[Il 19 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Ha facoltà di parlare l'onorevole Relatore Conti.

Conti, Relatore. Onorevoli colleghi. Io sono molto affezionato all'amico onorevole Tosato; sono un suo ammiratore e soffrirei nel vederlo costretto a rivolgere la parola all'Assemblea, e cioè ai pochi Deputati presenti, mentre gli altri hanno preso evidentemente congedo. Perciò tollererete che io dica due parole che potrei considerare introduttive della relazione del collega Tosato, introduttive anche perché ritengo di poter dire, se Tosato me lo consente, che sono in gran parte d'accordo con lui nella tesi che sosterrà intorno alla struttura del potere esecutivo.

Ma io vi dirò altre cose che non sono proprio quelle che si attendono dai Relatori, cioè esposizioni di vedute e discussione delle opinioni degli altri.

Se noi dovessimo metterci a discutere tutto quello che si è detto qui dentro, tutte le teorie che sono state esposte, tutti i pareri, tutte le opinioni, tutte le particolarità che si sono dette intorno ad ogni istituto ed a ogni situazione politica che potrà derivare dalla nostra Costituzione, evidentemente correremmo dietro ad una quantità di cose anche inutili.

Vi voglio fare alcune confessioni. Mi permetterete di farle come repubblicano storico, cioè come uno dei custodi della Sacra Falange. Io vi dico che dal testo costituzionale non mi aspetto affatto la fondazione della Repubblica. Per me la Repubblica non c'è ancora; lo dissi un giorno interrompendo l'onorevole Nitti: la Repubblica non esiste. È caduta la monarchia; ed io vi dico che per me, repubblicano di convinzioni antiche, è la caduta della monarchia che sopratutto ha un significato profondo, una importanza storica grandiosa. So benissimo che moltissimi non sentono come me il valore di questo avvenimento. I repubblicani di oggi, cioè coloro che hanno accettato la Repubblica a fatto compiuto (ed io mi compiaccio grandemente di questo fatto, ormai molto diffuso nella vita del nostro Paese), i nuovi repubblicani non danno la stessa importanza che io do al fatto della caduta della monarchia.

Non si capiva e non si sentiva da molti che cosa rappresentasse la monarchia in Italia e che cosa rappresentino le monarchie, anche le poche monarchie residuate in Europa. Sono un grave ostacolo al progresso.

Una voce. La Svezia?

Conti. Compresa la Svezia. I popoli liberi sono liberi quando non hanno nessuno di fronte che condivida la sovranità: questo è il punto. (Vedete che non ho sbagliato a dire che i nuovi repubblicani sono repubblicani convinti fino ad un certo punto).

Il fatto dunque della caduta della monarchia ha, per me, più importanza della fondazione della Repubblica in virtù di un testo costituzionale. Io do pochissima importanza a tutti gli articoli che sono stati scritti, a tutti gli articoli che sono stati approvati ed a quelli che saranno approvati. Do pochissima importanza a tutti gli articoli che sono stati approvati. Tutta la prima parte della nostra Costituzione è una novella, un capitolo di romanzo. Io accetto tutto, perché non mi par vero che ci sia un punto di partenza per poter camminare avanti; ma la prima parte della Costituzione non ha nessuna importanza perché è tutta una raccolta di affermazioni di principio: è stato detto e ripetuto da molti qua dentro, molto autorevolmente, che essa è tutta una serie di affermazioni campate in aria. Non serviranno gran che.

Formulo perciò l'augurio che l'Assemblea, quando avrà compiuto il lavoro principale con l'approvazione di tutto il testo, quando si concentrerà un po' in se stessa, e rivolgerà l'occhio sul complesso dell'opera, torni a discutere una proposta che fu fatta in un primo tempo, mi pare, dall'onorevole Calamandrei: di rivedere tutto e di considerare con molta serietà e attenzione se non sia il caso di trasferire in un ben fatto preambolo una quantità di formulazioni che sono in altrettanti articoli della nostra Costituzione.

L'onorevole Nitti diceva l'altro giorno, giustamente, che dopo molto divagare, siamo finalmente arrivati ad esaminare la parte del progetto che si riferisce alla Costituzione della Repubblica. Io vi ripeto quanto ho detto prima: anche a questa parte do pochissima importanza.

Che volete! Credete proprio che con gli articoli della Costituzione, sarà davvero costituito il Parlamento? Credete fatto il Parlamento perché abbiamo scritto quegli articoli? Io non lo credo assolutamente. Perciò ho sentito con molto scetticismo tutto quanto è stato detto intorno al funzionamento della futura Camera e del futuro Senato. Articolo A, articolo B, articolo C: con l'articolo A si provvede a determinata funzione, col B ad altra funzione, col C ad altra funzione ancora! Si provvederà a tutto e non si provvederà a niente; perché chi provvederà all'utile funzionamento di questo ente rappresentativo, del Parlamento, saranno i deputati. E se i deputati non saranno uomini preparati alla loro funzione ed uomini di grande coscienza e consapevolezza, essi non saranno diversi da quelli che sono stati in Italia nel passato e — permettetemi di dirlo — anche nel presente. Dobbiamo confessare tranquillamente i nostri difetti. Se non ci sarà mutamento di costumi, se l'educazione politica non sarà diversa da quella che abbiamo avuto e che è diffusa nel Paese, è da ritenere che, comunque organizzato, il Parlamento funzionerà poco, funzionerà male: raramente funzionerà bene.

Vedo avanti a me l'onorevole Rubilli, che ha celebrato i Parlamenti del passato. Non capisco come Rubilli, che è uomo di tanta serietà e consapevolezza, voglia farsi propagandista di questa leggenda; perché di leggenda si tratta!

Oh! la Camera dei deputati del passato! Oh! la Camera pre-fascista! No, onorevole Rubilli, basta con queste esclamazioni... non ne parliamo affatto della Camera del passato: essa ha avuto tutti i difetti dell'Assemblea attuale. Il parlamentarismo invase il Parlamento. Il Paese ha sempre avuto risultanze negative, in modo assoluto negative. Ho avuto occasione di dirlo altre volte; tengo moltissimo a fare di nuovo questa affermazione, perché è affermazione che ci deve guidare ad essere migliori nell'avvenire.

Credo — e qui mi piace di contrastare con la tenacia di alcuni colleghi, con l'ostinata avversione di alcuni colleghi (ne ho due di fronte, coi quali mi trovo spesso in conflitto, simpaticissimo; l'amico Targetti e l'onorevole Nitti) — credo che l'Assemblea abbia provveduto a salvare il sistema rappresentativo con l'istituzione della Regione. È questo veramente l'unico provvedimento utile per portare il Parlamento su altra via. Con la organizzazione delle Regioni si è giunti probabilmente ad un avviamento del sistema rappresentativo, ad un avviamento nuovo. Se metteremo della buona volontà, se non si svilupperanno ostruzionismi, noi raggiungeremo, anzitutto, con la istituzione delle Regioni una certa deflazione legislativa. Ed allora molti inconvenienti del sistema passato potranno essere eliminati. Il Parlamento è istituito per far leggi, ma meno ne farà e tanto meglio sarà per il Paese.

Ma non basta l'avere creato la Regione. È necessario che noi andiamo coraggiosamente verso un provvedimento che può essere doloroso per molti, almeno a prima vista, ma che deve essere adottato se qui seggono deputati che vogliono servire il Paese più pensosi del suo destino che non della propria sorte elettorale. Se non si ritorna qui, non cade il mondo: bisogna invece provvedere ad organizzare la prossima Camera dei deputati in modo serio. Mi riferisco ad una necessità, a quella della riduzione del numero dei deputati.

Non è possibile pensare a una Camera legislativa composta di sei o settecento deputati; sarebbe un errore anche pensare che essa debba essere composta di cinquecento deputati; per me sarebbe un errore comporla di quattrocento deputati. Bisogna ridurre il numero e vi dico subito che voterò a quattro mani l'emendamento per il quale si propone, in via transitoria, che una parte degli eletti di questa Assemblea, deputati di non so quante legislature, passino di diritto al primo Senato. Ecco qua sessanta o settanta nemici della riduzione del numero, che io spero di eliminare con l'approvazione di un siffatto emendamento. (Commenti). Molti potranno andare al Senato: porteranno nel nuovo consesso la loro esperienza tecnica. Dico agli altri: facciamoci coraggio, provvediamo seriamente agli interessi del Paese e riduciamo il numero dei deputati. Le Assemblee numerose sono Assemblee dannose al Paese.

Ieri, avendo l'intenzione di dire qualcosa, volli trascrivere per leggerlo a voi il parere di un nostro grande scienziato. Non sono un seguace gretto delle sue dottrine, ma della sua genialità non si può discutere: parlo di Cesare Lombroso. Ieri rileggevo questi suoi pensieri sulle Assemblee, questi due pensieri che mi sembra debbano esser tenuti presenti dall'Assemblea Costituente che deve deliberare sul numero: «una folla anche la meno eterogenea, anche la più eletta, quando deve deliberare dà una risultante che non è la somma, ma più spesso la sottrazione del pensiero dei più». Onorevoli colleghi, su questo pensiero si deve meditare.

Ecco un altro pensiero: «è un'osservazione volgare, passata in vecchio proverbio, che più sono i deliberanti, meno giusta e meno savia è la deliberazione che ne risulta, perché tutto quel sottostrato di pregiudizi, di vizi che si domano a furia di coltura dell'individuo, pullula e si fonde in triste veleno nelle Assemblee. È quanto accenna il proverbio: senatores boni viri, senatus mala bestia: cosicché il merito, nei consigli, è in ragione inversa del numero dei consiglieri». Evidentemente siamo di fronte a pensieri che devono costringere alla meditazione. Bisogna ridurre il numero dei deputati. Avremo così una Assemblea più snella e, se vogliamo davvero, come è nei voti, la costituzione di uno Stato in cui tutti gli organi rappresentativi abbiano vigore ed una grande autorità, dobbiamo tendere a fare della Camera dei deputati un'Assemblea nella quale la dignità, la coltura, se possibile, la sapienza siano immediatamente riconosciute dal Paese il giorno successivo alle elezioni. Non si deve dire: quanta gente che non vale nulla! Si deve riconoscere l'esistenza di un'Assemblea legislativa composta di uomini degni della loro funzione.

Questa è la mia opinione su questo punto, onorevoli colleghi.

È inutile che io mi fermi a dirvi la mia opinione intorno al funzionamento della Camera, se non ammettete che la Camera non funzionerà se sarà numerosissima; e se credete che riuscirà a funzionare per ben congegnati articoli della Costituzione. Ridotto il numero credo che potrà funzionare, se il regolamento della futura Camera non sarà più il regolamento attuale. Esso dovrà essere un altro che stabilisca modi semplici di lavoro per mezzo di Commissioni e di altri dispositivi atti a compiere l'opera legislativa. Se no, non cesserà mai la condizione di impotenza della Camera, denunciata dai nostri colleghi. Avete udito l'onorevole Clerici l'altro giorno. Lo avete udito richiamare fatti parlamentari del periodo leggendario del caro amico onorevole Rubilli. Io ho qui il resoconto stenografico perché desidero che i colleghi tornino a meditare le cose gravi dette dal collega Clerici: «Nella 23ª legislatura su 820 decreti legislativi mandati dal Governo per la convalida, ne furono convalidati dal Parlamento appena 9». Desidero richiamare l'attenzione dei colleghi su queste cose dette dall'onorevole Clerici, anche perché possono essere sfuggite a molti. Per la foga oratoria del nostro collega possono essere state afferrate meno bene le sue parole dette tanto bene. Il collega Clerici così continuò: «Nella 24ª legislatura, che va dal 1913 al 1919, furono approvati 396 disegni di legge sui 1181 che il Governo aveva trasmesso all'Assemblea. Nella 25ª, che era Camera rinnovata e popolare con 200 deputati della sinistra e 100 del partito popolare, furono approvati solo 166 progetti di legge su 1139 presentati. Nella 26ª che andò dal giugno al dicembre 1921, 106 su 1185».

Ed il Tittoni, nel suo noto saggio pubblicato dall'editore Zanichelli, dice che «se nel 1922 si ripensò di riparare all'inconveniente istituendo delle sedute mattutine accanto a quelle pomeridiane, si poté constatare allora che le sedute mattutine erano disertate e che i deputati presenti nell'aula non superarono mai il centinaio». Onorevoli colleghi, proprio come oggi! E vi posso fare anch'io testimonianza sull'assenteismo dei deputati dell'antica Camera. Discutendosi qui, nelle sedute antimeridiane, nel 1922 il progetto di legge sul latifondo siciliano (era allora Ministro dell'agricoltura l'onorevole Bertini, se non erro) venivamo alle sedute mattutine e ci trovavamo in sette, dieci, dodici presenti. Erano le stesse sedute che vediamo con occhio disperato la mattina quando entriamo qui dentro. Ed avevamo allora la Presidenza, niente di meno, che di Enrico De Nicola, di un uomo di cui si sentiva l'autorità ed il prestigio da lontano, e per il quale c'era una venerazione da parte di tutti noi. Non bastava neanche il grande prestigio di Enrico De Nicola a richiamare i deputati al compimento del loro dovere.

«La malattia è incurabile» direbbe un nostro grande pensatore, Giuseppe Ferrari, che, occupandosi di certi problemi italiani, diceva che in Italia vi sono malattie incurabili che neppure la provvidenza riuscirebbe a guarire!

Orbene, io dicevo prima che avremo una certa deflazione legislativa, col funzionamento delle Assemblee regionali, che l'avremo, se si potrà provvedere al funzionamento della Camera e del Senato con regolamentazione opportuna. Ma è certo che, se non mutano i costumi politici, se la Camera ed il Senato saranno sempre un'arena nella quale saranno portate mozioni a getto continuo per la politica del Governo, un giorno contro il governo rosso che non piace ai neri, l'altro giorno contro il governo nero che non piace ai rossi, se non si penserà che a questa ginnastica, che è, scusate, anche ridicola, in certi momenti, il Paese non provvederà ai propri interessi, ma andrà alla deriva, sempre, in ogni fase della sua vita. Ed è inutile che ci siano recriminazioni da destra e da sinistra, perché questa malattia è un'altra malattia incurabile, direbbe ancora una volta Giuseppe Ferrari.

Governo: su questa parte l'onorevole Tosato farà una relazione mirabile, chiara, limpida. Sosterrà idee che io condivido in gran parte, anzi quasi totalmente, dopo aver discusso con lui largamente in Commissione. Noi ci incontrammo nel concepire il sistema che egli esporrà. Si tratta di trovare il modo di far funzionare il Governo stabilmente, cioè con una certa continuità. Nessuno può governare, se non è tranquillo per un certo periodo e per l'attuazione di un certo programma.

Questo il punto di vista dal quale si parte. Problema quanto mai difficile in Italia. Non ne parliamo. Anche per un'altra ragione. Io ero convinto prima della caduta del fascismo, durante il periodo fascista, e lo sostenevo nelle discussioni con amici con i quali si parlava dell'avvenire, ero convinto, dicevo, della necessità della stabilità assoluta del Governo. Mi pareva che fosse un problema da risolversi nel modo più drastico. Il Governo deve essere fisso, deve scadere a termine, tre anni!

Tre anni di Governo; sarà quel che sarà, dicevo con convinzione. Ma si cambia opinione, si deve cambiare, quando si ragiona freddamente, serenamente su certi problemi. Un giorno esponevo questa mia veduta ad un mio amico magistrato, consigliere di Cassazione, cospiratore coraggioso nel periodo fascista. Io gli dicevo: stabilità, stabilità! Bisogna assolutamente riuscire a conquistare questa certezza.

Ah, esclamò quel Consigliere: In Italia! In Italia!

Capii subito! E posso dire che cambiai subito opinione. È vero, siamo in Italia, paese di camorristi!

Questa amara riflessione feci allora. Arriverò, oggi, a questa stessa conclusione in maniera più delicata, andrò più moderatamente alla stessa conclusione. Per i deputati pare non vi sia altra possibilità di sviluppo della propria personalità che diventando Ministri. Tutti vogliono essere Ministri e Sottosegretari. Conquistata una poltrona di un Ministero, si va a fare il padrone, si raccoglie tutta la cricca delle amicizie, e si distribuiscono favori, posti, prebende, si fa tutto quello che un galantuomo non fa.

In un Paese come il nostro nel quale c'è questa tendenza, quest'altra malattia inguaribile, affermare che la stabilità del Governo sia una cosa buona è affermare una cosa alquanto pericolosa.

Russo Perez. Allora conviene abolire i Ministeri.

Conti, Relatore. Mi sono convinto che bisogna andare ad una soluzione intermedia. Cercare, sì, la stabilità dei Governi, ma circondare questa conquista di una quantità di cautele, di molte cautele. Stabilità, ma anche possibilità di rovesciare il Governo il quale si dimostri o incapace o portato ad agire con criteri che non sono di purezza e di onestà politica.

Ed allora il concetto che abbiamo meditato molto per la costituzione del Governo e che l'onorevole Tosato ha trasferito nella relazione in modo geniale e limpido è questo: si costituisca un Governo nel quale il Gabinetto abbia una funzione minore, e in certo senso subordinata; ci sia chi assuma la responsabilità di fronte al Parlamento della direzione del Governo. Ed ecco la figura del Primo Ministro come è presentata nel testo costituzionale.

Questo tipo di costituzione del Governo può forse dare risultati; ma non si può garantire niente. Siamo sempre al richiamo della necessità di nuovi costumi nel nostro Paese. Dalla soluzione proposta nel testo costituzionale, dalla nuova educazione politica del Paese, avremo risultati e li avremo anche se uomini vecchi (udite il giovane che sono io!), vecchi come voi siete, uomini cresciuti, educati in un ambiente che vi ha fatto quelli che siete, avete assorbito una quantità di pregiudizi che devono essere combattuti e revocati.

Scusatemi, ma io vi posso parlare così, da repubblicano diverso da voi per origine politica. Voi siete cresciuti alla scuola dei costituzionalisti, dei piccoli e grandi maestri del diritto costituzionale delle nostre Università, che hanno avuto dello Stato, del diritto costituzionale, del Governo, un concetto che non è democratico. Come i vostri maestri, voi siete costituzionalisti nel senso monarchico della parola! Ora dovete essere repubblicani: ed io auguro che siate, a un certo momento, i migliori repubblicani. Dovete sforzarvi di intendere che, se avete pensato monarchicamente, ora è venuto il momento di pensare repubblicanamente. Per pensare repubblicanamente, bisogna accettare due principî fondamentali: il primo è che un regime repubblicano deve essere fondato sulla libertà, in modo assoluto, e irrevocabilmente. La Costituzione, dunque, a questo deve provvedere: a stabilire tutte le garanzie della libertà. Per il secondo principio si deve considerare la democrazia non come si considera da molti, e anche da uno dei più illustri rappresentanti di partiti politici qua dentro, e di parte sinistra, essere la democrazia il regime retto da democratici, cioè da uomini i quali pensano al bene del popolo.

La democrazia, per noi repubblicani, non è questa; la democrazia non è il regime degli uomini democratici, la democrazia è il regime nel quale il popolo sviluppa se stesso, esprime una sua volontà e la fa valere nei modi legali.

Ed allora, per quella garanzia della libertà e per la fondazione della democrazia non si devono scrivere formule e articoli che provvedano a questa o a quell'esigenza dell'andamento parlamentare; no, bisogna creare istituzioni.

Ed ecco perché (ripeto quello che dicevo prima), l'istituzione della Regione è un passo avanti sulla via della democrazia. Ecco perché bisogna fondare anche il nuovo Comune nel nostro Paese. Il Comune e la Regione sono le due istituzioni le quali assicurano la libertà e creano la democrazia, che garantiscono la libertà, creano la vita democratica, l'andamento democratico nel nostro Paese.

La mentalità vostra (scusatemi se vi parlo con tanta confidenza; so che in ognuno di voi c'è tanta bontà da permettermi di parlare così) è ancora lontana da questa concezione. In voi è il pregiudizio giacobino; voi siete ottantanovisti tutti quanti, voi della sinistra, voi della destra. L'ottantanove è la matrice tremenda che ha fatto del nostro Paese un Paese di violenti, di declamatori, di retori.

Russo Perez. Grazie.

Conti, Relatore. No, ci mancherebbe, altro! Non parlo solo di voi, parlo anche del Paese. (Commenti a destra). E non vi meravigliate del mio modo di sentire, in contrasto con idee correnti. Per coprirmi con una grande autorità potrei invocare Mazzini. Io non sono mazziniano, sono repubblicano; ma se io, comunque, invocassi Mazzini, potrei invitarvi a leggere le pagine di Mazzini sulla Rivoluzione francese; dico anzi che potrei invitarvi a rileggerle, perché presumo che tutti quanti abbiate letto Mazzini. Potreste dunque, rileggere, che la Rivoluzione francese non ha già aperto un ciclo storico, ma lo ha concluso.

Ora, dicevo, per questa mentalità tutto è, in Italia, Stato, tutto è Governo, tutto è Parlamento, tutto è legge, tutto è fucina di leggi. Ebbene, questa non è mentalità repubblicana; è mentalità monarchica. Quando, dunque, si parla della Repubblica, in Italia bisogna andare cauti, bisogna andare piano. Noi, in Italia, la Repubblica ancora non l'abbiamo; noi in Italia la Repubblica l'avremo fra parecchio tempo, la avremo, quando sarà raggiunta, finalmente, l'autonomia dei Comuni: autonomia che deve significare, soprattutto, possibilità finanziaria, cioè autonomia finanziaria. Bisogna, in altri termini, pensare al Comune rinnovato, soprattutto per la possibilità di provvedere ai suoi bisogni. Allora, dunque, avremo veramente la Repubblica quando il Comune sarà divenuto autonomo nel più ampio e concreto senso della parola, quando la Regione (sulla quale ogni tenace avversario si diletta, anche oggi che è creata, di gettare un po' di discredito) funzionerà come deve. Le Regioni non dovranno commettere errori d'interpretazione dei loro compiti e del loro funzionamento. Non c'è dubbio, ad esempio, che i siciliani hanno detto qualche sciocchezza...

Russo Perez. L'avete detta voi.

Conti, Relatore. Non noi! Hanno detto qualche sciocchezza i siciliani e qualcuna l'hanno indubbiamente fatta, quella, ad esempio, di essersi costituiti in Assemblea secondo il sistema parlamentare, tanto che il Governo siciliano ha posto le sue brave questioni di fiducia. Quel Governo cioè si è atteggiato come un Governo qualunque (non parlo di un Governo dell'onorevole Giannini) (Ilarità a destra), come un Governo qualunque, del passato parlamentarismo monarchico.

Le Regioni non debbono commettere tali errori. Perché non li commettano, bisogna che le Regioni siano accostate dagli uomini che sentono il bisogno di un ordinamento serio nel nostro Paese; bisogna anche che siano represse certe tendenze che possono riuscire dannosissime, mentre bisogna che ne siano sviluppate altre pregevolissime. E non bisogna preoccuparsi di cose che non possono avere alcun riflesso nella vita politica del Paese, che non hanno alcuna sostanziale importanza. Quando sento parlare di lotte fra, poniamo, Catanzaro e Reggio, perché ambedue si contendono il titolo di capitale, confesso che non posso se non mettermi a ridere. Non è questo, del resto, che un fenomeno naturalissimo: è propriamente il desiderio del prestigio della propria città, del proprio campanile, del proprio santissimo campanile. Non dobbiamo davvero lamentare che gli italiani abbiano tanto affetto per le loro città, per i loro paesi, per quelle che Carlo Cattaneo chiamava «le patrie singolari».

Per carità dunque, onorevoli antiregionalisti, non allarmatevi per le sciocchezze e gli errori possibili e per queste naturali manifestazioni dell'umanità degli uomini, e invece cercate di costituire buone amministrazioni, di farle funzionare! Allora, lo vedrete, la democrazia in Italia sorgerà davvero. Comuni e Regioni; ecco le istituzioni della democrazia. E non si appunti più l'occhio sullo Stato, e del Governo non si abbia più il vecchio concetto paternalista.

Queste osservazioni e non altre sul capitolo del progetto dedicato al Governo. Io vi ripeto, agli articoli do ben poca importanza; spero soltanto che da un'impostazione diversa della vita costituzionale e rappresentativa del Paese derivino i risultati che noi tutti quanti auspichiamo per il benessere della Nazione. Non vi dovrei dire altro. Ma a proposito delle crisi ministeriali, che sarebbero proprie di questo tempo, secondo critici acerbi della democrazia, e secondo il collega onorevole Rubilli e altri laudatores temporis acti, mi cade sott'occhio un appunto interessante.

Allora, nei tempi leggendari, tutto bene, è vero, Rubilli? Oh che gioia, allora: che uomini allora! Nessuno scandalo allora! Ah! caro Rubilli, il Paese nostro è stato il paese degli scandali.

Rubilli. Questa roba c'è sempre, non manca mai.

Conti, Relatore. Gl'italiani ignorano la storia e la cronaca del loro Paese. Questa è un'altra lacuna nella cultura degli uomini politici italiani. Si conosce benissimo la storia della Russia — tutti hanno letto i tanti volumi che si sono scritti sulla storia russa...

Giannini. Io non li ho letti.

Conti, Relatore. Si conosce la storia dell'Assiria, della Babilonia, dell'India antica, della Cina; si sono fatte e si fanno ricerche sulla civiltà americana precolombiana; si scoprono tante cose; ci dilettiamo moltissimo. Ci sono due fenomeni in Italia, interessantissimi: gli Italiani non conoscono la storia del loro Paese, quella recente specialmente; perché la storia di Cesare Augusto e di tutti quegli altri personaggi, che sono stati tutti quanti monumentati, naturalmente la conoscono perfettamente tanti. Non si conosce la storia, specialmente la contemporanea; non si conosce la geografia dell'Italia; sicché i legislatori che qui fanno le leggi per tutta l'Italia, non sanno che non si può legiferare nello stesso modo per la Basilicata e per il Piemonte, perché sono regioni ben diverse. Ma questa è una parentesi.

Dicevo, dunque, che nel tempo passato si sono avuti in Italia fenomeni, che oggi si riproducono in piccola parte. Scandali si sono avuti in Italia dal 1860 in poi, sempre; e oggi non ce li sogniamo neanche; non esistono. Oggi è tanto viva, poi, la censura pubblica, per cui, alla più piccola mossa di camorristi, di imbroglioni, c'è subito la frusta del giornalismo nostro, che a torto o a ragione, fa saltare i sospettati. Abbiamo visto cose di importanza relativa, per le quali si è fatto un chiasso indiavolato. Nel passato, invece, si è sempre provveduto a coprire le magagne (Interruzione a destra) — sì, caro Bellavista — a coprirle in ogni modo: magagne di Governi, e degli uomini politici.

Giannini. In quale passato?

Conti, Relatore. Mi riferisco dal 1860 a sempre.

Giannini. No, fino al 1922...

Conti, Relatore. Caro Giannini, tu potrai insegnarmi come si fa una commedia, come si legge un libro di storia, no.

Giannini. Lo scandalo della Banca Romana?

Conti, Relatore. Ti posso affliggere settimane intere a darti elementi per tutto il periodo cui ho accennato.

Giannini. La Banca Romana...

Conti, Relatore. No, per carità, non mi far inquietare, (Ilarità) se non vuoi che ti rovesci addosso una quantità di fatti...

Proprio ieri ho ricevuto dal figlio di Giovanni Bovio un profilo pubblicato nell'Eloquenza di non so quanti mesi fa.

In quel profilo leggevo un capitoletto che si riferisce a due processi nei quali Bovio indossò la toga: uno contro i socialisti, l'altro contro Alberto Mario, il girondino della Repubblica, il più aristocratico dei democratici, la finezza fatta giornalismo, la bellezza artistica concretata in ogni manifestazione, nel gesto, e perfino nel vestire: egli era elegantissimo. Ebbene, processato dinanzi alla Corte d'assise di Roma, investito fieramente dai magistrati (ai magistrati io voglio molto bene, ma essi sono stati sempre, nel nostro Paese, reazionari, e hanno sempre, servito ciecamente la monarchia), Alberto Mario fu condannato, malgrado la difesa di Giovanni Bovio. E non la interminabile sfilza delle aggressioni alle pubbliche libertà, e gli stati d'assedio e tutte le persecuzioni di avversari della monarchia.

Una voce a destra. Era per illuderci.

Conti, Relatore. Come illudervi? Non ricordate Crispi? E prima di lui la destra dominatrice del 1860 al 1876? E non debbono ricordarsi le violenze e la corruzione della sinistra, che aveva voluto abbattere la destra perché liberticida? E perché non dire che la sinistra ne fece più della destra che, se non altro, diede prova di competenza e probità, mentre la sinistra non ebbe né competenza né probità! (Applausi a destra). Bene. Siete contenti?

Voci a sinistra. Parli da questa parte.

Conti, Relatore. Parlavo a loro, perché ne hanno bisogno. Adesso torno a voi.

Ma non voglio intrattenervi troppo, onorevoli colleghi.

Questa digressione v'è stata, perché volevo confutare ancora una volta l'amico Rubilli, quello dei tempi leggendari, dei tempi nei quali non avveniva mai nessuna crisi ministeriale, non accadeva mai niente, e tutti erano buoni e tutto andava tanto a gonfie vele.

Bene, da un libro di Nitti, che è sempre una grande guida alla ricerca di fatti (leggeteli i libri di Nitti, il quale, per il suo desiderio, che direi naturale, di dire sempre con chiarezza e il proprio pensiero intorno agli uomini e alle cose, ha scritto tanto); da un libro di Nitti — dicevo — ho tratto indicazioni statistiche sul tempo... leggendario. Anche allora crisi ministeriali, e con quei grandi uomini: quelli «che non rinascono più», disse l'altro giorno l'amico Rubilli. (Notate, colleghi, che allora, nei tempi leggendari, si diceva che non erano rinati quelli che c'erano stati prima! E non vi meravigliate: queste sono buaggini che diciamo per nostra consolazione! Gli uomini sono animali uomini: questa è la nostra dottrina sociologica per la quale noi non pensiamo agli angeli né a miracoli, e per la quale non pensiamo che la Repubblica raddrizzi le gambe ai cani. La Repubblica è possibilità per tutti di vivere liberamente e di costruire una nuova vita e costumi nuovi).

Giannini. Chissà come saremo rimpianti noi fra cento anni!

Conti, Relatore. Guardate, dunque, questa indicazione statistica: Giolitti... (ho detto Giolitti: il nome di un uomo che non rinasce più, secondo Rubilli; il nome di un uomo, dico io, sul quale credo sia onesto rettificare molti giudizi. Di Giolitti si deve oggi parlare con serenità e concludere che fu un uomo di alte intenzioni liberali, io direi un illuso in tempi di monarchia, perché Giolitti si illudeva e illudeva che con la monarchia gli italiani potessero conquistare la libertà e la democrazia. Oggi Giolitti sarebbe repubblicano come noi.) Chiudiamo quest'altra parentesi. Giolitti, dunque, cadde il 16 marzo 1905. Dal 16 marzo 1905 al 27 maggio 1906, appena un anno, sei ministeri!...

Rubilli. Appunto perché non c'era lui!

Conti, Relatore. No, ecco l'avvocato che incespica e cade. Giolitti è caduto il 16 marzo 1905. Tittoni, interim, cioè un alter ego di Giolitti, messo al posto suo, cade il 16 aprile 1905. Dopo Tittoni, altro uomo di fiducia di Giolitti: Fortis. Salì al potere il 28 marzo e cadde il 22 dicembre. Riebbe l'incarico il 24 dicembre e si resse fino all'8 febbraio 1906. I proconsoli giolittiani si esaurirono. Succede Sonnino: fino al 27 maggio 1906: uno dei due ministeri, durati cento giorni, di Sonnino. Giolitti di nuovo il 27 maggio 1906. Avete visto quanti Ministeri in quattordici mesi! Non c'è, dunque, da preoccuparsi e da fare gran chiasso per le crisi di questo tempo, annunziate con enormi titoloni sui giornali. Siamo alla quarta caduta e alla quarta ripresa del Governo di De Gasperi? Nessuna meraviglia: questo è il prodotto del sistema parlamentare, quello di una volta e quello attuale. Speriamo che non continui così, che si cambino i costumi. Speriamo che la riduzione del numero dei deputati, che la formazione del Governo secondo le linee tracciate nel progetto costituzionale siano nell'avvenire la base di procedimenti parlamentari migliori di quelli del passato.

Mi dovrei ora occupare del Capo dello Stato, ma non me ne occupo. (Segni di approvazione dell'onorevole Giannini).

No, no, Giannini, questo gesto col quale sembra che tu voglia dire che si tratta di un problema di nessuna importanza, non è un gesto che mi piace. Il problema ha una grande importanza. La Repubblica in Italia significa che non abbiamo più la monarchia e che è finito l'ultimo residuo feudale. Mi dispiace molto per l'amico carissimo Condorelli che ieri l'altro mi ha fatto gonfiare di gioia nel sentirgli ripetere i soliti luoghi comuni sulla monarchia e sulla Repubblica. Ma insomma, che non ci sia più il re, che non ci sia più la dinastia, che non ci sia più questo potere stabile che viene dalla legge, come diceva Condorelli, o dal diritto divino, la liberazione da questo peso enorme che era sul nostro Paese, è di una importanza colossale, onorevole Giannini. Con la dinastia è caduta tutta la costellazione delle forze retrograde che intorno alla dinastia erano concentrate. Noi non abbiamo più la dinastia che era, poi, in Italia una dinastia militaresca e che era in Italia molto inferiore alle altre che l'Italia ha conosciuto.

Tra i Savoia e i Borboni, lo dico anche all'onorevole Mazza per consolazione di lui, napoletano, tra i Savoia e i Borboni, si deve riconoscere la superiorità dei Borboni. La revisione storica degli ultimi anni ha portato a questa conclusione.

Si può con certezza affermare che fra le due dinastie non c'è differenza seria. All'amico Bellavista offrirò la lettura di studi di Napoleone Colajanni. Uno di essi è intitolato: Dai Borboni ai Sabaudi. In esso Napoleone Colajanni dimostra quello che erano i Borboni ed i Sabaudi.

Bellavista. Napoleone Colajanni era laudatore del tempo presente.

Conti, Relatore. Ora, io dicevo che la prima conquista fatta dall'Italia è questa: si è sbarazzata della dinastia.

Russo Perez. Se ha detto che la Repubblica ancora non c'è!

Conti, Relatore. Se le dicessi che è un sofista, che mi direbbe? (Ilarità).

Giannini. Questo è un partito agnostico; non ci compromettere! (Si ride).

Conti, Relatore. Bisogna buttare a mare l'agnosticismo: lo dico a tutti. Mi auguro che la destra sia la destra repubblicana conservatrice e che la sinistra sia la sinistra repubblicana progressiva come vuole il «migliore», il nostro Togliatti. Bisogna che vi decidiate: la Repubblica non può essere più insidiata dai nemici del passato. Bisogna essere franchi. O mangiatevela viva, se vi riesce, o accettatela e servitela con convinzione, perché la Repubblica rappresenta anche per voi — per voi prima di tutti — la libertà. Mai l'Italia è vissuta come in questo momento nella più assoluta libertà e nella tranquillità. Sicuro: non potete negarlo. Le lotte sociali si svolgono in ogni parte, movimenti si hanno dappertutto, ma tutto avviene nella massima libertà e con il presidio di tutti i diritti dei cittadini.

Dicevo dunque, che, della parte del progetto che riguarda il Presidente, non mi occupo. Richiamo solo un pensiero dell'onorevole Nitti a questo proposito. L'onorevole Nitti ha detto che noi pensiamo alla fastosità e ad altri accessori della funzione presidenziale. Dico anch'io che noi dobbiamo mirare ad una grande semplicità nell'organizzazione anche dei supremi poteri dello Stato, ma aggiungo che noi dobbiamo anche provvedere a circondare di grande prestigio colui che è chiamato a rappresentare l'unità del Paese, a rappresentare l'Italia di fronte all'estero. L'onorevole Nitti diceva: «si parla di Quirinale» come residenza del Presidente. Sì. Bisogna andare al Quirinale; il Presidente della Repubblica deve risiedere al Quirinale; il Presidente della Repubblica deve essere oggetto dell'omaggio di tutti gli italiani, se è un galantuomo.

Oggi abbiamo la fortuna di avere alla Presidenza l'uomo che abbiamo; di avere impersonata in un uomo la quintessenza della sapienza, della serenità, della lealtà e della decisione a servire il Paese. Speriamo che nell'avvenire il problema sia sempre risoluto nello stesso modo. Io non so se ci riusciremo sempre, se avremo sempre un Presidente della statura di Enrico de Nicola. Ma certo, in avvenire, il problema non sarà di difficile soluzione, anche se non avremo uomini perfetti.

Si è discusso tanto, onorevoli colleghi, di Repubblica presidenziale, di Repubblica direttoriale. No! io sono convinto che per l'Italia il sistema migliore è quello che è stato predisposto dal testo costituzionale. Io credo che noi faremo bene ad approvarlo. Non credo che per il Titolo che riguarda il Capo dello Stato debbano farsi modificazioni; io non ne farei nessuna. Abbiamo tanto meditato intorno a questo problema. Ricordo le discussioni che feci con l'amico onorevole Perassi, cinque, sei, sette anni or sono. Ci siamo convinti da allora che il sistema presidenziale per l'Italia non è assolutamente accettabile. Siamo favorevoli al sistema che in Francia non diede cattivi risultati. In fondo si tratta di un potere che, in certi momenti e per certe funzioni, si afferma come e quanto è necessario, ma di un potere che per tutto il resto è au dessus de la mêlée, è fuori della mischia ed è di natura arbitrale al di sopra di tutto e di tutti.

Giannini. Allora, il Capo dello Stato non deve essere eletto dal popolo?

Conti, Relatore. L'elezione popolare può turbare in Italia l'andamento della vita politica, perché il popolo italiano non è portato, per suo temperamento, a decisioni che richiedono una certa valutazione diretta, specifica di elementi, che possono sfuggire alla collettività.

Voi discutete tanto sulla elezione dei deputati; dite: rappresentanza proporzionale, perché il popolo non può giudicare i singoli candidati; dite: sistema uninominale, perché v'è forse possibilità di giudizio intorno a un uomo, solo perché lo consentirebbe la limitata estensione del collegio elettorale; come potrebbe raggiungersi una seria valutazione e un giusto giudizio mettendo in discussione un uomo fra 45 milioni di italiani?

Contentiamoci della elezione di secondo grado. Restando fermi al sistema previsto dal progetto di Costituzione credo che provvederemo bene per l'avvenire del nostro Paese.

Giannini. Spero ci permetterete di parlare contro questa tesi.

Conti, Relatore. Naturalmente e si potrà discutere di allargare il collegio degli elettori, oltre alla Camera ed al Senato; si potrà pensare all'intervento di altri corpi legislativi ed amministrativi, come i Consigli regionali ed i Consigli comunali, ma queste sono questioni di non grande importanza.

Ora finisco. Non vi parlerò del Senato: se ne è tanto parlato. Vi dico che sono convinto della necessità della seconda Camera. Una sola Camera può trasformarsi in una oligarchia. E noi vogliamo democrazia: e democrazia è molteplicità di consigli e di assemblee. La libertà, diceva Cattaneo, è pianta di molte radici.

Nel complesso, onorevoli colleghi, questo testo costituzionale può andare. Non ci mettiamo in testa grandi cose, cose straordinarie. Facciamo il nostro dovere con coscienza. Se correggeremo la prima parte del testo della Costituzione, se riusciremo a persuaderci che un preambolo potrà renderla più agile, più arieggiata, più luminosa, se riusciamo a persuaderci che con questo provvedimento il testo definitivo potrà essere reso migliore, credo che l'Assemblea provvederà magnificamente al proprio compito.

Si dirà dalla gente che i deputati sono stati negligenti, che questa Costituzione è stata fatta a pezzi e bocconi. Sarà doloroso udire critiche severe o non giuste, ma se il Paese si troverà di fronte ad un testo costituzionale armonico, positivo, liberato da piccoli errori e deficienze, che nella fretta o per passione di parte sono stati inseriti, noi avremo fatto opera buona e opera utile al nostro Paese. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Presidente Terracini. Ha facoltà di parlare il Relatore onorevole Tosato.

Tosato, Relatore. Onorevoli colleghi, l'onorevole Conti vi ha già detto, ed anche troppo benevolmente — e glie ne sono molto grato — di cosa mi occuperò. Vi parlerò in qualità di Relatore sui Titoli secondo e terzo della Parte seconda del progetto di Costituzione: vale a dire di quella parte della Costituzione che si riferisce al Presidente della Repubblica ed al Governo.

Molte osservazioni sono state fatte alle norme del progetto relative a questi gravi e difficili argomenti. Mi permetterò di non occuparmi dei rilievi di carattere particolare, perché ritengo che su questi problemi sia particolarmente importante, e sia un'esigenza essenziale, che noi non perdiamo di vista l'unità del sistema e le linee principali dell'edificio che intendiamo costruire.

Questa seconda parte della Costituzione ha una funzione, come tutti voi sapete, essenzialmente strumentale: si tratta di apprestare gli strumenti destinati ad attuare e a salvaguardare quei principî che tanto solennemente sono stati affermati nella prima parte della Costituzione, già approvata. Ora è evidente l'assoluta necessità che i vari momenti ed elementi che compongono lo strumento complesso destinato a questa funzione siano perfettamente aggiustati fra loro: è necessario che si incontrino e non si scontrino. È per questo che ritengo essenziale che siano ben presenti all'Assemblea il tipo di edificio e le ragioni delle singole parti, così come sono costruite, per poter dare un giudizio finale e deliberare su questa parte del progetto, che è come il cuore di tutta la Costituzione.

Affrontiamo subito l'argomento relativo al Presidente della Repubblica. Durante la discussione generale in Assemblea si sono manifestate a questo proposito due tendenze, se non assolutamente opposte, certo notevolmente contrastanti. Da una parte si è detto: in sostanza la figura del Presidente della Repubblica, quale emerge dal testo del progetto, è una figura scialba, evanescente, inconsistente; voi ci date con questo progetto un Capo dello Stato privo di mordente e privo di forza, senza poteri effettivi; un Capo di Stato che sta al vertice dell'edificio, ma che è privo di poteri effettivi e che non avrà un peso sostanziale nella direzione politica e nel Governo della Nazione. È necessario — si è detto — un Presidente che rappresenti veramente qualcosa nell'organizzazione costituzionale dello Stato; un Presidente che, almeno nei momenti decisivi della vita della Nazione, possa far sentire la sua voce; i poteri che voi gli avete dati sono troppo scarsi; ma indipendentemente dai poteri — ed è questo, se non erro, l'argomento fondamentale — anche ammesso che i poteri siano sufficienti (e mi pare che qualcuno si sia anche dichiarato pronto a diminuirli), ciò che è assolutamente e strettamente indispensabile è che il Presidente della Repubblica sia posto effettivamente nella condizione di esercitarli. Ora — si soggiunge — siccome avete stabilito che il Presidente venga eletto dalle Camere riunite in Assemblea Nazionale, voi venite in tal modo a dar vita a una figura di Presidente che è originariamente debole, che non può rappresentare alcuna parte effettiva nella vita dello Stato. Perché il Presidente, si dice, possa effettivamente valere e far sentire la sua parola decisiva nella vita politica dello Stato, occorre abbandonare il sistema dell'elezione indiretta e passare all'elezione diretta da parte del popolo.

Così una delle due correnti che si sono manifestate nell'Assemblea.

Contro di essa si è manifestata un'altra corrente, la quale, in definitiva, ci rimprovera di aver sbozzato un Presidente troppo forte. Troppi poteri avete dato al Presidente si dice. E l'attenzione degli onorevoli colleghi è stata richiamata soprattutto sui poteri di nomina dei Ministri e di scioglimento delle Camere legislative; non solo, ma anche sul potere di deferire al popolo la decisione su eventuali contrasti fra le due Camere. Da parte dei rappresentanti di questa tendenza, si osserva: una repubblica parlamentare non consente assolutamente un Presidente forte; nella repubblica parlamentare il Presidente deve essere necessariamente debole. In sostanza, si afferma, accontentiamoci di un Presidente decorativo, di un personaggio che abbia un significato puramente simbolico, di un Capo dello Stato che non sia, secondo una recente frase di Herriot più che «Le Président de la figuration nationale». E a questo scopo, è evidente, occorre che il Presidente sia eletto dalla Camera, per esserne prigioniero.

Ora, di fronte a queste due correnti bisogna che ci parliamo con molta franchezza. Fra chi vuole un Presidente forte e chi vuole un Presidente debole, a mio avviso è necessario anzitutto che noi ci intendiamo sul significato da dare alle parole «Presidente forte». Che cosa intendiamo per «Presidente forte»? Forse un Capo dello Stato che sia anche Capo del Governo? Che possa essere fonte autonoma di decisioni politiche in determinati settori ed in determinati momenti della vita della Nazione? S'intende, in altre parole, un Presidente di tipo americano? In questo caso sì, evidentemente, il Presidente deve essere eletto direttamente dal popolo, perché solo l'elezione diretta consente un Presidente di questo tipo; ma in questo caso bisogna anche accettare tutte le conseguenze, e cioè arrivare ad una forma di Governo presidenziale.

Nella Commissione dei Settantacinque, e in particolar modo nella seconda Sottocommissione, si è discusso, ad un certo momento, di tale questione, si è esaminata cioè l'opportunità o meno di adottare la forma di Governo presidenziale invece che quella parlamentare.

Ricordo però che in seno alla seconda Sottocommissione la quasi totalità dei Commissari si pronunciò decisamente per la forma di Governo parlamentare. Soltanto, mi pare, l'onorevole Calamandrei manifestò un avviso contrario, ed il sottoscritto a questo proposito manifestò la sua grande perplessità.

Quali sono, in sostanza, le ragioni in base alle quali la Commissione non ha ritenuto di adottare la forma di Governo presidenziale? Qui si è parlato di pericolo di cesarismo. Non credo che questa sia una ragione molto sostanziosa, perché i pericoli di cesarismo ci sono sia con la forma di Governo presidenziale che con quella di Governo parlamentare. La ragione fondamentale è, a mio avviso, che il Governo presidenziale per sua natura esige che nella vita dello Stato si affermino soltanto due partiti, in modo che il Presidente, che non è soltanto Capo dello Stato ma anche Capo del Governo, completamente indipendente dalle Camere, abbia però la certezza di essere d'accordo col partito dominante nelle Camere. Ciò è necessario per l'attuazione, in sede legislativa, della politica del Presidente.

Esistono in Italia le condizioni per creare una forma di Governo presidenziale? Se teniamo presente il fatto della notevole molteplicità dei partiti, vediamo che creeremmo a priori una figura di Presidente che sarebbe rappresentativa non di una grande corrente politica ma semplicemente di un compromesso fra alcuni partiti, un Presidente poi che sistematicamente non potrebbe mai poggiare su una maggioranza sicura presso le Camere legislative in modo da poter realizzare una certa uniformità di indirizzo fra il potere legislativo ed il potere esecutivo, ed in modo soprattutto che la politica del Capo dello Stato possa trovare applicazione in seno alle Assemblee legislative. Questa, se non erro, è la ragione fondamentale per cui in Italia non sembra attuabile la forma di Governo presidenziale.

Qualcuno mi dirà: ma, in fondo, anche per la forma di Governo parlamentare la condizione ideale è l'esistenza di pochi partiti. Esatto. Però nel Governo presidenziale la molteplicità dei partiti, e quindi possibilità di contrasto fra il Capo dello Stato e le diverse maggioranze esistenti nelle Camere, diventa ancora più grave, perché una delle caratteristiche di questo Governo presidenziale è che il Capo dello Stato duri in carica per un tempo determinato. Ora, questo fatto può determinare conflitti molto gravi, conflitti che non sorgono, normalmente, negli Stati Uniti di America, ma che possono sorgere, data soprattutto la diversa mentalità, in Italia.

Queste sono le ragioni, a mio avviso, fondamentali che hanno indotto la Commissione a scartare la forma presidenziale e ad adottare invece la forma di Governo parlamentare.

Ed allora, dato che questa forma di Governo parlamentare risponde al voto quasi unanime della Commissione dei settantacinque, dato che, se non erro, non si è manifestata in Assemblea, nella discussione generale, nessuna voce precisa che abbia perorato una forma di Governo diversa da quella parlamentare, mi domando: che cosa si può intendere, in un Governo parlamentare, per «Presidente forte»? Non si può intendere evidentemente che questo: un Presidente che, pur non avendo un peso autonomo nella vita dello Stato, rappresenti però (come direbbe l'onorevole Ruini) uno dei piloni fondamentali della struttura costituzionale dello Stato, vale a dire un elemento il quale concorra con le Camere alla formazione delle leggi e alle decisioni politiche più gravi. Si avrebbe così, da un lato il Capo dello Stato, dall'altro le Assemblee legislative, e in mezzo il Governo con funzione essenziale di tramite fra il Capo dello Stato e le Camere.

Ora, questa è una concezione del Governo parlamentare. Indubbiamente una concezione del Governo parlamentare che corrisponde alle prime attuazioni storiche del Governo parlamentare negli Stati monarchici, e che è stata accolta anche nel 1919 in Germania, nella Costituzione di Weimar. Ed è evidente che se si vuol dare, nel Governo parlamentare, al Presidente una funzione sostanziale, ne consegue che il Capo dello Stato non può avere un'origine puramente parlamentare. Da questa difficoltà non si esce.

Di fronte a questa concezione, legata a determinate situazioni storiche e politiche, si afferma l'altra che si è manifestata in questa Assemblea, concezione che considera il Governo parlamentare come un Governo nel quale si afferma e si deve attuare esclusivamente la volontà delle Camere e in cui il Capo dello Stato non ha che una funzione del tutto secondaria. Il che esclude l'elezione diretta.

Ora, di fronte a queste due concezioni, a quale concezione si è ispirato il testo del progetto?

Non si è ispirato alla prima concezione e non si è ispirato nemmeno alla seconda. Non si è ispirato alla prima concezione, perché si ritiene che in una forma di Governo repubblicano, con un Capo dello Stato rappresentativo, l'attribuzione di un potere effettivo al Capo dello Stato, eletto a questo scopo dal popolo darebbe luogo a continui conflitti fra il Presidente e le Camere e metterebbe praticamente il Governo nella impossibilità di governare.

D'altra parte, noi non abbiamo nemmeno seguito l'altra concezione, la concezione prettamente parlamentare, che in verità più che definirsi un Governo parlamentare dovrebbe definirsi come Governo di Assemblea, quella concezione in base alla quale i Ministri rappresentano — tutto sommato — il comitato esecutivo dell'Assemblea legislativa e in cui il Capo dello Stato ha una funzione puramente dichiarativa e rappresentativa, senza alcuna possibilità di intervenire menomamente nelle cose dello Stato.

Noi abbiamo seguito un'altra concezione del Governo parlamentare, che, in Italia, sembra l'unica possibile. Io non ritengo che, specialmente in Italia, sia possibile istituire né la prima né la seconda forma di Governo parlamentare. Nella forma di Governo parlamentare, il Capo dello Stato ha, indubbiamente, una sua funzione: questa funzione non è soltanto rappresentativa, né importa la possibilità di partecipare effettivamente ad atti di Governo dello Stato, facendo sentire direttamente, ma decisamente, la sua voce. Ha, tuttavia, una funzione essenziale, quella di essere il grande regolatore del gioco costituzionale, di avere questa funzione neutra, di assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato e, in particolare, il Governo e le Camere, funzionino secondo il piano costituzionale.

Non è una funzione irrilevante, ma essenziale, che corrisponde a tutta la struttura vera e propria del Governo parlamentare.

In fondo, il Governo parlamentare si costruisce in questo modo: alla base sta il popolo, dal popolo derivano direttamente i corpi rappresentativi e, mediatamente, deriva il Governo. L'una e l'altra Camera e il Governo rappresentano ugualmente il popolo. Possono sorgere conflitti fra il Governo e le Camere, fra le Camere e il popolo, fra il Governo e il popolo: chi mantiene il regolare funzionamento di questo sistema in uniformità alla volontà popolare? Ecco la funzione essenziale del Capo dello Stato.

Ora, nel nostro progetto abbiamo cercato di dare alla figura del Capo dello Stato un ordinamento che sia corrispondente a questa sua funzione e, per questo, non si è ritenuto opportuno che il Capo dello Stato sia eletto direttamente dal popolo.

Non si può prescindere, a mio avviso, da questa considerazione: in regime repubblicano, con un Presidente elettivo, eletto cioè direttamente dal popolo col voto di milioni e milioni di cittadini, questo Presidente non si limiterà ad essere un organo che tuteli l'ordinato e corretto funzionamento degli organi costituzionali secondo la Costituzione, ma vorrà intervenire effettivamente e decisamente — la natura stessa delle cose lo porta — nella vita dello Stato, far sentire la sua voce, far valere e imporre la sua volontà. Per questo non è stata accolta la tesi di far eleggere il Presidente direttamente dal popolo.

D'altra parte, anche la soluzione accolta nel progetto, debbo confessarlo, presenta pure degli inconvenienti. Presenta degli inconvenienti nel senso che vi spiegherò. Secondo il progetto, il Presidente della Repubblica sarà eletto da un collegio speciale, costituito dalle due Camere riunite in Assemblea Nazionale, con la partecipazione di due rappresentanti per ogni Regione.

Noi siamo partiti — compilando tale norma — da questo punto di vista, che un Presidente eletto direttamente dal popolo è pericoloso per le ragioni che ho dette, ma che, d'altra parte, un Presidente eletto esclusivamente dalle Camere sarà inesorabilmente dipendente dalle Camere stesse e quindi incapace di rendere i servigi che deve rendere, di adempiere cioè a quella sua essenziale funzione di supremo equilibratore.

Abbiamo così formato un collegio speciale, costituendo un corpo elettorale allargato, rispetto alle due Camere. La prima nostra idea sarebbe stata anzi di allargare ulteriormente questo collegio, includendovi delle categorie qualificate; ma la Commissione non ha creduto di accettare questo criterio di ulteriore allargamento.

D'altra parte, sempre per rafforzare i poteri e il prestigio del Presidente, noi abbiamo stabilito che la sua durata in carica sia di sette anni, sia cioè superiore a quella delle Assemblee.

Ma, soprattutto, noi abbiamo preso una altra disposizione: e cioè che il Presidente è eletto bensì dall'Assemblea Nazionale, ma si esige, in seno ad essa, la maggioranza dei due terzi. Ci è sembrato che questo requisito della maggioranza di due terzi possa dare veramente la garanzia che venga eletto un Presidente il quale risponda ai requisiti essenziali, il quale abbia cioè la capacità di esercitare quella funzione neutra, imparziale, che occorre abbia il Presidente della Repubblica.

Siamo riusciti in questo intento? Evidentemente no. No, perché non basta stabilire che il Presidente sia eletto a maggioranza qualificata di due terzi. Infatti, se al primo scrutinio non si ottengono i due terzi, si procede a un secondo scrutinio; se poi anche a questo scrutinio non si ottenesse la maggioranza di due terzi, si procederà a un terzo scrutinio; e, se anche a questo terzo scrutinio la maggioranza di due terzi non si dovesse ottenere, è prescritto allora che ci si dovrà rimettere al volere della maggioranza assoluta.

Ora, a mio avviso questo rappresenta effettivamente un grave inconveniente, rappresenta una grave lacuna del progetto. Noi ci siamo preoccupati di non avere un Presidente che rappresenti esclusivamente la maggioranza, perché, in questo caso, noi avremmo evidentemente un Presidente il quale non potrebbe svolgere la sua funzione in quanto sarebbe completamente collegato alla maggioranza che lo ha eletto e da essa dipendente.

Ebbene, onorevoli colleghi, che cosa si può escogitare per risolvere questo problema? Mi permetto di presentarvi non dico un suggerimento, ma un'idea che mi è venuta: io penso che, nell'ipotesi in cui il candidato alla Presidenza della Repubblica, dopo il terzo scrutinio non abbia raccolto i 2/3 previsti dal primo comma dell'articolo 79 del progetto, in questo caso — e in questo caso soltanto — si debba ricorrere all'elezione diretta. Perché in questa ipotesi? Perché io ritengo che in questo caso, la ipotesi e la possibilità di un'elezione diretta del Presidente da parte del popolo, nel caso che non si ottengano i due terzi, indurrà anzitutto le Camere ad ottenere più facilmente la maggioranza richiesta dei due terzi. Ritengo poi che si introduca in tal modo un elemento di «souplesse» nella Costituzione, che è sempre bene abbia una certa fluidità, una certa possibilità di adattamento a situazioni nuove che possono formarsi.

D'altra parte, qui si tratta di fare una scelta: è necessario un Capo dello Stato che svolga determinate funzioni e non sia un Capo dello Stato puramente simbolico, un Capo dello Stato, e non un capo del Parlamento. Orbene, si domanda: nel caso che il Presidente non raccolga il largo suffragio dei due terzi dell'Assemblea Nazionale, e quindi, almeno in parte, non ottenga anche il voto della minoranza, in tal caso è preferibile un Presidente di maggioranza dell'Assemblea nazionale o un Presidente di maggioranza del popolo?

Una voce a destra. Del popolo.

Tosato, Relatore. Questo è il problema che voi dovete decidere.

E passiamo all'ordinamento del Governo. Il progetto, secondo il voto quasi unanime della Commissione dei Settantacinque, accoglie e regola la forma di Governo parlamentare. Tuttavia, debbo pur ricordare che, se la Commissione dei Settantacinque ha adottato unanimemente, si può dire, la forma di Governo parlamentare, non l'ha adottata proprio con entusiasmo; anzi, si è resa ben conto dei gravi, dei gravissimi inconvenienti che la forma di Governo parlamentare presenta in Italia. Se ha scelto la forma di Governo parlamentare, l'ha scelta quindi come il male minore. Difatti la Commissione, quando ha deciso di informare il Governo dello Stato al tipo parlamentare, ha approvato un ordine del giorno dell'onorevole Perassi, secondo il quale si adottava bensì la forma di Governo parlamentare, purché tuttavia si trovassero degli accorgimenti tali da poter ovviare almeno ai più gravi inconvenienti che tale forma di Governo presenta in Italia.

Ora, quali sono gli strumenti, gli accorgimenti, i dispositivi proposti, per ovviare appunto ai più gravi inconvenienti della forma di Governo parlamentare? Anzitutto, si è cercato di dare una struttura precisa al Governo.

L'onorevole Gullo, ieri, ha manifestato delle grandi perplessità e dei gravi dubbi per quanto riguarda i rapporti fra il Primo Ministro, Presidente del Consiglio, e i Ministri; e si è domandato: «Ma, in fondo, da questo progetto non si capisce bene se abbiamo una forma di Governo del Primo Ministro, sia pure con la collaborazione dei Ministri, oppure una forma di Governo di Gabinetto, in cui chi governa non è propriamente il Primo Ministro, ma il collegio dei Ministri». Ora, se noi leggiamo attentamente il progetto, vediamo che da esso risulta consacrata, senza possibilità di dubbi, la forma di Governo parlamentare secondo il tipo di Gabinetto, cioè di Governo collegiale. Tuttavia il progetto non ha adottato una forma di Governo di Gabinetto puro e semplice, perché, pur stabilendo che il Governo è costituito da più Ministri, i quali deliberano in collegio, ha tuttavia cercato di assicurare al Capo di questo collegio, Primo Ministro, Presidente del Consiglio, una posizione che sia corrispondente alla sua funzione, con i mezzi e i poteri necessari al fine di assicurare l'esecuzione della volontà del Gabinetto e di mantenere l'unità di indirizzo politico dai vari ministeri.

Quindi, non mi pare che vi possano essere dei dubbi relativamente a questa parte del progetto, sull'ordinamento e la struttura interna del Gabinetto. Infatti, l'articolo 74 dice precisamente: «Il Governo è costituito dal Primo Ministro Presidente del Consiglio e dai Ministri».

Dunque, il Governo è costituito ugualmente dal primo Ministro e dai Ministri.

Presidenza del Vicepresidente Bosco Lucarelli

Tosato, Relatore. E l'articolo 89 reca: «Il Primo Ministro dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile».

S'intende, però, dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile in quanto i principî e le linee fondamentali di questa politica siano già deliberati anzitutto dal Consiglio dei Ministri.

E infatti si dice: «I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e personalmente degli atti dei loro Dicasteri».

Ora, i Ministri non sarebbero responsabili collegialmente se la politica generale del Governo non fosse deliberata dal Consiglio dei Ministri.

Quale potere speciale si attribuisce al Capo del Governo? Quello di poter fare eseguire la politica deliberata dal Governo e mantenere l'unità di indirizzo della politica deliberata dal Consiglio dei Ministri stesso.

Il progetto, in secondo luogo, ha cercato di regolare i voti di fiducia. A questo proposito si è stabilito che le mozioni di sfiducia non possono essere discusse se non dopo un certo termine dalla loro presentazione; e si è anche stabilito che il voto di sfiducia deve raggiungere una certa maggioranza.

Ma queste sono disposizioni di carattere particolare, che non toccano ancora la linea essenziale del progetto.

L'elemento nuovo del progetto è quello riguardante l'intervento dell'Assemblea Nazionale. Su questo punto bisognerà spiegarsi.

Questa Assemblea Nazionale è stata considerata — mi pare — dalla quasi totalità degli oratori che si sono susseguiti nella discussione generale, con un certo sospetto, con una certa diffidenza.

Qualcuno ha detto che è una mostruosità; qualche altro ha detto che è un elemento tale da trasformare radicalmente il volto della Costituzione che noi stiamo deliberando, perché porterà inevitabilmente ad un Governo totalitario e dittatoriale. L'onorevole Orlando, precisamente, mi pare abbia sostenuto questa tesi.

Qualche altro ha detto che l'Assemblea Nazionale comunque, anche se limitata come vedremo, porterà conseguenze che potranno essere gravissime.

L'onorevole Nitti, nel suo discorso — come sempre molto interessante — ha notato che questo progetto di Costituzione presenta, fra gli altri difetti, quello di essere sovrabbondante, esuberante, di avere istituiti troppi organi. Ma come — ha osservato — voi avete istituito una Camera dei Deputati, avete istituito un Senato, volete istituire anche una terza Camera, l'Assemblea Nazionale, oltre a tutti gli altri corpi — i cosiddetti «camerini» — che volete istituire accanto ai corpi principali!

Ora, è esatto, l'Assemblea Nazionale appare, secondo il progetto, come una terza Camera. È un organo distinto, senza dubbio, che non si confonde né con la Camera dei Deputati né col Senato.

Questo, però, dal punto di vista formale; perché, dal punto di vista sostanziale, questa Assemblea Nazionale è formata dai membri della Camera dei Deputati e dai membri del Senato. Sono i membri della Camera dei Deputati e del Senato che si riuniscono in questa Assemblea.

È vero, è una terza Assemblea, perché nell'Assemblea Nazionale non è la volontà della Camera dei Deputati più la volontà della Camera del Senato che si incrociano; è la volontà di un organo nuovo che non si confonde né con la Camera dei Deputati né col Senato.

Nitti. Che non è niente!

Tosato, Relatore. Badate bene che, secondo il progetto, l'Assemblea Nazionale non rappresenta nemmeno una fusione delle due Camere, benché essa riunisca i membri delle due Camere. Quindi, la riunione dei due rami del Parlamento nell'Assemblea Nazionale non porterebbe mai all'impossibilità, da parte del Presidente della Repubblica, di uno scioglimento delle Camere, perché le Camere sono riunite in Assemblea Nazionale.

Questo avverrebbe se si trattasse di fusione. La questione non è irrilevante. In Francia si è discusso se il Presidente potesse sciogliere le Camere quando sono riunite in Assemblea Nazionale e la dottrina francese ritiene che pur essendo questa una terza Assemblea il Presidente conserva il potere di scioglierla. Ciò appunto perché l'Assemblea Nazionale non sorge dalla fusione delle due Camere.

Ma quello che voglio sottolineare è che questa terza Assemblea, in definitiva, non deve spaventare sotto l'aspetto della sovrabbondanza perché, se formalmente è una Assemblea a sé stante, sostanzialmente essa non risulta che dalla riunione dei deputati e dei senatori.

Osservazione molto grave è stata quella fatta dall'onorevole Orlando ed alla quale, in parte, si è associato l'onorevole Fuschini. A questa Assemblea Nazionale — si dice — voi attribuite troppi poteri. Se voi considerate i singoli poteri attribuiti all'Assemblea Nazionale, voi vi accorgerete che, in definitiva, l'Assemblea Nazionale rappresenta la chiave di volta di tutto il sistema costituzionale.

Ora, francamente, io non posso concordare in questa osservazione. Consideriamo pure tutti questi poteri dell'Assemblea Nazionale. L'Assemblea Nazionale elegge il Presidente della Repubblica con il concorso dei rappresentanti delle Regioni, fa alcuni atti di nomina dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, delibera la guerra e la mobilitazione generale, delibera l'amnistia e l'indulto, accorda o nega in determinate condizioni la fiducia al Governo. Ora, prescindiamo un momento dalla questione della fiducia al Governo e consideriamo le prime attribuzioni delle quali, del resto, si può discutere. Anche se qualcuna di esse venisse sottratta all'Assemblea Nazionale, essa conserverebbe la sua struttura e la sua fisionomia. Ritenete che con queste sue attribuzioni si ponga come organo sovrano? Lo nego nel modo più reciso perché queste attribuzioni dell'Assemblea Nazionale sono attribuzioni tassativamente indicate. Non si dica: ma l'Assemblea Nazionale potrà abusare sempre di queste attribuzioni. Perché allora non può abusare delle sue attribuzioni la Camera dei Deputati o non può abusare il Senato, o non può abusare il Governo o il Capo dello Stato? Queste mi sembrano veramente obiezioni inconsistenti.

Ma, sopratutto, non è una Assemblea sovrana per la considerazione che questa Assemblea non esercita mai, per nessuna ragione, il potere legislativo e su questo punto richiamo in modo particolare la vostra attenzione. Sia in materia legislativa ordinaria sia per la materia costituzionale, in caso di revisione costituzionale, mai interviene l'Assemblea Nazionale: è previsto sempre e soltanto l'intervento delle Assemblee legislative agenti separatamente e indipendentemente l'una dall'altra.

Ora, se questa Assemblea Nazionale non ha mai nessun potere legislativo, né ordinario né costituente, come si può ritenere che essa rappresenti veramente la chiave di volta di tutto il sistema costituzionale, l'organo sovrano che potrà sconvolgerlo completamente?

Non mi pare assolutamente possibile.

Ed allora passo ad esaminare direttamente quello che è veramente il punto centrale della questione. L'Assemblea Nazionale preoccupa sopratutto perché, secondo il progetto, ad essa è conferito il potere di accordare o di negare la fiducia al Governo.

Indubbiamente, l'Assemblea Nazionale, con questa attribuzione rappresenta una profonda innovazione rispetto alla tradizione.

Devo osservare anzitutto, a questo proposito, che il testo del progetto, per verità, si scosta notevolmente da quella che era stata la proposta originaria. La proposta originaria era questa: svincolare completamente il Governo, per le questioni di fiducia, dalle singole Camere separatamente agenti; deferire qualsiasi questione di controllo politico sul Governo e, in particolare, la questione di sfiducia o fiducia al Governo all'Assemblea Nazionale. Questa è stata l'idea originaria. La Commissione dei Settantacinque, pur accogliendo in parte questa idea, non ha ritenuto conveniente adottarla in pieno, ed è perciò che — pur avendo accolto il principio che il Governo, una volta nominato dal Presidente della Repubblica, debba presentarsi non alle singole Camere separate ma all'Assemblea nazionale — ha accolto d'altra parte il principio che le singole Camere possano esprimere, sia pure a determinate condizioni, la sfiducia al Governo, salva la possibilità al Governo di ricorrere quasi in appello all'Assemblea Nazionale. Se posso esprimere un parere personale, dico che con questa modificazione, il sistema proposto viene a perdere in gran parte i vantaggi che esso poteva e può offrire. Sopratutto per una ragione d'ordine pratico; perché un Governo, che in un certo momento sia stato messo in minoranza da una delle Camere, non ricorrerà mai all'Assemblea nazionale. Quindi, se fosse accolta l'idea dell'Assemblea nazionale e se, d'altra parte, si volesse conservare e restare fermi al punto che le Camere possano esprimere la sfiducia al Governo al quale pertanto la fiducia è stata accordata, secondo me non bisogna lasciare al Governo la facoltà di ricorrere all'Assemblea nazionale; ma se mai concedere questo potere al Presidente della Repubblica quasi a provocare, a costringere il Governo stesso a presentarsi all'Assemblea nazionale, specie quando la situazione politica non è sufficientemente chiarita, e ciò anche nell'interesse del Capo dello Stato perché questi possa avere maggiori elementi a disposizione per la scelta eventuale del nuovo Capo del Governo.

Comunque, a parte questa questione di ordine particolare, la questione si pone nei termini seguenti: è conveniente o non è conveniente questa innovazione del progetto? È conveniente abbandonare il principio tradizionale secondo il quale il Governo è responsabile di fronte alle Camere separatamente, o è più opportuno passare al sistema nuovo di svincolare, per quanto riguarda la questione di fiducia, il Governo dalle Camere, per renderlo responsabile soltanto di fronte alle due Camere riunite in Assemblea Nazionale? Questo è il problema.

Ora, a mio avviso, prima che l'Assemblea possa pronunciarsi su questo punto, sulla convenienza o meno di adottare questa soluzione innovativa, bisogna tener presente quelli che sono i presupposti di questa soluzione e le premesse che lo condizionano. E la premessa fondamentale è questa, che la nuova Costituzione, per quanto riguarda il Parlamento, si ispiri al principio bicamerale. Noi siamo partiti da questa premessa, quella di un Parlamento bicamerale e quindi formato da due Camere differenziate tra loro ed in posizione di parità e di uguaglianza. In regime repubblicano democratico non è possibile, secondo me, ammettere un bicameralismo con una seconda Camera che sia perfettamente uguale alla prima, perché la seconda Camera evidentemente non avrebbe ragion d'essere. Nel sistema bicamerale in regime repubblicano occorre, evidentemente, che la seconda Camera abbia qualche elemento di differenziazione rispetto alla prima. Questo elemento di differenziazione sarà dato dalla rappresentanza d'interessi o dalla rappresentanza delle Regioni o dalla rappresentanza dei Comuni o dalla rappresentanza del popolo preso in una particolare età e quindi in una particolare maturità; quello che volete. Comunque un elemento di differenziazione ci deve essere.

E qui devo ricollegarmi ad una osservazione, sotto certi aspetti acuta, ma che non mi sembra fondata, dell'onorevole Condorelli. Egli fece questa osservazione: «voi mettete insieme ciò che non è possibile mettere insieme: per poter riunire le due Camere, almeno agli effetti di questa funzione, in Assemblea Nazionale, occorre che esse abbiano omogeneità tra di loro; se partite (come si deve partire secondo noi) dalla esistenza di due Camere differenziate fra di loro, non potete riunirle in unica Assemblea Nazionale, perché non si può riunire l'eterogeneo».

Io sono stato guidato da ragionamento opposto. Cioè: se dovessimo arrivare alla deliberazione di accogliere il Parlamento bicamerale, ma, sia pure per disperazione, si arrivasse ad accogliere un Senato perfettamente identico alla Camera, non vedrei mai la possibilità di riunirli, perché l'unica giustificazione di questa seconda Camera eguale alla prima non potrebbe essere che questa: che l'una e l'altra sono destinate ad agire separatamente. Se voi invece partite, come noi siamo partiti, dalla premessa di un Parlamento bicamerale, ma, tuttavia, riuscite a creare due Camere differenziate, allora si ha non solo l'opportunità ma, direi quasi, la necessità di riunirle, nei momenti difficili dello Stato, appunto perché queste due Camere, costruite in modo differenziato, sono precisamente destinate in certi momenti a confluire in Assemblea di rappresentanza unitaria di tutto il popolo.

E noi siamo partiti anche, evidentemente, dalla esigenza della parità delle due Camere. Io capisco che non si possa ammettere la parità delle due Camere, quando una seconda Camera non ha base democratica, né diretta, né indiretta; d'accordo. Ma se istituiamo due Camere a base democratica e non le mettiamo in situazione di parità, quale costruzione facciamo?

A questo proposito ricordo di aver letto nei discorsi di Stalin una osservazione veramente acuta. Si discusse anche nella Commissione per la Costituzione sovietica del 1936 circa l'opportunità o meno di adottare il sistema bicamerale e di porre o meno le due Camere (Sovjet dell'Unione e Sovjet delle nazionalità) in situazione di parità fra di loro. Una corrente sostenne che le due Camere non potevano essere poste in condizioni di parità, ma che doveva essercene una, destinata ad avere la prevalenza. Stalin si oppose a questa tendenza, precisamente perché diceva: se voi ponete queste due Camere in posizione di differente forza, non di parità, non diminuite i conflitti, ma li aumentate; ciò che elimina il conflitto fra le due Camere è la posizione di parità e l'uguale base democratica; se date ad una di esse posizione diversa da quella dell'altra, indubbiamente, solo per questo fatto, avrete conflitti continui.

Mi pare che questa sia osservazione molto esatta che cada precisamente nel caso nostro.

Comunque, le premesse da cui siamo partiti nel pensare all'Assemblea nazionale, sono precisamente queste: un Parlamento bicamerale con due Camere differenziate ed in posizione di eguaglianza. Il ragionamento che abbiamo fatto è molto semplice: noi istituiamo un Governo parlamentare, siamo tutti consci dei gravissimi inconvenienti del Governo parlamentare in Italia, derivanti dalla pluralità dei partiti, dalla necessità dei Governi di coalizione, dalla mancanza di omogeneità e quindi dalla intrinseca, permanente instabilità dei Governi. Ed allora possiamo permetterci il lusso di rendere il Governo responsabile di fronte all'una e all'altra Camera? Cioè, di avere la possibilità di crisi continue di Governo per eventuale disaccordo tra l'una e l'altra Camera?

Mi pare che la soluzione proposta dal progetto, di rendere responsabile il Governo esclusivamente di fronte all'Assemblea Nazionale (si intende, miracolismi non se ne possono attendere) abbia almeno il vantaggio di escludere delle fonti di crisi, che non hanno ragion d'essere, perché, in definitiva, questa Assemblea nazionale rappresenta il corpo unitario ed integrale di tutta la Nazione, nei suoi organi rappresentativi. Questa è stata la ragione fondamentale, ripeto, che ci ha portato all'Assemblea Nazionale.

Non ci siamo illusi minimamente di risolvere in radice il problema della instabilità dei Governi, perché il male è molto più profondo e non si può correggere con dispositivi costituzionali. Non si può correggere forse nemmeno modificando il sistema elettorale. Abbiamo cercato di togliere una fonte inutile di crisi e crediamo che almeno da questo punto di vista tutti debbano convenire che questo vantaggio c'è. Sennonché, ci è stato osservato: voi, con questo sistema di rendere responsabile il Governo esclusivamente di fronte all'Assemblea Nazionale, negate quello che volete affermare e uccidete il bicameralismo, proprio quando volete imperniare la Costituzione dello Stato su due Camere indipendenti tra di loro. Ora, veramente a me sembra che questa obiezione non sia molto consistente, perché non riesco a concepire, come esigenza del principio bicamerale, quello che avveniva ed avviene in certi Stati nei quali il Governo è responsabile di fronte alle due Camere indipendentemente e separatamente. Perché il sistema bicamerale — è un'osservazione contrastata dall'onorevole Fabbri — non importa affatto un sistema a tipo collegiale, come il consolato romano. Nel sistema bicamerale le due Camere sono bensì indipendenti e debbono agire quindi separatamente, ma sempre in vista di effetti unici finali. Ora, guardate come funziona il principio bicamerale per quanto riguarda la fiducia al Governo. Si può verificare questa ipotesi: un Governo, approvato da una Camera, e, successivamente, dall'altra Camera, ad un certo momento cade esclusivamente per volontà di una delle due Camere. Domando: è bicameralismo questo? Secondo il sistema bicamerale, per determinare questo effetto, per modificare la situazione preesistente, dovrebbe essere necessario ancora l'accordo fra la prima e la seconda Camera. A me sembra sia così.

Vi è un altro argomento per sostenere che non si lede il sistema bicamerale. Tutti certamente ricordiamo che secondo il vecchio Statuto del regno in certi casi si doveva, dalle Camere, procedere alla nomina del reggente. La dottrina si domandava: in questo caso, la nomina del reggente da parte delle Camere deve avvenire da parte delle due Camere separatamente ed indipendentemente agenti, o da parte delle due Camere riunite? I fautori del sistema bicamerale ritenevano che le due Camere dovessero agire separatamente, ma l'onorevole Orlando manifestò autorevolmente e — a mio avviso — fondatamente, la tesi contraria, in base alla considerazione che l'atto di nomina è un atto che, di sua natura, non può e non deve essere compiuto che da un unico organo collegiale.

Ora io domando: l'approvazione, la fiducia al Governo, cosa è? Il Governo è formalmente nominato dal Capo dello Stato, ma soltanto formalmente, perché chi investe realmente il Governo della sua funzione è l'atto di fiducia che è la vera nomina da parte delle Camere. Se si tratta in definitiva di un atto di nomina da parte delle Camere è più conveniente avere due Camere o un'unica Assemblea Nazionale? Anche questo mi sembra sia un argomento il quale dimostra che effettivamente non siamo di fronte ad una esigenza...

Fabbri. Il Governo deve camminare con due gambe. Se resta con una gamba sola, cade.

Tosato, Relatore. Io dico che questa innovazione non lede, per lo meno, il principio bicamerale.

Conti, Relatore. Questa è zoologia; non costituzionalismo!

Tosato, Relatore. Comunque a me pare che la soluzione proposta presenti un indubbio vantaggio, perché si evitano inutili motivi di crisi e con questo sistema non si urta — a mio modesto avviso — contro il principio del bicameralismo.

La soluzione che abbiamo proposta ha poi altri utili aspetti non trascurabili.

Innanzitutto, a me pare che non si possa prescindere dalla considerazione che indubbiamente l'Assemblea Nazionale avrà una maggiore solennità delle singole Camere e che quindi quando si tratterà di questioni di Governo, di fiducia o di sfiducia, gli stessi membri dell'Assemblea Nazionale saranno ricondotti ad un più alto senso di responsabilità. Non solo. L'Assemblea Nazionale, a mio avviso, permetterà un chiarimento più immediato e più diretto della situazione politica, e quindi permetterà anche al Capo dello Stato di prendere direttamente e più fondatamente decisioni politiche in ordine alla formazione del Governo.

Ma, a mio avviso, vi è poi un'altra ragione, alla quale io personalmente darei molta importanza, ed è che attraverso questo sistema dell'Assemblea Nazionale, come organo della fiducia al Governo, noi risolviamo il problema della divisione dei poteri nel Governo parlamentare. Chi ha a cuore la libertà, e il progresso nella libertà, non può non avere a cuore l'attuazione della divisione dei poteri. Il principio della divisione dei poteri non si oppone al principio della sovranità popolare. Si oppone soltanto alla dittatura, al totalitarismo. Orbene: tutti sanno che il Governo parlamentare tende alla confusione dei poteri. Con questo sistema dell'Assemblea Nazionale si arriva a saldare il principio della divisione dei poteri anche nel Governo parlamentare. Perché? Perché per le questioni di Governo sarebbe competente un'Assemblea, completamente distinta e indipendente dalle due Assemblee. Mentre l'attività legislativa verrebbe esercitata dalle due Assemblee separatamente e indipendentemente agenti, invece, per le questioni di Governo, si avrebbe la possibilità di una Assemblea diversa, la quale sarà competente a decidere soltanto di questioni di carattere fondamentale, di suprema direzione politica. Con quale beneficio per il normale svolgimento dell'attività legislativa svincolata così dalle continue pressioni e dalle questioni di vita o di morte dei Governi, con quale beneficio per la stabilità dei Governi stessi, sottratti così al quotidiano assalto alla diligenza, è evidente. Il Governo parlamentare si è tradotto in Italia in un confusionismo di poteri, che è deleterio per l'attività legislativa e per l'efficienza dei Governi. Bisogna porvi riparo. Se non si vuole che il potere legislativo sfugga inesorabilmente alle Camere, se non si vuole che il Governo parlamentare si traduca e degeneri in Governo di Assemblea, in un comitato esecutivo delle Camere, con le conseguenze che ne derivano, occorre ristabilire, per quanto è possibile, la divisione dei poteri. E da questo punto di vista, l'innovazione introdotta nel progetto relativa ai nuovi compiti dell'Assemblea Nazionale, potrebbe essere un rimedio eccellente.

Ad ogni modo, questi sono i criteri fondamentali che ispirano il progetto e le disposizioni in esso contenute. Io ho cercato di esporvi la materia nel modo più semplice, nel modo più chiaro: vi ho parlato con franchezza, e, credo, anche con obiettività. Personalmente, io ritengo che le soluzioni proposte possano essere prese in attenta considerazione. Prenda ora l'Assemblea Costituente la sua responsabilità. (Vivi applausi Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18,10, è ripresa alle 18,20).

Presidente Bosco Lucarelli. Ha facoltà di parlare l'onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Parlo come relatore dei relatori. Ho detto altra volta che il mio compito è di notaio. Debbo chiarire le tendenze, localizzare i dissensi, esporne le ragioni, da una parte e dall'altra, obbiettivamente. E dirò quando mi avvenga di esprimere una mia opinione personale.

Dopo molte analisi sottili e profonde, si sente il bisogno di semplificare, e di inquadrare insieme tutti i problemi. Sarò un annunciatore di problemi. Cercherò di farli vedere sinteticamente come in un panorama.

Non svolgerò teorie e dottrine. Un solo e rapido accenno, alle posizioni iniziali, per comprendere gli atteggiamenti e le soluzioni che ne discendono nei problemi concreti.

Si presuppone il tipo dello Stato; se ne è discusso in Commissione; si è riconosciuto da tutti; ed anche qui nell'Aula abbiamo sentito, da Clerici a La Rocca, che il nostro deve essere uno Stato parlamentare. Ma cosa è «Stato parlamentare»? Con la consueta finezza — poiché vi sarà il referendum e lo scioglimento delle Camere — Mortati propone di dire «semiparlamentare».

La formula, pur facendo sempre capo al Parlamento si presta ad aver contenuto e figure diverse. Bisogna andare alla sostanza delle cose, e vedere cos'era storicamente il regime parlamentare nel quale abbiamo vissuto, e come è nato in antitesi al regime assoluto, ed anche a quello «costituzionale», dove ancor prevaleva il potere del Re. Per mettervi sotto gli occhi un'immagine drastica — di cui mi varrò come motivo fondamentale del mio discorso — lo Stato parlamentare era un edificio a due piloni. Vi era il pilone della monarchia tradizionale che, per quanto si richiamasse anche alla «volontà della Nazione», si basava sulla grazia divina e sul diritto ereditario. Dall'altra parte avevamo il pilone del Parlamento, che usciva dall'elezione e dalla volontà popolare. Fra i due piloni si lanciava un arco di ponte, che era il Gabinetto ministeriale. Regime parlamentare e regime di gabinetto — come ci insegnò Orlando, il nostro Maestro — coincidevano storicamente, fra loro.

Che cosa è avvenuto? Uno di questi piloni, il regio, è crollato. Quali conseguenze dobbiamo trarne? Che cosa dobbiamo fare? Si pongono così, realisticamente, i problemi.

Vi sono ora due tendenze estremiste, che si sono affermate qui, nella discussione, non tanto in proposte pratiche, quanto in aspirazioni ed idee-limite, che affiorano ogni tanto. La corrente estremista di sinistra trovò qualche espressione, durante la discussione generale del progetto di costituzione, nei discorsi di Nenni e Togliatti, ed in una lucida esposizione di Laconi; è stata ripresa testé, più accentuatamente, in un brillante intervento di La Rocca. Ecco quale è questa concezione.

Badate; è una cosa molto seria, non solo per le forze che ispira e convoglia; ma anche per la sua impostazione di pensiero; che si riallaccia, del resto, ad alcune definizioni della democrazia di Kelsen, e non dispiace a spiriti riflessivi come Salvatorelli. Ma è, nella sua essenza, e nella sua rigorosa consequenzialità, concezione estrema e di punta, a sinistra.

Si presenta nell'aspetto di un sillogismo. Vi è una sovranità unica, e ne è depositario il popolo. Vi è una delegazione unica di sovranità, ed è fatta al Parlamento. Dunque: ogni potere — anche l'esecutivo, lo ha sottolineato La Rocca — s'incentra nel Parlamento; e tutti gli altri organi — nessuno eccettuato — il Capo dello Stato, il Governo, la Magistratura, sono «commessi» — dico la parola meditatamente, perché è stata scritta —, commessi revocabili ad un nutum per volontà del Parlamento.

È il modo più spinto e più pieno di concepire lo Stato parlamentare; e non è evidentemente la forma ottocentesca che ne ebbe il nome. I suoi sostenitori idealizzano ed esaltano un tipo di Stato che non è soltanto il più democratico, il vero democratico, perché tutto proviene unitariamente dal popolo; ma — si è scritto — assicura la maggior stabilità al Governo investito dal Parlamento; né — ogni potere risiedendo nel Parlamento — è possibile una dittatura personale.

Tali argomenti han suscitato confutazioni e dinieghi. Si è osservato che se il Parlamento ha illimitatamente tutti i poteri, anche questa è dittatura, sia pure collettiva. Anche questo è totalitarismo. E come parlare di stabilità di governi revocabili ad nutum? E come ignorare che, in clima di dittatura, lo sbocco storico più facile è a quella delle persone? La concezione di sinistra, continua la critica, porta ad un Governo di Assemblea o di Convenzione, demolitore, tumultuoso, instabilissimo; quando non sia — anche ciò avviene — parvenza e maschera, in una plumblea fissità, ad un dittatore velato. Proudhon riassume così: il Governo d'assemblea ha tutti i difetti della dittatura, senza averne il pregio della responsabilità individuale.

Fonte prima dell'attuale concezione di sinistra è Rousseau con la sovranità popolare. Un colosso, Rousseau, nella storia del pensiero e dell'azione, come Marx. I nostri estremisti, per quanto concerne gli istituti politici, rinnegano Marx per Rousseau. E deviano anche da questi, che nega ogni facoltà di delegazione della sovranità ad altri che non sia il popolo; e vogliono un vero trasferimento di sovranità nel Parlamento, con un atto vero di delegazione. Tutti i poteri al Parlamento; non vi siamo ancora arrivati, ha detto La Rocca, ma vogliamo che il Parlamento abbia anche il potere esecutivo. Che è perfettamente un assurdo ed un'impossibilità assoluta, nel Parlamento attuale come lo era nella «landesgemeinde» cara a Rousseau.

Ed ecco, per contrapposto, all'estrema destra l'altra concezione. Basata sulla tenace nostalgia del pilone, che è caduto. La sua ombra agisce ancora. Si vorrebbe tornare, in definitiva, all'antico edificio, quale era. Posizione impenitentemente conservatrice, il cui spirito aleggia anche nei discorsi di uomini di primissimo ordine, come Orlando e Nitti. Ha detto Nitti, esplicitamente, che la monarchia non risorgerà mai più; ha espressa una fede che è anche la mia; (ma è necessaria maggior vigilanza che egli non creda). Questi uomini eminentissimi non chieggono la rinascita della monarchia; ma pensano come se non vedessero che il famoso pilone non c'è più, e che è necessario rifare l'edificio su basi in parte nuove. Bisogna essere cauti, non far salti nel buio, stare nel terreno saldo, utilizzare i materiali esistenti; ma insomma non aver paura di attenersi alle esigenze nuove; non essere conservatori, come lo sono Orlando e Nitti.

È venuto un enfant terrible, un uomo di forte ingegno, un «loico», Condorelli; e — denunziati gli inconvenienti ed i mali dell'odierno momento — ha dichiarato che nessun avvedimento d'altro genere può eliminarli, se non si ristabilisce tale e quale il filone del Re. Potrei osservargli che i mali e gli inconvenienti esistevano (egli stesso in altre parti del suo discorso l'ha detto) quando vi era la monarchia, e che questa non ha evitato quanto è avvenuto. Mi basta dargli atto della sua consequenzialità.

Io prendo netta posizione contro l'uno e l'altro estremismo: ne sono egualmente distante; e dissento da Nenni e Togliatti, come da Orlando e Nitti. Credo di essere sopra una via giusta, di equilibrio e di necessità, che è la via seguita dal progetto di costituzione; e può essa sola servire alla causa della democrazia ed al bene del Paese (Approvazioni).

Che cosa bisogna fare? Ristabilire in altra forma, democraticamente, il pilone crollato; ed allargare le fondamenta della casa, rinsaldandole ed affondandole sempre più nella sovranità popolare. Far capo al Parlamento, che è l'espressione preminente, ma non la sola, della sovranità popolare. Il sovrano non è il Parlamento; è il popolo che ha due emanazioni essenziali della sua sovranità: l'elezione dell'organo parlamentare ed il referendum. Nella nuova costituzione bisogna far posto, così, anche al referendum. E cogliere tutte le altre possibili emanazioni della sovranità popolare, stabilendo l'equilibrio fra gli organi dello Stato nell'orbita inderogabile della sovranità popolare.

Non disturbiamo, a questo riguardo, la venerabile teoria della divisione dei poteri, contro la quale si sono condotte, qui dentro, crociate; ed Ambrosini con la sua mirabile penetrazione, disturbando Aristotile e Montesquieu, ha messo il dito sul punto che, quando un organo ha tutti i poteri, è spinto dalla natura delle cose ad abusarne. La vecchia teoria è in gran parte superata (tant'è che noi non l'abbiamo seguita per la denominazione dei titoli nel nostro progetto); ma quanto bene ha fatto per la libertà e per la creazione dello Stato moderno! Né dobbiamo vergognarci, come d'un relitto democratico, dell'esigenza di equilibrio, di freni e di contrappesi, di checks and balances che viene pure dalla più bella costituzione del mondo, la americana. Noi vogliamo ricordare e subordinare tutti gli organi dello Stato alla sovranità popolare. Vi sono, oltre il Parlamento, altri organi che emanano, per elezione diretta, o almeno indiretta, dalla volontà popolare; come il Capo dello Stato. Altri ancora non provengono da elezione, ma da concorsi; tipica è la magistratura; e deve essere autonoma; ma esercita anch'essa il suo potere in nome del popolo; e non può sottrarsi alla sua sovranità, racchiudendosi come in un mandarinato; (ecco perché nel nostro progetto mettiamo nel Consiglio superiore della magistratura la rappresentanza del Parlamento).

Anche il Governo, che non può vivere senza la fiducia del Parlamento, deve avere — lo ha ammesso Gullo — una sua autonomia; l'amministrazione è la struttura e la continuità dello Stato; e non può essere sconvolta e revocata capricciosamente, ad nutum, né dal Governo né dal Parlamento. Il popolo è la forza che avvolge e muove tutto lo Stato; il solo organo originario, anche se non configurato e fissato formalmente come gli altri che ne derivano; è il popolo che deve sempre avere la prima e l'ultima parola. Noi siamo già entrati in una fase dello Stato che si potrebbe chiamare «popolare», più ancora che «parlamentare».

Nella gerarchia degli organi, subordinati tutti al popolo, prevale necessariamente il Parlamento, che è di immediata designazione del popolo, ha la funzione legislativa; ma non vogliamo abbandonarci alla ossessione allucinata ed unilaterale di una sovranità ed onnipotenza del Parlamento; né condannare tutti gli altri organi come ritardatari. Esistono esigenze di riflessione e di meditazione. Una frase della mia relazione è citata e ripetuta: «bisogna in certi casi pensarci su». L'edificio costituzionale deve essere armonico ed equilibrato; il Parlamento ne è il centro; ma non il Solo ed il Tutto. I colleghi d'estrema, che inclinano ad un Governo d'Assemblea, che possa con un colpo di testa modificare tutto, pensino al pericolo del boomerang; la loro teoria potrebbe essere attuata contro di loro e contro la democrazia. Le conquiste democratiche e sociali bisogna guadagnarle e consolidarle pezzo per pezzo nel tessuto dello Stato, che va penetrato e ravvivato dal sano spirito della democrazia e del lavoro, e va difeso con trincee efficaci contro le demolizioni e le sovversioni anti-democratiche e reazionarie. Questa è la visione che deve ispirare la nostra Costituzione.

Entriamo ora nel concreto e nel particolare dei problemi da risolvere.

I più importanti sono tre; composizione del Senato, elezione del Capo dello Stato, posizione del Primo Ministro nel Governo. Li tratterò nell'ordine logico ed al loro posto in connessione agli altri argomenti.

Le correnti e gli atteggiamenti generali che abbiamo visto si riflettono nella questione se vi devono essere due Camere od una Camera sola. Gli estremisti di sinistra, che partono dalla unicità della delegazione di sovranità popolare ad un solo organo debbono essere, nella loro logica, monocameralisti; aspirazione che si è sentita in più d'un intervento. Ma non si è formulata in alcuna proposta d'emendamento. Vi sono, in realtà, varie gradazioni: 1°) monocameralismo, in senso assoluto; 2°) vi sia pure una seconda Camera, ma soltanto con funzioni consultive (si noti che, se è contenuta in questi caratteri, alcuni comunisti e socialisti han dichiarato che accetterebbero, per la seconda Camera, il sistema della rappresentanza organica); 3°) si può ammettere una seconda Camera, vera e propria, purché sempre a base elettiva, ma con minori funzioni o con prevalenza, in certi casi ed in certe materie, della prima. L'esigenza limitatrice è stata formulata da La Rocca, nei termini che anche la seconda Camera deve provenire dalla volontà popolare; ed i suoi modi di formazione non debbono alterare i risultati che il suffragio universale, indiscriminato, imprime all'altra Camera.

Due Camere dunque; questo si può considerare acquisito.

Sorge, sulla soglia degli altri temi, se sia ammissibile o no l'Assemblea Nazionale, come riunione delle due Camere. Sono stati contro: Orlando nella discussione generale, ed in questa Nitti, riecheggiato da Codacci Pisanelli e da Fuschini. «Con l'Assemblea Nazionale, ha esclamato Codacci Pisanelli, il monocameralismo, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra». E Fuschini denuncia il «tricameralismo». Interessanti cose ha dette l'onorevole Nitti; il Comitato lo ringrazia di non aver fatto soltanto una critica erosiva, ma costruttiva; ed io sono lieto della dichiarazione a me fatta, che le differenze tra il nostro progetto e le sue proposte non sono poi grandi.

Egli però non ha interpretato esattamente il mio pensiero dicendo che nella relazione ho parlato di una nuova Camera, di una terza Camera. No; ho rilevato che si tratta di un «nuovo istituto».

Nitti. È la stessa cosa, onorevole Ruini.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. No; ed è del resto istituto nuovo per l'Italia, non per altri paesi, dove già esiste, e sta in molte Costituzioni — anche qui l'onorevole Nitti non è esatto — per l'elezione del Capo dello Stato, e per altri compiti, che vanno dalla revisione costituzionale, al componimento dei dissensi fra le due Camere. Non è nel nostro progetto un organo permanente; non basta che abbia un regolamento; né ha un presidente proprio; è un istituto, una procedura, piuttosto che un organo a sé del Parlamento.

Posto che non vi è più differenza sostanziale fra una prima Camera eletta dal popolo ed una seconda del re, — posto che tutte due, pur in forme diverse, emanano dalla designazione popolare, — nulla si oppone a che si possano raccogliere insieme, in determinati casi, con risparmio di tempo, con risparmio di conflitti, per raggiungere una sintesi che si può ottenere meglio in questa forma che con adunanze separate. Non vedo cosa vi sia di strano e di mostruoso, onorevoli colleghi. Potete anche votar contro. Il Comitato ha creduto, né vi sono state vere divergenze, di proporre un istituto che non esisteva nel vecchio edificio, e che afferma il carattere nuovo e comune dei due rami del Parlamento che, in certi momenti essenziali della vita del Paese, deliberano unitamente.

Ho pensato molto; e non sono riuscito a capire perché Orlando vede nell'Assemblea Nazionale un pericolo di totalitarismo. È, caso mai, un baluardo contro il totalitarismo di una Camera sola.

Le funzioni assegnate dal progetto all'Assemblea Nazionale sono, oltre la elezione del Capo dello Stato, altri atti attinenti ad organi importanti dello Stato, quali — attraverso il voto di fiducia o sfiducia — la formazione del Governo e, con la designazione di loro membri, quella del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte suprema di garanzia costituzionale. Infine: la dichiarazione di guerra e di mobilitazione generale; e l'amnistia e l'indulto. Da notare che sono in complesso nomine ed atti che non rientrano nella funzione legislativa vera e propria: Tosato lo ha sottolineato.

L'elenco potrà essere riveduto. Fuschini, il critico dell'Assemblea Nazionale, cancella altri casi, ma aggiunge la concessione dei pieni poteri per la guerra. Qualcuno pensa a riunioni comuni anche nei disaccordi fra le due Camere. Non credo che vi possa essere, su questo argomento, occasione a battaglie vivaci. Ma basta aver mostrato che questo istituto — qualunque ne sia la sorte — non rientra nel «museo degli orrori» a cui si è voluto, per alcuni aspetti, assomigliare il progetto.

Parliamo ora delle due Camere, distintamente.

Pochi dibattiti vi saranno per la prima. Si è rinviata alla legge elettorale il sistema da seguire nell'elezione. Finirà col restare la proporzionale: che — dato il fatto storico della determinazione nella vita pubblica dei partiti di massa — è logica ed inevitabile; e sono del resto i piccoli partiti che hanno interesse ad avere così una rappresentanza, se non altro nella lista nazionale. Mentre l'onorevole Nitti si pente di aver varata la proporzionale nell'altro dopoguerra, io ritengo che, se non vi fosse stata, nell'alta Italia non sarebbero riesciti che socialisti e comunisti, salvo pochi democristiani, e si sarebbe scavato un solco di differenziazione fra Nord e Sud. Ad ogni modo savio è stato il rinvio; in sede di legge elettorale si sceglieranno forme e modi diversi, possibili nella proporzionale.

L'onorevole Nitti ha sollevata una questione sul numero dei membri del Parlamento, secondo il progetto. Troppi, ha detto; in nessun altro paese sono tanti quanti voi proponete! Non è così; ho a disposizione dell'onorevole Nitti un quadro, dal quale risulta che se i parlamentari, i politicians, sono in minor numero negli Stati Uniti (e qualcuno se ne lagna, per il carattere «professionale ed oligarchico» che ne deriva), sono di più in Francia, in Inghilterra ed altrove. L'onorevole Nitti troverà resistenza nei piccoli partiti, come il suo, se vorrà ridurre il numero. Siamo ad ogni modo d'accordo: non troppi; nel suo vivido discorso l'amico Conti ne ha detto le ragioni.

Quanti? La seconda Sottocommissione proponeva un deputato ogni 100 mila abitanti o frazione superiore a 50 mila; sarebbero da 450 a 500 deputati. In Commissione plenaria la cifra fu diminuita ad 80 mila e 40 mila abitanti; diverrebbero da 550 a 600 deputati. Un emendamento vuole risalir su, a 120 mila e 60 mila; si scenderebbe, in correlazione, a 350-400 deputati. Si noti che questi risultati valgono per la prima Assemblea; aumenteranno in seguito, i deputati, secondo i futuri censimenti, nella prolifica Italia.

A voi la scelta; forse la cifra intermedia è la buona.

Passiamo alla seconda Camera; che presenta le maggiori difficoltà; ed a dir vero non vi è soltanto indecisione in parecchi partiti, ma anche nei singoli cervelli sulla soluzione da adottare.

Liberiamo il terreno dalle questioni minori. Il nome. La seconda Sottocommissione l'aveva lasciato in bianco, per la riluttanza a cogliere anche nel solo nome l'eredità del Senato regio e fascista. Riuscii, in adunanza dei Settantacinque, a far passare «Camera dei senatori»; di più non sarebbe stato possibile; e non era designazione «mostruosa» (quanti mostri vede la fantasia di Nitti!); perché fa risaltare, meglio di Senato, l'origine elettiva; e poi — perdonatemi — non mi piace la prosopopea dei nomi collegati, come accentua Nitti, alla grandezza antica; mi viene qualche volta voglia di ripetere: «chi ci libererà dai greci e da romani?»; ed egli stesso, l'onorevole Nitti, ci ha insegnato che il Senato di Roma era così diverso da questo nostro, che veniamo a formare. Comunque sia, non credo che noi costituenti ci tireremo per un nome i capelli. Sia pure: «Senato della Repubblica».

Numero dei senatori. Ricordiamoci: non troppi. Il progetto ne assegna uno per 200.000 o frazione superiore a 100.000. Sarebbero 250 senatori; e con l'aggiunta di 5 per ogni Regione si arriverebbe verso i 300. È opinione abbastanza diffusa, io riferisco, che 500 deputati e 300 senatori (meno che nell'ex Regno) sono una cifra attendibile.

Età. Il progetto propone che pel Senato — chiamiamolo pure così — l'elettorato attivo sia portato a 25 anni, ed il passivo a 35. Il collega Preti protesta perché si tagliano e si lasciano fuori dei diritti elettorali categorie di cittadini. Ma bisogna pure che se il nome di Senato o Camera dei senatori, deve aver qualche senso, bisogna — anche senza arrivare ai vecchioni — mettere una certa differenza di età. Tant'è che, per gli eleggibili, emendamenti portano il limite a 40 anni. Per conto mio, malgrado l'eco fascista degli sguaiati e funesti canti di giovinezza, sono per andar incontro ai giovani; e non dico con Croce che il loro diritto è di diventare vecchi. Sono la forza a cui affidiamo il nuovo Stato. Ma non mi sembra che sia offesa ed eresia chiedere, per una seconda Camera, un modesto livello di maturità e d'esperienza più alto.

Condizione per diventare senatori: essere nati o domiciliati nella Regione dove saranno eletti. La condizione si era ispirata all'impronta regionale che si vuol dare, in qualche modo, ai senatori; ma ha sollevato dubbi ed opposizioni, non sembrando logico né giusto escludere dall'eleggibilità chi, senza esservi nato o senza avervi domicilio, ha vincoli con una Regione, ed è ritenuto degno di rappresentarla.

Categorie nelle quali debbono essere scelti i senatori. Trovate nel progetto un elenco, piuttosto eterogeneo, che taluno ha battezzato per «bazar». Quante fatiche, ahimè, richiese l'arrivarvi! Fu, in origine, nella seconda Sottocommissione, uno sforzo di adattare la tesi della rappresentanza organica alle critiche che le erano rivolte; si pensi di lasciare le categorie professionali, e di andare al collegio unico. Avvenne quella che Condorelli chiamerebbe «eterogenesi dei fini»; ossia si raggiunsero, per strada, diversi effetti. Le categorie perdettero l'impronta originaria; e diventarono il... bazar di svariata natura; così che — se una qualificazione potrebbe essere opportuna per la nomina a senatori — la scelta delle categorie non sembra a molti felice. Fioccano le critiche: si dice da sinistra che i ceti operai troverebbero sbarrata la via; e che per certi casi — i consiglieri comunali e provinciali — non sarà possibile, con la parentesi fascista, mettere assieme il quadriennio richiesto. Si vuole d'altra parte includere anche i decorati al valore della guerra 1914-18; non soltanto di quella 1943-46; che in ogni modo, si dice, dovrebbero passare alle disposizioni transitorie. Questioni tutte, più o meno piccole, che deciderete a loro luogo, se non prevarrà la proposta di Preti e di altri di togliere via, senz'altro, il «bazar».

Vi sono, sempre per la seconda Camera, due altre questioni pregiudiziali, prima di affrontare la più vera e maggiore. L'una è se una quota di senatori, il terzo, come dice il progetto, sia riservato alla elezione da parte dei Consigli regionali. Si oppongono gli antiregionalisti, che non si adattano al fatto compiuto dell'ente Regione, già entrato nel testo costituzionale; e motivano la loro particolare opposizione a questo punto col rilievo che la composizione del Senato diverrebbe un «fritto misto», e si determinerebbe una sperequazione per la non egualmente proporzionale rappresentanza assegnata alle Regioni. Sia lecito a tale riguardo rinviare alla discussione dell'apposito articolo; non mancano d'altra parte emendamenti che sopprimerebbero i 5 senatori attribuiti ad ogni Regione in più della quota proporzionale che le spetta in base alla sua popolazione.

Prescindendo per ora da ciò, sta di fatto — rispondono i sostenitori della rappresentazione regionale, — che introdotta la figura delle Regioni nell'ordinamento italiano, non si può non tenerne conto anche per la composizione del Senato. Senza arrivare a dire con l'onorevole Condorelli che il sistema regionale da noi adottato è un sistema federale.

Condorelli. Ho detto «cripto»...

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. ...E sia, ma federalista non è; ed anche il semplice Stato regionale, come lo ha chiamato Ambrosini, può giustificare questa modesta partecipazione degli organi costituiti nella Regione alla formazione di un ramo del Parlamento, che potrà così funzionare più efficacemente da coordinatore e mediatore fra gli interessi dei nuovissimi enti, da cui l'amico Conti tanto attende per il rinnovamento anche spirituale dell'Italia.

Tolta la quota pei Consigli regionali, restano i due terzi al sistema più generale di designazione. Ma si prospetta un'altra assegnazione di quota speciale. Si chiede da più parti che un nucleo di senatori sia sottratto al sistema normale di elezioni; e si fa sfilare una serie di soluzioni diverse, risalendo a criteri che si seguono in diversi paesi. Ecco la gamma di ipotesi. Vi è l'elezione d'una parte del Senato dalla Camera dei deputati; vi è una forma parziale di cooptazione esercitata dallo stesso Senato; vi è l'entrata di diritto nel Senato di chi riveste certe cariche od ha dati requisiti; vi è la nomina riservata al Capo dello Stato di un certo numero di Senatori. Questi senatori extra possono essere vitalizi, o designati per una sola legislatura, salvo riconferma.

Siffatta casistica si riflette in emendamenti presentati od annunciati: che contemplano una quota di senatori di diritto (Preziosi); lasciati alla libera scelta del Capo dello Stato (Russo Perez); nominati dal Capo dello Stato fra date categorie (Rubilli, Di Gloria, Macrelli). Prevale il criterio di aprir le porte del Senato ad uomini che hanno rivestito alte cariche (Presidenza della Repubblica, delle Camere, del Consiglio, più volte Ministri) o sono stati deputati per più legislature; né si sottoporrebbero più alle dure fatiche d'una campagna elettorale, mentre gioverebbe al Paese che la loro competenza ed esperienza non mancasse nel Parlamento.

Riferisco i motivi addotti a favore di questo nucleo di senatori extra. Altri motivi si adducono in contrario: che ammettendo un'eccezione, più o meno larga, si snatura la sostanza elettiva del Senato; si pongono in essere stridenti disparità di membri vitalizi e di membri temporanei di una stessa Camera; si fa — io riferisco — un «pasticcio», per mere considerazioni personali.

Da fedele notaio, avverto che, per attenuare le obbiezioni, si fa avanti la proposta (di Persico e di altri) di una norma transitoria, che ammetterebbe l'immissione d'un gruppo di senatori di diritto — per anzianità politica e parlamentare — soltanto per il primo Senato da formarsi dopo la Costituzione, quando, d'altra parte, non si potrà ancora addivenire alle designazioni dei Consigli regionali.

Basta con le minori questioni che pur daranno luogo a dibattito, ed io dovevo incanalarlo.

Per il Senato — detratte le quote accennate — vi è l'esigenza che il modo di nomina sia l'elezione; se no verrebbe meno il lineamento del nuovo Stato democratico. E, posta la ragione che giustifica l'esistenza di una seconda Camera, vi è pur l'esigenza che non sia un doppione assoluto dell'altra; se no, si farebbe più presto a sommare gli eletti ed a metterli dentro una sola aula. Altr'è che la differenza sia radicale o attenuata; anche in quest'ultimo caso può giovare un separato e successivo esame degli atti legislativi. Ma doppione non sia!

All'elezione si offrono, come vie maestre, due metodi: il suffragio diretto e l'indiretto. Dopo una non breve oscillazione di idee, la Commissione dei Settantacinque, de guerre lasse, finì con l'accettare il sistema del suffragio universale diretto, con le sole differenze dalla prima Camera dell'età diversa per gli elettori e per eleggibili, e con la qualificazione (il cosidetto bazar) delle categorie alle quali si deve appartenere per diventare senatori. Non dirò tuttavia che molti — forse i più — siano rimasti definitivamente persuasi. Rampollano i dubbi e la ricerca di altre soluzioni.

Fu respinta invece, in seno ai Settantacinque, la proposta Perassi di ricorrere ad una elezione di secondo grado, da parte di grandi elettori designati a suffragio universale. Si obbiettò che questo più lungo processo era inutile, e preferibile l'elezione diretta. Al che si potrebbe rispondere che piena identità non vi è, e che una riunione d'elettori di primo grado può prestarsi, meglio che una votazione immediata e definitiva di massa, a concordare una buona scelta. Sarebbe un vantaggio...

Russo Perez. Vantaggio delle camarille...

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. ...Fino ad un certo punto; ma io accenno al vantaggio che vi potrebbe essere in accordi che temperassero il più acceso partitismo del suffragio diretto.

Ad ogni modo i due metodi, puri e nudi, del suffragio diretto o indiretto si prestano a più complesse determinazioni. Ed han dato luogo, di fatti, a nuovi congegni, che tengon ora il campo delle proposte, e si esprimono nei tre più dibattuti sistemi della rappresentanza organica, dell'elezione da parte dei Consigli comunali, del collegio uninominale.

La rappresentanza organica — sostenuta dai democratici cristiani, e non da essi soltanto, almeno in passato — è la rappresentanza degli interessi; non meramente professionali ed economici, ma anche culturali e spirituali; non si traduce nel professionismo puro od in un rigido classismo; implica un concetto più largo di rappresentanza, che Piccioni molto abilmente ha richiamato da un ordine del giorno Einaudi nella seconda Sottocommissione, delle «forze vive» del Paese. Accanto alla rappresentanza, che si addice alla prima Camera, dell'individuo come tale, «dell'uomo tutt'intero» (come io scrivevo tanti anni fa), sta una rappresentanza che non è tanto di gruppi quanto di uomini, degli uomini stessi sorpresi da una doppia fotografia della realtà, che è sempre una sola; ma qui l'uomo appunto è colto concretamente, organicamente, nelle particolari forme di sua attività.

Questo è il concetto base della rappresentanza organica; che trova un fierissimo handicap nei ricordi dell'ordinamento corporativo, e desta i «residuati» di una ripugnanza profonda contro il fascismo; del quale la rappresentanza d'interessi (come tante altre cose) non è pensiero originale; anzi è un'idea che esso ha carpita da correnti anteriori di movimento etico-sociale, sovrattutto e non solo, di impronta cattolica; e le ha deformate ed esagerate nel suo grottesco corporativismo.

Si spiega così come contro l'attuale proposta della rappresentanza organica nella formazione del Senato si leva l'opposizione quasi generale degli altri settori dell'Assemblea; ed i socialisti e comunisti sono i primi ad accentuare un reciso diniego. Affermano che un tale genere di rappresentanza (o pseudo rappresentanza) ferisce l'idea in sé del suffragio universale, che deve essere indiscriminato; ed intacca sul principio che abbiamo scritto nella nostra Costituzione, nel senso che il voto deve essere «personale ed eguale». La rappresentanza di interessi, si afferma, è antiegualitaria ed antidemocratica; è l'espressione naturale delle tendenze retrive, e l'antitesi dello sforzo che è in atto di rinnovazione sociale. La condanna non potrebbe essere più aspra; quale la ho sentita in quest'Aula da Preti, da La Rocca, da altri.

Ai quali han ribattuto Ambrosini, Clerici, Mortati; e specialmente Piccioni ha messo in luce che, anche nella rappresentanza degli interessi, l'elezione viene dal popolo; e che il suffragio universale non deve essere soltanto indistinto; bisogna captare altre fonti e forme rappresentative della vita economica. Una rappresentanza d'interessi non trattiene; spinge a riforme sociali; e posta a base del Senato, concorre, dice Piccioni, a garantire meglio l'equilibrio e l'integrazione dei poteri, e assicurare maggior competenza tecnica e maturità d'esperienza, a mantenere una più ferma stabilità di Governi.

Per verità, a prescindere dalle ragioni hinc inde dedotte, comprendo la diffidenza e le ostilità dei liberali — sebbene anche Ruffini abbia accolta l'idea della rappresentanza organica nel Senato —; la comprendo meglio di quella dei socialisti, che in passato ebbero diverso atteggiamento. Poiché mi sono occupato di questi problemi nel 1906 — quarant'anni fa, onorevoli colleghi — e poiché non rinnego il mio pensiero d'allora — desidero ricordare che anche in seno ai democratici ed ai socialisti (fin da allora parlavo di «democrazia del lavoro») si pensava alla rappresentanza di interessi come ad un sbocco del movimento in cammino. E quando nel 1919, sottosegretario del lavoro, impostai la questione della riforma di quel Consiglio nazionale, risposero le organizzazioni operaie e la loro Confederazione generale, spingendosi, nel sostenere la rappresentanza organica, al di là dei cancelli del Consiglio nazionale del lavoro; e chiedendo che il Senato regio fosse sostituito da una seconda Camera sulle basi delle forze vive e dei veri interessi del Paese. Vedo su quei banchi l'onorevole D'Aragona: pensa ancora come una volta?

In sostanza l'«abisso» e la inconciliabile antitesi, che si è denunciata, non esiste; tant'è vero che socialisti e comunisti continuano a propugnare, per il Consiglio nazionale del lavoro, un sistema di rappresentanza d'interessi, che i democratici cristiani vogliono introdurre anche nel Senato. La differenza ha certamente una sua portata; ma dove è l'«abisso»?

Per la riforma del Senato nel senso indicato vi è un argomento, sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione. Nel suo veramente largo e notevole discorso l'onorevole Clerici ha notato che si deve cercar di vincere il discredito e l'indifferenza che ormai circonda il Parlamento. Vorrei esprimere l'argomento in forma più netta; e rilevare che — se il Parlamento appare «vuoto di contenuto» ad un osservatore come Mario Ferrara — è perché i problemi più vitali e profondi della nazione si trattano e si risolvono al di fuori. Sono le Confederazioni economiche, e sovrattutto quella del lavoro, che conducono e decidono le questioni più gravi, fuori di qui. Se fosse possibile inserire nel Senato tali forze, con una loro rappresentanza diretta, tutto il Parlamento acquisterebbe maggior contenuto e prestigio.

La difficoltà sta nella realizzazione; ed anche Piccioni lo riconosce; ma crede che, ammesso il principio, non sarà impossibile tracciare uno schema abbastanza concreto. Avrei preferito che questo fosse abbozzato prima, per far accettare il principio. L'ordine del giorno Piccioni accenna una formula che all'atto pratico non sarebbe facile attuare e potrebbe dar luogo a controversie ed a soluzioni diverse, specialmente per quanto concerne il riferimento al criterio del numero, temperato dalla qualificazione del lavoro.

Non è facile neppure la enucleazione e la determinazione dei grandi rami della rappresentanza d'interessi. Fu tentata più volte; applicata in certo modo anche alla Consulta; studiata durante i lavori della nostra Commissione da Tosato e da Mortati. Siamo d'accordo; anch'io ho fatto i miei saggi: potrebbero essere sei grandi categorie: agricoltura, industria, commercio, cultura, professioni libere, pubblici impiegati. La maggior difficoltà è nella «dosatura» e nella assegnazione dei posti fra le categorie; e più ancora, all'interno di esse, dove s'affaccia la «classe», fra imprenditori ed operai.

Temo che la riforma non sia matura. I democratici cristiani vorrebbero affermare il principio nella Costituzione, e rinviarne l'attivazione a quando sarà convenientemente preparata. Alcuni si accontenterebbero, ad esperimento graduale, di una «quota» di senatori eletti in rappresentanza d'interessi. Ho l'impressione che non calcolino sul successo della loro proposta; che forse non manca di preoccuparli per i possibili risultati di siffatte elezioni nei riguardi del loro partito.

È da ritenere che ripiegheranno, in subordinato, sul sistema di far eleggere il grosso dei senatori dai consiglieri comunali. Sistema, essi dicono, che offre una categoria non improvvisata di elettori di primo grado, ed un punto solido di riferimento ad interessi concreti; completando in certo modo il criterio della rappresentanza di un terzo agli enti regionali. Obbiezioni contrapposte; anzitutto un dilemma; o si dà lo stesso numero di rappresentanti ad ogni Comune, quale si sia la sua popolazione, ed allora due Rocca Cannuccia soverchiano Roma; o si assegnano al Comune voti in proporzione dei suoi abitanti, ed allora perché questo «inutile giro?». I sostenitori dell'elezione da parte dei Comuni sfuggono al dilemma, proponendo di stabilire alcune — ad esempio quattro — classi di Comuni con diverso numero di voti; con che, rispondono gli altri, i Comuni rurali prevarrebbero sempre sugli urbani; e ciò può gradire ad alcuni, per una «maggior stabilità del Paese», non ad altri che vi scorgono una ingiusta sperequazione. È stato pure osservato che, col dare questo compito ai consiglieri dei Comuni, si porta ancor più nelle elezioni di queste amministrazioni locali uno stampo politico, che è meno vivo, finora, nei Comuni minuscoli.

Mi pare di essere stato obbiettivo nel riassumere le opposte ragioni. Lo sarò anche pel collegio uninominale; che sarebbe una proposta di specificazione del sistema, adottato nel progetto, di suffragio diretto ed universale.

Sono pel collegio uninominale, almeno nel Senato, coloro che ne hanno la nostalgia anche per la Camera dei deputati, e pensano potersi resistere meglio col suo mezzo all'ondata dei partiti di massa (Rubilli, Russo Perez). È notevole che, d'altro lato, ai liberali ed ai qualunquisti vadano incontro i comunisti, che abbandonano la loro rigida tesi di una assoluta uniformità nel suffragio, e, mantenendo ferma la proporzionale nella prima Camera, scoprono i vantaggi del collegio uninominale, se applicato soltanto al Senato. Consistono questi vantaggi in ciò che, evitando il doppione fra le due Camere, si adoperano forme diverse di selezione per la scelta dei rappresentanti del popolo; e — mentre la proporzionale conserva la sua efficacia nel campo della prima Camera e consente l'affermazione dei partiti, anche i più piccoli, con ogni loro caratteristica — dà per altro campo, con l'elezione del Senato, modo, non solo di tener presente il valore personale dei candidati, ma di adempiere un compito altrettanto necessario che quello della proporzionale, cioè delineare, con la spinta alle concentrazioni ed alle alleanze, l'avvicinamento alla determinazione di due o tre grandi correnti, tra cui conviene che, come avviene nei paesi più adusati alla vita politica, si avvicendi il potere. A quest'ultimo effetto conviene che si ricorra al ballottaggio.

Tale è il ragionamento dei sostenitori del collegio uninominale, che pensano di utilizzare ed armonizzare vantaggiosamente due sistemi diversi, con una specie di divisione del lavoro nelle due Camere. Le obiezioni sono vive; e manifestano meraviglia che un sistema, giudicato ormai anacronistico e superato per l'elezione dei deputati, diventi efficace e desiderabile per l'elezione dei senatori. La coesistenza dei due sistemi appare contraddittoria ed inammissibile; e si afferma che non è fondata la speranza degli attesi vantaggi. Né deve nascondersi che la prospettiva di render necessari i blocchi agisce, coi possibili riflessi immediati, sull'atteggiamento che prendono, ora, i partiti dell'Assemblea nella questione sollevata.

Vari partiti non si sono ancora decisi; e qualcuno affaccia il desiderio che, conservando nella Costituzione la norma genetica, quale è nel progetto, pel suffragio universale diretto, si rinvii ad una legge elettorale, come si fa per la proporzionale nella prima Camera, la possibilità di introdurre per la seconda il collegio uninominale.

Mi sembra di aver così esaurito i temi concernenti il Senato. Una parola sui rapporti fra le due Camere. Alla tesi che — lo vedemmo — vorrebbe una Camera sola con poteri di deliberazione, si oppone l'altra che tiene ad una piena ed assoluta parità, che si afferma conseguenza logica del principio bicamerale.

Il collega Tosato ha sostenuto con vigore tale posizione; ed ha invocato perfino Stalin che, in sede di dichiarazioni per la sua Costituzione, fu molto... ortodosso: ad esempio quando respingeva dal testo costituzionale le aspirazioni avveniristiche, contro i metodi di Weimar; e si capisce, infatti non ne aveva bisogno di fronte ad una già conquistata realtà; ed anche la bicameralità piena senza eccezioni è difesa da Stalin, sul che forse influisce anche la struttura federale della Russia sovietica.

Chi non vuole la parità perfetta osserva che essa non esiste ormai, più spesso per norma costituzionale, ed in ogni caso di fatto, in alcun altro paese. Anche in Italia vi era la precedenza della prima Camera in materia finanziaria. E chi non ricorda la più vasta riforma Lloyd George del 1911? È vero, si obbietta, ma si trattava allora d'una seconda Camera di nomina regia; oggi si trovano tutt'e due sopra uno stesso piano che le istituisce su base di elezioni; ed anche questo è vero ma — riferisco le controbbiezioni — più Costituzioni attuali non mantengono egual peso a Camere tutte due elettive.

Se si intacca il criterio rigido della parità, bisogna precisare in che cosa consista la differenza di attribuzioni e di efficacia. Ritornerà poi probabilmente in Assemblea il problema dei conflitti fra i due rami del Parlamento. L'onorevole Terracini aveva proposto, in seduta dei Settantacinque, di adottare un sistema, concretamente formulato, che ammetteva il riesame nei dissensi sopra il testo d'una legge; ed in determinati casi stabiliva la prevalenza della prima sull'altra Camera. Il congegno (al quale io personalmente inclinavo) venne respinto; e si ritornò ad una originaria proposta per la quale, nel disaccordo fra i due rami del Parlamento sopra una legge si prevede la — facoltativa ma più macchinosa — potestà del Capo dello Stato di indire il referendum popolare. L'onorevole Fuschini risolleva ora la questione, riproponendo la prevalenza della prima Camera, ma non escludendo neppure il possibile ricorso alla via del referendum.

Veniamo ora ad un capo del Titolo primo, meno vistoso, tecnico più che politico, di vivo ed attuale interesse: la formazione delle leggi. Si profilano problemi, che un giurista direbbe «eleganti» e che hanno ad un tempo importanza pratica altissima, perché implicano la possibilità del funzionamento parlamentare, e della vita stessa dello Stato.

Sono tre problemi. Il primo concerne il lavoro interno delle Camere. Il rilievo da me fatto più volte — e sembrò a taluno sconvenienza ed eresia — che il Parlamento è oggi incapace di legiferare, è riecheggiato in bocca di quasi tutti gli oratori. D'accordo tutti nel rilevare che, non per manchevolezza di uomini, ma per l'inevitabile processo di amplificazione dei compiti dello Stato e pel numero smisurato che ne deriva delle norme legislative, non si riesce a farle esaminare ed approvare dalle due Camere. Hanno svolto questo punto specialmente gli onorevoli Preti e Condorelli; e l'onorevole Clerici, rincalzato dall'onorevole Conti, ha esposto con dati statistici impressionanti la «disfunzione» legislativa che si riscontra nel Parlamento.

Si cerca il rimedio nel metodo di lavoro; e si propone che — mentre il progetto di Costituzione all'articolo 69 prevede l'istituzione eccezionale, volta per volta, di speciali commissioni per l'esame, non per l'approvazione finale, d'un disegno di legge — si adotti invece, in via permanente e regolare, il sistema della divisione d'ogni Camera in Commissioni cui sarebbe deferito in sostanza l'ordinario compito legislativo, come si faceva con la Camera dei fasci e delle corporazioni. Non basta, lo ripeto, la mala eredità del fascismo a far respingere un congegno, se è buono. Non si può ora entrare in dettagli sulle norme da stabilire sia pei casi obbligatori, in cui discussione e decisione dovrebbero riservarsi a tutta la Camera, sia per la facoltà di richiamare all'approvazione finale di questa i disegni di legge presentati dal Governo (ciò che è previsto nella legge che regola i lavori di quest'Assemblea Costituente). Tutto ciò sarà da vedere a suo tempo. Si suggerisce, intanto, di aprir la via ad opportune soluzioni, e di introdurre nella Costituzione una formula intermedia fra quella restrittiva dell'attuale progetto e l'altra troppo assoluta e rigida della sistematica abdicazione da parte dell'intera Camera nelle mani delle Commissioni. Si può, evitando correttamente di caricare troppo il testo costituzionale, rinviare al Regolamento delle Camere i casi e le forme in cui esame ed approvazione dei disegni di legge siano delegate a Commissioni anche permanenti.

Non si creda tuttavia che, col funzionamento delle Commissioni, si possa integralmente risolvere le difficoltà del sopralavoro legislativo. Non sono da escludere altre vie. Ed ecco il secondo problema: oltre a migliorare il lavoro interno, resta la possibilità della delega ad organi esterni. Con una felice formula Terracini, l'articolo 74 del progetto dice che l'esercizio della funzione legislativa può essere delegato al Governo previa determinazione di principî e criteri direttivi, e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. È stato osservato, durante l'odierna discussione, che bisognerebbe forse chiarire la possibilità di una delega più larga di poteri durante la guerra.

Vi sono ormai altre vie di delega della funzione legislativa, oltre che al Governo. Abbiamo, nel titolo sulla Regione, riconosciuto, come vera e propria facoltà costituzionale, una legislazione, diciamo così, di secondo grado, nei limiti dei principî stabiliti da leggi dello Stato, al nuovo Ente regionale. Nell'articolo, accolto in massima, pel Consiglio nazionale del lavoro, si parla di possibili deleghe e norme di valore legislativo. Siamo in cammino verso una deflazione o decentramento legislativo, che richiede avvedimento e cautele, per non intaccare la sovranità dello Stato e la sua posizione suprema nella formazione delle leggi; ma è un portato inevitabile dello sviluppo avvenuto nello Stato stesso.

Il terzo problema è dei provvedimenti d'urgenza e dei decreti-legge. Il progetto ne tace. «Voluta lacuna» dice Codacci Pisanelli; e logicamente Condorelli interpreta come negata facoltà al Governo di emettere atti di tal genere. Così si è voluto anche dalla Costituente francese. Ma no, si obbietta; col divieto (tanto più nella forma del silenzio) non si sbarrano le porte ai decreti-legge; anzi se ne determina l'arbitrio e l'abuso. Meglio, dice Crispo, porre dei limiti; e Preti parla di «esagerata fobia» dei decreti-legge.

Che fare dunque? Il Comitato dei 18 per la redazione della Costituzione inclina, sia pure senza deliberazione formale, ad ammettere in casi di assoluta necessità il decreto-legge, con le limitazioni più rigorose, ma più pratiche, che siano possibili. Come prestabilire quei casi? In via di indicazione od in via di esclusione? L'onorevole Mortati li restringerebbe alla guerra ed ai decreti-catenaccio; pel rimanente, egli dice, il Governo emanerà misure eccezionali, quando siano indispensabili; ed il Parlamento concederà, all'inglese, «bill di indennità». Si ricadrebbe così, in paesi meno educati politicamente, alle tolleranze ed alle sfrenatezze del passato. Meglio cercare di prevedere e limitare i casi della legislazione d'urgenza, e di precisare i modi di rapido intervento per la ratifica parlamentare. Al qual riguardo si potrebbe riprendere una proposta, caduta in Commissione, per una Giunta permanente mista di membri delle due Camere (o dei due Uffici riuniti di Presidenza) che si dovrebbe tempestivamente pronunciare sui divisati atti d'urgenza. Se non si accetta ciò, sarà da stabilire il termine — ad dies — in cui le Camere potranno, con gli attuali mezzi di comunicazione, essere immediatamente convocate.

Spero di avervi messo sotto gli occhi gli aspetti molteplici della fatica di Sisifo, che è ora la formazione delle leggi. Mi permetto di aggiungere che proprio qui, in questa discussione di cui si dice tanto male, vengono messi a fuoco temi che si impongono ormai al futuro ordinamento legislativo ed alla meditazione scientifica. Parlandone testé con uno dei più alti giuristi italiani, Ugo Forti, questi ne è restato impressionato, e mi ha detto che ne avrebbe fatto oggetto di una prolusione all'Ateneo napoletano. È il tema della molteplicità e della gerarchia delle norme legislative.

Non è una boutade quanto ho affermato più volte nell'Aula: che ormai fra legge e regolamenti non vi è più chiara distinzione. Un tempo le leggi le faceva solo il Parlamento, ed i regolamenti solo il Governo; e sembrava che tutto andasse a posto. Oggi la funzione legislativa si estende ad altri organi, sia pure subordinatamente; e si hanno nuove specificazioni nel campo delle leggi. È tutta una scala: sta in alto la Costituzione; potrebbero sopra un secondo scalino stare le cosiddette leggi di valore costituzionale (di cui discuteremo a suo tempo l'ammissibilità o no); segue la grande categoria delle leggi ordinarie; alle quali succedono le leggi delegate; e poi i decreti-legge; né alcune norme di regolamento, ad esempio dei cosiddetti regolamenti indipendenti, mancano di efficacia legislativa. Sarà da esaminare pur la questione dei regolamenti in generale, per cui taluno rievoca l'articolo 6 dello Statuto albertino[1]. Un novum della nostra Costituzione sarà il tipo di legge regionale, e di legge delegata ad altri organi. Non posso essere, in questo rapido excursus, scientificamente rigoroso. Non spetta al testo costituzionale definire quesiti e formulazioni di carattere dottrinale. Ma dovremo tener presente uno schema, e considerare i riflessi che si possono avere per i controlli e le recisioni di alcune delle accennate categorie di norme legislative. È della scienza il compito di elaborare tutta la materia; noi le diamo la spinta e l'impulso.

Rapidi accenni, ora, al referendum, che entra nella Costituzione democratica della Repubblica italiana. È, accanto all'elezione del Parlamento, la seconda emanazione fondamentale della volontà popolare. Espressione piena di democrazia; sua guarentigia; democrazia diretta; così è esaltato il referendum. Non sono mancate tuttavia riserve e dubbi, da parte di rappresentanti della estrema sinistra, che dovrebbero essere ideologicamente fedeli alla esplicazione integrale di sovranità del popolo, ma si preoccupano di sminuire, col sottoporla a referendum, la potestà continuativa e preminente, per non dire totalitaria, che vagheggiano nel Parlamento. Il referendum va bene, dice Preti; ma le norme del progetto bisogna semplificarle. Non facciamo del referendum, aggiunge Corbi, uno strumento ingombrante e ritardatore, facciamone un uso sobrio ed intelligente. Di Gloria ammonisce che può diventar pericoloso, per l'inesperienza politica del popolo.

Al referendum non si può rinunciare. È una delle conquiste della nostra Costituzione. Ne rivedremo, se occorrere, norme d'applicazione. Il progetto, oltre alla facoltà cui può ricorrere il Capo dello Stato nei contrasti fra le due Camere per una legge, prevede due forme di referendum: una sospensiva, quasi di temporaneo veto, per l'entrata in vigore d'una legge, appena approvata, ed un'altra di abrogazione di leggi già in vigore da due anni. La prima forma ha sollevato dubbi, anche nell'onorevole Grassi, che ha nella sua giovinezza studiato ed esaltato il referendum. Rimando agli emendamenti discussioni più minute.

Poco tempo mi rimane per parlare del Capo dello Stato; che pur meriterebbe, nella sua figura, un discorso più ampio.

La Commissione ha respinto la forma del governo presidenziale di tipo americano, dove il Capo dello Stato è il Capo del Governo, ossia di tutto il potere esecutivo. Forma che ha fatto buona prova al Nord, pessima al Sud America. E non sembra possa essere oggetto di importazione in Europa, dove si è storicamente sviluppato il sistema di Governo parlamentare o di gabinetto; e — prescindendo da ogni altra considerazione — può anche essere necessario modificarlo ed integrarlo; ma sarebbe imperdonabile imprudenza sradicarlo ed abbandonarlo, nel procedere alla ricostruzione del nuovo Stato repubblicano. Tanto più, d'altro lato, non è possibile trapiantare da noi il tipo direttoriale o di praesidium, che è in sostanza una spersonalizzazione della presidenza, e non ha da noi le condizioni ed i presupposti che lo consentono altrove.

Il Capo dello Stato non deve essere, dunque, Capo del Governo; ma ciò non esclude a priori che possa essere eletto, direttamente, dal popolo. Non ho nascosto il mio pensiero personale al riguardo. So di avere con me, per l'elezione popolare, parlamentari di primo piano, Orlando, De Gasperi, Saragat; ma siamo in definitiva esigua minoranza; e ci vorrebbe un miracolo, se questa soluzione dovesse prevalere.

L'onorevole Tosato ha detto che l'elezione presidenziale da parte del popolo non è possibile da noi, perché i partiti sono troppo divisi, e non vi è l'avvicendamento di due soli, che dà al Presidente americano, per l'esercizio dei suoi poteri, salde basi nel partito vincitore. Certamente da noi le cose sono diverse, ma è proprio la discrasia, la polverizzazione, l'oscillante incertezza dei partiti — ed il fatto che il più degli italiani son fuori partito — a rendere opportuno il ricorso all'elezione popolare, perché il Capo dello Stato abbia l'autorità ed il prestigio, nell'instabilità dei Governi e nella mutevolezza dei partiti, di rappresentare qualcosa di più solido e più alto. L'immagine del pilone caduto, da cui mi sono mosso ed è motivo ricorrente del mio discorso, induce all'elezione popolare, per sostituire, in quanto è democraticamente e repubblicanamente ammissibile, quel vecchio pilone.

La formidabile obbiezione, che prevarrà qui, è il pericolo del cesarismo, del bonapartismo, dell'hitlerismo. Consento con Tosato che questo pericolo non è legato proprio all'elezione presidenziale, anziché da parte delle Camere. Sono fenomeni di ben più ampia base; terremoti che travolgono ogni anteriore ordinamento costituzionale; ed il voto del popolo è un post, non un prius. Ma insomma lo spettro della dittatura e la possibilità che si possa aprire il varco con l'elezione del popolo, spaventano i più; né chi pur ammette dittatura di Parlamento vuol contrapporle la forza autonoma di un Capo dello Stato. Se io pensassi che il cesarismo fosse sensibilmente favorito dall'elezione di popolo non sosterrei questa, in modo alcuno. Ma penso che il pericolo non è tanto aggravato, in confronto all'elezione di Parlamento, da contrappesare i vantaggi di autorità e di consolidamento del Capo dello Stato, che vengono dalla più ampia e diretta designazione. Mi sono quindi concesso — perdonate — un pur inutile gesto.

Il progetto stabilisce, per la nomina appunto del Presidente della Repubblica, un voto qualificato delle Camere riunite in Assemblea Nazionale, con l'aggiunta di due delegati di ciascun Consiglio regionale; piccolo numero di aggregati — meno di 50 — che non peserà sulla scelta da parte dell'Assemblea; e che ha soltanto un valore simbolico; alterando — e ciò non mi piace — la linearità del metodo e dell'istituto. Si è accennato alla convenienza di collegi misti più larghi; e vi sono in altre Costituzioni. A me sembra più logico adottare l'uno o l'altro sistema — elezione dal popolo tutto o dalla sola Assemblea Nazionale — senza ibride contaminazioni.

Importante come, e più, della nomina del Presidente della Repubblica, è il contenuto e l'estensione dei suoi poteri. Il progetto elenca all'articolo 83 alcuni compiti fondamentali; ma altri ve ne sono, menzionati a loro luogo, ed hanno anche maggiore rilievo: la nomina (e revoca) del Governo; la facoltà del ricorso al referendum nei conflitti legislativi fra le due Camere; e — ultima ma più forte di tutte — la facoltà di sciogliere il Parlamento.

Per quanto concerne l'elenco dell'articolo 83, Condorelli contesta che il Presidente della Repubblica possa rappresentare l'unità dello Stato. Conosco la sua nostalgia monarchica, ma chiedo al suo ingegno giuridico e filosofico perché mai il popolo non possa affidare elettivamente (anche in secondo grado, pel tramite del Parlamento) ad una persona il diritto ed il dovere di rappresentare lo Stato.

Secondo il progetto, il Presidente della Repubblica promulga, non sanziona le leggi. L'istituto della sanzione si comprendeva meglio quando il re era considerato come il terzo ramo del Parlamento. È meno ammissibile ora; e del resto — se si crede di concedere al Capo dello Stato, nel caso di suo dissenso con le Camere sopra una legge, la facoltà di chiederne il riesame, ed eventualmente di ricorrere al referendum — facoltà che gli è riconosciuta in caso di dissenso legislativo fra le due Camere — ciò si potrebbe fare, anche attenendoci al solo compito della promulgazione.

Il Presidente, per l'articolo 83, nomina i funzionari dello Stato, non in tutti i gradi, ma in quelli indicati dalla legge: chiara espressione che vince la preoccupazione dell'onorevole Nitti, che vorrebbe limitare tale intervento ai gradi più alti.

Da parti diverse, e con non eguali intenti, Orlando, Condorelli, La Rocca non vedono di buon occhio che il Capo dello Stato abbia il comando dell'esercito, ma ciò inerisce alla sua stessa funzione; avviene in tanti altri paesi; ed è garanzia che tale funzione non spetti ad un generale, ma al grande moderatore dello Stato. Sugli altri punti dell'articolo 83 nessun contrario rilievo.

È stato osservato, fuori di qui, che in complesso il Presidente della Repubblica italiana avrebbe meno poteri che in Francia, dove può convocare e presiedere il Consiglio dei Ministri, rivolgere messaggi alle Camere e chiedere il riesame delle leggi. Non sono per mio conto favorevole al primo punto, perché le funzioni di Capo dello Stato e di Capo del Governo vanno ben distinte; mentre mi sembra che nulla vieti, anche nel silenzio della Costituzione, l'invio di messaggi al Parlamento. Abbiamo già posta la possibilità di concedere al Presidente della Repubblica una potestà sospensiva, per far riesaminare le leggi.

L'affermazione della minor ampiezza di poteri nella nostra di fronte alla Costituzione francese risulta poi definitivamente inesatta, quando si tenga conto che in Francia il Capo dello Stato non ha la facoltà di sciogliere le Camere; disposizione di tale importanza che, mi pare d'averlo accennato, induce Mortati a dire il nostro tipo di Repubblica semiparlamentare.

Il Presidente della Repubblica italiana non sarà un fantoccio, come teme Orlando, in uno degli impeti appassionati della sua superba giovinezza mentale. Codacci Pisanelli dice che ha poche funzioni, e bisogna aggiungerne altre; La Rocca che ne ha troppe, e bisogna toglierne. Nella mia relazione scritta al progetto ho, insistendo sulla figura del Capo dello Stato, cercato di metterla in luce; e non voglio ripetermi. La sua è una magistratura di persuasione, di equilibrio. Egli è il grande moderatore e regolatore dei poteri dello Stato. Il capo spirituale, più che il capo materiale, della vita comune. È un ruolo altissimo; certamente il più alto; né occorrono a ciò personalità piuttosto mediocri, come insiste l'onorevole Nitti; ed anche l'onorevole Clerici, che ha voluto citare il cardinale Bentivoglio al riguardo dei papi. No; l'esempio attuale, pel Capo della Chiesa e per quello dello Stato, smentisce l'asserto che non stiano bene a tal posto uomini di elevatissima statura e di eccezionale capacità. Le funzioni di Capo dello Stato sono diverse da quelle di Capo del Governo; e possono richiedere speciali attitudini; è opportuno che il Presidente della Repubblica sia, per temperamento e per abito, un po' al di su della mischia; ma non fantoccio; no; né come carica né come persona.

Poche parole mi restano per il Governo; che deve essere — non sono mancate pur qui voci in tal senso — un Governo forte. Non già nel senso consacrato dal fascismo di una priorità dell'esecutivo sul legislativo; che riaffiora oggi in qualche aspirazione di costituzionalisti, specialmente francesi. No; senza arrivare alla dittatura del Parlamento-tutto, la democrazia esige una prevalenza del Parlamento nel quadro di uno Stato di diritto. Ma ciò non vuol dire debolezza e precarietà di Governi; e l'esecutivo deve avere — lo riconosce almeno teoricamente anche l'onorevole Gullo — una sua autonomia. L'esecutivo deve essere fondato sulle leggi, che pongono il limite della sua attività; ma nella vita dello Stato, come in quella dei singoli, l'azione e l'iniziativa hanno il loro giuoco ed il loro campo. Un Governo, che sia ombra vana e commesso puro e semplice del Parlamento, non potrebbe dirigere e guidare, come gli spetta, la cosa pubblica.

A simili fini mira il progetto; e ferma due punti, che sono contestati. Si vuol col primo evitare la eccessiva instabilità dei Governi (la Francia ne ebbe un centinaio in cinquanta anni). Soltanto Fuschini non teme il malanno di una così estrema mutevolezza; e dice che, in fondo, non vi era coi grandi parlamentari del passato; che torneranno anch'essi; ed allora tutto andrà bene. (Purtroppo, però, Giolitti nella sua ultima prova non riuscì affatto; ciò che mostra come influisca l'ambiente). Uno sforzo di affidare anche a nuovi istituti una maggiore durevolezza di gabinetto non sembra trascurabile. Il progetto di Costituzione dà vita all'istituto della fiducia e della sfiducia da parte dell'Assemblea Nazionale. Appena formato, un Governo deve a questa chiedere la fiducia; ed ha diritto di appellarsi all'Assemblea contro il voto di sfiducia di una sola Camera.

Rubilli e Fuschini impugnano la efficacia di questo congegno; e fanno rilievi meritevoli di attenzione: come riuscirà un Governo a tenersi in sella se, pur avendo racimolato una maggioranza di stretta misura nell'Assemblea Nazionale, una delle due Camere continuerà a votargli contro ed a rendergli impossibile la vita? Per camminare — ha esclamato in una sua caustica interruzione Fabbri — bisogna avere due gambe, non una sola. L'istituto è stato difeso da Tosato, che ha riconosciuto la necessità di abiti e metodi nuovi negli atteggiamenti di fronte ai Governi. La questione è riaperta; ed anche se si dovesse abbandonare l'espediente del progetto, bisognerebbe ricorrere a qualcosa d'altro, almeno per evitar le sorprese ed i cambiamenti bruschi.

A critiche ha pur dato luogo un altro punto del progetto, che introduce la figura del Primo Ministro; né vi è da scandalizzarsi, perché è ormai cosa realizzata, di fatto, dovunque, in ogni Stato a regime parlamentare e di gabinetto; e non si è che tradotto il fatto in un articolo, del resto prudente e misurato, di Costituzione. L'onorevole La Rocca protesta; ed è arrivato persino a contestare il potere di coordinamento dell'attività dei Ministri. Senza coordinamento come potrebbe funzionare un Gabinetto? Gullo trova contraddittorio ed insostenibile quanto dice l'articolo 89 sulla responsabilità del Primo Ministro per la politica generale del Governo e per la responsabilità collegiale dei Ministri per gli atti del Consiglio. Non so vedere l'illogicità; è necessario che dell'indirizzo politico risponda più specialmente un Capo; ma se i Ministri rimangono nel Governo, e prendono insieme certe deliberazioni, è giusto che assumano anch'essi la loro responsabilità. Anziché assurda, la formulazione mi appare piuttosto felice.

Il Gabinetto deve avere chi lo dirige; se no sarebbe il caos. E — ripetiamolo ancora una volta — il Governo non può essere «il Comitato della maggioranza», come disse Kelsen, senza rendersi conto delle conseguenze che ne avrebbero tratte La Rocca ed altri. Il Governo deve avere una maggioranza; ma è l'esecutivo non di un solo partito, bensì di tutto il popolo e dello Stato.

Onorevoli colleghi che mi seguite con tanta attenzione, e forse vi ho stancati...

Voci. No, no.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.... siamo alla fine. Agli ultimi tratti di questa parte della Costituzione. Dopo che del Governo, il progetto parla dell'amministrazione, che è non staccata ma distinta dal Governo, ha problemi e funzioni proprie; e forse, a mio avviso personale, meriterebbe qualche disposizione più ampia. Abbiamo creduto di fare cosa buona, facendo nel progetto menzione degli organi ausiliari del Governo, e possono in certo senso esserlo anche del Parlamento; organi ausiliari che, senza essere strettamente costituzionali, hanno importanza tale da trovar posto nella Costituzione. Ci pareva opportuno inquadrare e dare un moderato risalto a questi «corpi», che l'hanno nella realtà, e non sempre nell'opinione.

Non abbiamo avuto fortuna. Nitti ha trovato che il Consiglio economico nazionale è una mostruosità. Gullo ha sparato a palle infuocate contro il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti.

Il Consiglio economico previsto nel progetto esiste in quasi tutti i paesi; ed in molte Costituzioni. La Costituente italiana ha inoltre votato, in via di massima, di istituire un Consiglio nazionale del lavoro, salvo coordinarlo ed unificarlo col Consiglio economico. Ne parleremo all'articolo 92; e sono convinto che in definitiva anche Nitti non farà una inutile opposizione a ciò che è richiesto dallo spirito dei tempi e dal movimento operaio.

Ringrazio Gullo di avermi messo fuori di causa, pel Consiglio di Stato, dicendo troppo cortesemente che, se io fossi eterno, non sorgerebbe il pericolo. Posso così parlare fuori del caso personale, con piena obbiettività. Conosco il valore e la coltura di Gullo; ma — poiché non posso attribuirgli il partito preso di screditare e sconvolgere, negli organi cui è affidata la regolarità amministrativa, i fondamenti dello Stato — debbo altamente meravigliarmi che, per cattiva informazione o per incomprensione, nessuna delle sue affermazioni abbia il menomo fondamento.

La sua tesi-base è che Consiglio di Stato e Corte dei Conti non sono organi costituzionali. Via dunque dalla Costituzione! Preoccupazione un po' strana per un comunista, quando Di Vittorio ha proposto il Consiglio del lavoro, ed altri comunisti volevano far entrare nel progetto tanta roba. Via da una Costituzione, dove ha avuto cittadinanza l'artigianato...

Una voce. Ed il paesaggio!

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.... sì, anche il paesaggio! Senza arrivare a queste deformazioni, ripeto: «organo costituzionale» è un concetto scientifico, che elaborerà la dottrina; noi costituenti possiamo mettere nella Costituzione ciò che ci sembra necessario ed opportuno.

L'onorevole Gullo ha detto che di Consiglio di Stato e di Corte dei Conti non si parla nella Costituzione inglese (si è dimenticato che non c'è una Costituzione inglese) né in nessuna altra. Ho qui a sua disposizione un elenco per dimostrare inesatta la sua affermazione. L'inconveniente di cui Gullo si lamenta è che, messi nella Costituzione questi istituti, non si potrà modificarli che per revisione costituzionale. Per vero, il profilo fermato nel testo è così generale ed elastico che consente svolgimenti ben larghi alla legge ordinaria. Se si volesse distruggere gli istituti e toglierne i controlli essenziali (ad esempio con un colpo di mano d'un Governo e d'una maggioranza corrotta) è bene ed è democratico che si segua la più meditata e cauta via della revisione costituzionale. Non lo dimentichi l'onorevole Gullo: questi istituti sono sorti come presidio di libertà.

Ma egli non si limita all'eccezione di extracostituzionalità; considera Consiglio di Stato e Corte dei Conti come congegni ingombranti, ritardatari, antidemocratici; il che parrebbe rispondere alla concezione comunista che il Parlamento è tutto, e non sono ammessi freni e contrappesi; lo prego però di tener presente — altra informazione che gli è mancata — come i suoi compagni francesi, per negare la seconda Camera, hanno invocato e dato rilievo ai corpi ausiliari e consultivi, fra cui questi due.

L'onorevole Gullo vede specialmente nel Consiglio di Stato un pericolo pubblico, un covo di invadenza, all'agguato per un più lauto «pranzo»; si intende di competenza; ma che brutta frase, onorevole Gullo, per servitori dello Stato, fra i più degni e più alti di grado, che con la loro paga faticano a metter insieme il pranzo e la cena! L'onorevole Gullo si vale, per le sue accuse, di un documento che fa onore al Consiglio di Stato; una relazione che Gullo, come Guardasigilli, ha chiesto alla magistratura ordinaria — quella straordinaria del Consiglio di Stato ha creduto doveroso di redigere, per un opportuno contributo alla riforma dello Stato. Due incriminazioni. La prima è che il Consiglio di Stato vuole usurpare la competenza legislativa, rubandola al Parlamento. Sapete quale è la grave colpa? Il Consiglio di Stato si è offerto di collaborare alla preparazione delle leggi. Tutti si lagnano dello scarso tecnicismo e delle improvvisazioni — non coordinate — dei disegni di legge. Nell'Inghilterra il Parlamento stesso chiede aiuti; vi è nell'aula di Westminster un banco di funzionari-legali, che danno forma e precisione alle disposizioni deliberate. Da noi la legge sul Consiglio di Stato prevede già che il Governo possa chiedere il parere del Consiglio sui disegni di legge. La relazione incriminata suggerisce che si esamini l'opportunità di ciò che del resto è avvenuto già di fatto — anche recentemente — quando Governi, di cui faceva parte l'onorevole Gullo, han chiesto al Consiglio di Stato di predisporre qualche disegno di legge. Che delitto è che, invece dell'opera di un burocrate di Ministero, si affidi in dati casi tale compito ad un Corpo di più larga ed esperta competenza di tecnica legislativa! Badate bene; il Consiglio di Stato ha sottolineato che il Governo deve essere pienamente libero di dargli o no siffatti incarichi. Si è permesso soltanto — quale delitto! — di rilevare che, come è già obbligatorio sentire il parere del Consiglio sui regolamenti, lo sia anche per i decreti legislativi ed i decreti-legge; l'estensione potrà essere o no accettata, ma è evidentemente rivolta a tutelare le libertà ed i diritti dei cittadini.

Secondo titolo di accusa; nel dannato documento il Consiglio di Stato... denuncia la Corte dei Conti e vuole, per certi compiti, sostituirsi ad essa. Quanta fantasia ha l'onorevole Gullo! Il Consiglio di Stato nel brano incriminato osserva che il controllo di legittimità che spetta alla Corte dei conti sugli atti amministrativi non può, attraverso l'eccesso di potere, esercitarsi sul merito dei provvedimenti; se no si avrebbe un'efficacia rallentatrice. Tutto qui; l'onorevole Gullo non ha capito che il rilievo difende appunto l'attività del Governo, ed in tal senso si rivolge... contro lo stesso Consiglio di Stato.

Il quale — altra accusa di Gullo — non vuole assorbire le funzioni della futura Corte di garanzie costituzionali: tant'è che nella relazione ne invoca la istituzione! Ma basta ormai con rilievi così insostenibili! Una cosa soltanto voglio ricordare a Gullo, che la formulazione che non gli piace: «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di giustizia nell'amministrazione» è bellissima, e risale allo Spaventa; ed ebbe l'adesione entusiasta dell'estrema sinistra, perché tendeva ad arginare abusi di parte opposta; perché era rivendicazione e difesa delle minoranze e dei diritti dei cittadini. Se la giustizia nell'amministrazione debba implicare una competenza giurisdizionale del Consiglio di Stato, è tesi cui hanno aderito nella Commissione i comunisti; ed è accolta nel progetto; ne parleremo a suo luogo. Qui voglio dichiarare — ed interpreto il senso della Costituzione — che sono necessari i controlli, per assicurare la legalità e la convenienza degli atti dell'Amministrazione; che tale compito non può essere esercitato dal Parlamento, quando non basta neppure a legiferare; né può essere affidato ad un organo in mano del Governo, senza garanzie di autonomia ed indipendenza, che deve avere il Consiglio di Stato. L'onorevole Terracini accennò nella Commissione che i suoi membri potrebbero essere nominati dal Parlamento. No; perché l'autonomia ed indipendenza devono esservi anche di fronte al parlamentarismo; ma fu proposto che alla scelta dei consiglieri di Stato dovessero assentire gli Uffici di Presidenza delle due Camere. Si va incontro a giuste esigenze. Si resisterà, con tutte le forze del nuovo Stato repubblicano, alle tendenze che volessero, con lo scardinare i congegni amministrativi, aprire la via al disordine ed allo sfacelo.

Ho finito. Mettiamoci ora tutti, di buona volontà, a discutere in dettaglio e concretare gli articoli di questi tre Titoli del progetto. Non vi nascondo anch'io un senso di tristezza pel modo in cui si sono riaperti i nostri lavori, proprio su quella parte che tutti chiamano la «vera» Costituzione. Si è passato da un eccesso all'altro; da una pioggia di minuti dibattiti e di interventi copiosi da parte dei costituenti a segni di assenteismo e disinteresse nell'Aula, nei partiti, nella stampa, nell'opinione. Le cose probabilmente muteranno quando si presenterà, sugli emendamenti, qualche aspetto gladiatorio e pettegolo di contrasto fra partiti. Intanto anche questi non si sono svegliati, e non hanno dato formulazioni precise alle loro tendenze. Il Comitato fa appello alla responsabilità dei capi Gruppo, di tutti i membri dell'Assemblea, dei rappresentanti della stampa. Ciò che importa è che si ravvivi nel Paese la coscienza dell'importanza che ha la formazione d'una Carta costituzionale: più importanza d'una scaramuccia personale e di una tattica di crisi. Occorre un interesse non superficiale, ma serio e profondo; come vi è stato in Francia, durante i lavori di quella Costituente. Mi auguro che il disinteresse attuale, da noi, sia dovuto ad un'eclissi temporanea, dopo il fascismo, e non ad una più radicale mancanza di educazione politica.

Noi dobbiamo ancora far molto; la mia stessa esposizione vi avrà dato l'impressione del numero e della gravità dei problemi che ci resta da risolvere; ho voluto inquadrarli nel loro insieme, perché possano essere affrontati più rapidamente; e — se vorremo — potremo perfettamente concludere in tempo, entro l'anno, i nostri lavori.

Capiterà, più ancora della prima parte, che si verificheranno in questa incroci ed incontri svariati e talvolta impensati fra partiti. Io invoco, una volta ancora, la concordia sostanziale al di sopra dei necessari dissensi. Gullo ha parlato di «compromessi deteriori», come se i suoi ne fossero sempre privi. Ripeto una volta ancora che il compromesso è indispensabile e «sacro», lo ha dichiarato un puro, Gandhi; perché fare vuol dire adattarsi; ed è lo spirito totalitario, non il liberale che nega il compromesso. Se non volete usare la parola «compromesso», ricorrete a quella che mi suggerisce l'amico Perassi; e viene da Cattaneo, il quale diceva che ogni legge è una «transazione» fra interessi ed idee diversi. Dobbiamo salvare le idealità essenziali ed irriducibili, che sono in ciascuno di noi la ragione stessa del nostro pensiero e la nostra dignità di vita; ma ciò è possibile — e l'ho detto più volte — quando si verifichi un incontro fra le posizioni fondamentali dello spirito, che muovono le varie correnti e partiti. La Costituzione, e con essa la Repubblica, sarà poi una cosa salda se fra gli «immortali principî» dei vecchi democratici, i diritti sacri e naturali dei cristiani, le rivendicazioni dei partiti di lavoro, si riscontrerà la coincidenza di alcune idealità trascendenti e comuni; che non elimineranno le lotte; consentiranno la convivenza e la collaborazione. Un critico ha scritto che nella nostra Costituzione si sentono echi del «Credo» e della «Marsigliese»; non vi è un abisso fra il «Sermone della montagna» e la «Dichiarazione dei diritti dell'uomo», ed io vorrei, se il critico lo consente, aggiungere anche un'eco del «Canto dei lavoratori», perché neppure il «Manifesto dei comunisti» contrasta con le altre due altissime manifestazioni. È bensì necessario che non sia un centone, ma una sintesi, la transazione di Cattaneo che scende alle comuni fondamenta del pensiero e della azione.

La nostra Costituzione non pretende di esprimere la sintesi nuova; è tutt'altro che perfetta; è piena di difetti; anch'io ne ho rilevati e non sono sempre riuscito dove desideravo. Ma sarebbe ora di smettere l'abitudine italiana di dir male di noi stessi; di gridare, ciascuno di noi, che questa Costituzione è un orrore. Di Costituzioni belle al mondo non ce ne sono molte; l'inglese non è scritta; l'americana e la svizzera non sono imitabili da noi, la nuova francese (quella del 1875 non era una Costituzione, ma un coacervo di cinque leggi) è notevole; ma non è un capolavoro; non è dopo tutto superiore a questa che stiamo fabbricando. Mentre noi diciamo male di noi stessi, si alzano voci di studiosi stranieri che considerano con maggior attenzione il nostro lavoro; e trovano che, malgrado le sue pecche, è una cosa seria, non indegna del popolo italiano. Ho avuto molte amarezze, ma — lo ripeto ancora — sarei lieto di chiudere la mia vita politica dirigendo i lavori della Costituzione italiana. (Vivissimi, generali applausi Moltissime congratulazioni).

Presidenza del Presidente Terracini

Presidente Terracini. Dichiaro chiusa la discussione generale sopra i primi tre Titoli della seconda parte del progetto di Costituzione, e rinvio ad altra seduta la votazione degli ordini del giorno e l'esame degli articoli.


 

[1] L'articolo 6 dello Statuto Albertino è il seguente: « Il Re nomina a tutte le cariche dello Stato; e fa i decreti e regolamenti necessarii per l'esecuzione delle leggi, senza sospenderne l'osservanza, o dispensarne».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti