[L'11 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Romano. [...] Vengo all'emendamento all'articolo 94.

Ho detto di sostituire il primo comma con le parole: «La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo italiano».

Nel progetto si è detto solamente «popolo». Quando lessi questa parola «popolo» mi domandai: ma chi è questo popolo? Indubbiamente sono tutti gli italiani. E poiché noi attraversiamo un periodo in cui fetecisticamente si adopera questa parola per indicare determinati gruppi o frazioni, ho pensato all'opportunità di un appellativo che mettesse chiaramente in evidenza che la giustizia sarà amministrata in nome di tutto il popolo italiano.

[...]

Salerno. [...] Una grande affermazione è contenuta nella nostra Costituzione: «La funzione giurisdizionale è espressione della sovranità della Repubblica ed è esercitata in nome del popolo».

È un'affermazione alla quale bisogna dare tutto il peso e la significazione che merita se si vuole che questa Costituzione non sia solamente una raccolta di formule esteriori, ma abbia veramente un contenuto di schiettezza e di socialità. È un'affermazione importante perché fissa il potere, ma fissa anche la fonte del potere: attribuisce alla funzione giurisdizionale tutta l'autorità necessaria, ma pone un limite, che è la condizione della nascita e della vita di questo potere.

Sovranità, e sovranità che deriva dal popolo!

Noi usciamo da un periodo di tirannide, in cui il potere esecutivo e tutto il meccanismo dispotico che gli era sorto intorno si era mostruosamente ingigantito a danno degli altri poteri, compreso naturalmente quello della giustizia. È necessario che si formuli questa alta affermazione di riscatto e di prestigio della giustizia. Proclamare in uno Stato ispirato alla legalità che il potere giudiziario è espressione della sovranità popolare, significa applicare un principio di schietta democrazia, che cioè tutti i cittadini sono uguali dinanzi al giudice e il giudice è uguale per tutti. Non basta affermare che la norma astratta è uguale per tutti. Il giudice deve essere sicuramente uguale per tutti.

La sovranità della giustizia però deve essere intesa nei suoi giusti termini per evitare due pericoli a cui si potrebbe andare incontro: che cioè questa sovranità sia soltanto una espressione verbale e, per così dire, una finzione, e per evitare il pericolo opposto: che questa sovranità straripi nell'arbitrio e diventi la negazione della funzione altissima che al potere giudiziario è commessa.

Si vuole insomma che il giudice sia sovrano sì, ma che la sua sia una sovranità effettiva e concreta, senza manti laceri né corone di cartone, ma anche senza eccessi ed arbitrii che metterebbero la sua volontà in stridente contrasto con la volontà sociale. E per me questo è il problema fondamentale: creare un potere giudiziario sovrano che sia la fedele espressione della volontà collettiva.

[...]

In quanto alla dipendenza, nella Costituzione è detto che il giudice dipende dalla legge e dalla coscienza, ma io vorrei dire che non basta. Occorre una terza dimensione, cioè egli deve dipendere anche dalla coscienza, dallo spirito della legge, deve essere pervaso da quel soffio animatore che è nella legge.

Non parliamo di una coscienza popolare che non sia consacrata nella norma. Non ne parliamo. Era una preoccupazione dell'onorevole Dominedò, ma è una preoccupazione che mi pare non abbia ragion d'essere, prima di tutto perché una coscienza popolare non consacrata nella legge, in un regime democratico, non può esistere. Questa specie di dualismo, di contrasto tra il precetto e la volontà popolare può verificarsi in periodo di tirannide, quando la coscienza popolare non giunge ad esplicarsi nella legge, ma non è concepibile in periodo di libertà. In secondo luogo, se una coscienza popolare non è consacrata nella legge, evidentemente non si tratta della legge che deve essere applicata. Quando noi parliamo di coscienza popolare, parliamo di quella coscienza che è nella legge e che l'accompagna, perché, onorevoli colleghi, si dice (e l'hanno scritto i relatori autorevolissimi di questo Titolo) che la legge, nell'atto della sua formazione, esaurisce il processo politico che le sta alla base, ma io dubito della esattezza integrale di questa massima.

È proprio vero che tutta la politica venga esaurita? Non è forse anche vero che vi è sempre qualcosa che non riesce ad inserirsi nella legge, non riesce a prendere espressione concreta e che tuttavia esiste ed accompagna la legge come un'ombra, come una vibrazione, come una invisibile riserva copiosa, alla quale il giudice attinge forse con maggiore fortuna di quel che non faccia attingendo alla legge medesima nella sua articolazione letterale, appunto perché essa, definita e quasi conclusa in determinati cancelli, spesso finisce per essere arida ed insufficiente?

Quando si dice che esiste lo spirito della legge, si parla di qualche cosa che non deve essere considerata come un formalismo o una convenzionale figura retorica che si tramanda da secoli, ma come alcunché di reale e vivente. Ora, è questo lo spirito che lega il popolo alla giustizia ed alla Magistratura. È questo lo spirito che lega il potere legislativo al potere giudiziario; ed è con questo spirito che la legge viene interpretata secondo la coscienza, secondo la civiltà di un periodo storico presso una determinata società.

Io ho sentito qui i più aurei discorsi pronunciati dai luminari della scienza. Il tecnicismo ha raggiunto i vertici della elaborazione. Come dicevo in principio, temo però che si sia lasciato nell'ombra quell'altro lato del problema, che è il lato umano, e che bisogna inserire nella norma costituzionale. Quando poco fa sentivo dire che il giudice applica la legge, e che questa applicazione della legge si esaurisce nel processo dialettico e tecnico-giuridico, io pensavo che in tutto questo non solo vi è un vizio di ragionamento, ma forse tutta una inclinazione del nostro tempo a dimenticare quanto di umanità era negli antichi maestri del diritto, da Francesco Carrara ad Emanuele Carnevale.

E vorrei dire che questo è anche un po' il vizio di una tendenza scientifica, per cui Emanuele Carnevale, che fu uno degli ultimi veri umanisti del diritto penale, temeva che la nuova scuola sorgente in Italia potesse disumanare il diritto penale, come potrebbe disumanare il diritto ogni giudice che prescindesse dal contenuto umano che esso racchiude.

Ora, qual è la funzione del giudice? Qual è la sua funzione al di fuori di ogni tecnicismo, al di fuori di ogni formulazione scientifica, prescindendo da tutti gli schemi e le nomenclature, qual è questa funzione del giudice? Che cosa fa il giudice, in fondo? Non si passa d'un tratto dalla legge alla vita. Fra la legge e la sua applicazione c'è un intervallo, c'è uno jatus, che bisogna riempire, c'è un quid che bisogna trovare: questa è la funzione del giudice, vale a dire adeguare, avvicinare, livellare la norma astratta al caso concreto, la norma generale al caso specifico. E tutto questo secondo la legge e secondo la coscienza del giudice, ma anche e soprattutto secondo la coscienza sociale. Si è detto tanto volte ed autorevolmente: il giudice è la legge vivente. Un antico filosofo affermava che le leggi peggiori possono diventare sopportabili quando i giudici sono buoni e che viceversa le leggi buone possono diventare pessime quando i giudici sono cattivi. Che cosa significa questo? Qual è la ragione di queste alternative e quali sono gli strumenti di cui si deve servire il giudice per trasformare la legge astratta in una legge vicina alla vita ed all'uomo? Qual è la fonte alla quale potrà attingere? Essa non può essere che la ricerca dell'umanità e del fondo sociale di cui è permeata la legge stessa. La legge per essere giusta, deve essere aderente alla umanità ed allo spirito sociale. Questo contatto e questa continuità fra la vita sociale e la vita giurisdizionale, lungi dall'indebolire la sovranità del giudice, la rafforza e la contiene nei limiti solamente accettabili, vale a dire i limiti di una sovranità costituzionale.

In tutto questo può entrare un atteggiamento politico? Potrei dire di sì, e se è assurdo parlare di una politica giudiziaria, nel senso di un orientamento sistematico della giustizia nella sua esplicazione, è altresì indubitabile che un coefficiente politico entra in quasi tutte le attribuzioni e le esplicazioni dell'attività della giustizia. Oggi la vita moderna ci va insegnando questo: che le controversie demandate al potere giurisdizionale sono sempre più tali da richiedere una larga conoscenza dei bisogni umani. La politica, quindi, è uno di quei fattori che non possono essere nella vita collettiva allontanati e respinti, perché è un po' come l'aria che circonda l'essere umano; politica però della legge, che accompagna la legge stessa, non la politica del giudice, per cui quel termine «coscienza», che si legge nel progetto e che si deve interpretare come criterio di rettitudine e di zelo, va integrato e completato col concetto di coscienza sociale che accompagna la norma; altrimenti, a lasciar arbitra la coscienza subiettiva del giudice, si potrebbe andare incontro a dolorose sorprese ed assistere alle più aperte storpiature della legge, nell'ottimistica presunzione di compiere un sacro dovere.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti