[L'11 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Clerici. [...] Il progetto di Costituzione, onorevoli colleghi, propone, per la nomina del Capo dello Stato, l'elezione da parte dell'Assemblea formata dalle due Camere, con l'aggiunta di due rappresentanti per ciascuna Regione. Ma sarà certamente oggetto di discussione la proposta, già avanzata nelle diverse Sottocommissioni, che la nomina sia invece affidata al popolo, sia attraverso il voto diretto — tipo Costituzione di Weimar — sia attraverso il voto indiretto, di cui rimane prototipo la Costituzione degli Stati Uniti d'America, seguita dalle Costituzioni di quasi tutti gli Stati di quel continente.

Ritengo che nonostante molte ragioni stiano a favore della tesi dell'elezione popolare, sia preferibile la soluzione che è stata adottata a maggioranza dalla Commissione dei Settantacinque, ancorché non posso nascondere (la Camera lo vede da sé) che questo istituto non è in sostanza che la copia, quasi pedissequa, del disposto della Costituzione francese del 1875, riprodotto anche nell'attuale Costituzione repubblicana francese. Strano fatto, perché, come tutti sanno, la Costituzione francese del 1875 fu concepita e redatta da monarchici e con lo scopo di preparare, attraverso una Costituzione ambigua, il ritorno della monarchia, che allora non si era potuto effettuare, non già perché l'Assemblea nazionale a Bordeaux, a Versailles ed a Parigi non avesse una maggioranza monarchica e conservatrice, ma perché le frazioni monarchiche non riuscirono mai ad accordarsi per i contrasti fra i principi, fra l'ultimo rappresentante dei Borboni ed i principi della casa d'Orleans o almeno tra gli entourages dell'uno e degli altri. Una maggioranza di quasi quattro quinti monarchica, preparò allora, come è noto, quasi per disperazione una Costituzione repubblicana, vergognosa quasi di esserlo, tanto che la repubblica fu votata con un solo voto di maggioranza, e proprio per preparare il ritorno ad una monarchia di carattere costituzionale sul tipo di quella di Luigi Filippo o di quell'inglese; e tutto era predisposto perché si potesse sostituire nella Carta la parola re a quella di presidente. Eppure, strano a dirsi, quello Statuto non solo ha funzionato egregiamente per oltre mezzo secolo, ma è diventato il prototipo anche di quelli di altre nazioni; prima del 1914 fu imitato soltanto dal Portogallo; ma dopo il 1919 fu imitato da diversi Stati come la Turchia, la Grecia, e ora è imitato da noi.

È certo una Costituzione irrazionale, perché fu il frutto di un trucco; però in se stessa mi sembra efficiente se questa Costituente, come già la Commissione dei Settantacinque, resterà dell'avviso che la nuova Repubblica italiana dev'essere una Repubblica di carattere parlamentare. Perché, onorevoli colleghi, bisogna che noi stabiliamo chiaramente il baricentro di quello che sarà il nuovo Stato repubblicano italiano. Ogni regime ha il suo centro di equilibrio. Nella monarchia cosiddetta legittima, tutti sanno che un principio, quanto mai equivoco, era quello della legittimità, perché si faceva intervenire Dio, mentre in realtà si ratificava il fatto compiuto, e si gabellava per cristiana una dottrina ben diversa da quella genuina della Chiesa, circa l'origine e la natura del potere.

Nella Repubblica nostra il baricentro sarà, come avviene in tutti i regimi parlamentari, siano repubbliche o monarchie (naturalmente monarchie che abbiano, come in Inghilterra, in Belgio, in Olanda, nei paesi nordici, il carattere di repubbliche coronate) invece il Parlamento, dal quale deriva ogni potere politico; sì la sovranità è nel popolo, ma l'esercizio della sovranità è nel Parlamento.

Avendo noi ammesso questo principio come principio fondamentale, io penso, del nuovo Stato italiano, non credo che, per quanto suggestivo, l'esempio degli Stati Uniti d'America possa avere valore per noi. Perché? Perché il sistema degli Stati Uniti d'America ha un'origine storica e specifica ed ha soprattutto come postulato un popolo sostanzialmente democratico; un popolo rispetto al quale sarebbe assurda qualsiasi forma di cesarismo. Invece in Europa le elezioni popolari del Capo dello Stato hanno costantemente significato, se la storia ha un valore, un fenomeno tipico di cesarismo: la reazione e la protesta, cioè, contro le Assemblee e l'elezione di un uomo, al quale gettarsi in braccio. Non occorre che ricordi come lo stesso Cesare fu il rappresentante della più spinta democrazia di Roma, e il nemico del Senato, non meno del suo predecessore sfortunato, Catilina, del quale in gioventù egli stesso era stato un seguace. Basti pensare ai giorni nostri, all'epoca moderna: Napoleone I è stato, attraverso le sue diverse elezioni, sempre più accentratore di poteri fino a diventare imperatore della Repubblica francese, e fu inteso come il contrasto della democrazia che aveva, d'altronde, deviato, durante la rivoluzione francese, straripando nell'epoca del Terrore.

E gli storici recenti più avveduti, basta ricordare il Madelin, ci hanno dimostrato che tale dittatura era indipendente dalla persona, malgrado il genio di Napoleone; e che ad essa, si sarebbe arrivati ugualmente anche se non ci fosse stato Napoleone.

Tutto era maturo, perché i ceti e le condizioni sociali francesi chiedevano un Cesare, un imperatore, un dittatore. In sua vece la sorte sarebbe toccata ad Hoche, se non fosse morto così giovine, o a Moreau il rivale sfortunato. Ed uguale è stato poi per il molto minore nepote, Luigi Napoleone nel 1850 e nel 1852; nel 1850 quale Principe Presidente; nel 1852 quale imperatore a sua volta. Se non fosse stato lui, sarebbe stato Cadillac.

Dunque un Presidente eletto dal popolo ha sempre in se stesso, in Europa (e Weimar ce l'ha confermato), il pericolo di un cesarismo, che negli Stati Uniti d'America non sarebbe concepibile, sarebbe fuori clima. Ho letto di recente in un giornale per la penna di uno scrittore brillante queste osservazioni: che ben diversi saranno in futuro i risultati delle elezioni presidenziali da noi se di persone elette dal popolo o elette dall'Assemblea. Certamente noi, per fortuna, non abbiamo un De Gaulle, non abbiamo più un D'Annunzio, né, guardandomi in giro, vedo nessuno ora che possa assumere ruoli simili; però vi è sempre il pericolo, attraverso l'elezione popolare, del successo di una persona, e dell'abuso poi che questa persona possa fare di uno straordinario potere contro quella che è la legittima, permanente, democratica rappresentanza della Repubblica popolare.

Ricordo, poi, una acuta osservazione, che non è del Tocqueville, che fu il più grande studioso della prima metà del secolo scorso degli Stati Uniti d'America, ma di quello che è il maggior conoscitore di essi ai nostri giorni, James Bryce, una acutissima osservazione circa l'elezione del Presidente degli Stati Uniti d'America. Quei coloni, ribellatisi alla madre Patria, nient'altro ebbero in mente di fare che sostituire la carica e le funzioni del Viceré, cioè dare alle Colonie un capo con gli stessi poteri che aveva già il Viceré inglese; il quale Viceré conservava oltre Oceano, nelle colonie poteri assai maggiori di quelli che erano in quei tempi rimasti al Re stesso in patria. Perché proprio in quei decenni la monarchia a Londra era divenuta parlamentare.

Tutti sanno la curiosa storia della monarchia parlamentare inglese, cioè di quel regime di Gabinetto nel quale ogni potere sovrano è assunto di fatto da esso e dal suo Presidente. Fu un caso; è il caso che molte volte interviene nella storia: i due primi re della Casa Hannoveriana, Giorgio I e Giorgio II, si disinteressarono delle sedute di Gabinetto, non presiedettero più il Consiglio dei Ministri, non per altro, perché erano due tedeschi che non conoscevano l'inglese, e preferirono evitare quelle noie per più piacevoli occupazioni. Così fu conquistato il principio di un Governo ministeriale autonomo ed indipendente dal re. Ma nelle colonie il Viceré, invece, continuava ad avere tutta quella autorità che aveva avuto il re precedentemente in Inghilterra sino a mezzo secolo prima. E il Presidente negli Stati Uniti ebbe così un potere veramente sovrano. Ma noi non potremmo assolutamente concepire un Presidente della nostra repubblica che avesse quei straordinari poteri, che ha il Presidente degli Stati Uniti d'America.

Certo il potere del Presidente degli Stati Uniti è ben superiore al potere che aveva un Guglielmo I o un Francesco Giuseppe, quasi pari a quello di un Nicolò di Russia. È un potere enorme, che ha come presupposto uno hiatus incolmabile tra Parlamento e Governo. Il Presidente governa lui direttamente e personalmente, nomina, lui, col consenso del Senato, i suoi Ministri, ma li revoca senza il consenso del Senato; risponde non davanti al Parlamento, ma soltanto davanti al popolo, che l'ha eletto. Le Camere hanno funzioni strettamente legislative, dalle quali sono tenuti lontani e Presidente e Ministri.

Ora, tutto questo è in contrasto con quello che è il regime costituzionale parlamentare, che si vuole instaurare in Italia, e al quale si è richiamato testé il collega onorevole Preti.

[...]

Ora in Isvizzera si è abolito, in certo senso, l'istituto del Capo dello Stato, o, per dir più esattamente, di un Capo dello Stato distinto e diverso dal capo del Governo. Né si è mai sentito, dal 1848 ad oggi, il bisogno di un istituto considerato superato e superfluo. Ed io credo che tale sarà il regime delle future repubbliche. Questa in ogni modo è una preferenza, è una opinione mia personale; e considero il problema ancora immaturo. Quello che deve però evitarsi si è di dare un rilievo eccessivo al Presidente della Repubblica, ed evitare velleità possibili sempre di governi personali. Fu detto che se eletto dall'Assemblea, non si vedranno nella Presidenza della Repubblica spiccate personalità; ed è poco probabile che saranno eletti all'alta carica sia leaders dei vari partiti, sia uomini di eccezionale valore e di eccezionale autorità personale. Ciò avverrà di sicuro nella Repubblica italiana come accadde costantemente in quella francese.

Infatti è noto che non poterono mai accedere alla suprema magistratura francese né Leone Gambetta, né Jules Ferry, che pur furono i fondatori della Repubblica così detta laica, come abbiamo visto nei nostri giorni a Clemenceau, l'indomani della vittoria, anteposto Deschanel, uomo già finito, uomo che era già all'alba della pazzia (qualche mese dopo si sarebbe arrampicato sugli alberi dell'Eliseo, sarebbe caduto in pigiama dal treno e si sarebbe presentato così a un capo stazione arrischiando di finire al manicomio o in prigione); e poi a Briand, reduce dei successi di Locarno, anteporre Doumergue. Una Assemblea ha sempre diffidenza verso le troppo grandi personalità, e d'istinto si rivolge a personalità meno vistose, meno combattive.

È avvenuto persino così — se passiamo ad un altro sistema di elezione ben diverso, ma che ha qualche analogia con quello parlamentare — nelle elezioni dei Papi. Se leggete — ed è una lettura molto interessante — le ampie, minuziose descrizioni dei conclavi dal XV al XVIII secolo fatte da Pastor, vedrete che in quelle elezioni, che duravano talvolta molti mesi e non un giorno solo come quelle di Versailles, mai o quasi mai è scelta la spiccata personalità, ma quello che rappresenta la tendenza media. Il Cardinale Bentivoglio (che ha onorevole posto nella storia della Chiesa come in quella delle lettere italiane, che è l'autore della Storia della guerra di Fiandra, a cui assistette come Nunzio, e di quella del Concilio di Trento in contrasto con quella di Paolo Sarpi) dice nelle sue Memorie — così interessanti — che i cardinali si distinguono in tre categorie: santi, politici e — la categoria era per quei tempi non pei nostri — in mondani; e guai se il Papa viene eletto dalla terza categoria; ma guai anche se è scelto dalla prima, perché è utile che appartenga alla mediana.

Questa è la caratteristica dei regimi, di tutti i regimi nei quali una assemblea qualificata ed eletta scelga un capo; questa sarà la caratteristica del nostro Capo dello Stato: esso deve rispondere alla media dei suoi elettori. Noi vedremo nell'avvenire probabilmente qualche difficoltà; avremo, come ha avuto la Francia, qualche Presidente che dopo l'esperienza, breve o lunga del potere, dice: «Ma valeva la spesa di esser nominato Presidente?». Il quinto presidente francese, Casimiro Perier, rinunciò alla Presidenza, dopo un anno e protestando in una lettera al paese contro una situazione che faceva che il Presidente non contasse di fatto niente. Avremo dei casi come quelli di Grevy e di Millerand, ai quali — contro la Costituzione — le maggioranze hanno imposto le dimissioni, come già erano state imposte a Mac Mahon. Avremo forse anche dei casi come quello di Lebrun, fattosi eleggere una seconda volta, per fare poi, al momento della prova, una figura così meschina. Avremo questi ed altri inconvenienti. Ma tutto sommato, sarà sempre meglio di un regime con il Capo di Stato di troppa autorità. Sì signori; io ritengo un regime di un Capo dello Stato con troppa autorità un pericolo per il Paese. Così penso anche che i re troppo grandi furono un danno pei loro popoli; alla Francia giovò assai più che un Luigi XIV, che un Enrico IV, che un Francesco I, la saggezza di un Luigi XVIII. Guai ai popoli guidati dal superuomo, dall'eroe! Né mi preoccupo se il nostro Presidente della Repubblica potrà essere scherzosamente indicato come una specie di Regina Madre, che inaugura ponti ed esposizioni, e che distribuisce premi agli scolari, perché resterà sempre un uomo saggio, moderatore, anche di secondo piano rispetto al Capo del Governo. E il Governo deve essere l'emanazione, il mandatario, e come dice il principio inglese, il comitato esecutivo delle Camere, del Parlamento.

Ritengo perciò che su questo primo punto sia saggio quanto è stato proposto dalla Commissione dei Settantacinque.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti