[L'11 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Monticelli. [...] Si rendono necessari dei ritocchi, degli emendamenti, delle modifiche essenziali, per raggiungere questo obiettivo. Quale è questo obiettivo, onorevoli colleghi? Anzitutto, l'unicità della giurisdizione, costante affermazione dei più eminenti giuristi italiani da Mancini a Mortara, e in secondo luogo l'autorità degli organi del potere giudiziario. Occorre anzitutto che il cittadino sia garantito, attraverso la Costituzione, contro la permanenza o la creazione di giudici speciali che sottraggono il suo caso quasi sempre alla competenza degli organi dello stesso potere giudiziario. Ed è per questo che io, contrario ai giudici straordinari o a quelli speciali, che sono sempre alle dipendenze del potere esecutivo, ovvero sono composti con quel deprecabile sistema misto che non ha fatto mai buona prova, ho proposto la soppressione del terzo comma dell'articolo 95, non ritenendo che sia il caso di istituire i giudici speciali neppure in materia civile. Ed ho altresì proposto la soppressione dell'articolo 96 sull'istituto della giuria nei processi di Corte di assise, che stamane è stato esaminato con tanta competenza da altri valorosi colleghi, perché ritengo che questo problema sia più opportuno rimandarlo alla legge e non farne oggetto di un articolo speciale della Costituzione.

Ma questa unicità della Magistratura non si raggiunge solo con la soppressione dei giudici straordinari o dei giudici speciali che, non appartenendo all'autorità giudiziaria, non saranno mai forniti di quelle garanzie di indipendenza e di competenza che noi riteniamo necessarie, ma affidando al potere giudiziario la funzione giurisdizionale come regola generale. Ed è per questo che io ho proposto di aggiungere l'avverbio «esclusivamente» al primo comma dell'articolo 95.

La funzione giurisdizionale deve essere esercitata esclusivamente dai magistrati ordinari. Vi possono essere delle eccezioni, ma le uniche eccezioni possibili sono quelle per gli organi del Consiglio di Stato e per i tribunali amministrativi regionali, di cui all'articolo 122, secondo comma, di cui ci siamo spesso dimenticati, perché il Consiglio di Stato non esercita soltanto un controllo di legittimità, ma anche, in grado di appello, giudica sulle sentenze della Giunta provinciale amministrativa. Altra eccezione può essere ancora la Corte dei conti in materia di contabilità e pensioni, ed ancora i tribunali militari per i reati militari, stabilendo però per ciascun organo la sfera di specifica competenza. Non mi nascondo la grande difficoltà della distinzione, che ha travagliato dottrina e giurisprudenza, tra diritti ed interessi, o la conseguente incertezza circa il giudice competente, così come non mi nascondo — e ho avuto occasione di esprimere questi miei timori allo stesso Presidente della Commissione, onorevole Ruini — che, parlando di interessi legittimi devoluti alla giurisdizione del Consiglio di Stato, non risulta ben chiara la posizione di quei rapporti d'impiego, che debbono essere decisi o dalla Magistratura ordinaria o dal Consiglio di Stato. Penso però che non dovrebbe essere difficile, una volta affermata la distinzione fra interessi legittimi e diritti, di trovare anche un modus vivendi, una formula cioè la quale, mantenendo la differenza tra la giurisdizione sugli interessi legittimi dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, e quella dei diritti devoluti invece alla cognizione della Magistratura ordinaria, possa comprendere, nella competenza esclusiva del Consiglio di Stato, anche i rapporti di pubblico impiego.

[...]

Romano. [...] Unità del potere giudiziario e giudici speciali. — Altro concetto al quale ho ispirato i miei emendamenti è l'unità del potere giudiziario, che è garanzia di giustizia.

Questa unità del potere giudiziario dovrebbe stare a cuore a tutti, perché tutte le volte che un Governo vuol far prevalere la politica alla giustizia, specie quando trova resistenza nella coscienza giuridica e nella rettitudine del magistrato ordinario, ricorre alla creazione di nuovi organi giudiziari, sottraendo così la cognizione di determinati rapporti ai giudici naturali.

Intanto questo frazionamento è rimasto sanzionato nella Carta costituzionale e si è dimenticato che ogni frazionamento significa polverizzazione dell'ordinamento giudiziario.

La lotta per evitare il frazionamento è antica, perché già nell'articolo 71 dello Statuto[i] si era astrattamente affermato il principio dell'unità del potere giudiziario; ma fin da allora le classi dirigenti, che miravano a dominare il Paese, iniziarono una lotta e si coalizzarono per violare questo articolo 71. Infatti la legge sul contenzioso amministrativo del 20 marzo 1865, allegato E, nacque contemplando delle eccezioni.

[...]

Così si realizzerebbe l'unità del potere giudiziario: affermando il principio dell'unità del potere giudiziario, bisognerebbe eliminare per sempre il giudice speciale, perché nella coscienza giuridica del Paese è fermo il convincimento che la creazione di giudici speciali straordinari o eccezionali è contraria ad ogni più elementare concetto di libertà e di giustizia. Noi non abbiamo più bisogno di leggi speciali. Ogni legge speciale riabilita il fascismo. Le leggi speciali sono pericolose, esse sono tipici istituti degli stati totalitari e quando afferma di volere combattere questa o quella corrente con leggi speciali, senza accorgersene l'antifascismo crea il fascismo. Con la paura non si governa, ed un Governo veramente democratico non può pretendere una opinione popolare unanime; l'unanimità è un caso molto raro, mentre l'indecisione è un caso molto frequente nella volontà collettiva.

[...]

Giuria. — Argomento questo già molto mietuto. Io però vorrei impostare la questione sotto questo riflesso. Che cos'è una Carta costituzionale? È una legge che guarda il futuro, e presuppone una vitalità ed una stabilità; ora, la Giuria, regolata da leggi speciali, non ha trovato stabilità nelle leggi ordinarie. Perché la si vuol inserire proprio nella Carta costituzionale, quando gli stessi ideatori della giuria finirono per pentirsene? Basta leggere una pagina del Pisanelli. I difetti della Giuria sono molteplici: a) incapacità dei giurati; b) parzialità di giurati; c) grande indulgenza per i reati passionali; d) eccessivo rigore per i reati contro la proprietà. Si sono lamentati frequentemente assoluzioni scandalose, che ci hanno discreditato anche all'estero, pene inadeguate alla gravità dei reati; inique sproporzioni tra le pene inflitte per casi identici, affermazioni di responsabilità in processi indiziari che hanno lasciato perplessa la pubblica opinione.

Tutto questo mi fa ricordare le parole del professore Roncati, illustre psichiatra, il quale in una sua monografia «Il processo penale» ebbe a dire che con l'istituto della Giuria la scienza istruisce il processo, la scienza lo discute e l'ignorante lo giudica.

Questo amaro giudizio dato anni or sono è ancora oggi di attualità. Il fascismo cercò di rimediare. Perché non si deve riconoscerlo? Si è detto che si peggiorò. Non è vero. Con l'assessorato non si peggiorò affatto. Il fascismo incorporò la Giuria e la confuse col magistrato togato, di modo che il collegio giudicante risultò formato da un certo numero di giudici popolari e di due giudici togati.

Questo collegio misto ebbe il compito di pronunziare la sentenza, senza che vi fosse più il verdetto separato dei giudici popolari. Caduto il verdetto, che limitava il compito del magistrato togato all'applicazione della pena o all'assoluzione, l'oratoria dovette acconciarsi alla nuova situazione. Si arrivò una buona volta alla sentenza con la motivazione in modo che l'imputato potesse sapere il perché della condanna, si evitarono tante altre incongruenze; ma non bastò, e prova ne è il famoso caso Mulas per il quale Gennaro Marciano combatté la sua ultima e nobile battaglia. Fu allora che si sentì il bisogno di arrivare sollecitamente ad una riforma; e si arrivò alla nomina di una Commissione da parte del Ministro Tupini. Vi furono allora due tendenze diverse. Una mirava ad attribuire i reati di competenza della Corte di assise ai giudici togati. Si voleva cioè creare l'Alta Corte criminale sul genere di quella che esisteva a Napoli e che dette buona prova.

Ma questa presentava l'inconveniente di abolire proprio per i reati gravi il rimedio dell'appello.

A questo inconveniente si voleva ovviare investendo la Suprema Corte oltre che del sindacato di diritto anche del sindacato sul fatto; ma si snaturava l'istituto della Corte di cassazione.

Altri avrebbero voluto attribuire i reati di competenza della Corte di assise in prima istanza ai tribunali ed in seconda istanza alla Corte di appello.

Questo sistema avrebbe offerto tre garanzie:

a) unità di competenza per tutti i reati gravi;

b) garanzia del doppio grado di giurisdizione;

c) capacità funzionale tecnica, che è indubbiamente maggiore nel giudice togato.

La realizzazione di questi tre principî nell'ordinamento giuridico dello Stato avrebbe delle conseguenze di indiscutibile pregio e garantirebbe in modo certo ed equo la volontà della legge.

Intanto è prevalsa la corrente in favore della giuria, come si evince dal decreto del maggio 1946 e dall'articolo 96 del progetto di Costituzione.

Io personalmente sono contrario alla Giuria; e questo mio modesto parere trova conforto nel pensiero di sommi giuristi.

Al congresso internazionale di diritto penale tenutosi a Palermo nel 1935 partecipò fra altri, Raffaele Garofalo, vanto della Magistratura e della cattedra.

Il Garofalo allora non esitò ad affermare pubblicamente che quello che si era veduto in Italia durante 50-60 anni del sistema della Giuria non era che un seguito di ingiustizie. Nello stesso congresso si dichiarò contrario all'istituto della Giuria il Presidente della Seconda Sezione penale della Suprema Corte, Ugo Aloisi dicendo che non bisognava far decidere con un responso di giustizia enigmatica e che la motivazione dei pronunziati del giudice doveva rimanere la base di garanzia per la retta amministrazione della giustizia.

Mi piace anche ricordare il pensiero di Enrico Altavilla: «dire che affidare l'amministrazione della giustizia al giudice popolare è un trionfo democratico, significa pronunziare una bella frase fuori di ogni realtà, che non giustifica la paradossale situazione. I delitti più gravi debbono essere giudicati da giudici incompetenti e debbono essere sottratti ad un controllo del giudice di appello». Onorevoli colleghi, l'amministrazione della giustizia è una cosa seria.

Nell'evoluzione del diritto penale si è consolidato la necessità della specializzazione del giudice penale, la opportunità dell'approfondimento della cultura nelle scienze psichiatriche e psicologiche.

Con questo indirizzo del pensiero moderno contrasta il ritenere di poter chiamare a giudicare dei reati gravi persone fornite di scarsissima cultura.

Dai sostenitori della giuria si dice che quando si debbono infliggere pene molto gravi è opportuno che la colpevolezza dell'imputato sia riconosciuta non solo dai giudici togati, ma anche dai giudici laici.

Si vuole insomma che la sentenza sia l'espressione non solo della scienza giuridica, ma anche della coscienza popolare.

Bisogna invece, tener presente che l'amministrazione della giustizia è qualcosa di così squisitamente tecnico che non può obbedire al concetto, che dicesi democratico, di attribuire a qualsiasi persona la risoluzione di problemi che decidono di tutta la vita di un uomo. Si dice che anche un buon lavoratore può decidere una causa che non richiede particolari conoscenze tecniche; questo significa affermare una verità parziale, giacché chiunque ha esperienza di cose giudiziarie, sa che ogni giorno sorgono presso le Corti di assise questioni, le cui situazioni di diritto sono così interamente legate a quelle di fatto, che soltanto i tecnici possono risolvere tali problemi.

Dire se un omicidio fu commesso con premeditazione, se vi fu eccesso di difesa, se questo fu doloso o colposo, se ed in quale misura il giudicabile è imputabile, se concorre la circostanza della continuazione, se l'imputato sia un delinquente per tendenza, tutte queste questioni non possono essere risolte dal giudice laico.

Lo studio del delinquente, l'esigenza di profonde indagini sui motivi del delitto, sulla personalità fisiopsichica del reo, sulla sua personalità sociale, tutto lascia pensare al pericolo del giudice laico.

Il giudice laico anche se preparato, il che costituirebbe rara eccezione, non dà mai affidamento di serenità.

In proposito desidero ricordare che sul giornale l'Avanti! del 1° dicembre 1946, Achille Corona dedicava un articolo al processo che doveva in quei giorni svolgersi innanzi alla Corte di assise di Bari per l'omicidio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno commesso nel 1921 ad opera di squadristi fascisti.

Nell'articolo si osservava che il Collegio giudicante era formato in modo da dar luogo ai più legittimi sospetti per il partito, cui si riteneva che appartenessero gli assessori.

L'articolo concludeva con queste parole:

«la giustizia deve essere amministrata in modo che tutti gli italiani abbiano fiducia nel suo verdetto».

Questa proposizione merita di essere sottolineata per il suo significato e per il suo valore, che trascende il caso speciale, riaffermando il principio basato su una inderogabile necessità, cioè l'imparzialità del giudice in ogni attività giudiziaria, sia essa penale, civile o amministrativa.

[...]

Salerno. [...] Si dice che tutte le funzioni giurisdizionali debbono essere conferite al magistrato; ma intanto l'ordinamento statale è ricco di funzioni giurisdizionali esercitate da organi che non hanno che vedere con la Magistratura. Ora, questo bisogna in qualunque modo evitarlo, perché defrauda i magistrati della loro sovranità e della loro indipendenza.

[...]

Non m'indugio su altri problemi, e mi soffermo su qualcuno che più mi sta a cuore, come quello, per esempio, della Corte d'assise. Su di essa vi è una specie di dichiarazione di ostilità, se non proprio universale, certamente della grande maggioranza dell'Assemblea. Però vi è una minoranza favorevole, e in questa minoranza mi sento contento di trovarmi. Per la verità, non mi pare che il problema sia impostato con esattezza. In sostanza, l'opposizione all'istituzione delle Corti d'assise è questa: il problema ha carattere solamente procedurale, la Corte d'assise è solamente una questione di competenza, non è un problema politico. Non mi pare che questa sia la maniera di impostare il problema, perché la politica può entrare dovunque; anche qualche cosa che apparentemente ha un suo significato, ne può assumere uno politico. Viviamo in un'epoca profondamente politica. Ma ciò è accaduto anche in altri tempi, quando l'essere sbarbati o non sbarbati poteva costituire un'espressione politica; il fumare o non fumare, perfino questo aveva un significato politico. Quindi, il problema politico non è vero che non ci sia. Il problema politico c'è in questo precetto contenuto nella Costituzione, e d'altra parte la questione delle Corti d'assise è sorta storicamente proprio come una questione politica.

In Francia è sorta come una questione politica, quando è crollata tutta la struttura regia dello Stato ed è venuto il popolo a determinare, a custodire i nuovi ordinamenti. Si è voluto, in senso reattivo, dare al popolo la possibilità di esercitare direttamente la giustizia, e si sono create le Corti d'assise. Ma anche in Italia — e cerchiamo di non fare passi indietro almeno in questo — la Corte d'assise è sorta nel Piemonte, nel 1848, per giudicare i reati di stampa. Anche qui la significazione politica era ovvia, era patente.

Usciamo da un periodo di tirannide, usciamo da quei periodi, cioè, nei quali tutto ciò che ha significazione ed espressione popolare viene combattuto e compresso. Si impone anche qui un problema politico; tanto è vero che lo si è portato alla Costituente. In fondo, che cosa si vuol dire con questo precetto? Si vuol presentare un dilemma: può il popolo, al quale — si dice nel primo articolo della Costituzione — appartiene la sovranità; può il popolo, in nome del quale si esercita la giurisdizione (art. 94) rivendicare il diritto di esercitare direttamente questa funzione e di esercitarla come detentore, come depositario della funzione stessa?

Si dice da qualcuno, come ha detto l'onorevole Villabruna, che non occorre creare le Corti d'assise, perché c'è già nella Costituzione il principio, secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata in nome del popolo.

Quindi tutti contenti. Ma se invece di affermarlo soltanto, lo si potesse tradurre in qualcosa di concreto, credo che il precetto avrebbe la sua reale applicazione. Si è detto da qualch'altro — come l'onorevole Crispo — che la partecipazione del popolo alle Corti di assise rappresenta la partecipazione di una massa indifferenziata, e che le Corti d'assise sono uno scannatoio, o lo sono state.

Ascoltando ciò mi veniva fatto di rilevare come molte volte noi ci rendiamo portatori di principî astratti con piena convinzione, con piena lealtà, ma poi, al momento in cui dobbiamo trasportare il principio nel campo dell'esecuzione, cioè dobbiamo passare alla realizzazione, incontriamo dei diaframmi. E quanti diaframmi in questa Costituzione!

Molte cose si dicono, ma quando si deve creare un istituto che renda attivo il principio e lo faccia incidere sulla vita sociale, quanti timori e quanti tentennamenti!

Si è parlato della sovranità popolare, ma poi si dice che è bene che il popolo non partecipi all'amministrazione della giustizia; si è parlato della sovranità e della indipendenza della giustizia, e si mantengono i tribunali militari; si è parlato di tante altre cose, per esempio della parità dei diritti delle donne, ma poi non si vuole che le donne giudichino. Quanti contrasti! Del resto l'uomo agisce non come pensa, ma come sente, e nel sentimento si annidano spesso dei pregiudizi. Comunque, al quesito politico riflettente il diritto del popolo a rivendicare la funzione di giudice, nessuno risponde di no, nessuno nega al popolo il diritto di amministrare la giustizia, ma si afferma che il popolo non è capace di farlo. Quando si sono istituite le Corti d'assise in Francia c'era più conseguenza. Si disse: il cittadino deve essere il padrone vero, il depositario di tutta la vita sociale. Ebbene il cittadino è anche lui che dispone, che amministra giustizia: il cittadino vota, il cittadino giudica ed ha diritto di essere partecipe delle attività principali dello Stato.

Ma si dice: la giuria popolare non è capace, perché non è tecnica. Si è fatta in questa Aula l'esaltazione del tecnicismo. Ora se tutto ciò che è tecnico rappresenta un perfezionamento della funzione, il tecnicismo, anche nel campo della giustizia, sia il benvenuto.

Ma il fatto è questo: che qui si tratta di un tecnicismo sui generis, composto per lo meno di due capitoli, uno di tecnica strettamente giuridica, e l'altro di tecnica umana. Io ricordo quando, molti anni or sono, nel 1928, dirigevo con altri giovani a Napoli un giornale giudiziario, nel quale speravamo di trovare un palladio e un rifugio di idealità. Anche allora si dibatteva questo problema, e credemmo di aprire un referendum sulle Corti d'assise, sul magistrato togato, sullo scabinato, e interpellammo i più illustri maestri dell'epoca e, primo fra tutti, Enrico Ferri, che ci rispose con la sua caratteristica scrittura dicendoci una cosa, che potrebbe definirsi di carattere sensazionale ed incisivo. Disse: se mi si guasta l'orologio, io lo porto dall'orologiaio. Perché mai, quando si tratta di giustizia, non debbo andare dai tecnici della giustizia?

La cosa può anche sembrare soddisfacente e davvero conclusiva. Modestamente credo di no, perché non ci troviamo qui in presenza del comune orologio, ma per lo meno di un orologio, nei cui confronti ognuno sente di essere un po' orologiaio, perché non si tratta solamente del problema della giustizia intesa come applicazione della norma tecnica, guardata con freddezza, come si può guardare al microscopio un qualsiasi corpo per poterlo studiare fin nelle più intime latebre. Qui ci troviamo di fronte ad un fatto giuridico, che nella sua intima essenza è un fatto umano, e qual è la giustizia che non sente il contenuto di umanità nel fatto che deve giudicare? Ecco perché tutti sono un po' orologiai. (Interruzioni). Lo so, questo mio ragionamento non può non suscitare, non solo il disappunto, ma la ribellione dei molti illustri tecnici-giuristi che sono in quest'Aula, ma è d'uopo che ogni tecnico della giustizia possa dire la sua parola, perché qui non si tratta di fare la ruota di un carro che possa interessare solamente una ristretta categoria di persone. Ecco la necessità di mantenere il contatto fra la vita sociale e la vita giudiziaria.

Ora, se è vero che vi è sempre una dose di umanità, che anche il giudice togato deve possedere, io non comprendo perché mai non debbano attribuirsi alla competenza dei giurati quei reati il cui giudizio poggia prevalentemente sul criterio della umanità. È un errore certo il credere che tutti i reati, che secondo la procedura penale sono di competenza della Corte d'assise, debbano senz'altro essere giudicati dai giurati.

Qui siamo in tema di Costituzione, e noi vogliamo solamente che questo principio, del diritto del popolo a pronunciarsi su alcuni fatti della vita, e quindi dell'attività sociale, sia espressamente proclamato, e non facciamo in questo momento nessuna distinzione. Certo, parlare della competenza della Corte d'assise sotto il profilo quantitativo della pena è uno sproposito.

Noi diciamo che, poiché la giustizia ha per lo meno due volti, uno tecnico e uno umano, vi sono casi in cui l'umanità prevale, o per lo meno, è più imperante, onde può affermarsi il principio costituzionale, che d'altra parte è un principio politico, secondo cui il popolo in alcuni casi può esercitare direttamente la giustizia. Quindi il concetto della capacità è un concetto che non mi soddisfa, perché circoscrive la questione della competenza della giuria a determinati reati, a quelli che comportano una determinata penalità, mentre la competenza deve essere qualitativa.

E quando si parla di giuria, non si faccia la questione del titolo di studio, perché o si deve credere ad una funzione umana, la quale può essere esercitata senza titolo di studio, oppure si deve trasportare tutto sul terreno del tecnicismo.

I difetti delle giurie sono stati lamentati, e giustamente. Però non esageriamo. Io potrei fare una ultima osservazione, ed è questa: hanno sbagliato le giurie? Hanno sbagliato; ma quante volte hanno sbagliato i magistrati togati! Tutto l'ordinamento giudiziario poggia sull'errore, poggia sulla possibilità costante dell'errore, perché il secondo grado di giurisdizione ha per presupposto l'errore. Ora, tutto questo...

Leone Giovanni. Non c'è il secondo grado di giurisdizione con la giuria. (Interruzioni).

Salerno. Ha ragione, ma salendo salendo non si sa dove si arriva. Non facciamo, una specie di barriera di questo argomento della possibilità dell'errore in seno alla giustizia popolare, errore che invece sarebbe eliminato ed evitato dal magistrato togato. La verità è che sbagliano tutti e due, ma per alcuni determinati reati, per i quali vale più la coscienza popolare che l'intelligenza, sovente chiusa in campane di vetro, si presta meno all'errore il giudizio popolare. Noi sappiamo che, a parte gli errori, si sono avute le così dette sentenze suicide, ed uno dei più grandi ed insigni giuristi nostri è morto combattendo contro una di queste sentenze. Eppure quella sentenza suicida l'aveva scritta un magistrato togato. (Interruzioni del deputato Priolo). E poi vi è un'altra cosa che non potete negare: si forma nel giudice una deformazione professionale, in virtù della quale, anche vedendo bene, ma sempre in un certo senso, si finisce col vedere solo in quel senso e a non avere quella elasticità che è nella vita e deve essere nella funzione.

Io non faccio una filippica contro i magistrati; Iddio mi guardi! Dico solo che il popolo può anche giudicare in alcuni reati direttamente, perché tutti quei grossi pericoli, che sono stati avvisati, non esistono o esistono anche in seno alla giustizia togata.

Siles. Cosa c'entra con la Costituzione?

Salerno. Ne avete parlato tutti. E finisco. Un'ultima parola, un ultimo argomento: le donne (Si ride). Probabilmente sorrideremo un po' tutti di simpatia verso le donne.

Ebbene, anche qui, quanti contrasti fra i principî e la loro applicazione! Si dice: la donna non può essere giudice, perché non ha l'intelligenza dell'uomo, non ha la sensibilità dell'uomo, non ha la commozione dell'uomo. Ho sentito parlare di gradi e qualità di commozioni, della commozione superficiale delle donne e della commozione profonda degli uomini. Ma io, rivedendo quello che si è detto nel passato, ho dovuto constatare che questi sono proprio gli stessi argomenti che si usavano cinquant'anni addietro, quando non si volevano fare entrare le donne nelle scuole, quando non si voleva che le donne entrassero nei pubblici uffici, quando non si voleva che le donne entrassero nella vita pubblica. Gli stessi argomenti di allora ritornano, perché la verità è questa: che con tutta la celebrazione della giornata della donna fatta mesi or sono proprio in questa Aula (la ricordiamo tutti), e malgrado le varie apologie di occasione: la donna questo, la donna quest'altro, quando si può sbarrare il passo alle donne, lo si fa volentieri, perché noi abbiamo ancora molti pregiudizi. La donna non ha commozione, la donna non è capace... sono argomenti già superati. La donna è entrata nella scuola, ha insegnato, è medico, è tecnico, e non può non essere anche giudice, sia pure tenendo conto della sua particolare natura, per cui è soprattutto madre, e quindi capace di sentire l'anima del fanciullo.

Le donne devono tacere — disse l'onorevole Bettiol — ripetendo le parole di S. Paolo: «tacciano le donne in chiesa». Ma tuttavia le donne hanno parlato in tutti i campi, e parlano anche dai posti più alti della vita politica non italiana, ma internazionale. Quanti Stati sono stati retti (Commenti) e lo sono tuttora con molta saggezza dalle donne!

E allora chiudiamo questo argomento, dicendo che la donna, che è la prima a parlare all'essere che nasce, può anche parlare in quella più ampia famiglia umana che è la società.

Ed io concludo dicendo che le donne hanno questo diritto, non fosse altro perché esse fanno parte integrante di questa nostra umanità ed hanno diritto di pronunciarsi in questa, che è materia giuridica, ma che è anche materia sociale, onde la giustizia più sarà vicina agli uomini, più sarà conforme alle esigenze della vita: giustizia degli uomini, fatta per gli uomini! (Applausi Congratulazioni).


 

[i] Il testo dell'articolo 71 dello Statuto albertino è il seguente: «Niuno può essere distolto dai suoi Giudici naturali. Non potranno perciò essere creati Tribunali o Commissioni straordinarie».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti