[Il 19 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. [...] Le correnti e gli atteggiamenti generali che abbiamo visto si riflettono nella questione se vi devono essere due Camere od una Camera sola. Gli estremisti di sinistra, che partono dalla unicità della delegazione di sovranità popolare ad un solo organo debbono essere, nella loro logica, monocameralisti; aspirazione che si è sentita in più d'un intervento. Ma non si è formulata in alcuna proposta d'emendamento. Vi sono, in realtà, varie gradazioni: 1°) monocameralismo, in senso assoluto; 2°) vi sia pure una seconda Camera, ma soltanto con funzioni consultive (si noti che, se è contenuta in questi caratteri, alcuni comunisti e socialisti han dichiarato che accetterebbero, per la seconda Camera, il sistema della rappresentanza organica); 3°) si può ammettere una seconda Camera, vera e propria, purché sempre a base elettiva, ma con minori funzioni o con prevalenza, in certi casi ed in certe materie, della prima. L'esigenza limitatrice è stata formulata da La Rocca, nei termini che anche la seconda Camera deve provenire dalla volontà popolare; ed i suoi modi di formazione non debbono alterare i risultati che il suffragio universale, indiscriminato, imprime all'altra Camera.

[...]

Età. Il progetto propone che pel Senato — chiamiamolo pure così — l'elettorato attivo sia portato a 25 anni, ed il passivo a 35. Il collega Preti protesta perché si tagliano e si lasciano fuori dei diritti elettorali categorie di cittadini. Ma bisogna pure che se il nome di Senato o Camera dei senatori, deve aver qualche senso, bisogna — anche senza arrivare ai vecchioni — mettere una certa differenza di età. Tant'è che, per gli eleggibili, emendamenti portano il limite a 40 anni. Per conto mio, malgrado l'eco fascista degli sguaiati e funesti canti di giovinezza, sono per andar incontro ai giovani; e non dico con Croce che il loro diritto è di diventare vecchi. Sono la forza a cui affidiamo il nuovo Stato. Ma non mi sembra che sia offesa ed eresia chiedere, per una seconda Camera, un modesto livello di maturità e d'esperienza più alto.

[...]

Categorie nelle quali debbono essere scelti i senatori. Trovate nel progetto un elenco, piuttosto eterogeneo, che taluno ha battezzato per «bazar». Quante fatiche, ahimè, richiese l'arrivarvi! Fu, in origine, nella seconda Sottocommissione, uno sforzo di adattare la tesi della rappresentanza organica alle critiche che le erano rivolte; si pensi di lasciare le categorie professionali, e di andare al collegio unico. Avvenne quella che Condorelli chiamerebbe «eterogenesi dei fini»; ossia si raggiunsero, per strada, diversi effetti. Le categorie perdettero l'impronta originaria; e diventarono il... bazar di svariata natura; così che — se una qualificazione potrebbe essere opportuna per la nomina a senatori — la scelta delle categorie non sembra a molti felice. Fioccano le critiche: si dice da sinistra che i ceti operai troverebbero sbarrata la via; e che per certi casi — i consiglieri comunali e provinciali — non sarà possibile, con la parentesi fascista, mettere assieme il quadriennio richiesto. Si vuole d'altra parte includere anche i decorati al valore della guerra 1914-18; non soltanto di quella 1943-46; che in ogni modo, si dice, dovrebbero passare alle disposizioni transitorie. Questioni tutte, più o meno piccole, che deciderete a loro luogo, se non prevarrà la proposta di Preti e di altri di togliere via, senz'altro, il «bazar».

Vi sono, sempre per la seconda Camera, due altre questioni pregiudiziali, prima di affrontare la più vera e maggiore. L'una è se una quota di senatori, il terzo, come dice il progetto, sia riservato alla elezione da parte dei Consigli regionali. Si oppongono gli antiregionalisti, che non si adattano al fatto compiuto dell'ente Regione, già entrato nel testo costituzionale; e motivano la loro particolare opposizione a questo punto col rilievo che la composizione del Senato diverrebbe un «fritto misto», e si determinerebbe una sperequazione per la non egualmente proporzionale rappresentanza assegnata alle Regioni. Sia lecito a tale riguardo rinviare alla discussione dell'apposito articolo; non mancano d'altra parte emendamenti che sopprimerebbero i 5 senatori attribuiti ad ogni Regione in più della quota proporzionale che le spetta in base alla sua popolazione.

Prescindendo per ora da ciò, sta di fatto — rispondono i sostenitori della rappresentazione regionale, — che introdotta la figura delle Regioni nell'ordinamento italiano, non si può non tenerne conto anche per la composizione del Senato. Senza arrivare a dire con l'onorevole Condorelli che il sistema regionale da noi adottato è un sistema federale.

Condorelli. Ho detto «cripto»...

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. ...E sia, ma federalista non è; ed anche il semplice Stato regionale, come lo ha chiamato Ambrosini, può giustificare questa modesta partecipazione degli organi costituiti nella Regione alla formazione di un ramo del Parlamento, che potrà così funzionare più efficacemente da coordinatore e mediatore fra gli interessi dei nuovissimi enti, da cui l'amico Conti tanto attende per il rinnovamento anche spirituale dell'Italia.

Tolta la quota pei Consigli regionali, restano i due terzi al sistema più generale di designazione. Ma si prospetta un'altra assegnazione di quota speciale. Si chiede da più parti che un nucleo di senatori sia sottratto al sistema normale di elezioni; e si fa sfilare una serie di soluzioni diverse, risalendo a criteri che si seguono in diversi paesi. Ecco la gamma di ipotesi. Vi è l'elezione d'una parte del Senato dalla Camera dei deputati; vi è una forma parziale di cooptazione esercitata dallo stesso Senato; vi è l'entrata di diritto nel Senato di chi riveste certe cariche od ha dati requisiti; vi è la nomina riservata al Capo dello Stato di un certo numero di Senatori. Questi senatori extra possono essere vitalizi, o designati per una sola legislatura, salvo riconferma.

Siffatta casistica si riflette in emendamenti presentati od annunciati: che contemplano una quota di senatori di diritto (Preziosi); lasciati alla libera scelta del Capo dello Stato (Russo Perez); nominati dal Capo dello Stato fra date categorie (Rubilli, Di Gloria, Macrelli). Prevale il criterio di aprir le porte del Senato ad uomini che hanno rivestito alte cariche (Presidenza della Repubblica, delle Camere, del Consiglio, più volte Ministri) o sono stati deputati per più legislature; né si sottoporrebbero più alle dure fatiche d'una campagna elettorale, mentre gioverebbe al Paese che la loro competenza ed esperienza non mancasse nel Parlamento.

Riferisco i motivi addotti a favore di questo nucleo di senatori extra. Altri motivi si adducono in contrario: che ammettendo un'eccezione, più o meno larga, si snatura la sostanza elettiva del Senato; si pongono in essere stridenti disparità di membri vitalizi e di membri temporanei di una stessa Camera; si fa — io riferisco — un «pasticcio», per mere considerazioni personali.

Da fedele notaio, avverto che, per attenuare le obbiezioni, si fa avanti la proposta (di Persico e di altri) di una norma transitoria, che ammetterebbe l'immissione d'un gruppo di senatori di diritto — per anzianità politica e parlamentare — soltanto per il primo Senato da formarsi dopo la Costituzione, quando, d'altra parte, non si potrà ancora addivenire alle designazioni dei Consigli regionali.

Basta con le minori questioni che pur daranno luogo a dibattito, ed io dovevo incanalarlo.

Per il Senato — detratte le quote accennate — vi è l'esigenza che il modo di nomina sia l'elezione; se no verrebbe meno il lineamento del nuovo Stato democratico. E, posta la ragione che giustifica l'esistenza di una seconda Camera, vi è pur l'esigenza che non sia un doppione assoluto dell'altra; se no, si farebbe più presto a sommare gli eletti ed a metterli dentro una sola aula. Altr'è che la differenza sia radicale o attenuata; anche in quest'ultimo caso può giovare un separato e successivo esame degli atti legislativi. Ma doppione non sia!

All'elezione si offrono, come vie maestre, due metodi: il suffragio diretto e l'indiretto. Dopo una non breve oscillazione di idee, la Commissione dei Settantacinque, de guerre lasse, finì con l'accettare il sistema del suffragio universale diretto, con le sole differenze dalla prima Camera dell'età diversa per gli elettori e per eleggibili, e con la qualificazione (il cosidetto bazar) delle categorie alle quali si deve appartenere per diventare senatori. Non dirò tuttavia che molti — forse i più — siano rimasti definitivamente persuasi. Rampollano i dubbi e la ricerca di altre soluzioni.

Fu respinta invece, in seno ai Settantacinque, la proposta Perassi di ricorrere ad una elezione di secondo grado, da parte di grandi elettori designati a suffragio universale. Si obbiettò che questo più lungo processo era inutile, e preferibile l'elezione diretta. Al che si potrebbe rispondere che piena identità non vi è, e che una riunione d'elettori di primo grado può prestarsi, meglio che una votazione immediata e definitiva di massa, a concordare una buona scelta. Sarebbe un vantaggio...

Russo Perez. Vantaggio delle camarille...

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. ...Fino ad un certo punto; ma io accenno al vantaggio che vi potrebbe essere in accordi che temperassero il più acceso partitismo del suffragio diretto.

Ad ogni modo i due metodi, puri e nudi, del suffragio diretto o indiretto si prestano a più complesse determinazioni. Ed han dato luogo, di fatti, a nuovi congegni, che tengon ora il campo delle proposte, e si esprimono nei tre più dibattuti sistemi della rappresentanza organica, dell'elezione da parte dei Consigli comunali, del collegio uninominale.

La rappresentanza organica — sostenuta dai democratici cristiani, e non da essi soltanto, almeno in passato — è la rappresentanza degli interessi; non meramente professionali ed economici, ma anche culturali e spirituali; non si traduce nel professionismo puro od in un rigido classismo; implica un concetto più largo di rappresentanza, che Piccioni molto abilmente ha richiamato da un ordine del giorno Einaudi nella seconda Sottocommissione, delle «forze vive» del Paese. Accanto alla rappresentanza, che si addice alla prima Camera, dell'individuo come tale, «dell'uomo tutt'intero» (come io scrivevo tanti anni fa), sta una rappresentanza che non è tanto di gruppi quanto di uomini, degli uomini stessi sorpresi da una doppia fotografia della realtà, che è sempre una sola; ma qui l'uomo appunto è colto concretamente, organicamente, nelle particolari forme di sua attività.

Questo è il concetto base della rappresentanza organica; che trova un fierissimo handicap nei ricordi dell'ordinamento corporativo, e desta i «residuati» di una ripugnanza profonda contro il fascismo; del quale la rappresentanza d'interessi (come tante altre cose) non è pensiero originale; anzi è un'idea che esso ha carpita da correnti anteriori di movimento etico-sociale, sovrattutto e non solo, di impronta cattolica; e le ha deformate ed esagerate nel suo grottesco corporativismo.

Si spiega così come contro l'attuale proposta della rappresentanza organica nella formazione del Senato si leva l'opposizione quasi generale degli altri settori dell'Assemblea; ed i socialisti e comunisti sono i primi ad accentuare un reciso diniego. Affermano che un tale genere di rappresentanza (o pseudo rappresentanza) ferisce l'idea in sé del suffragio universale, che deve essere indiscriminato; ed intacca sul principio che abbiamo scritto nella nostra Costituzione, nel senso che il voto deve essere «personale ed eguale». La rappresentanza di interessi, si afferma, è antiegualitaria ed antidemocratica; è l'espressione naturale delle tendenze retrive, e l'antitesi dello sforzo che è in atto di rinnovazione sociale. La condanna non potrebbe essere più aspra; quale la ho sentita in quest'Aula da Preti, da La Rocca, da altri.

Ai quali han ribattuto Ambrosini, Clerici, Mortati; e specialmente Piccioni ha messo in luce che, anche nella rappresentanza degli interessi, l'elezione viene dal popolo; e che il suffragio universale non deve essere soltanto indistinto; bisogna captare altre fonti e forme rappresentative della vita economica. Una rappresentanza d'interessi non trattiene; spinge a riforme sociali; e posta a base del Senato, concorre, dice Piccioni, a garantire meglio l'equilibrio e l'integrazione dei poteri, e assicurare maggior competenza tecnica e maturità d'esperienza, a mantenere una più ferma stabilità di Governi.

Per verità, a prescindere dalle ragioni hinc inde dedotte, comprendo la diffidenza e le ostilità dei liberali — sebbene anche Ruffini abbia accolta l'idea della rappresentanza organica nel Senato —; la comprendo meglio di quella dei socialisti, che in passato ebbero diverso atteggiamento. Poiché mi sono occupato di questi problemi nel 1906 — quarant'anni fa, onorevoli colleghi — e poiché non rinnego il mio pensiero d'allora — desidero ricordare che anche in seno ai democratici ed ai socialisti (fin da allora parlavo di «democrazia del lavoro») si pensava alla rappresentanza di interessi come ad un sbocco del movimento in cammino. E quando nel 1919, sottosegretario del lavoro, impostai la questione della riforma di quel Consiglio nazionale, risposero le organizzazioni operaie e la loro Confederazione generale, spingendosi, nel sostenere la rappresentanza organica, al di là dei cancelli del Consiglio nazionale del lavoro; e chiedendo che il Senato regio fosse sostituito da una seconda Camera sulle basi delle forze vive e dei veri interessi del Paese. Vedo su quei banchi l'onorevole D'Aragona: pensa ancora come una volta?

In sostanza l'«abisso» e la inconciliabile antitesi, che si è denunciata, non esiste; tant'è vero che socialisti e comunisti continuano a propugnare, per il Consiglio nazionale del lavoro, un sistema di rappresentanza d'interessi, che i democratici cristiani vogliono introdurre anche nel Senato. La differenza ha certamente una sua portata; ma dove è l'«abisso»?

Per la riforma del Senato nel senso indicato vi è un argomento, sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione. Nel suo veramente largo e notevole discorso l'onorevole Clerici ha notato che si deve cercar di vincere il discredito e l'indifferenza che ormai circonda il Parlamento. Vorrei esprimere l'argomento in forma più netta; e rilevare che — se il Parlamento appare «vuoto di contenuto» ad un osservatore come Mario Ferrara — è perché i problemi più vitali e profondi della nazione si trattano e si risolvono al di fuori. Sono le Confederazioni economiche, e sovrattutto quella del lavoro, che conducono e decidono le questioni più gravi, fuori di qui. Se fosse possibile inserire nel Senato tali forze, con una loro rappresentanza diretta, tutto il Parlamento acquisterebbe maggior contenuto e prestigio.

La difficoltà sta nella realizzazione; ed anche Piccioni lo riconosce; ma crede che, ammesso il principio, non sarà impossibile tracciare uno schema abbastanza concreto. Avrei preferito che questo fosse abbozzato prima, per far accettare il principio. L'ordine del giorno Piccioni accenna una formula che all'atto pratico non sarebbe facile attuare e potrebbe dar luogo a controversie ed a soluzioni diverse, specialmente per quanto concerne il riferimento al criterio del numero, temperato dalla qualificazione del lavoro.

Non è facile neppure la enucleazione e la determinazione dei grandi rami della rappresentanza d'interessi. Fu tentata più volte; applicata in certo modo anche alla Consulta; studiata durante i lavori della nostra Commissione da Tosato e da Mortati. Siamo d'accordo; anch'io ho fatto i miei saggi: potrebbero essere sei grandi categorie: agricoltura, industria, commercio, cultura, professioni libere, pubblici impiegati. La maggior difficoltà è nella «dosatura» e nella assegnazione dei posti fra le categorie; e più ancora, all'interno di esse, dove s'affaccia la «classe», fra imprenditori ed operai.

Temo che la riforma non sia matura. I democratici cristiani vorrebbero affermare il principio nella Costituzione, e rinviarne l'attivazione a quando sarà convenientemente preparata. Alcuni si accontenterebbero, ad esperimento graduale, di una «quota» di senatori eletti in rappresentanza d'interessi. Ho l'impressione che non calcolino sul successo della loro proposta; che forse non manca di preoccuparli per i possibili risultati di siffatte elezioni nei riguardi del loro partito.

È da ritenere che ripiegheranno, in subordinato, sul sistema di far eleggere il grosso dei senatori dai consiglieri comunali. Sistema, essi dicono, che offre una categoria non improvvisata di elettori di primo grado, ed un punto solido di riferimento ad interessi concreti; completando in certo modo il criterio della rappresentanza di un terzo agli enti regionali. Obbiezioni contrapposte; anzitutto un dilemma; o si dà lo stesso numero di rappresentanti ad ogni Comune, quale si sia la sua popolazione, ed allora due Rocca Cannuccia soverchiano Roma; o si assegnano al Comune voti in proporzione dei suoi abitanti, ed allora perché questo «inutile giro?». I sostenitori dell'elezione da parte dei Comuni sfuggono al dilemma, proponendo di stabilire alcune — ad esempio quattro — classi di Comuni con diverso numero di voti; con che, rispondono gli altri, i Comuni rurali prevarrebbero sempre sugli urbani; e ciò può gradire ad alcuni, per una «maggior stabilità del Paese», non ad altri che vi scorgono una ingiusta sperequazione. È stato pure osservato che, col dare questo compito ai consiglieri dei Comuni, si porta ancor più nelle elezioni di queste amministrazioni locali uno stampo politico, che è meno vivo, finora, nei Comuni minuscoli.

Mi pare di essere stato obbiettivo nel riassumere le opposte ragioni. Lo sarò anche pel collegio uninominale; che sarebbe una proposta di specificazione del sistema, adottato nel progetto, di suffragio diretto ed universale.

Sono pel collegio uninominale, almeno nel Senato, coloro che ne hanno la nostalgia anche per la Camera dei deputati, e pensano potersi resistere meglio col suo mezzo all'ondata dei partiti di massa (Rubilli, Russo Perez). È notevole che, d'altro lato, ai liberali ed ai qualunquisti vadano incontro i comunisti, che abbandonano la loro rigida tesi di una assoluta uniformità nel suffragio, e, mantenendo ferma la proporzionale nella prima Camera, scoprono i vantaggi del collegio uninominale, se applicato soltanto al Senato. Consistono questi vantaggi in ciò che, evitando il doppione fra le due Camere, si adoperano forme diverse di selezione per la scelta dei rappresentanti del popolo; e — mentre la proporzionale conserva la sua efficacia nel campo della prima Camera e consente l'affermazione dei partiti, anche i più piccoli, con ogni loro caratteristica — dà per altro campo, con l'elezione del Senato, modo, non solo di tener presente il valore personale dei candidati, ma di adempiere un compito altrettanto necessario che quello della proporzionale, cioè delineare, con la spinta alle concentrazioni ed alle alleanze, l'avvicinamento alla determinazione di due o tre grandi correnti, tra cui conviene che, come avviene nei paesi più adusati alla vita politica, si avvicendi il potere. A quest'ultimo effetto conviene che si ricorra al ballottaggio.

Tale è il ragionamento dei sostenitori del collegio uninominale, che pensano di utilizzare ed armonizzare vantaggiosamente due sistemi diversi, con una specie di divisione del lavoro nelle due Camere. Le obiezioni sono vive; e manifestano meraviglia che un sistema, giudicato ormai anacronistico e superato per l'elezione dei deputati, diventi efficace e desiderabile per l'elezione dei senatori. La coesistenza dei due sistemi appare contraddittoria ed inammissibile; e si afferma che non è fondata la speranza degli attesi vantaggi. Né deve nascondersi che la prospettiva di render necessari i blocchi agisce, coi possibili riflessi immediati, sull'atteggiamento che prendono, ora, i partiti dell'Assemblea nella questione sollevata.

Vari partiti non si sono ancora decisi; e qualcuno affaccia il desiderio che, conservando nella Costituzione la norma genetica, quale è nel progetto, pel suffragio universale diretto, si rinvii ad una legge elettorale, come si fa per la proporzionale nella prima Camera, la possibilità di introdurre per la seconda il collegio uninominale.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti