mettere altri germi di dissidi e di pericoli in un bicameralismo spurio; tale opinione si ritrova, grosso modo, alla base delle decisioni della Commissione.

In buona sostanza, una prima differenza tra le due Camere c'è, per la diversità dell'elettorato e dell'eleggibilità.

Tutti gli elettori, che hanno compiuto i venticinque anni, sono eleggibili a deputati, ma non a senatori.

Inoltre il diritto attivo di voto per la composizione della seconda Camera non può essere esercitato col raggiungimento della maggiore età, ma è limitato agli elettori che hanno superato i venticinque anni.

È soddisfatto, per questa via, il desiderio di coloro che, ritenendo la bicameralità un assioma di diritto pubblico, attribuiscono alla seconda Camera una funzione ritardatrice della procedura legislativa per una più meditata valutazione della convenienza politica delle leggi e per una migliore formulazione tecnica, con una selezione dell'elettorato attivo e passivo: con un maggior senso di responsabilità e di maturità nel corpo elettorale, fornito dall'età, e con la presunzione di una capacità politica, amministrativa e tecnica negli eleggibili, ristretti, secondo il progetto, a talune categorie, che bisognerà rivedere e allargare, allo scopo di consentire agli esponenti delle classi lavoratrici di essere inclusi nelle liste e partecipare alla lotta.

Poi, c'è la rappresentanza regionale: cioè il terzo dei senatori riservato all'elezione dei Consigli per dare alla seconda Camera un'impronta regionale, in rapporto alla nuova struttura introdotta in Italia con la creazione dell'ente Regione.

Per l'onorevole Orlando, questo è molto poco, o non è nulla.

Ma, a voler mantenere in piedi il sistema bicamerale e differenziare in una qualche misura i due organi legislativi, non è possibile fare di più e andare oltre, a meno che, per il modo di formazione della seconda Camera, non si voglia ricorrere a mezzi di scelta non legati all'elezione diretta da parte del corpo elettorale; alla nomina dall'alto, o per coaptazione, o su designazione di collegi speciali, o per l'appartenenza a dati uffici, o per il possesso di date competenze, o per la copertura di certe cariche o per la espressione d'interessi che, si dice, rimarrebbero compressi o confusi con altre forme di rappresentanza, ecc. ipotesi da scartarsi tutte, senz'altro.

Infine, la differenza della seconda Camera dalla prima deve consistere, secondo il criterio dello stesso Cavour, in un diverso modo di reclutamento dei due rami del Parlamento: cioè, in una diversità del sistema elettorale e della composizione dei collegi.

E questo obiettivo potrebbe essere raggiunto, per esempio, con l'adozione del collegio uninominale per la elezione dei senatori.

Per questa via sarebbero forse soddisfatte tutte le aspirazioni: una seconda Camera, come rappresentanza del merito personale, delle qualità, della competenza, della cultura, ecc., anche come valorizzatrice dell'individuo. Ebbene, il collegio uninominale permette al corpo elettorale di fermarsi pure sulla capacità, sulle virtù dell'uomo; vi sarebbe la scelta dell'individuo, con un vaglio democraticamente compiuto. Da un lato, quindi, la differenza qualitativa nella composizione dei membri e, dall'altro, la origine dal suffragio, con un altro sistema di elezione, che avrebbe un gran peso sul piano politico, perché consentirebbe un rinnovamento parziale, nel corso della legislatura, che la proporzionale, per il suo meccanismo, esclude, e darebbe modo di saggiare qua e là la pubblica opinione, di tentarne il polso, di conoscerne gli umori: il che ha un'importanza grandissima in Inghilterra e determina, con gli spostamenti parziali nei collegi, la caduta dei Ministeri, che tuttavia hanno sempre la maggioranza ai Comuni.

Accettazione, dunque, del bicameralismo, non ostante un'opposizione iniziale di principio; ma nessuna concessione ad argomenti artificiali, come quelli di freno, di equilibrio e via di seguito della Camera dei senatori all'opera dell'altra Camera, ed esigenza del rispetto del principio democratico, conseguente, sul terreno parlamentare.

[...]

E tanto meno è vero che, nel testo proposto, si è abbassato, depresso, mortificato l'esecutivo, come Gabinetto.

La Commissione, nella sua maggioranza, ha creduto di adottare una forma di Governo parlamentare, con dispositivi costituzionali atti a superare la così detta crisi di autorità e ad ovviare agli inconvenienti del parlamentarismo.

Si è cercato, innanzitutto, di assicurare la stabilità e l'unità governativa, di creare un Governo forte e durevole, che non sia una «Commissione parlamentare», un «Comitato dell'Assemblea», e, corretti, con mezzi meccanici, i difetti del sistema relativi alla debolezza dell'esecutivo, si è cercato di evitare gli eccessi del parlamentarismo, nel senso di un'invadenza dei membri delle Camere nella sfera governativa.

Da queste intenzioni e da questa volontà è nata l'Assemblea Nazionale come un coronamento del sistema parlamentare, per compiti ed atti di singolare importanza.

Quest'Assemblea, cioè il Parlamento a Camere riunite, non serve a correggere un bicameralismo bastardo per la trattazione dei problemi fondamentali; ma è chiamata, sostanzialmente, a dare la maggiore stabilità possibile al Governo.

Lo affermano, senza equivoci, il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, e il relatore sull'argomento, onorevole Tosato.

L'Assemblea elegge il Presidente della Repubblica, delibera la mobilitazione generale e l'entrata in guerra, l'amnistia e l'indulto, ecc.; ma, in primo luogo, esercita quel controllo politico che è proprio delle Camere rappresentative: conferisce la fiducia al Governo, nominato dal Capo dello Stato, o gliela nega.

Per superare le imboscate parlamentari del vecchio tempo, per eliminare, al possibile, dalla vita politica il corto circuito delle crisi ministeriali a catena, non si ammette che una sola Camera provochi la caduta del Governo; e si stabilisce che la fiducia e la sfiducia siano espresse, con una procedura particolare, dal Parlamento raccolto in Assemblea Nazionale.

Si sarebbe tentati di pensare che la Camera dei senatori sia stata istituita, da un lato, come contrappeso a quella dei deputati, nella funzione legislativa, e dall'altro, per accrescere di trecento membri l'Assemblea che deve decidere dell'indirizzo della politica generale e creare più facilmente una base di solidità e di durata al Gabinetto, con a capo un Primo Ministro, il quale regge veramente il timone e può condurre, come vedremo, la nave dello Stato nei mari o nelle secche che vuole.

Non compromesso, dunque, fra i sostenitori della Camera unica e i sostenitori delle due Camere, con la conclusione che i primi avrebbero messi nel sacco gli altri, sotterrando la bicameralità sotto il coperchio di un'Assemblea convenzionale, totalitaria:

L'Assemblea, come si è visto, serve principalmente a tenere in sella il Governo e a consentirgli di... cavalcare.

L'onorevole Orlando si duole, a ragione, del procedimento singolare, per il quale un Ministero, in minoranza in una delle due Camere, e non ostante i ripetuti voti contrari di essa, non si dimette e continua a governare.

E vede, in questo, un modo di fiaccare le reni al Governo, mentre si tratta di rafforzarlo con espedienti tecnici, di consolidarlo con una formula costituzionale, di là dalla realtà politica.

Qui sorge, in maniera fondata, il dubbio se poniamo mano a costituire un regime parlamentare, o non costruiamo, invece, un edificio di tipo intenzionalmente parlamentare, ma con tali innovazioni nella struttura, da imprimergli un carattere diverso e farne un'altra cosa.

Per motivi opposti, si arriva alla conclusione dell'onorevole Orlando.

Il regime parlamentare dovrebbe, nella sua essenza, annullare la separazione dei poteri, sostituendo ad essa una distinzione di funzioni tra organi diversi, legati da stretti rapporti di connessione e di dipendenza reciproca.

Così afferma l'onorevole Mortati nella sua relazione.

L'onorevole Orlando, a proposito del sistema, e dal punto di vista astratto, parla di un orologio, di cui il Gabinetto rappresenta il bilanciere.

È un vivere insieme, egli dice, del Parlamento e del Governo: cioè, di organi sovrani, ognuno dei quali partecipa all'altro, «in maniera da determinare una collaborazione e da impedire la sopraffazione».

Nel Progetto, si divide manifestamente il potere, che è uno, e dev'essere uno.

Si crea un distacco tra il legislativo e l'esecutivo; si scavano solchi e si levano muri tra l'uno e l'altro, e, senza condizioni di sorta, nel silenzio assoluto della norma costituzionale, sulla possibilità di contrasti, di conflitti tra i vari organi, che adempiono a funzioni diverse, ma appaiono poteri distinti, sta sospesa la mazza dello scioglimento ad libitum, ad arbitrio di Sua Eccellenza, come nelle grida manzoniane.

C'è l'Assemblea Nazionale, il Parlamento nel suo insieme, che si riunisce per deliberazioni solenni e in circostanze eccezionali: principalmente per dare, con il suo voto, il crisma dell'autorità al Governo: ciò che l'onorevole Orlando definisce la «nomina» effettiva.

Assolto tale compito, se non è all'ordine del giorno l'accusa di alto tradimento contro il Capo dello Stato o la mobilitazione o la guerra, l'Assemblea si scioglie, cioè si divide nei due rami originari, che si controbilanciano e sono chiamati a provvedere all'esercizio della funzione legislativa: alleggeriti dal peso di troppe discussioni politiche per non essere distratti dalla loro attività fondamentale.

Così, è spazzato il campo da quelle «bucce di limone», su cui i Governi di una volta cadevano all'improvviso, per gl'intrighi di qualche esperto manovratore; e gli onorevoli Ruini, Mortati, Tosato e altri possono star contenti e dormir sereni.

Allo scopo di rendersi conto, di là dalla lettera del testo, dello spirito con cui si è inteso creare un sistema parlamentare sui generis, non è male risalire alle fonti del dibattito, ai verbali della Commissione.

Non entro in dettagli. Mi restringo all'essenziale.

Secondo una tesi, sostenuta da molti, il Governo, dopo la nomina da parte del Capo dello Stato, si presentava all'Assemblea, per la fiducia: ottenutala, restava in carica per un periodo fisso, almeno due anni: per governare, si diceva.

La proposta, in questi termini, cadde.

Ma, in un certo senso e in una certa misura, si è raggiunto il medesimo obiettivo, per altra via, con accorgimenti tecnici, con inciampi di procedura.

Poiché, per un canone del regime parlamentare, il Gabinetto non può vivere senza il consenso del Parlamento, si è salvata la forma, per decenza.

Il testo dice: «Entro otto giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alla Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia».

Ora, il credere possibile una levata di scudi contro il Gabinetto, entro un così breve termine dalla nomina fatta dal Capo dello Stato, mi sembra veramente un'ingenuità.

Il Governo, voluto e designato al Parlamento dal Presidente, afferra le redini e le tiene.

E, per levargliele di mano, se guida male, o troppo a modo suo, ci vuol fatica assai, come diceva il poeta.

La sfiducia, rinnovata, ripetuta, di una Camera, di quella dei deputati, ad esempio, non provoca, necessariamente, la crisi di un Governo che abbia la pelle dura, o non l'abbia fine e delicata come la giovane principessa della novella di Andersen, che sentiva la durezza di un pisello, posto sullo schienale del letto, attraverso montagne di materassi di piume.

Gladstone, ricordato dall'onorevole Orlando, si dimetteva, per veder ridotta, alle elezioni, la sua maggioranza.

Da noi, si può governare contro il popolo con una trentina ed anche con una ventina di voti in più.

A buttar giù il Governo, si richiede un... terremoto parlamentare. Occorre una mozione di sfiducia, motivata, e con una coda lunghissima di firme, con le firme di un terzo dei componenti di una Camera; sì che, alla stregua degli attuali rapporti di forza, in una Camera come questa, oltre il democratico cristiano, nessun altro partito potrebbe da solo, presentare una mozione di sfiducia.

Poi, occorre che l'Assemblea Nazionale si convochi e si pronunzi.

Ed è probabile che una maggioranza contraria al Governo in una Camera sia annullata da una maggioranza in senso opposto nell'altra.

Ecco il fondamento vero e la reale missione dell'Assemblea.

Altro che accordi di corridoio tra unicameralisti e bicanieralisti!

Lo confessano gli onorevoli Ruini, Tosato e altri: il complicato procedimento per l'espressione della fiducia, dopo la costituzione del Gabinetto, o della sfiducia, in sede di appello, tende ad imporre una seria «riflessione» ai rappresentanti del popolo, a richiamarli «al più alto senso di responsabilità», cioè, alla considerazione della realtà, per le conseguenze che possono nascerne.

Esso è un modo, come scrive, con garbo eufemistico, il Presidente della Commissione, di «regolare il pluralismo dei partiti»; e la Assemblea esiste per mettere più facilmente insieme una maggioranza, per impedire che il Governo sia scosso dalle tempeste e rovesciato.

L'istituto dell'Assemblea Nazionale, che non garba all'onorevole Orlando per il timore del totalitarismo, è stato creato, insomma, perché funzioni da parafulmine del Governo o da campo trincerato.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti