[L'11 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Monticelli. [...] Ritengo che se un problema deve essere esaminato in ogni sua parte, questo problema è appunto quello della Magistratura, perché è da tutti sentita la necessità inderogabile che il potere giudiziario si eserciti in piena indipendenza nell'interesse di tutti, essendo la continua garanzia di tutti i cittadini. Quando infatti l'indipendenza del potere giudiziario decade, la storia ci ha insegnato che il regime democratico entra in crisi, col conseguente dominio di una fazione politica sullo Stato, che non è più lo Stato di tutti i cittadini. A questo interessante ed importante problema della nostra nuova Costituzione mi accingo a dare il mio modesto contributo di avvocato e di studioso, sicuro di esplicare opera utile alla ricostruzione del Paese anche in questo delicato settore.

Qualche giorno fa il collega onorevole Villabruna ricordò, in quest'Aula, il memorabile discorso pronunziato da Giuseppe Zanardelli sull'indipendenza della Magistratura. Io credo che difficilmente un discorso potrebbe essere più attuale e più idoneo a rispecchiare le supreme esigenze di una restaurazione di quel senso della giustizia, che l'onorevole Cappi nella sua equilibrata eloquenza, ha intravveduto come un nuovo grande insegnamento al mondo che l'Italia, debitrice verso gli altri popoli sul piano economico, può invece dare nel campo del progresso civile. Quando Giuseppe Zanardelli, il 25 marzo 1903, affermava che «la Magistratura è la custode, la difenditrice e vindice di tutti i diritti e dei diritti di tutti», e che dipendendo dalla sua azione la vita, la libertà, l'onore e la proprietà dei cittadini, «il decoro stesso, la grandezza delle nazioni si misurano dall'autorità, dal rispetto che ottengono i magistrati, dalla fede in essi riposta, dal grado di elevatezza nel quale sono collocati nell'opinione del popolo», noi sentiamo che qualsiasi discorso, anche del più abile oratore, nulla potrebbe aggiungere alla solennità di una simile affermazione.

Del resto, l'esigenza della indipendenza del potere giudiziario è stata riconosciuta dall'articolo 97 del progetto di Costituzione, e non poteva essere diversamente, perché non si possono difendere i diritti e la libertà dei cittadini se non con una Magistratura autonoma e indipendente. Non posso quindi essere d'accordo su quanto in questi giorni è stato scritto sul giornale forense pubblicato a Roma, La Giustizia, relativamente al costume ed alla turpitudine che durante il fascismo finì, secondo l'autore di questo articolo, col contaminare l'Ordine giudiziario, che preferì grandeggiare più nella livrea della caserma che sotto la gloriosa toga per cui Roma è eterna, facendo... scricchiolare la giustizia. Ad onor del vero — ed è necessario che in difesa della Magistratura si elevi da quest'Aula non soltanto la viva voce di chi ha fatto parte dell'Ordine giudiziario, ma anche di chi ha indossato ed indossa la toga dell'avvocato, considerandola non come un lurido cencio che gli uscieri talvolta appoggiano sulle spalle dell'avvocato di passaggio, ma come il simbolo di una missione alta e solenne — ad onore del vero, dobbiamo dire che questo senso di sfiducia politica non è sentito dagli italiani, i quali ricordano non solo che in periodo di intransigente assolutismo la Magistratura ha resistito per venti anni, priva di ogni effettiva garanzia, all'invadenza di uno Stato totalitario, mantenendo la sua indipendenza nella dipendenza di uno Stato asservito, ma anche ricordando il glorioso contributo di sangue e l'opera preziosa data alla lotta clandestina dai magistrati, i quali furono i soli dipendenti dello Stato che rifiutarono collettivamente quel giuramento di fedeltà alla repubblica sociale, che essi non vollero dare, considerando tale rifiuto un loro preciso dovere. Ma io non voglio lasciarmi attrarre dal lato, direi quasi, sentimentale della vexata quaestio, e preferisco tornare sul terreno realistico dell'esame accurato degli articoli della Costituzione che riguardano la Magistratura.

[...]

Il principio della indipendenza della Magistratura — che Gladstone proclamò, con una sua felice formula, essere la forza dell'organizzazione statale — viene ad ottenere nel nostro sistema costituzionale il massimo riconoscimento, con la creazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Mi sia concesso fare qualche breve rilievo sulla formazione o costituzione di questo Consiglio. Tale Consiglio, che dovrebbe essere l'organo centrale dell'autogoverno, non si è riusciti a sottrarlo, con la dizione dell'articolo 97 del progetto, alla influenza del potere esecutivo, che è sempre portatore di interessi politici, ed è espressione di forze politiche, perché la presidenza è stata affidata al Presidente della Repubblica.

Debbo affermare che, essendo una mia personale convinzione, sarebbe preferibile che il capo del potere giudiziario fosse il più alto magistrato, cioè il primo presidente della Corte di cassazione, il quale rafforzerebbe anche la qualità di «custode della legge», che è stata delegata dal popolo al potere giudiziario. Anche perché poi vi è una evidente incompatibilità tra la funzione del Presidente della Repubblica, quale organo che nomina i magistrati, e dello stesso quale Presidente dell'organo che tali nomine propone.

Si è osservato, a tale proposito, che l'attribuzione della presidenza al Capo dello Stato conferisce maggiore solennità all'organo stesso e sopperisce alla assenza di mezzi di collegamento tra i vari poteri. Se si volesse seguire tale indirizzo, sarebbe bene modificare l'articolo, aggiungendo quale membro anche il procuratore generale della Repubblica e restringendo le categorie, nelle quali dovrebbero essere scelti i membri di nomina da parte del Parlamento, ai magistrati dell'Ordine giudiziario e amministrativo, anche a riposo, a professori universitari docenti di diritto e agli avvocati dopo venti anni di esercizio professionale. In tal modo, non soltanto si riesce a portare i magistrati ad essere in seno al loro Consiglio in maggioranza di fronte agli altri membri, ma si evita l'inclusione di uomini prevalentemente politici, si attenuano le influenze politiche, in modo da unificare l'indirizzo dell'attività amministrativa del Consiglio; senza aggiungere, poi, che data l'impossibilità per il Presidente della Repubblica di attendere personalmente a tutta la complessa attività del Consiglio Superiore della Magistratura, praticamente il Consiglio stesso sarebbe presieduto dal primo presidente della Cassazione, quale vicepresidente del Consiglio stesso.

Occorre però, in tal caso, sancire il divieto per chi esercita la professione forense di esercitarla quando sia eletto al Consiglio Superiore della Magistratura; e non soltanto per il periodo della carica, ma anche per l'avvenire. Sembra un paradosso, ma è così, perché chi ha consuetudine con la vita forense, chi conosce gli ambulacri dei vari palazzi di giustizia, sa che sarebbe molto facile per un avvocato continuare e mantenere il suo studio sotto il nome di un altro collega, e poi partecipare alle riunioni del Consiglio Superiore della Magistratura, influendo sulla nomina o sulla promozione di questo o di quel magistrato: in fondo poi ne andrebbe a soffrire il prestigio e la dignità della giustizia, perché, una volta mantenuto aperto uno studio con siffatti accorgimenti, praticamente l'avvocato non più iscritto nell'albo e facente parte del Consiglio superiore, continua e continuerebbe ad essere, sia pure sotto il nome di un altro collega, il vero dominus della lite.

Occorre evitare questo inconveniente, occorre ovviarvi e, con questi emendamenti che io ho proposto, si può garantire l'indipendenza della Magistratura. Ma, come bene osservava il collega onorevole Bettiol, più che l'indipendenza della Magistratura, bisogna affermare l'indipendenza del giudice nell'amministrazione della giustizia, e tale indipendenza, piuttosto che con una garanzia giuridica, si afferma con la virtù professionale. Sia prima indipendente e incorruttibile l'uomo e poi la legge potrà intervenire per garantire la disposizione d'animo dell'uomo.

Nessuna legge, onorevoli colleghi, nessun articolo della Costituzione, saranno sufficienti a garantire l'indipendenza del giudice se al giudice manca questa qualità morale e politica in sé e per sé espressa.

[...]

Romano. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discussione elevata, densa di pensiero e di saggezza giuridica di questi giorni ha già inquadrato tutti i problemi che interessano la Magistratura.

Purtroppo tutti gli oratori, egregi oratori, maestri del diritto, sono stati sfortunati. Hanno dovuto parlare ad un'Aula quasi deserta, e guardando il vuoto, ho ricordato più volte un pregevole articolo pubblicato lo scorso anno nel Sabato del Lombardo, dal professore Candian: «Disinteresse per la giustizia».

«Oggi», scriveva l'illustre giurista, «nessuno più si interessa della giustizia, un poco perché tutti gli orientamenti incidono nelle cosiddette economie sociali, e un poco per la penosa e scettica rassegnazione ai nostri mali ritenuti inguaribili, giudicati insuscettibili di una qualunque terapia».

Onorevoli colleghi, bisogna ricordare che i problemi della Magistratura sono problemi di giustizia, che i problemi di giustizia a loro volta sono problemi politici, perché la giustizia è garanzia di libertà.

Purtroppo non si considera tutto questo, non si pensa che non si può avere libertà vera, se non si realizza la universale sottoposizione delle attività pubbliche al diritto. Non si considera che, quando nelle aule di giustizia si leggono le parole «la legge è uguale per tutti», in quel «tutti» è compreso anche lo Stato.

Questa è una delle ragioni d'essere della divisione dei poteri, e da questa divisione discende l'indipendenza della Magistratura, che ancora non si è voluto chiamare: «potere giudiziario».

Onorevoli colleghi, nonostante le critiche diverse mosse alla teoria della divisione dei poteri, questa teoria, trasmessaci dall'illuminismo del '700 e solo imperfettamente trasfusa nelle varie costituzioni europee, compreso lo Statuto albertino, rimane ancora oggi la più rispondente all'essenza delle istituzioni politiche, che regolano la vita dei popoli, la più feconda di risultati pratici, la più consona alla vita di uno Stato veramente democratico. Se il potere legislativo è la fonte stessa dell'ordinamento giuridico e se il potere esecutivo promuove l'azione del potere legislativo e del potere giudiziario, quest'ultimo svolge la sua attività controllando gli altri due. Perché questo controllo sia perfetto è necessaria la indipendenza assoluta della Magistratura, non quella semi-indipendenza, che finisce per rivelarsi vana, illusoria, inesistente, così come è stata sanzionata nel progetto di Costituzione. Se seguiamo i diversi ordinamenti giudiziari che hanno preceduto quello del 1941, constatiamo un continuo regresso, non un progresso! Il maggiore progresso nostro è stato il decreto Togliatti, gliene rendiamo onore: il decreto del maggio 1946 fu una conquista democratica dell'ordine giudiziario, ed oggi questa conquista si vuole annullare attraverso questo progetto di Costituzione, creando un Consiglio Superiore della Magistratura eletto per metà dall'Assemblea Nazionale.

Onorevoli colleghi, il potere giudiziario deve essere messo in condizioni tali da essere in qualsiasi momento in grado di arrestare l'azione illegale di qualsiasi organo dello Stato, sindacando la legittimità delle leggi, dei regolamenti, dei decreti, degli atti amministrativi in genere, deve cioè essere in grado di tutelare in modo sicuro, pronto ed efficace ogni diritto, ogni interesse legittimo offeso o minacciato, eliminando ogni arbitrio da qualunque parte esso provenga, deve rendere impossibile ogni oppressione individuale o collettiva, ogni abuso politico, legislativo o amministrativo, ogni ingiustizia particolare o generale.

Se questa indipendenza non sarà tale da rendere pienamente libera la nobile, direi quasi divina missione del giudicare, la dovuta garanzia verrà a mancare alla libertà del cittadino, che si troverà esposto alle mutevoli oscillazioni delle forze politiche, o peggio all'arbitrio di possibili dittature.

Onorevoli colleghi, la giustizia è il termometro infallibile della civiltà dei popoli. Più un popolo è civile, più in alto siede la giustizia. Ed è per questo che, discutendo questo Titolo IV, quasi bisognerebbe che ognuno di noi si spogliasse dello spirito di parte, perché questo Titolo IV, riguarda un patrimonio sacro che appartiene a tutto il popolo italiano, e che è appunto la giustizia. (Applausi).

[...]

Indipendenza della Magistratura. — I magistrati dipendono soltanto dalla legge, così afferma l'articolo 94.

«Ordine autonomo ed indipendente» si legge nella prima parte dell'articolo 97.

Sempre, in tutti i tempi, prima del fascismo e anche durante il fascismo, come oggi, si è parlato e si parla di indipendenza della Magistratura, di terzo potere, ma né nello Statuto albertino, né in questo progetto di Costituzione si leggono le parole «potere giudiziario».

Nella relazione si è detto che la Magistratura non è soltanto un ordine; che è sostanzialmente un potere dello Stato e che non si adopera questo termine neppure per gli altri poteri, per non fare sorgere equivoci ed inconvenienti, cui potrebbe dar luogo una ripartizione teorica interpretata meccanicamente.

In verità questo chiarimento è poco convincente.

La verità è che l'indipendenza della Magistratura ha moltissimi fautori, ma quando si tratta di attuare l'indipendenza le cose cambiano; e molti dei fautori apparenti finiscono per svelarsi avversari decisi, sino a sembrare di avere un sacro terrore della indipendenza che predicavano.

Eppure in tanti altri campi si pensano le più ardite riforme.

Essi dicono che bisogna evitare uno strapotere della Magistratura e che in questo si cadrebbe con la piena autonomia del potere giudiziario.

Questo forse è il motivo per cui, pur affermandosi nell'articolo 97 del progetto che la Magistratura costituisce un organo autonomo ed indipendente, nello stesso articolo questa autonomia e questa indipendenza vengono sensibilmente ridotti, chiamando a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura elementi estranei all'ordine giudiziario e demandando al Ministro della giustizia, cioè ad un organo del potere esecutivo il diritto di promuovere l'azione disciplinare contro i magistrati.

Ecco, onorevoli colleghi, in che consiste l'autonomia e la indipendenza.

Tutto si giustifica con la preoccupazione di creare uno strapotere.

La preoccupazione è ingiustificata: io comprendo uno strapotere del potere esecutivo, al quale si assiste in Italia da un quarto di secolo, strapotere consacrato nella legge del 31 gennaio 1926, n. 100, e nel decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98, riguardanti l'autorizzazione al Governo di emanare norme giuridiche.

Comprendo anche lo strapotere del potere legislativo, specie in quei paesi ove si adotta il sistema unicamerale o un bicameralismo reso illusorio.

Ma non so pensare ad uno strapotere del potere giudiziario, la cui funzione è tutta nell'applicazione della legge, la quale detta ai giudici anche le regole della interpretazione.

Certo è che il termine «potere giudiziario» ha destato preoccupazioni anche nei compilatori del progetto di Costituzione.

Eppure nella prima parte dell'articolo 94 si legge: «la funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo».

Ora se il potere giudiziario, che è la massima garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini non può considerarsi come una concessione dello Stato, bensì come una istituzione voluta dal popolo e difesa dal popolo, si sarebbe ben potuto dire: «il potere giudiziario esercita la giustizia in nome del popolo».

Ma come ho detto si è sempre avuto una certa preoccupazione, anzi una riluttanza a parlare di potere giudiziario.

Quando si parlò di ordine giudiziario, si discusse sul significato di questa dizione. Nel 1859 dal Manfredini fu sostenuto che «ordine giudiziario» doveva significare «potere giudiziario» indipendenza dal Governo; ma prevalse la tesi contraria sostenuta dal Rattazzi, per la quale l'ordine giudiziario fu inteso come una parte della pubblica amministrazione.

Oggi solo nella relazione si legge che «ordine giudiziario» deve intendersi per potere giudiziario».

Ma un potere per essere tale deve essere indipendente.

Questa indipendenza, a mio avviso, non si realizzerà se le disposizioni del titolo IV rimarranno quali sono.

[...]

Penso che anche questo progetto, nonostante le affermazioni di indipendenza, abbia sotto certi punti di vista aggravato lo stato di dipendenza della Magistratura.

Il problema della indipendenza della Magistratura somiglia un poco al problema del Mezzogiorno.

Ogni Governo nell'insediarsi fa l'elogio del Mezzogiorno, fa le solite promesse, ma poi tutto rimane come prima.

Così avviene per la Magistratura.

Quattro sono le indipendenze che si chiedono: Indipendenza costituzionale; indipendenza funzionale, indipendenza istituzionale, indipendenza economica.

Manca la prima perché il progetto di Costituzione non qualifica come sovrana la funzione giurisdizionale, né qualifica sovrano il potere che la esercita.

Difetta d'indipendenza funzionale perché non si parla esplicitamente di autogoverno.

È minacciata l'indipendenza istituzionale in quanto le assunzioni, le promozioni, i trasferimenti di sede e di funzioni si fanno dipendere da un Consiglio Superiore di cui fanno parte elementi che sono espressioni di correnti politiche.

Non vi è traccia della indipendenza economica, che è di somma importanza al fine di una retta amministrazione della giustizia. Con l'articolo 97 proposto in sostituzione di quello del progetto ho inteso eliminare il grave inconveniente che si avrebbe con un Consiglio Superiore della Magistratura costituito in parte di estranei all'ordine giudiziario e tutti eletti dall'Assemblea. I membri del Consiglio Superiore della Magistratura devono essere solo magistrati ed eletti dalla Magistratura.

Una sezione del Consiglio Superiore deve funzionare da corte disciplinare e l'azione disciplinare dovrà essere esercitata dai procuratori generali della Cassazione o delle Corti di appello.

Lasciando l'articolo 97 così come è formulato nel progetto non solo si annullerebbe l'indipendenza della Magistratura, ma tutto l'ordine giudiziario verrebbe messo alla sbaraglio. (Approvazioni).

Prima di lasciare l'argomento fondamentale del Titolo IV, cioè l'indipendenza della Magistratura, desidero ricordare quanto ha scritto un gesuita, padre Lener. Questi, figlio di un alto magistrato, dopo avere esercitato la professione di avvocato, entrò nell'ordine dei gesuiti. Nel raccoglimento della sua cella deve avere ricordato il tormento paterno, deve avere pensato ai suoi anni di esercizio dell'avvocatura ed ha scritto in quella rivista densa di pensiero che è la Civiltà Cattolica un pregevolissimo articolo sull'indipendenza della Magistratura (anno 1947, pagina 303 e seguenti).

Il dotto gesuita così scrive: «Con l'articolo 97 del progetto di Costituzione il governo dell'ordine giudiziario viene conferito bensì al Consiglio Superiore della Magistratura, ma questo non è più un organismo composto di soli magistrati.

«Elementi estranei all'ordine giudiziario, politici, sono chiamati a comporlo in condizioni d'assoluta parità. Poiché la scelta di tutti i membri elettivi per metà compete all'Assemblea Nazionale e non è a vita, la maggioranza parlamentare potrà fare in modo che la stessa maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura sia di un dato colore politico.

«Con ciò tutta la Magistratura sarà influenzata dal partito politico che riuscirà ad aver la maggioranza in Parlamento».

Padre Lener richiama nello stesso articolo la parola detta in pubblica Assemblea Costituente dall'onorevole Calamandrei: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, che secondo il progetto da me redatto avrebbe dovuto essere composto da soli magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto per metà da elementi politici. Chi ha impedito all'autogoverno della Magistratura di affermarsi in pieno, è stato Sua Eccellenza il Procuratore Generale Pilotti. La Magistratura deve ringraziare proprio lui della ostilità con cui è stata accolta nel progetto l'idea dell'autogoverno».

Questo è enorme; la storia dirà se Sua Eccellenza Pilotti fosse dalla parte della ragione o meno, ma è incredibile che per l'eventuale errore di un uomo si debba punire una classe, anzi si debba punire il Paese. (Approvazioni).

[...]

Salerno. [...] Inteso così il principio dell'indipendenza del magistrato, cioè come avvicinamento alla vita sociale, bisogna applicarlo anche al campo funzionale della Magistratura. L'autogoverno o il Governo della Magistratura fatto da un organo specifico è una esigenza indeclinabile, ma bisogna che anche questo organo mantenga la sua continuità tra vita sociale e vita giurisdizionale.

Io ho sentito citare qui frequentemente un discorso di Giuseppe Zanardelli pronunciato nel 1903 a proposito della progettata riforma dell'ordinamento giudiziario, che non ebbe poi seguito. Ora lo Zanardelli, che era un liberale, a questo proposito non esitò a dire che tra il pericolo di una soggezione della Magistratura al potere esecutivo e quello della clausura, dell'incapsulamento della giustizia in un organismo staccato dalla vita collettiva, era preferibile il pericolo che derivava dal potere esecutivo. Testualmente egli disse: «E non è certo meno pernicioso dell'arbitrio ministeriale quello dei corpi chiusi, presso i quali possano le condiscendenze, i pregiudizi di classe, e prevalga uno spirito di parte, esclusivo e parziale». È inevitabile allora il formarsi, non diremo di un clientelismo, ma di un classismo interno, in virtù del quale chi non avesse santi in quel piccolo paradiso sarebbe condannato... alle pene eterne.

Ma poi c'è un'altra ragione per cui non è concepibile che quest'organo supremo sia composto esclusivamente di magistrati. Noi diciamo che nella Magistratura la funzione giurisdizionale è l'espressione della sovranità ed è esercitata in nome del popolo. Quale sarebbe un qualsiasi indizio di investitura della base sociale per questo alto consesso, questo organo supremo, quale è l'organo giudiziario? Se domani andasse in vigore la Costituzione, e fosse accolta la proposta secondo cui il Consiglio Superiore della Magistratura deve essere composto esclusivamente di magistrati, di quale Magistratura si parlerebbe? Della nostra Magistratura, di quella Magistratura che noi in massima parte abbiamo ereditato dal passato, la quale improvvisamente si chiuderebbe in un organo sovrano che potrebbe disporre del reclutamento, delle promozioni, di tutto quello che attiene alla vita amministrativa e disciplinare del magistrato. Dove sarebbe quel qualsiasi contrassegno della volontà e della potenza del corpo sociale da cui tutto dovrebbe scaturire, compresa l'autorità della Magistratura? Noi speriamo che la Magistratura non sia legata al passato, speriamo che non possa andare incontro ai pericoli che ha dovuto subire nel ventennio della tirannide; ma queste nostre speranze appunto ci additano la necessità e ci impongono il dovere di mantenerla vicina alla vita e al corpo sociale.

Non credo però che si possa accogliere la proposta di coloro che nel Consiglio Superiore della Magistratura vorrebbero inserire una rappresentanza simbolica — come si è detto in quest'Aula — dell'elemento laico, perché questo è il sistema del riconoscimento della necessità di partecipazione di tutta la vita collettiva a questo organo supremo, attraverso l'espressione simbolica, ma è anche l'annullamento del principio. Comprenderete, infatti, che la presenza di tre o quattro laici nell'ordinamento del Consiglio Superiore della Magistratura sarebbe solamente una finzione giuridica, per non dire una ipocrisia legale.

Quindi, sono dell'opinione che debba in misura equa partecipare al Consiglio Superiore della Magistratura una rappresentanza della vita collettiva; e non comprendo tutte quelle diffidenze che sono state per vari motivi profilate in queste discussioni.

Il Capo dello Stato non deve partecipare, si è detto, perché il Capo dello Stato, comunque, è sempre espressione di un partito. Eppure si era sempre dichiarato, si pensava, si sperava che, benché espressione di un partito, il Capo dello Stato fosse anche la sintesi della vita nazionale e, quindi, stesse un po' al disopra dei partiti. Non devono partecipare gli avvocati, perché gli avvocati potrebbero continuare ed esercitare la loro attività professionale per interposta persona. Non deve partecipare una rappresentanza del legislativo, perché, come ha detto l'onorevole Dominedò, questa sarebbe una contaminazione del potere giudiziario. Penso che in tutte queste affermazioni vi sia l'estrinsecazione di un senso di scetticismo, di pessimismo e di diffidenza, onde può ben dirsi che noi viviamo quasi in un'atmosfera di continuo sospetto. E forse questa è la barriera più grande che divide, non solo in questo campo, gli uomini di tutto il mondo. Se abbiamo fiducia nella democrazia dobbiamo anche ritenere che vi è una forza intrinseca che purifica e non contamina la giustizia. Mentre questo sospettare il delitto, la malversazione, l'inganno, la frode ad ogni piè sospinto, mi pare che sia l'espressione di uno stato d'animo, che può essere forse giustificato dopo un periodo di tirannide, ma che deve essere fugato, in maniera che a questa democrazia, che vogliamo rinnovellare, sia infusa una vita nuova, una vita rispondente ai fini sociali, ai quali le nuove istituzioni devono essere indirizzate.

Purtroppo, noi non abbiamo più, forse, il senso esatto delle cose, proprio per quel fenomeno della tirannide di cui parlavo innanzi: noi temiamo che il potere legislativo possa sopraffare il potere giudiziario, sol perché entrino in questo dei rappresentanti del primo. Ma la verità è che il potere legislativo non ha mai sopraffatto gli altri poteri, e se tirannidi si sono avute, sono sorte fuori del potere legislativo, fuori delle Assemblee, fuori dei Parlamenti, e, quindi, bisogna diffidare di tutto ciò che non è emanazione della volontà popolare liberamente espressa: questo è il pericolo da cui bisogna difendersi.

L'indipendenza della Magistratura non consiste nell'isolamento; la partecipazione di un'equa rappresentanza di elementi laici al Consiglio Superiore deve essere imposta dalla Costituzione, perché è garanzia del mantenimento di quel legame indispensabile di continuità, che deve esistere fra vita sociale e Magistratura.

Ma l'indipendenza sia soprattutto affermata nelle estrinsecazioni concrete della funzione giurisdizionale. Si è suggerito giustamente che qualche cosa bisogna dire per rafforzare il principio dell'autonomia finanziaria del magistrato: sia questo anche detto incidentalmente, ma deve essere detto e legato, come un dovere, al legislatore futuro, giacché la libertà di cui parlava l'onorevole Dominedò, presuppone innanzitutto la libertà del magistrato da quel bisogno e da quel sospetto che potrebbe qualche volta incidere sulla funzione suprema della Magistratura.

Abbia questa indipendenza la Magistratura ed abbia anche tutto il potere giurisdizionale, perché, se si è parlato e si combatte per la creazione di un vero potere giudiziario, sarebbe assurdo che, mentre si lotta con tanto ardore, si consente poi che molte delle attribuzioni di questo potere siano esercitate proprio da coloro che il potere non posseggono, perché non hanno gli attributi del potere giudiziario.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti