[Il 7 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Dominedò. [...] Il primo punto corrisponde al testo dell'articolo 97 del progetto e riguarda la configurazione dell'organo supremo che sta a capo del potere giurisdizionale, il Consiglio Superiore della Magistratura. Colleghi della Costituente, noi ci troviamo dinanzi a questa situazione, secondo lo schema di progetto elaborato dalla Commissione dei Settantacinque: dopo una serie di discussioni intorno a questo delicato punto, ha prevalso il concetto per cui l'organo preposto al vertice del potere giurisdizionale — il detto Consiglio Superiore della Magistratura — dovrebbe promanare ad un tempo dall'ordine giudiziario e dalle Camere legislative, rappresentate da quell'Assemblea nazionale che non a torto abbiamo a suo tempo condannato. Duplice afflusso, in parti uguali, da parte dei rappresentanti del potere legislativo e da parte dei rappresentanti del potere giurisdizionale; e, come coronamento la presidenza dell'organo affidata allo stesso Capo dello Stato.

Entro certi limiti, sarei anche disposto ad inchinarmi all'esigenza che può aver ispirato questa concezione e non avrei difficoltà a riconoscere che, almeno negli intendimenti, vi possa essere stata la volontà di perseguire così una democratica costituzione. Si è forse pensato che in questo modo si potesse istituire una forma superiore di sindacato nei confronti del potere giurisdizionale; si è forse pensato che il suo funzionamento non dovesse restare autonomo e quasi avulso rispetto ad una possibilità di controllo da parte dell'organo che rappresenta direttamente la volontà popolare, cioè del legislativo.

Ma se anche in questo modo si fosse ritenuto di far salva un'esigenza democratica, io mi permetto di domandare se sia questo il sistema più rispondente al fine, dopo le considerazioni fin qui svolte sulla struttura, sull'essenza della funzione giurisdizionale e per ciò stesso sul concetto ispiratore della nostra Carta costituzionale, destinata a creare il giudice libero nella legge ed il potere giurisdizionale indipendente nell'ordinamento costituzionale. E credo di poter affermare che, per un duplice ordine di considerazioni, la via prescelta dal progetto non sembra la più idonea a fronteggiare l'esigenza, che può aver determinato i proponenti nel senso contemplato dall'articolo 97.

Anzitutto, da un punto di vista generale, vorrei dire che il principio della divisione dei poteri, che non intendo qui invocare in un senso meccanico o dottrinale, già starebbe, almeno nel suo significato più schietto, contro una contaminazione così aperta nel funzionamento dei diversi poteri dello Stato. Ma, prescindendo da ogni arido schematismo nella critica della norma ed andando alla sostanza delle cose, io osservo che, se è vero che il giudice è investito della sua potestà solo a seguito di un insieme di garanzie, e cioè di un sistema complesso ed organico, costituzionalmente previsto, in forza del quale esclusivamente egli diventa titolare della jurisdictio, del suo potere di dire il diritto, se questo è, come è, noi siamo già dinanzi a una decisiva garanzia d'ordine costituzionale, eccedente gli stessi schemi di Montesquieu. In questo senso: che oggi il giudice in tanto potrà esercitare quelle funzioni in quanto esse gli siano conferite secondo un moderno e perfezionato quadro costituzionale, con le garanzie quivi volute, concepite e formulate, tutte snodantisi secondo quanto rappresenta il frutto di una dichiarazione di volontà la quale, in ultima analisi, è dovuta alla stessa volontà popolare.

Se oggi costituzionalmente il giudice può dire il diritto in forza del complesso delle più adeguate garanzie che a ciò l'abilitano, ecco una prima risposta di ordine sostanziale, e non solamente formale, rispetto all'esigenza di ricollegare anche il potere giurisdizionale alla volontà popolare. Il vero controllo sulla giurisdizione è questo: che il giudice risulta investito dei suoi naturali poteri ed è conseguentemente impegnato alla propria elevazione morale e tecnica, in perfetta armonia con la volontà popolare che trova l'espressione ultima nella Carta costituzionale.

Ma vi è dell'altro. Se per assurda ipotesi ciò non dovesse essere, noi cadremmo in contraddizione, venendo meno a quella stessa esigenza che ponevamo all'inizio come criterio ispiratore di tutta la materia. In questo senso: che potremmo menomare quella superiore necessità per cui, nel momento in cui si deve applicare la legge, la politica cessa di essere la protagonista e la parola passa al diritto. Nel momento stesso in cui deve funzionare il potere giurisdizionale, importa porre il giudice in condizione di essere effettivamente libero, se vogliamo ancora parlare di certezza del diritto, ricordando nuovamente Tocqueville che definiva l'arbitrario nella giustizia come il volto stesso della barbarie, e invocando l'evoluzione dei paesi a più alta tradizione democratica, dall'Inghilterra agli Stati Uniti, i quali attraverso i poteri del Lord Advocate e la competenza della Suprema Corte hanno rispettivamente contemplato una partecipazione del giudiziario al legislativo, non mai una interferenza del legislativo nel giudiziario.

Ecco dunque la necessità di voltare pagina quando si passi a dire il diritto. Da allora noi pensiamo che la politica non debba più operare nel senso stretto del termine, senza volerci con ciò sottrarre ad una sana politicità del giudice, nello stesso modo in cui poco fa accentuavamo il senso di socialità della funzione giurisdizionale e in genere la sua aderenza alla voce dei tempi. Ma la politica in senso effettivo, diretta ed immediata, cioè l'efficacia determinante del gioco delle varie forze di parte, non può influire che in una prima fase: la creazione del diritto. La seconda fase, quella della più severa attuazione del diritto, se vuole essere effettivamente ricondotta all'imparziale autorità dello Stato, deve far capo al potere competente, venendo sottratta al riflesso di quel giuoco e della sua azione perturbatrice.

Ecco la risposta che tranquillizza una coscienza democratica. Probabilmente si potrebbe anche concepire una soluzione intermedia o di temperamento rispetto al sistema dell'articolo 97, poiché non ho difficoltà a riconoscere che la divisione dei poteri strettamente concepita è qualche cosa di schematico, talvolta lontano dalla vita, al punto di non avervi eccessivamente fatto leva per la dimostrazione della mia tesi. Considerando infatti che noi non dobbiamo semplicemente creare i pezzi di uno Stato, bensì lo Stato stesso nella sua unità, e cioè un congegno coordinato in vista delle sue inscindibili finalità, forse si potrebbe venire parzialmente incontro alla tesi discussa, ricercando delle soluzioni fondate su una rappresentanza ridotta e non perturbatrice del potere legislativo nel seno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Come si osservava da un eminente collega della Commissione dei Settantacinque, il Perassi, anche la tesi di una rappresentanza simbolica potrebbe esprimere la funzionalità unitaria dei vari poteri dello Stato, rispetto alle finalità giuridiche e politiche che esso è chiamato ad assolvere. A rigore, basterebbe la presenza di un solo rappresentante del legislativo per allontanare il pericolo dell'hortus conclusus, superando il luogo comune di una casta separata e irresponsabile, mediante la proiezione esterna dei suoi atti. Ma è questione di particolari, e su ciò ci riserviamo di tornare in sede di emendamenti. Oggi resta affermata questa esigenza logica e politica, in armonia all'insegnamento dei nostri maggiori, da Gianturco a Scialoja: che, in coerenza del postulato di un giudice libero nell'ambito della legge, noi dobbiamo dettare norme idonee a tradurre in atto il principio, sottraendo il giudicante alla possibile ripercussione di una lotta politica capace di turbarne l'indipendenza morale e per ciò stesso ponendolo in una condizione di superiore serenità rispetto alle passioni dell'ora.

[...]

Crispo. [...] Come si potrà, adunque, garantire l'indipendenza del giudice? Questa indipendenza potrà aversi soltanto ove il giudice abbia la proprietà delle sue funzioni. Il problema non fu sconosciuto nemmeno all'«antico regime», nel quale si pretese di risolverlo, vendendosi ed ereditandosi la carica.

E non può non sorprendere che un uomo del genio di Montesquieu, accettando tal sistema di reclutamento, plaudisse ad Anastasio, che dell'Impero aveva fatto una specie di aristocrazia, vendendone tutte le Magistrature. Onde, Voltaire, rispondendo a Montesquieu, scriveva: «È certamente deplorevole che Montesquieu abbia menomato l'opera sua con paradossi di questo genere, ma bisogna pure perdonargli perché uno zio di Montesquieu aveva acquistato una carica di Presidente in provincia, ed egli, Montesquieu, gli era poi succeduto in quella carica». E Voltaire conclude: «Nessuno di noi è senza debolezza».

Intendo precisare che il problema della indipendenza non è da porre in rapporto al reclutamento, perché, escluso che il magistrato possa acquistare o ereditare la carica, escluso che possa averla per elezione, o per nomina governativa, non v'è altra via che il concorso, col quale si garentisce un minimo di capacità tecnica e l'imparzialità dell'assunzione.

L'indipendenza del giudice può essere, adunque, garentita soltanto attraverso il «governo» della Magistratura, rendendolo veramente autonomo, preservandolo, cioè, da ogni ingerenza politica. Non vi è altro modo, non vi è altro mezzo. Onde è che, quando nell'articolo 97 si stabilisce che il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica, ed è composto per metà di magistrati e per metà di membri designati dalle Camere, riesce difficile conciliare tale norma con quella che pretende consacrare l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura. La norma dell'articolo 97 è intesa, difatti, a penetrare l'ordine dei magistrati, non soltanto di elementi del potere legislativo, come diceva l'onorevole Dominedò, ma, sopratutto, dell'ingerenza del potere esecutivo, nella maggiore e più alta sua espressione. Ed io, per verità, non riesco a rendermi conto del pensiero dell'onorevole Bozzi, quando egli si compiaceva di veder posto a capo del Consiglio Superiore il Presidente della Repubblica, rappresentando egli l'unità dello Stato.

Non riesco a rendermene conto, perché mi sfugge del tutto il preteso rapporto tra il Presidente della Repubblica, come rappresentante della unità dello Stato, e il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

Non si potrebbe, invece, a mio avviso, immaginare più pericolosa ingerenza del potere esecutivo, se è vero che il Presidente della Repubblica non è al disopra dei partiti, ma, esponente di uno di essi, non riesce mai a sottrarsi del tutto alle esigenze del proprio partito. È facile rilevare, d'altra parte, che la figura del Capo dello Stato, nella funzione di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non può non suscitare, il più delle volte, quel timore riverenziale che menoma l'indipendenza e l'autonomia di ogni deliberazione.

Quanto ai membri che dovrebbero essere designati dalle Camere, il progetto stabilisce che «gl'iscritti negli albi forensi non possono esercitare la professione, finché fanno parte del Consiglio».

È evidente, adunque, la preoccupazione della incompatibilità morale tra l'esercizio della professione e la carica di componenti. Ora la norma diviene una lustra, ove si consideri che non si può chiedere seriamente a professionisti di valore di rinunziare per sette anni all'esercizio professionale, onde il facile espediente dell'esercizio per interposta persona, che, lungi dall'eliminare l'incompatibilità, l'aggrava non solo, ma induce ai peggiori sospetti e alle maggiori diffidenze. Non resterebbe, pertanto, che designare professionisti in condizioni di evidente inferiorità professionale, privi di clientela, e tali designazioni non sarebbero certo destinate a conferire dignità, decoro e prestigio al Consiglio Superiore della Magistratura.

Epperò, non mi pare che si possa aderire nemmeno all'idea dell'onorevole Dominedò, di una rappresentanza simbolica o consultiva, o di numero così ridotto da essere del tutto insufficiente, non riuscendosi, per verità, a comprendere la ragione di una simile rappresentanza che, mentre vulnererebbe il principio dell'autonomia, non apporterebbe, e, anzi, sarebbe designata unicamente per non apportare un qualunque contributo alla funzione.

Per le ragioni esposte, io sono d'avviso che il Consiglio Superiore della Magistratura debba essere costituito esclusivamente di magistrati, né mi sembra, onorevoli colleghi, fondata in alcun modo la preoccupazione che la Magistratura possa così divenire una casta chiusa.

Uberti. Il pericolo è per l'appunto questo.

Crispo. Dirò qualche cosa su questo punto. Si è mai pensato che, mutatis mutandis, la nostra Assemblea sia una casta chiusa, perché si governa autonomamente, ed ha una sua disciplina e un suo regolamento? E badate che la nostra autonomia è tale da renderci giudici di noi stessi, nelle eventuali contestazioni di questa o quella elezione, e per le eventuali autorizzazioni a procedere, giudici talvolta tanto imparziali da disdire oggi ciò che fu deciso ieri, anche per fattispecie sostanzialmente identiche.

Lo stesso può dirsi dell'ordine degli avvocati. Non hanno forse gli avvocati un ordinamento proprio, un governo proprio, e una propria disciplina?

E lo stesso può ripetersi di tutti i collegi professionali. Vero è che l'ordine giudiziario non può considerarsi alla stregua degli ordini professionali, ma il richiamo è qui inteso soltanto a dimostrare la insussistenza del pericolo che, attraverso una reale autonomia si possa creare una casta chiusa. È necessario, adunque, difendere la Magistratura da qualunque ingerenza di altro potere, anche perché l'incompetenza morale è in funzione negativa anche della competenza tecnica: il giudice non indipendente diviene di fatto facile strumento a servizio della causa che sarà costretto a sostenere.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti