[L'11 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Macrelli. [...] Passiamo all'articolo 97, il quale parla dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura, che definisce «ordine» e non «potere». Del «potere» si parla soltanto nella relazione del Presidente della Commissione; ma nel progetto questa parola è accuratamente evitata.

Senza ritornare alla classica divisione del Montesquieu, senza riferirci a degli schemi ormai accettati, io penso che sarebbe stato opportuno parlare ancora una volta di «potere», tanto più che lo statuto albertino parlava di «ordine» ed è strano che noi nella Costituzione repubblicana ripetiamo lo stesso errore, mentre tutte le Costituzioni, le libere Costituzioni dei popoli liberi, parlano di un potere giudiziario.

Comunque, non mi preoccupo dei due nomi che, intendiamoci, non sono sinonimi. Sono fra loro, non dico in antitesi, in contrasto, ma certo non hanno uguaglianza di significato, né possono averla. Per noi l'importante è che la Magistratura abbia la sua autonomia.

Anche questa parola ha spaventato un po', perché si è detto che autonomia significa «autogoverno», «uno Stato nello Stato», «la Magistratura avulsa dalla vita nazionale». Parole grosse, che nascondono delle piccole preoccupazioni, non aderenti alla realtà della vita.

Recentemente, in una rivista di classe inspirata a sensi di profonda comprensione democratica dei diritti e dei doveri della Magistratura, leggevo che il problema della libertà nello Stato democratico moderno non si esaurisce nella partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, nel riconoscimento dei valori eterni ed inalienabili della personalità umana e dei diritti ad essa inerenti e nella conquista della libertà politica; ma trova più saliente espressione nella garanzia che la libertà civile sia concretamente rispettata contro qualsiasi invadenza e che tutti, cittadini e organi della pubblica autorità, siano soggetti costantemente all'osservanza della legge. Ora, siffatta garanzia, è data soltanto dalla organizzazione di un forte potere giudiziario del quale siano chiaramente definiti i compiti, precisate le relazioni giuridiche con gli altri poteri dello Stato e poste in evidenza talune prerogative indispensabili per assicurare l'imparziale esercizio della giurisdizione.

Per noi autonomia vuol dire indipendenza assoluta della Magistratura, la quale indipendenza deve intendersi così dal punto di vista politico come da quello economico.

Innanzitutto, indipendenza da ogni potere politico; e mi riferisco tanto a quello esecutivo, quanto a quello legislativo, perché anche quest'ultimo può esercitare la sua influenza, soprattutto quando il sistema parlamentare traligna nel parlamentarismo: facili le influenze, facili le suggestioni.

La Magistratura deve essere invece oggi fuori di ogni pressione, perché deve essere al di sopra di ogni sospetto per l'alta missione cui deve rispondere.

Sebbene l'articolo 97 ribadisca il principio della autonomia e della indipendenza, quale concreta attuazione trovano tali solenni affermazioni? Risponde uno dei capoversi dell'articolo 97: per il progetto, tutta la carriera dei magistrati dipende dal Consiglio Superiore della Magistratura; «le assunzioni, le promozioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari e, in genere, il governo della Magistratura ordinaria sono di competenza del Consiglio Superiore secondo le norme dell'ordinamento giudiziale».

È dunque evidente che, se il Consiglio Superiore è soggetto ad influenze politiche o ad interessi comunque estranei a quelli di giustizia, il potere giudiziario è asservito e soggetto ad inframmettenze che vanno assolutamente evitate, se si vuole che la legge sia in realtà la viva tutela del diritto.

Secondo l'articolo 97, il Consiglio è costituito, come ricorderete, dal Presidente della Repubblica che lo presiede, da due vicepresidenti e così via. Il progetto, in questa sua formulazione, merita le nostre critiche, perché indubbiamente costituisce un regresso di fronte alle norme di un altro decreto, quello del 31 maggio 1946, il quale stabiliva che il Consiglio Superiore doveva essere composto soltanto di magistrati e sanciva, con alto spirito di vera democrazia, che i membri dovevano essere eletti dagli stessi magistrati.

Noi ritorniamo dunque un poco indietro. È strano, proprio oggi, in regime di democrazia e di democrazia repubblicana! Esaminiamo pure comunque questo articolo 97, rapidamente. La Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura è assunta dal Presidente della Repubblica. Vi confesso che io sono ancora incerto sulla convenienza o meno di questa norma.

Esprimo i miei dubbi soprattutto sotto un duplice riflesso. Voi avete sentito che fra le attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono anche le assegnazioni ed i trasferimenti di sede. Credete di elevare il prestigio del Presidente della Repubblica per questi atti, che vorrei definire di ordinaria amministrazione o quasi? Ma non solo. Una volta — mi insegnano i valorosi colleghi che mi ascoltano — c'era contro qualche provvedimento anche il ricorso straordinario al Re; oggi sarà il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il quale dovrà diventare giudice e parte in causa.

Faccio solo questi rilievi, onorevoli colleghi, e potrei aggiungerne altri da un punto di vista squisitamente costituzionale; ma non mi soffermo, perché l'ora è tarda e ne sospinge.

Per noi la cosa più importante è questa: che l'Assemblea Costituente fissi delle norme precise, per cui la Magistratura italiana possa, libera da influenze politiche, esercitare la sua grande missione al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica. Lo storico inglese David Hume scrisse un giorno: «Tutto il nostro sistema politico o ciascuno degli organi suoi, l'esercito, la flotta, le due Camere e via dicendo, non è che mezzo ad un solo fine: la conservazione e la libertà dei dodici grandi giudici d'Inghilterra». E proprio in Inghilterra, per educare il magistrato al sentimento dell'indipendenza da ogni potere politico, si è fatto eternare dall'arte nell'aula del più alto consesso giudiziario del Regno la memoria di un giudice, di quel giudice che inviò alla Torre di Londra il principe ereditario, arrogantemente comparso dinanzi a lui per reclamare la impunità di un suo valletto. (Applausi).

[...]

Sardiello. Onorevoli colleghi, non recherò più fiori né di gioia né di pianto, né rose né crisantemi, alla indipendenza della Magistratura. È un'idea ormai matura, una conquista che deve avviarsi ad una sempre più concreta, definitiva realizzazione.

È piuttosto da fare l'augurio che la Magistratura ne sia sempre degna e capace di consolidare così l'idea, la sua conquista nella legge e più ancora nel costume. Faccio questo augurio con trepidazione, ma non senza speranza. Con trepidazione, onorevoli colleghi, perché, senza riprendere delle accuse, sopratutto senza farne un processo, non è possibile dimenticare quanto è stato ricordato in quest'Aula: il fenomeno doloroso del ventennio fascista, che ha piegato alla imposizione dall'alto molti magistrati. Devo dire che il fenomeno non era nuovo. Forse (non farò degli esempi) qualche alto magistrato, che ebbe in mano il più drammatico processo del regime fascista, per il delitto che più commosse l'anima nazionale, servì allora il regime fascista, come aveva servito con la stessa disinvolta audacia prima di allora altri Governi. Il fascismo in questo campo dilatò, inasprì, esasperò un male già noto della vita italiana.

Venne, dopo la liberazione, lo sbandamento delle coscienze in cui precipitò il dramma politico e spirituale dell'Italia, ed abbiamo visto dei magistrati dare segni precisi di resistenza a quella che era l'aspirazione della coscienza popolare, ad una giustizia che potremmo dire storica.

Ho detto: non facciamo un processo. Cerchiamo anzi di darci del fatto una spiegazione. Forse è qui: che non sempre alla preparazione, anche elevata, culturale e professionale corrispondono una eguale ampiezza e vastità di visione ed un eguale alto senso di responsabilità politica, nel significato più largo di questa parola. Fermiamoci qui. Non diciamo, come il collega onorevole Bozzi, che la Magistratura ha piegato... come tutti. Un'affermazione del genere sciuperebbe quella considerazione particolare che noi vogliamo tributare alla Magistratura ed alla sua speciale funzione, e che esige il presupposto di particolari qualità intellettuali e morali. Resta — a conforto — il ricordo di alcuni magistrati (e piuttosto dei ranghi meno elevati), che hanno perfino sacrificato la toga, che era non solo l'orgoglio della loro vita, ma il pane per i loro figlioli...

Gasparotto. Il giudice Ventura a Milano ha domandato due volte l'aspettativa per non servire il regime.

Sardiello. Consentitemi allora che dica, accanto a questo, il nome di un calabrese: Alfredo Occhiuto. Non si dica neppure che questi atteggiamenti, come dicevo, di resistenza, siano dovuti soltanto alla imperfezione delle leggi tecniche, particolarmente dell'amnistia Togliatti, che Dio l'abbia in gloria.

Una voce a sinistra. Chi? Togliatti?

Sardiello. No, l'amnistia. (Ilarità).

C'è da osservare che gli errori derivati da questi difetti... tecnici sono stati tutti soltanto... in una direzione. Ma questa difesa in nome della imperfezione delle leggi apre anch'essa la via ad un'accusa, perché ci presenta il magistrato cristallizzato nelle formule, incapace di elevarsi assurgendo ad una comprensione più vasta, penetrando lo spirito della legge; espressione quindi di una mentalità che quetamente si annida il più spesso nelle alte gerarchie; mentalità superata, che dovrebbe sparire.

Onorevoli colleghi, bisogna ben apprezzare il fatto che questo disappunto per certa condotta di magistrati, prima ancora che nel corso di questa discussione, sia stato denunciato non raramente da alcuni magistrati. Ho letto con soddisfazione — quella che procurano tutte le prove di lealtà e di coraggio — in una pubblicazione di alcuni giudici del tribunale di Milano queste parole che meritano di essere ricordate:

«Mentre ci si sta battendo per ottenere in sede costituzionale il riconoscimento di potere autonomo, in sede di ordinamento giudiziario una completa indipendenza, e dagli organi di Governo il rispetto di questa indipendenza, nonché mezzi economici adeguati alla funzione di magistrato, occorre che i magistrati diano la sensibile dimostrazione di essere degni del nome che portano, della funzione che rivestono, del prestigio, della indipendenza e della considerazione che rivendicano. Bisogna invece riconoscere onestamente che oggi è la condotta di una parte non trascurabile di magistrati che costituisce il più grave intralcio al conseguimento di quelle mete».

Non conosco il giudice che ha scritto queste parole, ma sento che deve essere un giovane. E qui sboccia la speranza: guardando a tanti nobilissimi nuclei di giovani, che sono oggi nei tribunali d'Italia e mostrano quotidianamente la sensibilità viva delle necessità della vita italiana che rinasce. Questi giovani, quando invocano l'indipendenza e l'autonomia, vi dicono, nella loro coscienza profonda (e questo ci assicura), che vogliono essere indipendenti dal potere esecutivo, anche per evitare le suggestioni delle alte gerarchie, che sempre sono state quelle direttamente e più facilmente raggiunte dal potere esecutivo nelle sue deplorate interferenze; e sperano che l'autonomia porti anche questo: la fine del «carrierismo» e che i magistrati facciano veramente tutti e sempre i magistrati! Ciò che è sperabile si ottenga, se l'autonomia libererà il Ministero di grazia e giustizia da tante soverchie attività, onde ad esso bastino soltanto i suoi funzionari.

E, dunque, fra quella trepidazione e questa speranza, affermiamo il principio dell'indipendenza della Magistratura! Ma (e il progetto mi pare che abbia il segno di questa preoccupazione) il principio — com'è di tutti i principî astratti quando vengono concretati e quindi posti a contatto con le realtà attuali morali, politiche e sociali — deve sottostare ai limiti necessari.

Questa preoccupazione mi pare espressa particolarmente là dove è disegnata la formazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Sorsero i contrasti, si urtarono le opinioni assolute della prevalenza rilevante dei laici, e della prevalenza rilevante dei magistrati, quando pure non si chiese — come vuole l'onorevole Bellavista — che il Consiglio Superiore sia tutto dei magistrati: hortus conclusus. Il progetto si pone in mezzo fra l'una e l'altra pretesa.

L'emendamento da me presentato, sopprimendo il superfluo secondo Vicepresidente (laico), garantisce praticamente ai magistrati la maggioranza nella composizione del Consiglio Superiore. Non ho incluso nella enumerazione dei laici e dei magistrati, ai fini di questa maggioranza, il Presidente della Repubblica. Non l'ho incluso perché, dissentendo dall'opinione apprezzabilissima del mio valoroso amico onorevole Macrelli, io invece accetto con entusiasmo la norma del progetto, che assegna al Presidente della Repubblica la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, convinto che, anche quando alla più alta carica dello Stato non fosse (e sia per molti anni!) un giurista della altezza luminosa di coscienza e di dottrina di Enrico De Nicola, il Capo dello Stato rappresenterebbe sempre alla Presidenza del Consiglio della Magistratura una superiore, grande idea unificatrice di tutte le forze dello Stato, che a me pare necessaria e feconda nella nuova vita italiana.

Ho proposto un altro emendamento a questo articolo: un'aggiunta all'ultima parte, là dove si parla degli elementi laici che l'Assemblea dovrà designare a comporre il Consiglio Superiore della Magistratura. Può parere bizantinismo, lo confesso, può apparire anche un fatto di difficile realizzazione pratica. Ma ho voluto, onorevoli colleghi, fermare un principio che rapidamente illustrerò.

L'aggiunta è questa: che i componenti laici, che saranno designati «metà dall'Assemblea Nazionale fuori del proprio seno», siano scelti «fra i cittadini che non abbiano direzione o rappresentanza di partiti politici».

Muove da una premessa, che occorre tenere presente: l'affermazione dell'articolo 94 secondo cui «i magistrati non possono» far parte di «partiti politici», «non possono essere iscritti a partiti politici». Si è detto da qualcuno: è una menomazione, è un'offesa ai magistrati. Non penso sia esatto. Non si inibisce infatti ai magistrati di avere e di nutrire liberamente un'idea politica. Si inibisce ai magistrati la iscrizione ai partiti politici.

Ora, onorevoli colleghi, intendiamo tutti che questa è una cosa diversa dalla libertà di un pensiero e di una fede. L'iscrizione al partito è una milizia, l'iscrizione al partito è una disciplina, e non può escludersi che la disciplina del partito politico potrebbe venire in conflitto con la disciplina spirituale del magistrato. Non dobbiamo creare simili casi di coscienza.

Devo aprir qui una breve parentesi: devo ricordare un altro emendamento da me proposto, all'articolo 94. All'ultimo capoverso, che vieta ai magistrati l'iscrizione ai partiti politici, aggiungo il divieto di accettare «cariche ed uffici pubblici elettivi».

Guardate, onorevoli colleghi: il giorno in cui allontaniamo dalla vita politica militante i magistrati togliendo ad essi il tesserino del partito dal portafoglio, non possiamo consentire che entrino per altre vie nella lotta rovente dei contrasti per la conquista di una carica pubblica. O accettiamo in pieno il principio o no. Altrimenti autorizzeremmo quella brutta cosa, forse la più brutta cosa nel campo morale ereditata dai recenti anni passati: il doppio gioco.

E così — chiudendo la parentesi e tornando all'emendamento sull'articolo 97 — intendete, o colleghi, che se per principio il magistrato deve essere estraneo alla politica militante, la mia proposta (con valore di indirizzo, di orientamento, con forza di legge: come volete) sia da accogliere. Dica l'Assemblea che, se i magistrati non devono andare alla politica militante, la politica militante non deve andare ai magistrati.

I magistrati intenderanno che queste preoccupazioni non suonano menomazione e tanto meno offesa; intenderanno che, per questa via, si vuole garentire ad essi una migliore condizione per l'esercizio della loro altissima funzione di tutori e garanti dell'integrità dei diritti di tutti i cittadini. Non ne soffriranno i magistrati, specie se nello stesso tempo, in tutte le forme, sapremo dare ad essi la prova del riconoscimento dell'altezza e della nobiltà della loro funzione.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti