[Il 14 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Presidente Terracini. [...] Poiché stamane l'Assemblea ha deliberato la chiusura della discussione generale, darò ora facoltà di parlare ai relatori sul Titolo IV della parte seconda del progetto di Costituzione.

L'onorevole Leone Giovanni ha facoltà di parlare.

Leone Giovanni. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, i tre temi centrali, sui quali è vertita l'appassionata, lunga, interessante ed accesa discussione, possono così identificarsi: 1°) indipendenza del giudice; 2°) indipendenza della Magistratura o, meglio, del potere giudiziario; 3°) unità della giurisdizione.

È bene avvertire fin da questo momento che i tre temi sono strettamente collegati; perché un giudice non può essere veramente indipendente se non è inquadrato in un organismo, in un ordine che, per essere a sua volta autogovernato, cioè indipendente da ogni altro potere, possa garantire l'indipendenza dei suoi membri; perché un ordine giudiziario in tanto può assicurare ai suoi membri la massima indipendenza in quanto è in grado di realizzare l'indipendenza della sua organizzazione; perché, infine, tutte le fratture nell'unità della giurisdizione — la quale si concreta nel principio che l'amministrazione della giustizia è affidata solo a giudici appartenenti ad un ordine indipendente, a loro volta garantiti da un complesso di condizioni che ne assicurino la libertà di azione costituiscono un pericolo per l'indipendenza del giudice.

Questo collegamento o questa interdipendenza fra i tre temi non occorrerebbe che venisse qui segnalata, se non fosse intervenuta un'autorevole parola in senso diverso. Alludo all'intervento dell'onorevole Gullo; perché l'onorevole Gullo pose al centro del suo discorso un'audace, singolare distinzione fra indipendenza del potere giudiziario e indipendenza dell'organo: quella riaffermava, questa negava.

Ora, senza la pretesa di esaurire compiutamente il delicato problema, a me pare profondamente errata tale concezione, non potendosi aspirare a fondare l'indipendenza di un ordine o meglio di un potere senza accettare l'indefettibile base della indipendenza dei singoli organi di quel potere. In verità, l'errore non sta tanto nell'affermazione che qui si critica quanto in un equivoco che in tema di indipendenza della Magistratura si è venuto in questa discussione perpetuando e che urge chiarire, perché ha raggiunto proprio nel discorso Gullo la più alta, esplicita ed aperta manifestazione. Quando infatti si dice che l'espressione «il magistrato deve applicare la legge» è insidiosa e pericolosa (e si fa ricorso a recenti casi giurisprudenziali, sui quali la brevità del dibattito non mi consente di indugiare); quando si afferma che i giudici non si devono chiudere in una interpretazione letterale, ma devono sentire la somma di aspirazioni e di speranze che vengono su nei cieli della democrazia; quando si dice che i magistrati non sono riusciti a percepire il nuovo clima e che infine l'ordine giudiziario non può essere formato da soli magistrati, che porterebbero il senso della casta, mentre gli estranei portano la visione loro dei problemi giudiziari, indipendentemente dalla veste di magistrati, i quali vedono in una maniera angusta; e tutto questo si afferma per sostenere quella composizione mista del Consiglio Superiore, che anche noi vogliamo (ma per altri motivi differenti, come vedremo); si denuncia in maniera chiara l'equivoco della impostazione; giacché la partecipazione di elementi estranei al Consiglio Superiore, massimo organo di governo della Magistratura, non vale, né può valere, né dovrà mai valere a correggere la pretesa angusta visione del magistrato, ma mira solo ad impedire che l'organizzazione della carriera del magistrato possa diventare un cerchio chiuso, trasformandosi in una casta. Poiché il magistrato ora, come domani nella nuova Costituzione, è svincolato da ogni legame gerarchico nell'esercizio della funzione giurisdizionale, in iure dicendo, cioè nella interpretazione e nell'applicazione della legge; gli elementi estranei non potranno, e non dovranno, influire sul libero esercizio di tale altissima, sovrana, libera potestà che ha due sole luminose direttrici cui obbedire: la legge che è fuori del giudice, la coscienza che deve essere la grande ispiratrice interiore del giudice; diremo, in termini kantiani, la legge dello Stato fuori di sé, la legge morale dentro di sé.

Occorre ancora una volta ribadire l'affermazione che una cosa è la disciplina di carriera del magistrato, altra cosa è l'esercizio della funzione giurisdizionale: quella può subire e ha subìto alterne vicende; questa non può subire — e da molti anni, con la stessa fondazione dello Stato moderno, non ha subìto — delle vicende. La carriera del magistrato può essere più o meno influenzata da altre forze e da altri poteri; la funzione giurisdizionale si ribella a ogni vincolo e non conosce altra soggezione che alla legge.

Sarebbe veramente singolare che quella funzione giurisdizionale, la quale, quando emanava dal Re, era indipendente e sovrana, ora, che è espressione dello Stato repubblicano, non fosse più tale!

[...]

Indipendenza della Magistratura, ovvero del potere giudiziario. A questo punto va ripreso l'accenno, che abbiamo posto in principio, all'indefettibile collegamento dei tre temi di indagine: indipendenza del giudice, indipendenza della Magistratura, unità della giurisdizione.

Se la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura nel Consiglio Superiore deve essere adottata, essa risponde ad esigenze profondamente diverse da quelle che in alcuni settori sono state segnalate; ed è bene che in questa sede la mens legis sia chiaramente espressa.

Qui non si tratta di immettere nella funzione giurisdizionale elementi non tecnici, espressione del popolo e non di casta (come si è voluto dire); ma si tratta di realizzare, mediante la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura al Consiglio Superiore, il più idoneo strumento di autogoverno e di indipendenza della Magistratura stessa.

Il Consiglio presiede all'amministrazione della Magistratura: questo è il punto che non si deve perdere di vista. Presiede, cioè, a tutta l'attività che accompagna la vita del magistrato; ma non ha e non può avere alcuna ingerenza nell'esercizio della funzione giurisdizionale.

Questa non conosce poteri superiori, non conosce gerarchia, non conosce vincoli. Libera da ogni legame, la funzione giurisdizionale non obbedisce che alla legge e non si ispira che alla coscienza del giudice. Se, pertanto, la partecipazione di elementi estranei non vale ad inserire nella amministrazione della giustizia un elemento così detto popolare (cioè un'espressione della sovranità popolare), risponderà ad altri fini; e tali fini concernono non l'amministrazione della giustizia, bensì il governo della carriera del magistrato, che è cosa ben differente.

In altri termini, dal punto di vista astratto, l'indipendenza del giudice si riafferma sempre, anche con una Magistratura non indipendente. Si tratterà di condizioni per realizzare questa indipendenza e si tratterà di una maggiore o minore possibilità di resistenza agli elementi esterni che possano frapporsi alla realizzazione di questa indipendenza.

Ecco perché dobbiamo mirare alla indipendenza della Magistratura. Ma nessuno ha dubitato mai che il magistrato nell'amministrazione della giustizia possa non essere indipendente. La funzione giurisdizionale è stata sovrana anche quando il giudice personalmente non aveva guarentigie di indipendenza.

Ora, il nostro compito sta in ciò: nel congegnare un governo della carriera del magistrato che miri ad assicurare il massimo di quelle condizioni che ne garantiscano l'indipendenza nella funzione giurisdizionale. Checché possiate scrivere in tutte le Costituzioni in senso contrario — e noi non lo vogliamo perché desideriamo imprimere un progresso alla civiltà del Paese — nessuno può coartare la coscienza del giudice, che è sovrano anche quando sa che fuori la porta vi può essere un pericolo per la sua libertà o per la sua carriera.

Noi dobbiamo mirare — e questo è il compito della Assemblea Costituente — a costruire una organizzazione della carriera del magistrato la quale, svincolata dalle influenze di poteri e di forze estranee, possa rendere più facile al giudice, o comunque meno difficile, l'esercizio di quella sovranità nella funzione giurisdizionale, di quella indipendenza nella funzione giurisdizionale, che egli ha, e che vuol vedere soltanto riconsacrata nella Costituzione e perfezionata nelle applicazioni pratiche. Orbene, sotto questo aspetto — come strumento, cioè, per realizzare l'indipendenza della Magistratura che, se deve essere libera ed indipendente, non deve essere distaccata dalla vita dello Stato — la partecipazione di elementi estranei o laici al Consiglio Superiore ha una ragione di essere ed è questa: eliminare il timore, che si è profilato non solo nei settori politici ma anche in alcuni settori interessati, di un Consiglio Superiore, massimo organo di governo della carriera dei magistrati, che, composto solo di magistrati, possa trasformarsi in un organo di casta, intorno al quale si coagulino interessi, intrighi, protezioni, preferenze tali da costituire un pericolo per l'indipendenza dei singoli giudici. Il giudice vedrebbe trasferite in altra sede quelle ansie che attualmente possono orientarsi verso il potere politico: forse non più interferenze politiche, ma forse più interferenze personali.

Ecco la preoccupazione che ci ha indotto a profilare, a proporre la composizione mista del Consiglio Superiore. Intendiamoci: questo pericolo inciderebbe su quella serenità del giudice che, come abbiamo più volte avvertito in questo discorso, non deve essere insidiata. Ma di altri pericoli non si deve parlare; non si deve parlare del caso, che è stato pure profilato da qualcuno di noi, di una Magistratura che si rifiutasse di applicare la legge; perché, a parte il carattere aberrante di questo fenomeno (che costituirebbe un vero conflitto tra poteri statali), il Consiglio Superiore non ha poteri in tema di esercizio della funzione giurisdizionale, ma solo in tema di amministrazione, cioè di carriera del magistrato. Il Consiglio Superiore non potrà vincolare i magistrati a una certa interpretazione; non potrà indurli a un certo orientamento nell'esercizio sovrano della funzione giurisdizionale. Il Consiglio Superiore ha soltanto il governo della Magistratura.

Il pericolo, però, di un autogoverno (così delimitato) staccato del tutto dagli altri poteri statali, come tale suscettibile di instaurare una organizzazione di casta, non poteva essere dissimulato e ad eliminarlo tre congegni si presentavano idonei:

[...]

c) creare il collegamento fra gli altri poteri ed il potere giudiziario, che minaccerebbe di restare un corpo chiuso, un'amministrazione di casta; e sopratutto impedire che questo corpo chiuso possa creare una interna sua organizzazione oppressiva della libertà e della serenità della carriera del magistrato. È il sistema che abbiamo adottato nel progetto da noi proposto, secondo cui il Consiglio Superiore è composto in maniera mista.

Alle critiche che sono state esposte in questa sede alla composizione mista del Consiglio Superiore risponderò in maniera sintetica, chiedendo scusa ai colleghi, le cui argomentazioni sono state tutte valutate, se di esse non posso tenere conto dettagliatamente per la brevità del mio intervento.

Osserverò:

1°) che gli elementi estranei, pur venendo eletti dal Parlamento, non possono essere qualificati come espressione di un orientamento politico. Nessuno si nasconderà che nelle elezioni di tali membri giocheranno le preferenze di colore; ma nessuno potrà sostenere che i membri eletti dal Parlamento entrino nel Consiglio Superiore in funzione politica, come espressione di una parte politica.

A garantire sovrattutto contro questo pericolo varrà la delimitazione delle categorie degli eleggibili secondo l'emendamento proposto dall'onorevole Conti, da me e da altri, che risponderà al duplice scopo di assicurare elementi provvisti di preparazione e di sensibilità ai problemi della Magistratura e di garantire l'imparzialità e la serenità;

2°) che, anzi, tali elementi laici potranno, per la particolare qualificazione delle categorie da cui provengono, realizzare quella difficile, ma necessaria, saldatura tra le esigenze proprie dell'amministrazione della Magistratura e l'aspirazione ad un'organizzazione che non si isterilisca nella formazione di un corpo chiuso;

3°) che, infine, la partecipazione di diritto del Primo Presidente della Cassazione e, se accogliete il nostro emendamento, del Procuratore generale difende la Magistratura dal pericolo (e sovrattutto dall'offesa al prestigio dell'ordine giudiziario) di una maggioranza di elementi laici.

Mentre questi rilievi devono valere a placare le preoccupazioni di coloro che sono del tutto contrari alla composizione mista ed a coloro che vorrebbero modificare il giuoco delle proporzioni in tale composizione mista; va detto a coloro che volessero muovere verso una più ampia partecipazione di elementi estranei che tale tentativo costituisce un regresso nell'indipendenza della Magistratura. Qui occorre fermarsi alla reale constatazione della situazione attuale della Magistratura, in base all'ordinamento giudiziario italiano, al quale così ampie riforme, piene di promesse di speranze, apportò il decreto legislativo Togliatti del 31 maggio 1946. Attualmente il governo della carriera dei magistrati è in gran parte nelle mani del Consiglio Superiore ed il potere disciplinare è affidato ad un organo analogo (Commissione disciplinare): organi composti tutti da magistrati. Questo è il punto dal quale bisogna partire se si vuol mirare ad una onesta soluzione del problema, che è il problema centrale della sezione che concerne la Magistratura. È un punto di vista che non può essere disatteso.

Si entra in Magistratura attraverso un concorso. La Commissione è composta quasi esclusivamente di magistrati, con partecipazione di professori universitari. Si è promossi mediante un triplice congegno, nel quale interviene o il Consiglio Superiore se si tratta di scrutinio, o una commissione di magistrati se si tratta di concorso.

Quale è il destino, sotto l'aspetto disciplinare, della Magistratura? Tutte le sanzioni disciplinari sono sottratte al potere esecutivo. Sono consegnate nelle mani di corpi periferici o centrali esclusivamente composti di magistrati.

Questi organi hanno una vera e propria giurisdizione.

Sicché, sintetizzando — e questa sintesi è indispensabile, perché possiamo muovere alla risoluzione del problema con consapevolezza — sintetizzando: ingresso in carriera per concorso giudicato da magistrati; promozioni, quale che sia il congegno, giudicate da magistrati; sanzioni disciplinari applicate da magistrati.

A che si riduce il potere del Ministro della giustizia in questo momento, nei confronti del magistrato? A congegni teoricamente modesti, che però sono praticamente più pericolosi.

Ecco il punto che occorre esaminare.

Il Ministro della giustizia ha una discrezionalità nell'assegnazione al magistrato della prima sede; quando il magistrato abbia superato il concorso, il Ministro è arbitro di mandarlo in Sardegna o a Roma. Anche qui è la discrezionalità, che dev'essere chiamata in causa, perché, se si tratta del primo vincitore del concorso, questi non andrà in Sardegna. Quando il magistrato chiede il trasferimento in altra sede, è nella discrezionalità del Ministro di assegnare questa sede, cui il magistrato aspira. Quando il magistrato è promosso, il Ministro ha il potere di assegnare la nuova sede.

Questi tre poteri ha il Ministro della giustizia sulla Magistratura. Tutto il resto rientra in quello che si dice autogoverno. Lo so che questa parola è pericolosa. Assumo in pieno la parte di responsabilità che mi compete per la partecipazione che ho avuto a questa formulazione pericolosa. Quando si è parlato di autogoverno, si è pensato quasi ad uno spodestamento del Ministro per la giustizia.

Noi invece, non facevamo altro che perfezionare l'armonia del sistema vigente. Se tutta la carriera del magistrato è nelle mani della Magistratura, se soltanto i tre indicati congegni, che sono i meno importanti astrattamente, ma i più praticamente pericolosi, sono fuori dell'autogoverno della Magistratura e sono, invece, nelle mani del Ministro, perché non trasferire anche questi tre poteri al Consiglio Superiore, il quale, mentre oggi è composto esclusivamente di magistrati, come la corte disciplinare, domani si trasformerebbe in quel Consiglio Superiore che abbiamo proposto, composto per metà di magistrati (più il Primo Presidente ed il Procuratore generale) e per metà di elementi laici?

Questa è la situazione della Magistratura.

Perciò, io ho il diritto — e sono grato all'onorevole Veroni che lo ricordava qualche giorno fa — ho il diritto di ripetere quello che dicevo all'adunanza plenaria dei Settantacinque: dovete dirci se vogliamo far compiere un regresso alla Magistratura, ed allora assumetene la responsabilità. Peserà, in tal caso, sulla giovane Repubblica italiana la responsabilità di avere riportata indietro l'indipendenza della Magistratura. Ma, se noi vogliamo, non dico aumentare l'indipendenza, ma per lo meno mantenerla integra, il progetto è la massima concessione che si possa fare ad elementi estranei alla Magistratura. Noi su questa impostazione leale, e che sottomettiamo all'esame dei colleghi, intendiamo che sia condotta consapevolmente la nostra indagine, la nostra decisione. O un progresso alla Magistratura, che lo merita, non per suo privilegio, ma per nostra garanzia, per la sicurezza, per il fondamento dello stato moderno; o il regresso, di cui dovreste assumere la responsabilità.

La presidenza del Consiglio Superiore, a mio avviso, dovrà restare attribuita al Capo dello Stato. Essa, innanzitutto, come è stato rilevato, conferisce particolare solennità al massimo organo di governo della Magistratura, la quale avvertirà in tale presidenza, che probabilmente sarà soltanto simbolica, non l'espressione della interferenza di un altro potere, perché il Capo dello Stato è al di sopra degli altri poteri; bensì la consacrazione della sua altissima funzione.

Ma essa obbedisce anche ad un criterio di simmetria costituzionale, che non può sfuggire. I tre poteri dello Stato, avendo come vertice il Presidente della Repubblica, in lui si ricongiungono, pur senza in lui confondersi. È chiaro che questa Presidenza del Capo dello Stato costituirà uno dei pochi atti, per i quali non sarà richiesta la garanzia ministeriale.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti