[Il 18 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Presidente Targetti. Essendo stati illustrati i vari ordini del giorno, ha facoltà di parlare uno dei Relatori, l'onorevole Mortati.

Mortati, Relatore. Parlo come correlatore della Commissione dei Settantacinque sul titolo dedicato al Parlamento, allo scopo di formulare alcune osservazioni sui rilievi che sono stati mossi qui, in sede di discussione generale, a questa parte del progetto, e per accennare io stesso ad alcune critiche, naturalmente uniformandomi allo spirito del progetto, al quale ho dato la mia opera e la mia approvazione.

[...]

Quanto al decentramento legislativo attuato con delegazione del potere legiferante in senso formale al Governo, di cui si occupa l'articolo 74, non sono state sollevate critiche. Mi pare che esso possa soddisfare, soprattutto per l'inserzione che è stata fatta della predeterminazione dei criteri direttivi da parte della Camera, diretta a temperare l'arbitrio del Governo nello svolgimento della attività delegata.

C'è stata una proposta dell'onorevole Crispo di sopprimere l'ultimo comma dell'articolo 74, relativo all'estensione a questi decreti legislativi delle norme riguardanti il referendum, ed il controllo di costituzionalità delle leggi. Ma mi pare che le considerazioni poste a sostegno della proposta non siano soddisfacenti, né persuasive.

Per quanto riguarda il referendum, mi pare che non vi sia ragione di impedire quegli interventi popolari stabiliti per le leggi formali; non mi pare che l'intervento del popolo debba essere precluso per il fatto che non vi sia stata richiesta del medesimo sulla legge di delegazione, in quanto può darsi benissimo che la legge di delegazione non incontri ostacolo da parte del popolo, o dei gruppi che potrebbero promuovere la richiesta del referendum, e che invece il suo svolgimento dia luogo ad una richiesta del genere.

In ogni caso, rimarrebbe sempre in piedi l'ipotesi del referendum abrogativo, e non si capisce perché si possa chiedere l'abrogazione di una legge e non invece quella di un decreto legislativo emesso dal Governo.

[...]

Un breve cenno devo fare, per finire, sul referendum, che è stato oggetto delle critiche di un collega di parte comunista, l'onorevole Corbi.

Vorrei osservare che queste critiche comuniste all'istituto del referendum peccano di contraddittorietà, in vario senso. Anzitutto sono contraddittorie con l'affermazione, ripetutamente fatta dai colleghi di parte comunista, a proposito della seconda Camera, che i partiti esauriscono tutta la realtà politica, perché la riflettono fedelmente. Pare strano che, se il partito rappresenta e rispecchia fedelmente nel Parlamento la realtà politica, si consideri poi come contrastante con l'attività legislativa parlamentare l'appello al popolo. Tale appello dovrebbe confermare l'operato dei partiti, se è vero che v'è questa corrispondenza perfetta. Ma a me pare che vi sia una contraddizione ancora più grave rispetto al principio della sovranità popolare quale è inteso dai comunisti, e che trova la sua piena realizzazione nella legge del numero, nel dogma della metà più uno. Se c'è un istituto che realizzi al massimo questo principio, è precisamente il referendum, che corregge a tal riguardo l'istituto della rappresentanza proporzionale, in quanto si attua attraverso la maggioranza; cioè con l'adozione del principio maggioritario.

Se il referendum assume come sua base lo stretto principio maggioritario, nel quale si ritiene realizzarsi nel modo più pieno la sovranità popolare, si dovrebbe considerarlo come l'istituto più democratico, e non invece incontrare l'opposizione da chi sia partito da quelle premesse.

Si è osservato — ed è una vecchia accusa — che il referendum rompe l'unità dell'azione governativa, crea una frattura, una discontinuità, introduce degli elementi che potrebbero non armonizzare con la politica generale del Governo. E questa affermazione potrebbe trovare conferma anche positiva, ad esempio, nella Svizzera, patria di origine e campo sperimentale del referendum, che offre frequenti esempi di disegni di legge presentati d'accordo da tutti i partiti, che poi incontrano l'opposizione popolare espressa nel referendum. Vi sarebbe, quindi, la constatazione di questo fenomeno della mancata saldatura tra popolo e rappresentanza parlamentare, e della disarmonia conseguente nello svolgimento di una data politica da parte degli organi costituzionali.

Ma io ritengo che è proprio la constatazione di questo fenomeno che giustifica l'istituto del referendum. È però ovvio che questo deve essere considerato differentemente, a seconda che si attua in un sistema parlamentare puro o in un sistema parlamentare che, in virtù dell'istituto dello scioglimento della Camera, si richiama ad elementi di democrazia diretta, perché lo scioglimento importa il deferimento all'arbitrato popolare di determinate controversie o questioni costituzionali. Il referendum è precisamente sulla stessa linea, risponde alle stesse esigenze e tende alla stessa finalità dello scioglimento: e quindi un regime che ammette questo, non può considerare ad esso ripugnante il referendum, che invece in certo modo lo completa.

Ritornando a quanto dicevo, osservo che precisamente la constatazione di uno scarto fra partiti e opinione pubblica viene a giustificare ancora di più l'adozione di questo istituto, perché questo contrasto fra rappresentanti e rappresentati può significare o una deficienza dei primi o una deficienza dei secondi. O sono i primi che interpretano male la volontà popolare e i bisogni reali del popolo, e allora è giusto che la loro attività sia arrestata dal popolo; o è il popolo che è scarsamente educato, e allora è ai partiti che si deve imputare tale situazione, ed il rimedio non può essere quello di escludere il popolo, bensì di eccitare il suo spirito politico, la sua sensibilità ai problemi politici, la sua capacità di intendere gli interessi generali, il che è compito specifico dei partiti, che non possono rigettare i mezzi per facilitare il raggiungimento di tali fini.

Proprio a ciò giova la politicizzazione degli interessi nei quali il popolo vive la sua vita di ogni giorno; ed è anche col servirsi delle varie associazioni spontanee e col loro inserirle nella vita politica che si può agevolare la sensibilità popolare alla voce degli interessi collettivi.

Il referendum è in sostanza una garanzia di libertà, in quanto può preservare da riforme non sentite o affrettate, ma non può certamente pregiudicare l'adozione di quelle che rispondano alla coscienza collettiva. Perché dovrebbe impedire in Italia le riforme sociali, l'attuazione per esempio della riforma agraria, come diceva ieri l'onorevole Corbi? Affermazioni di questo genere non si capiscono perché, o queste riforme incontrano l'opposizione delle masse, e allora giustamente dovrebbero essere impedite, o sono aderenti a bisogni sentiti dalla maggioranza, e allora il referendum non può agire sul loro esplicarsi.

In pratica, la stessa difficoltà di attuazione del referendum in un organismo così complesso come è un grande Stato moderno, si pone come un ostacolo di fatto al suo impiego frequente. C'è una remora precisamente nella difficoltà di mettere in moto una macchina così complicata. La importanza del referendum sta, dunque, più nell'azione potenziale che può esercitare col frenare le tentazioni di intemperanza dei partiti al potere, col renderli più meditativi circa la convenienza delle riforme proposte in confronto ai bisogni del popolo, che non nel suo impiego effettivo.

Non sono esatte, poi, le critiche dell'onorevole Corbi e la visione catastrofica che ha affacciato, secondo cui un'intera legislatura potrebbe essere arrestata nella sua azione. L'onorevole Corbi ha dimenticato quelle disposizioni del progetto di Costituzione per cui la dichiarazione d'urgenza da parte del Parlamento vale ad impedire l'adozione del referendum. Effettivamente, basta dichiarare urgente una legge, anche senza la maggioranza dei due terzi, perché l'adozione del referendum sia impedita e quindi la legge possa avere il suo corso normale.

Per concludere, vorrei fare poi qualche osservazione sul modo come il referendum è stato congegnato. Vorrei osservare che le critiche che sono state fatte all'iniziativa popolare non sono persuasive. Si è detto che 50 mila elettori (tanti sono quelli che dovrebbero promuovere l'iniziativa legislativa) potrebbero facilmente trovare almeno un deputato che faccia propria la proposta. Ma io osservo che il valore politico dell'iniziativa di un solo deputato è infinitamente minore di quello rivestito dall'iniziativa di 50 mila cittadini. Quindi, mi pare che, sotto questo aspetto, sia opportuno conservare questo istituto.

[...]

Più gravi incertezze sono sollevate dal referendum sospensivo, cioè dalla facoltà data al popolo di chiedere la sospensione dell'entrata in vigore di una legge, in attesa del referendum. I dubbi, come dicevo, sembrano giustificati non tanto dall'osservazione che ciò ritarda l'entrata in vigore della legge, ma dal fatto che la ritarda per l'intervento di un numero esiguo di cittadini. Tale ritardo, però, specie poi quando si tenga presente il correttivo dell'urgenza di cui ho parlato, non è una cosa straordinaria. Noi abbiamo esempi analoghi in altre legislazioni. Per esempio la Costituzione di Weimar ammetteva la possibilità che un terzo, cioè una minoranza dei membri del Reichstag, chiedesse ed ottenesse la sospensione per due mesi dell'entrata in vigore di una legge. È una garanzia accordata alle minoranze, che può non ritenersi inopportuna.

Ma l'obiezione più grave da fare a questo istituto è quello dell'incertezza che potrebbe ingenerare nel diritto, incertezza che deriva dalla necessità di procedere a più pubblicazioni perché la legge deve essere pubblicata nel momento dell'approvazione delle due Camere. Poi interviene il periodo di sospensione in attesa che si possa promuovere la procedura di referendum; e poi bisognerebbe naturalmente fare una seconda pubblicazione quando la legge fosse definitivamente approvata. Ora questa molteplicità di pubblicazioni potrebbe ingenerare dubbi da parte dei cittadini, e sotto questo aspetto a me pare che si dovrebbe riflettere anche sopra la norma in parola. Forse si potrebbe rinunciare a tale specie di referendum, ma solo a patto di modificare l'ultimo comma di questo articolo 74 che, nel consentire l'abrogazione della legge con referendum, pone la condizione che essa sia in vigore da almeno due anni. Se sopprimessimo questo termine di due anni, cioè se il referendum potesse chiedersi ed attuarsi subito dopo l'entrata in vigore della legge, allora la conservazione dell'istituto del referendum sospensivo potrebbe apparire meno rilevante.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti