[Il 12 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Abozzi. [...] La massa difende se stessa con l'insurrezione; il singolo si affida alla Magistratura, la quale però, per adempiere al suo compito, deve essere assolutamente autonoma, assolutamente indipendente.

Questa è una verità che, almeno in astratto è riconosciuta da tutti, anche da quelli che praticamente la negano; come la nega il nostro progetto di Costituzione, il quale, dopo aver solennemente — pomposamente, vorrei dire — affermato che il magistrato dipende soltanto dalla legge, che la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente, propone un Consiglio Superiore formato in gran parte di cittadini estranei all'ordine giudiziario ed eletti da un'Assemblea politica; cosa che tronca alla base qualunque idea di autonomia, qualunque idea di indipendenza. C'è, dunque, una tesi: la Magistratura deve essere autonoma e indipendente; e questa tesi, ripeto, è accettata da tutti.

[...]

Ma qualunque cosa si possa pensare di questa mia tesi, che può apparire ardita a un primo giudizio, non penso che si possa discutere il principio elettivo applicato al Consiglio Superiore della magistratura. E questo principio elettivo è accolto anche dalla nostra Costituzione, ma è accolto male. Il Consiglio Superiore non deve essere nominato da Assemblee politiche, ma da magistrati, e soltanto da magistrati. Le Assemblee politiche non possono rinunciare ai loro criteri politici, non possono rinunciare a quello che in loro c'è di necessariamente, di fatalmente politico. Se tale rinunzia facessero non sarebbero Assemblee politiche. Ed allora, per evitare che il Consiglio Superiore diventi un qualunque campo di competizioni politiche, si formi il Consiglio Superiore, come ho avuto l'onore di dire nel mio emendamento, con otto membri eletti per cinque anni da tutti i magistrati, fra gli appartenenti alle diverse categorie, sotto la Presidenza del primo Presidente della Corte di cassazione. E sempre per ottenere la totale esclusione della politica è anche necessario che l'azione disciplinare non sia promossa dal ministro, ma dal primo Presidente della Corte di cassazione. Il magistrato dev'essere un organo di raccordo fra i magistrati e lo Stato, ma non deve lanciare anatemi né far lusinghe politiche. Un deputato dell'Assemblea legislativa francese nel 1790 diceva che nei tempi d'oro della Magistratura francese il magistrato non poteva entrare al Louvre e neppure nelle Camere dei grandi. Sarebbe desiderabile che i magistrati italiani non frequentassero il gabinetto del Ministro né per ricevere anatemi, né per accettare lusinghe. Qualcuno pensa che la Magistratura autonoma possa diventare una casta o una fazione. A me pare che questa paura sia vana: avrebbe un fondamento se il magistrato, oltre che applicare la legge la formasse, ma il magistrato non crea il diritto, lo dice. Egli è soggetto alla legge che lo difende quando la legge difende, lo colpisce quando la legge colpisce. La sua sorte — di fronte alla legge — è quella del comune cittadino.

D'altra parte, io non so capire questa ingiustificata paura, anche per un altro verso. Noi viviamo in un tempo in cui la parola autonomia è di moda; non soltanto la parola, ma anche la cosa. Si sono regalate vaste autonomie regionali, larghe possibilità di legislazione alle Regioni. Perché si dovrebbe aver paura dell'autonomia concessa alla Magistratura? Non ho mai sentito che gli Stati possono morire perché non si sono accordate le autonomie regionali, ma in tutti i secoli si è detto che gli Stati muoiono quando la Magistratura è corrotta. L'asservimento è una forma di corruzione, forse la peggiore.

[...]

Cortese. Onorevoli colleghi, si dice che un letterato, Ferdinando Martini, allorché entrò, in visita ufficiale quale governatore, in un'aula del tribunale dell'Eritrea, leggendo quella scritta che sta in tutte le aule di giustizia «La legge è uguale per tutti», commentasse: Non basta che la legge sia eguale per tutti, la giustizia deve essere eguale per tutti. Ed infatti, non basta che sia eguale per tutti la formula astratta: la legge vivente, la legge a contatto con i fatti e con gli uomini, la legge che genera la sentenza: la giustizia deve essere «eguale per tutti».

A tal fine, poiché è soprattutto compito del legislatore costituzionale quello di garantire al massimo l'eguaglianza della giustizia, al legislatore costituzionale si pongono allo studio taluni temi fondamentali: l'indipendenza della Magistratura, la scelta del giudice, l'unità della giurisdizione, l'unità della interpretazione.

Non c'è più una giustizia feudale, una giustizia delegata dal principe; non c'è più il principe, ma c'è una forza nuova, sempre più espansiva, che l'esasperazione della lotta politica e la tecnica della organizzazione estendono e rinvigoriscono sempre di più: ci sono i partiti.

Mettere il giudice al riparo delle pressioni e dalle interferenze dei partiti deve essere una delle nostre preoccupazioni maggiori.

Quando noi diciamo che è pericoloso inserire nel Consiglio Superiore della Magistratura, ed in così larga misura, dei membri estranei, espressioni di correnti politiche che portano nel Consiglio Superiore della Magistratura l'espressione di tendenze politiche contrastanti, le pressioni di interessi politici, il contagio d'una politicità che si può propagare anche ai membri del Consiglio Superiore attinti dalla Magistratura; quando noi diciamo che con questa larga inserzione di elementi attinti dal potere politico è praticamente violato il proclamato principio della indipendenza e dell'autonomia della Magistratura sancito nell'articolo 96, — con tanto maggior danno quanto più è esasperata — come è ora — la lotta politica che tende di invadere ogni campo della vita italiana — ci si presentano talune obiezioni. Si dice: volete fare della Magistratura una casta avulsa da ogni altro potere.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, non è un organo che autonomamente detta le norme per la vita interna della Magistratura, ma applica quelle dettate dal potere legislativo con la legge sull'ordinamento giudiziario. Non dunque la «casta» che si dà un proprio statuto, ma un organismo che si amministra da sé applicando lo statuto che gli proviene dal di fuori. È pur sempre il potere legislativo che disciplina, organizza, ordina la vita interna della Magistratura. Noi chiediamo soltanto che per le promozioni, le assegnazioni, i trasferimenti, la disciplina, la Magistratura — applicando le norme dettate dal potere legislativo — si amministri da sé, mediante un suo organo elettivo disciplinato dalla Carta costituzionale, al fine di evitare che attraverso le pressioni e l'ingerenza da parte di elementi politici sulla carriera del magistrato si possa politicamente influire sulla condotta del magistrato nell'esercizio della sua funzione.

Ci si muove poi, un'altra obiezione: è benefico — affermano i comunisti — smuovere con l'intervento dell'elemento politico, più aderente al moto perenne della vita economica e sociale, il conservatorismo che mantiene immobile il magistrato nell'applicazione della legge. L'obiezione, per tanti versi contestabile, muove da un errore.

Il Consiglio Superiore della Magistratura non interviene né vigila per l'attuazione della legge, non censura e non approva le sentenze, non guida e non suggerisce nell'elaborazione giurisprudenziale. L'applicazione della legge è sottratta al suo compito e al suo esame. Comunque composto il Consiglio Superiore della Magistratura non ha in questo campo alcuna ingerenza. Il giudice sta libero tra la sua coscienza e la legge. L'obiezione infondata rivela però una pericolosa tendenza di fronte alla quale tanto più necessaria appare la esclusione degli elementi politici dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Onorevoli colleghi, il sistema è questo, il potere legislativo impone al giudice il binario con la legge processuale; lo lega alla attuazione della sua volontà sovrana con le leggi sostanziali con un legame tanto più solido e preciso, in quanto nel nostro sistema giuridico le norme sono rigorosamente codificate, a differenza di altri sistemi nei quali il magistrato può, con maggiore libertà, muoversi fra le fonti non codificate del diritto; il potere legislativo regola infine con l'ordinamento giudiziario la vita interna della Magistratura.

È questo il sistema, né il potere legislativo né quello esecutivo hanno la potestà di sindacare, d'influenzare l'applicazione giudiziaria della legge. Si accetti o no questo sistema, ma non si cerchino accorgimenti per esercitare influenze e controlli mascherati, presidiando con l'elemento politico l'organo regolatore della vita della Magistratura.

[...]

Veroni. [...] Io voglio ricordare che uomini di partiti diversi: l'onorevole Leone, nei lavori della seconda sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dal nostro Vice presidente onorevole Conti, l'onorevole Turco in questa Assemblea, un magistrato, l'onorevole Romano, hanno ricordato che questo decreto 31 maggio 1946, approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro Guardasigilli del tempo, è veramente una conquista per la classe dei magistrati, talché esso fu accolto dalla Magistratura con pieno plauso. I magistrati si ritennero soddisfatti ed esauditi nelle loro richieste, perché per la prima volta questo decreto affrontava e risolveva in pieno e conclusivamente il problema della inamovibilità del giudice, estendendola al pubblico ministero, e garantiva al magistrato l'esercizio delle sue alte funzioni lontano da ogni e qualsiasi influenza; perché, per questo decreto veniva creato un Consiglio Superiore della Magistratura, non come propone il progetto di Costituzione, che rappresenta un regresso di fronte a quello che è il voto e il desiderio dei magistrati, ma come era stato ardentemente reclamato dalla classe, un Consiglio, cioè, composto esclusivamente di magistrati. Così che nei lavori preparatori della Commissione competente si poté dire: «Ma che cosa di più la Magistratura potrà ottenere con il sospirato autogoverno? Che cosa può avere di meglio, quando il decreto sulle sue guarentigie tutto ha dato e tutto ha concesso?».

Il nostro collega onorevole Leone, politico apprezzato e profondo studioso di problemi giuridici, diceva che, per effetto del decreto del 31 maggio 1946, la Magistratura ha i Consigli giudiziari eletti per libera votazione della classe; ha il Consiglio Superiore della Magistratura costituito esclusivamente di magistrati eletti per libera elezione; ha al Consiglio Superiore della Magistratura attribuito i più larghi poteri, sì da far ritenere giustamente che esso rappresenti il frutto della costante e lunga lotta che la Magistratura aveva affrontato, sostenuto, superato.

Ma, onorevoli colleghi, i magistrati ora non si dimostrano più pienamente soddisfatti.

Dopo essersi dichiarati sostanzialmente soddisfatti nelle loro aspirazioni, esaudite attraverso la collaborazione data alla formazione del decreto sulle loro guarentigie (e nella Commissione erano infatti presenti, fra gli altri, altissimi magistrati come Pagano, Pilotti, Piga, Manca, Spallanzani, Azzariti, ecc.), i magistrati chiedono il completo autogoverno, dopo aver ottenuta la completa sospirata autonomia.

L'onorevole Bozzi ha detto che per autogoverno si deve intendere soltanto quello amministrativo; ma ciò non è completamente esatto: quando i magistrati chiedono l'autogoverno vanno molto al di là di questa funzione amministrativa che l'onorevole Bozzi vorrebbe riconoscere all'autogoverno stesso. I magistrati vogliono con l'autogoverno poter provvedere essi alle nomine, alla destinazione e alla rimozione dei magistrati, avere l'iniziativa e il controllo della disciplina della classe, governare, insomma, su tutto quello che attualmente costituisce il potere del Ministro della giustizia. Ora nessuno può e deve contestare, alla classe dei magistrati, piena autonomia ed indipendenza, senza pervenire però a quell'autogoverno, che farebbe di essi una casta chiusa, quasi appartato dal vivere civile.

Una tale tendenza, che non tutti i magistrati possono volere e possono desiderare, dovendo anch'essa, la classe dei giudici, considerarsi uno degli elementi essenziali della vita febbrile del Paese, condurrebbe il giudice e la sua classe ad appartarsi, per governare unicamente il proprio ordine, per provvedere alla propria disciplina, per amministrarne le finanze, per regolarne l'andamento, ecc.

Ecco perché noi diciamo che il decreto 31 maggio 1946 sulle guarentigie della Magistratura, che prevede la soluzione del problema dell'indipendenza attraverso l'inamovibilità del giudice, ed estendendola anche al pubblico ministero, questo decreto è — secondo l'opinione nostra e secondo quella che era, allora, l'opinione della classe dei magistrati — quanto di più può desiderarsi e concedersi, oltre di che, nelle condizioni attuali del nostro Paese, non è consentito andare.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti