[L'11 luglio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue l'esame degli emendamenti agli articoli del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.]

Presidente Targetti. [...] Si passa ora all'articolo 113 nel nuovo testo presentato dal Comitato di redazione.

Se ne dia lettura.

Molinelli, Segretario, legge:

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.

«Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali per provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni normali.

«Per provvedere ad altri scopi determinati lo Stato può assegnare a singole Regioni contributi speciali.

«La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica.

«Non possono istituirsi dazi d'importazione ed esportazione, o di transito fra l'una e l'altra Regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose».

Presidente Targetti. Passiamo subito allo svolgimento dei varî emendamenti.

L'onorevole Codignola ha presentato due emendamenti su questo articolo. Il primo emendamento è così formulato:

«Sostituire i primi quattro commi coi seguenti:

«La Regione provvede alle proprie necessità finanziarie mediante sovrimposte o quote di tributi erariali e comunali, e contributi erariali ad essa riservati dallo Stato, o con tributi propri, nei limiti e con le modalità previsti dalla legge. Per l'accertamento e l'esazione dei tributi, la Regione si avvale degli organi dello Stato a ciò designati.

«La Regione ha un proprio demanio e patrimonio secondo le disposizioni di legge.

«Lo Stato conserva la facoltà di assegnare alle Regioni meno provviste di mezzi, particolari sovvenzioni, nell'interesse del loro sviluppo ovvero in quello generale del Paese».

Inoltre l'onorevole Codignola propone il seguente altro emendamento:

«Fare del quinto comma un articolo a sé del seguente tenore:

«Non possono istituirsi dazi d'importazione ed esportazione o di transito fra l'una e l'altra Regione; né prendersi provvedimenti che mirino comunque alla creazione di privilegi in favore di una o più Regioni a danno di altre o della generalità dei cittadini. L'unità dell'economia nazionale ed internazionale e la libera circolazione delle persone, del lavoro e dei beni non troveranno ostacolo nell'ordinamento autonomistico dello Stato».

L'onorevole Codignola ha facoltà di svolgere i suoi emendamenti.

Codignola. Il Comitato di redazione ha già modificato la primitiva formula, in quanto ha soppresso quella parte che riguardava i cosiddetti fondi per fini speciali. Ma anche l'attuale formulazione presenta, mi pare, qualche punto oscuro. Anzitutto, non si accenna affatto alla necessità, che a me pare fondamentale, dell'unicità degli organi di accertamento e di esazione dei tributi. A questo riguardo non vi è alcuna indicazione, neanche nel nuovo testo dell'articolo 113.

Io ritengo che, se la cosiddetta autonomia finanziaria dovesse comportare una moltiplicazione degli organi di accertamento e di esazione dei tributi, noi verremmo a creare una serie di difficoltà molto notevoli, e perciò ritengo che nel testo costituzionale sia opportuno inserire il principio che per l'accertamento e l'esazione dei tributi la Regione si avvale degli organi dello Stato a ciò destinati.

Mi pare, anche, che sarebbe opportuna qualche altra precisazione. Anzitutto, vorrei sapere dall'onorevole Ruini, Presidente della Commissione, che cosa la Commissione abbia voluto intendere con l'espressione «autonomia finanziaria» che, a dire il vero, è molto oscura.

Cosa significhi, dal punto di vista tecnico, «autonomia finanziaria» di una Regione, non riesco a capire. Possiamo dire semplicemente che la Regione provvede alle proprie necessità con determinati tributi; ma dire che la Regione ha una propria autonomia finanziaria, quando l'intero Paese costituisce tutta un'unità dal punto di vista finanziario, non riesco a capirlo. E penso che sarebbe opportuno che nel testo definitivo questa espressione venisse meno e si trovasse una formula meno equivoca.

Vorrei poi fare osservare che al comma secondo si afferma che alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali. Ora, mi pare che si dovrebbe precisare «quote di tributi erariali e comunali», poiché ci possono essere dei casi in cui la Regione applica una addizionale sui tributi comunali. È un caso che dovrebbe essere, comunque, previsto, perché non si deve precludere la possibilità che esso si verifichi.

Quindi io suggerirei, come è indicato nel mio emendamento, la formula «mediante sovrimposte, o quote di tributi erariali o comunali, o contributi erariali ad essa riservati dallo Stato».

Ricordo che nello Statuto siciliano sono passate alcune cose estremamente gravi su questo argomento, poiché nello Statuto siciliano si è data, in sostanza, facoltà al Governo della Regione di stabilire esso quali saranno i tributi dello Stato che restano allo Stato e quali quelli che passano alla Regione: tanto è vero che il Governo siciliano ha interpretato questa norma, nel senso che tutti i tributi erariali, salvo quei pochi espressamente indicati dallo Stato, come di sua pertinenza, passano alla Regione.

Ora, bisogna ben chiarire che è lo Stato che determina quali sono i tributi erariali che restano ad esso e quali quelli che devono passare alla Regione, e ciò per evitare la possibilità che sia, invece, la Regione a determinare quali siano i tributi erariali che essa assume a proprio favore.

Un'ultima cosa: il quinto comma del testo proposto dalla Commissione accenna al punto fondamentale del divieto di dazi di importazione e di diritti doganali. Mi pare che bisognerebbe dare maggior rilievo anche formale a questo quinto comma, perché esso è fondamentale. Questo comma ci garantisce che l'autonomia regionale non costituirà ostacolo allo sviluppo economico del Paese; quindi, non soltanto propongo di fare di questo comma un articolo a sé, ma credo che sia necessario adottare una formulazione più ampia, che stabilisca esplicitamente che non vi potrà essere alcun ostacolo alla libera circolazione delle persone, del lavoro e dei beni sul territorio nazionale, e che costituisca una maggiore garanzia rispetto alla formulazione proposta dalla Commissione.

Nitti. Chiedo di parlare.

Presidente Targetti. Onorevole Nitti, su che cosa desidera prendere la parola?

Nitti. Per una mozione d'ordine.

Presidente Targetti. Ha facoltà di parlare.

Nitti. Noi siamo stati finora nell'indeterminato. Qui ci troviamo di fronte ad un argomento concreto e preciso di cui non possiamo parlare senza avere una guida, una traccia, un'indicazione. Quale sarà cioè la finanza della Regione? Quale sarà la finanza locale? Improvvisazione: nessuno di noi, infatti, in questo momento, è preparato a fare progetti concreti sulla finanza regionale.

Ma è evidente che la Commissione e il relatore soprattutto debbono aver studiato questo argomento e debbono essere in grado di esporci il loro programma in forma concreta. Quale sarà la finanza della Regione, quale sarà quella della Provincia, quale sarà quella del Comune? Come sarà organizzata? In qual modo e in base a quali criteri saranno prelevate le entrate? E in che misura?

È evidente che tutto questo noi dovremmo sapere con una certa precisione, in modo da fare la discussione che ci apprestiamo a condurre, su dati concreti. Vorrei, quindi, pregare l'onorevole relatore di esporre egli, prima che altri parli, i risultati delle sue ricerche. Vorrei insomma conoscere, sia pure in modo relativo, quali siano le previsioni delle entrate, quali siano le previsioni delle spese. La mia mozione d'ordine consiste, quindi, nel proporre, prima che ci si lanci nelle ipotesi e nelle discussioni, che l'onorevole Ruini ci esponga le sue considerazioni sulla materia: spero che egli non avrà nulla in contrario.

Presidente Targetti. Invito l'onorevole Ruini a dichiarare se intenda fornire le notizie richieste dall'onorevole Nitti.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Avrei preferito che i presentatori di emendamenti li avessero svolti, così da non costringermi a parlare altre volte. Avrei desiderato che si sentisse un po' di pietà per la mia persona e per la mia stanchezza. Comunque, parlerò subito.

Presidente Targetti. Onorevole Ruini, è una sua facoltà; nessuno la obbliga.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. No; io mi inchino di fronte all'invito dell'onorevole Nitti.

Per dargli i chiarimenti che mi ha richiesti, debbo prima di tutto spiegare quali sono le nostre proposte. È necessario aver davanti un quadro d'insieme; non per conoscere fin da ora, nei suoi dettagli, il sistema tributario della Regione; ma per saperne le grandi linee, per «uscire dall'indeterminato»; come dice l'onorevole Nitti, che domanda soltanto, ed io concordo con lui, delle tracce e delle direttive.

L'articolo sulla finanza della Regione è composto di cinque commi. Prima delle ultime modifiche, era foggiato così. Si cominciava affermando l'autonomia finanziaria della Regione ed il coordinamento del suo sistema tributario con quello dello Stato e degli altri enti locali. Qualcuno potrebbe osservare che l'affermazione dell'autonomia è un pennacchio; e che, se autonomia finanziaria vi è, deve risultare da tutto l'insieme dell'articolo. Ma qualche volta anche i pennacchi hanno la loro ragione d'essere.

Secondo comma. Si stabiliva di dare alle Regioni tributi propri o quote di tributi erariali, in modo che anche le Regioni meno provviste di mezzi potessero provvedere alle loro funzioni essenziali. Ecco la sostanza dell'autonomia; da realizzare appunto, sia con tributi esclusivamente assegnati alla Regione, sia con quote di tributi dello Stato; il quale punto va inteso non soltanto nel senso che vada alla Regione una parte di dati tributi riscossi nel suo territorio, ma che possa spettare una parte del gettito generale di qualche tributo dello Stato. Con la graduazione delle quote, diversa a seconda dei bisogni delle Regioni (maggiore nella Basilicata che nelle ricche Regioni del Settentrione) si ha modo di mettere le più povere in grado di adempiere le loro funzioni essenziali.

Ma non basta. Oltre alle attività ordinarie, le Regioni, specialmente le povere, possono sentire il bisogno di svolgere, per determinati scopi attinenti al proprio compito, lavori e sforzi che eccedono il criterio di normalità, e non si possono sostenere coi mezzi tributari assegnati alle Regioni stesse. Ecco dunque il terzo comma dell'articolo, che nel testo originario prevedeva fondi speciali — i cosiddetti fondi di solidarietà — da istituirsi con leggi della Repubblica, che ne avrebbero determinato le fonti, la gestione, col concorso di tutte le Regioni, ed i modi di riparto e di elargizione alle Regioni bisognose.

Questi erano i capisaldi della finanza regionale. Gli ultimi due capoversi riguardano il demanio e patrimonio, ed il divieto di imporre dazi di esportazione ed importazione da Regione a Regione.

Il Comitato di redazione, nell'incessante lavoro di revisione al quale si assoggetta, di fronte alla pioggia di emendamenti presentati nell'Assemblea, ed alla nuova riflessione che suscitano questi non facili problemi, ha proposto alcune modifiche all'anteriore formulazione.

Il primo comma resta quale era. Richiamo la vostra attenzione sull'esigenza di coordinamento con la finanza delle Province e dei Comuni; esigenza che corrisponde all'altra — l'abbiamo già visto all'articolo 112 — di rivedere e ridistribuire le funzioni di tutti gli enti locali, agli effetti della loro efficienza e del loro potenziamento.

Resta anche il secondo comma, nella sua sostanza. Soltanto, invece di «essenziali» abbiamo messo «funzioni normali»; perché la prima espressione poteva sembrare troppo stretta, troppo all'osso; e così le altre che si presentavano di funzioni facoltative o straordinarie, collegate alle attuali categorie di spese, nei riflessi contabili e di bilancio. Si è preferito far capo al criterio di normalità, che non va inteso in un senso di mera conservazione e manutenzione; ed imprimere un ritmo progressivo di sviluppo, nel limite delle risorse finanziarie attribuite stabilmente alla Regione.

Quando, invece, si tratta di attività straordinarie ed eccezionali che, sempre nell'ambito dei propri compiti, la Regione intende svolgere per intensificare ed agevolare il proprio sviluppo — ed a tale sforzo non possono bastare le risorse normali — allora sorge la necessità di provvedere in modo particolare. A questo riguardo il Comitato ha creduto di abbandonare il sistema dei «fondi speciali» o di solidarietà, che dà luogo a complicazioni ed a possibili contrasti fra Regioni che elargiscono e Regioni che ricevono. Non ha creduto, come fanno alcuni emendamenti, di parlare di «sovvenzioni», che non è espressione degna, o di «integrazione di bilancio», che richiama metodi ed inconvenienti, ai quali si vuole ora por fine, per gli enti locali. È molto meglio stabilire, e dire semplicemente, che per determinati scopi, al di là delle funzioni normali — nel senso che ho spiegato — lo Stato assegnerà, con le sue leggi, alle Regioni, contributi speciali. Il che potrà avvenire di fatto, con attribuzioni di cespiti ad hoc o con prelievo dal complesso del bilancio statale; senza bisogno di istituire macchinosi e contesi fondi di solidarietà. Le Regioni potranno avanzare le loro richieste, e farle valere attraverso il Parlamento, e specialmente il Senato, dove avranno una più diretta rappresentanza. Io ho sostenuto e difendo questo modo più pronto e più lineare di venir incontro alle aspirazioni delle Regioni meno fortunate.

Nulla dirò degli ultimi due commi, che si mantengono; sebbene a me personalmente non sembri necessario l'ovvio richiamo al demanio ed al patrimonio della Regione; e mi sembri pure non necessario ed un po' strano il divieto, che fu messo per insistenza dell'onorevole Einaudi, di dazi d'esportazione ed importazione all'interno di uno Stato unitario ed «indivisibile», come l'abbiamo esplicitamente dichiarato. Non si dovrebbe pensare, neppure in via di ipotesi, a simili dazi. Comunque, poiché la questione fu messa, il Comitato conserva la disposizione.

Resta così tracciato il quadro delle proposte che il Comitato fa, in tema di finanza della Regione.

Riservandomi di esaminare, uno ad uno, i numerosi emendamenti presentati da numerosi colleghi, accennerò soltanto, per ora, a due di essi, che hanno una portata generale, come l'emendamento Preti, o sistematica, come l'emendamento Codignola. Col primo non si richiede più una legge di valore costituzionale, ma una legge ordinaria della Repubblica per stabilire le norme sull'autonomia finanziaria della Regione e sul coordinamento con le finanze locali. Il Comitato dapprima aveva ritenuto che, trattandosi di garantire l'autonomia, sarebbe occorsa una legge costituzionale; ma poi è prevalsa la riflessione che, se così fosse, ogni pur lieve modifica di tributo assegnato alla Regione avrebbe richiesta la lunga procedura necessaria per tali leggi di tipo costituzionale. Può bastare la legge ordinaria della Repubblica, tenendo conto che l'autonomia finanziaria è garantita dal complesso delle norme tracciate in questo stretto articolo. L'emendamento Preti è dunque accettato.

L'onorevole Codignola ha testé svolto un emendamento che rivela la sua diligenza ed il suo desiderio di precisione. Vorrebbe perfezionare, comma per comma, il nostro testo. Ma non lo possiamo seguire, quando sopprime la dichiarazione d'autonomia tributaria, che, per quanto di principio, ha un significato nel fermare, anche sotto tale aspetto, il volto della Regione; e diventa ancor più opportuna, in quanto ci rimettiamo a leggi ordinarie della Repubblica. Nel secondo comma l'onorevole Codignola indica, fra le possibili fonti, anche le sovrimposte; ma sembra che possano rientrare nella designazione generale da noi adottata. Prosegue, l'onorevole Codignola, suggerendo di stabilire che l'accertamento dei tributi debba sempre aver luogo da parte di uffici governativi; ma ciò non è necessario, e contrasta con quanto ora avviene per certi tributi che sono accertati e riscossi da enti locali; le leggi che regoleranno queste materie provvederanno nel modo più acconcio e sicuro; né occorre, al riguardo degli accertamenti, una norma nella Costituzione. L'onorevole Codignola parla già di «sovvenzioni» che lo Stato ha facoltà di assegnare alle Regioni...

Codignola. Ho rinunciato.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Va bene. Non insisterò sull'aggiunta all'ultimo comma — anzi, l'onorevole Codignola vorrebbe farne un articolo a parte — per vietare alle Regioni di stabilire «privilegi» per sé e pei propri abitanti. Che cosa vuol dire? Qui non c'è lo spirito di precisione dell'onorevole Codignola; la sua non è una norma di chiara consistenza giuridica; ed il generico diniego dei privilegi rientra nel principio generale dell'eguaglianza, che la Costituzione proclama in uno dei primi suoi articoli. Non possiamo, dunque, aderire al tentativo, lodevole ma non riuscito, dell'onorevole Codignola di migliorare il nostro testo.

Ho spiegato quali saranno i principî da introdurre nella Costituzione; e ciò anche per andare incontro al desiderio di chiarimenti dell'onorevole Nitti. Egli vuol «uscire dall'indeterminato»; ma intanto crede che non si dovrebbe mettere nulla nella Costituzione sulla finanza delle Regioni. Sono problemi, secondo lui, insolubili; e si aspetta che io non potrò corrispondere al suo invito. Non è così.

Intendiamoci bene. La Costituzione non può stabilire che principî generali. Dovrà poi intervenire una grande legge tributaria sulla finanza degli enti locali, in coordinazione a quella dello Stato. In tale legge soltanto si avrà la maggior determinazione richiesta dall'onorevole Nitti, ed io spero di dargli fin d'ora la sensazione di una sufficiente concretezza, senza pretendere di adottare fin d'ora soluzioni, che soltanto tale legge potrà specificare.

La Commissione dei Settantacinque ha tenuto presenti i problemi che l'onorevole Nitti ritiene insolubili. Ed ha cercato di raccogliere dati al riguardo. A pagina 191 del primo volume degli atti della Commissione, distribuito a tutti i deputati, vi è un programma completo di ricerche — steso da me ed approvato pienamente dall'onorevole Einaudi — sulla consistenza sia finanziaria sia economica delle Regioni. Grande è la difficoltà di raccogliere questi dati, per l'incompletezza, la lentezza e la resistenza degli uffici che dovrebbero darli. Io avevo proposto che il Governo promovesse fin da principio (e certamente dovrà farlo nel preparare la legge tributaria) una vera e propria inchiesta con tutti i poteri d'accertamento necessari. La Commissione preferì che si raccogliessero, intanto, a sua cura, tutti gli elementi disponibili; ed io dovetti assumermi anche questa fatica. Non credo che si potesse fare di più; tale è anche il giudizio dell'onorevole Einaudi. Tengo i dati raccolti a disposizione dell'onorevole Nitti.

Per suo conto, ad interessamento del suo Presidente, l'Istituto centrale di statistica ha pubblicato un volume sulle Regioni, nel quale la parte finanziaria ed economica ha scarso sviluppo, ma ove si cerca di raffigurare la fisionomia delle Regioni sotto altri aspetti, e specialmente sotto l'aspetto demografico.

L'onorevole Nitti può essere sicuro che non si sono ignorati i problemi. Nessuno meglio di lui sa... da mezzo secolo le difficoltà di simili ricerche. Risale al 1900 il suo luminoso libro: Nord e Sud, che destò tanto scalpore. Per me, che arrivavo allora a Roma, appena laureato, fu una rivelazione; e cominciò allora la mia devozione, che non venne mai meno; andai con lui al Governo; ed egli è testimone che, del primo gruppo che lo circondava, fui il solo che gli rimasi veramente fedele; perché nulla ho concesso al fascismo. Nel mio attuale dibattito con lui desidero considerarmi sempre suo discepolo.

Nel libro del 1900 l'onorevole Nitti cominciava ad impostare i raffronti finanziari ed economici fra le Regioni. Combatteva l'opinione, in quei tempi diffusa, che il Sud vivesse a spese del Nord e fosse un peso morto per l'economia italiana. Quanti «miti» vi sono stati pel Sud! Il grande unificatore, Cavour, ed uno dei meridionali più colti ed intelligenti, Antonio Scialoia, dicevano che bastava battere il piedi sul suolo del Mezzogiorno, perché ne scaturissero infinite ricchezze. Purtroppo non era così; e si andò poi ad un altro eccesso, al grido di Giobbe della irrimediabile povertà, ed alla «politica del nulla» — non c'era nulla da fare — del nostro amico Giustino Fortunato. Bisogna riconoscere che l'onorevole Nitti serbò sempre una posizione intermedia, aliena dagli estremi.

E pur sollevando in forma drastica i confronti fra Nord e Sud, e fra Regione e Regione, non abbandonò mai una nota fortemente unitaria. Sostenne che il Sud non aveva guadagnato, ed anzi aveva economicamente perduto nell'unificazione; ma scrisse nel Nord e Sud che «l'Italia non può essere che unitaria; una Lombardia o una Sicilia autonome non sarebbero nulla, se anche questo non senso storico noi potessimo solo per maligna ipotesi ammettere». Vero è che nell'altro libro su Napoli e la questione meridionale, attaccava «l'unitarismo assurdo sotto la forma di unità legislativa» e dichiarava che «avanzando l'ipotesi economica che il Mezzogiorno si separasse dal resto dell'Italia, non si potrebbero che rilevare i vantaggi del distacco, derivanti dall'impiego delle proprie risorse».

Non credo si possa condividere un recente rilievo del De Maria sui «sedicenti studiosi della questione meridionale» che avrebbero più o meno direttamente suscitato il pericolo del separatismo. Ciò non può certamente dirsi dell'onorevole Nitti; e credo che, quand'egli vagheggiava una diversità legislativa, si rimettesse sempre alla legislazione dello Stato; se no, non sarebbe stato così tenace avversario dei poteri che abbiamo ora attribuiti alla Regione.

Dal suo libro del 1900 risultava che «il Mezzogiorno è il più duramente aggravato dalle imposte»; e che «la più grande mole di spese dello Stato avviene nell'Italia settentrionale e nella centrale». Per ogni 10 lire che si riscuoteva di imposte e tasse, lo Stato pagava 13 lire in Liguria, 12 nel Lazio, quasi 10 in Toscana, da 8 a 9 in Piemonte e Lombardia, e così via fino a scendere a meno di 5 in Abruzzo, Basilicata e Puglie. Queste cifre furono allora contestate da vari scrittori; ma insomma, rovesciando la anteriore credenza, si ebbe l'impressione che le Regioni del Mezzogiorno non ricevevano più di quello che davano in tributi.

Sembra che, per quanto riguarda la situazione attuale, l'onorevole Nitti non sia più di siffatta opinione. Egli ha detto, in quest'Aula, che «nei primi 5 mesi del 1946 lo Stato ha incassato con le tasse in Sicilia 4 miliardi e mezzo; ha speso 6 miliardi...». Così per altre Regioni del Sud; che, teme l'onorevole Nitti, avrebbero più da perdere che da guadagnare con l'autonomia regionale.

Anche l'onorevole Einaudi ha fatto sulla stampa rilievi per mettere in luce che in generale, oggi, le Regioni meridionali ricevono dallo Stato più di quello che gli versano in tributi.

Credo doveroso mettere in guardia; perché quanto vanno dicendo anche due maestri come Nitti ed Einaudi non può portare ancora a conclusioni complete e definite. Osservo anzitutto che se si trova in quasi ogni Regione, un disavanzo, nel senso che le spese che lo Stato vi fa non sono coperte dalle entrate che ne ricava, ciò va messo in relazione al bilancio dello Stato, nel momento che attraversiamo. È inutile poi avvertire che, raffrontando gli incassi ed i versamenti che lo Stato fa attraverso le tesorerie provinciali, non sempre quanto lo Stato versa, ad esempio a fornitori ed appaltatori, corrisponde a prestazioni e lavori fatti in quella Provincia.

Ad ogni modo, poiché è l'unico metodo d'indagine che si può seguire, ho esaminato tutti i dati, che si sono cominciati a raccogliere, riservatamente, dal 1940, ed a pubblicare dal 1945. Cominciamo ad osservare le medie dei bienni 1943-44, 1944-45, 1945-46, che comprendono la gestione dello Stato italiano libero e quello della cosiddetta repubblica di Salò. Risulta che solo in Piemonte l'amministrazione statale ha incassato, più che non abbia speso, il 2,4 per cento. Nelle altre Regioni è l'inverso. Ha incassato il 25 per cento circa di meno in Toscana e nella Venezia tridentina; dal 30 al 40 in Emilia, Marche, Veneto e Liguria; poi vi è un gruppo di Regioni, col 50 circa per cento, Calabria, Sicilia, Umbria, Campania, Basilicata, Abruzzi, Sardegna; infine lo Stato ha incassato oltre il 60 per cento di meno in Puglia, Lombardia, Venezia Giulia, Lazio; (e vi spiego anche perché; in Puglia vi fu per un po' la capitale temporanea; e così in Lombardia a Salò; nel Lazio vi è Roma; e le capitali richieggono spese maggiori). I dati che ho esposti si riferiscono ad un periodo veramente eccezionale, con la guerra nel suo acme ed il grandissimo disordine tributario.

Se prendiamo il solo esercizio 1945-46, che è sempre, ma meno accentuatamente, anormale, troviamo che lo Stato ha incassato di più di quanto ha pagato — l'80 per cento — in Lombardia e Piemonte; ha riscosso di meno dovunque nelle altre parti d'Italia; e le cifre vanno da meno di 20 nel Veneto, da meno di 30 nella Venezia Tridentina ed in Emilia, e da meno di 50 in Liguria, Marche, Umbria e Toscana ad una percentuale dal 60 al 70 in Sicilia, Sardegna, Calabria, Venezia Giulia, Campania, Abruzzi, Puglie e Basilicata. Infine il Lazio giunge al 70 per cento.

Bisogna però tener conto che nelle Regioni del Nord, ed in esse soltanto, figurano gli incassi del prestito Soleri, che era stato emesso nel Sud un anno prima. Se si esclude il gettito del prestito Soleri, si ha che nel 1945-46 lo Stato, in tutte le Regioni, nessuna eccettuata, ha incassato meno di quel che non abbia speso. La percentuale minima è del 3 in Lombardia e del 18 in Piemonte; sale man mano, per vari gruppi dal 40 al 50 nelle Marche, in Umbria, Toscana, nella Venezia tridentina e nel Veneto, e va ad oltre il 60 nelle rimanenti Regioni.

Se veniamo infine ad un periodo più vicino — ho i dati dei primi nove mesi dell'esercizio in corso 1946-47, perché solo a tal data è aggiornato il conto del Tesoro — troviamo che lo Stato ha incassato più del pagato in parecchie Regioni. Si arriva quasi al cento per cento — il 93 — in Lombardia; al 56 in Piemonte; e si sta attorno al 15 in Umbria, Liguria, Emilia, Toscana, Veneto; anche le Marche superano dell'1 per cento i pagamenti. Nelle altre parti d'Italia gli incassi di Stato sono inferiori agli esborsi, del 5 per cento nella Venezia tridentina, dal 20 al 35 in Calabria, Campania, Sicilia, Puglie, Basilicata, Abruzzi, Sardegna; si va al 50 nel Lazio; e si ha un massimo dell'80 per cento in Venezia Giulia.

Ma non bisogna fare affrettate conclusioni; durante i nove mesi vi è stato il prestito della Ricostruzione, al quale le Regioni hanno partecipato in proporzioni assai diverse (la Lombardia ha dato un quarto dell'intero prestito); e non mi è possibile questa volta rettificare le cifre come pel prestito Soleri, giacché la Banca d'Italia non ha ancora reso noto il riparto delle sottoscrizioni. Certo è che, ove non si tenesse conto degli incassi pel prestito, in ben poche Regioni lo Stato avrebbe incassato più dello speso (forse nella sola Lombardia e nel Piemonte).

Ho insistito in dettagli e precisazioni, perché ritengo necessario mettere in guardia contro le conclusioni che anche cari eminenti colleghi traggono nei confronti tra le Regioni. Come linea generale, il fenomeno degli incasso di Stato minori ai suoi versamenti è, come si doveva attendere, più sensibile nel Sud che nel Nord: ma vi sono spostamenti, e non vi è una netta distinzione ed una scala corrispondente alle condizioni economiche delle Regioni. Né i dati disponibili si prestano, lo ripeto, a giudizi definitivi e sicuri. Lasciamo dunque stare per ora, calcoli che dan luogo a non ben fondate impressioni.

Lussu. Sono comprese, per le Regioni del Sud, le spese per i Dicasteri delle Forze armate.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ho fatto il calcolo in via generale; sarebbe in ogni modo un altro elemento di non comparabilità.

Affrontiamo ora il tema che più risponde alle domande che mi ha fatto l'onorevole Nitti. Come sarà possibile, egli chiede, fabbricare un bilancio della Regione? Molti, anche regionalisti, hanno timore che non riesciremo a cavarne le mani.

Ho detto sempre con senso di responsabilità, che questo problema della sistemazione finanziaria della Regione è difficile. Ora che l'ho esaminato attentamente ancora una volta, posso affermare con altrettanto senso di responsabilità, che non è un problema insolubile, ed anzi è meno difficile di quello che può apparire a prima vista. Difficile sempre; non difficilissimo; non insolubile.

Non si può risolverlo concretamente, qui nella Costituzione. L'onorevole Nitti si rimette ad una legge futura; e molto correttamente mi chiede di dare delle tracce e delle direttive.

Quali saranno le spese e le entrate delle Regioni? Studi speciali sono stati condotti per il Trentino-Alto Adige, dalla Commissione, presieduta dall'onorevole Bonomi, che ne predispone lo Statuto. Ma quella Regione non può essere presa a modello, perché, avendo un'autonomia particolare, molte spese ad esempio scolastiche e di lavori pubblici passano alla Regione, come non è delle altre di tipo ordinario. È alle Regioni di questo tipo che ci dobbiamo riferire. Lo farò con la maggiore esattezza possibile, in via generale; e starò attento, perché da un maestro come l'onorevole Nitti vi è sempre da ricevere delle lezioni.

Per valutare quali saranno le spese e le entrate dell'ente Regione, bisogna partire dalla considerazione delle funzioni amministrative che, in base a quanto abbiamo stabilito nella Costituzione, passeranno dallo Stato alla Regione. Cominciamo ad esaminare i dati dell'esercizio 1938-39; che si può considerare come un anno medio del preguerra.

Sopra un complesso di 40 miliardi di spese, la parte di gran lunga maggiore sarebbe sempre rimasta allo Stato, anche se si fossero fin da allora applicati i criteri della Costituzione. Sarebbero rimaste allo Stato le spese di tesoro (12 miliardi e mezzo, un terzo di tutte le spese), quelle militari (15 miliardi, più che un altro terzo di tutte le spese); le spese di amministrazione dell'interno e della giustizia (2 miliardi, il 6 per cento della spesa totale); ed altri gruppi di spese.

Dove si sarebbero verificati passaggi di funzioni, e quindi di spese? Essenzialmente in tre categorie: l'istruzione, per cui allora si spendevano 2 miliardi (il 5 per cento della spesa complessiva) i lavori pubblici con 1 miliardo e mezzo (il 4 per cento), l'agricoltura con 900 milioni (il 2 per cento).

Non tutte però le spese di queste tre categorie si sarebbero trasferite alla Regione. Dell'istruzione sarebbe rimasto allo Stato il grande complesso di attività e di spese; essendo attribuite alle Regioni solo le scuole professionali ed artigiane, con un passaggio non rilevante di fondi. Vediamo pei lavori pubblici, servendoci della distribuzione per genere di opere, secondo i dati raccolti dall'Ufficio di statistica di quel Ministero, e pubblicate dall'annuario statistico. Nel 1938-39 lo Stato spendeva, e gli sarebbero rimaste, anche secondo la nostra Costituzione, 500 milioni per strade statali, 130 di opere idrauliche e di navigazione interna, 100 per utilizzazioni idroelettriche, 150 per porti, 200 per edilizia statale e scolastica, 150 per danni e calamità. Cosa poteva passare alla Regione? Al più 100 milioni di spese per nuove costruzioni stradali; 150 per acquedotti; 100 per edilizia popolare. In complesso facendo le previsioni più larghe, 350 milioni. Ed eccoci all'agricoltura, che ebbe nel 1938-39 per bonifiche, una spesa di 550 milioni di lire; e si noti che vi sono bonifiche che, pel loro carattere sovraregionale o interregionale, lo Stato riserverà sempre a se stesso; e la nostra Costituzione non lo esclude. Ad ogni modo passiamo pur tutte queste cifre — 350 milioni di lavori pubblici, 550 di bonifiche, una somma minore per l'istruzione — arriveremmo al miliardo.

Aggiungiamo pure una quota di spese generali e di personale: teniamo conto di passaggi per altre minori categorie: arrotondiamo fin che si vuole; non saliremo oltre 1 miliardo e mezzo (s'intende di lire 1938); che non è cifra da far paura. Si tenga presente che in quell'anno le spese ordinarie per tutti i comuni non superarono i 6 miliardi e mezzo, per le province 1 miliardo e mezzo. Se fossero sorte allora le Regioni — una quindicina — nei limiti e con le funzioni che ora abbiamo stabilite, non sarebbe costato più delle province, che sono verso il centinaio. Un miliardo e mezzo non è cifra paurosa.

Ho esaminato anche la media dei tre bilanci 1943-44, (1944-45), 1945-46; ed inoltre, a sé, le cifre del 1945-46; quelle dell'esercizio in corso (fino a marzo); le previsioni del 1947-48, e tengo, onorevole Nitti, tutti questi elementi a sua disposizione. Vi citerò per ora soltanto i dati del 1945-46, che si prestano ad un certo raffronto col 1938-39. Non sono più milioni, ma miliardi; lirette recenti, d'un anno fa. Sopra un insieme di 540 miliardi di spese rimarrebbero allo Stato 170 di spese del tesoro (un terzo del totale), 130 di spese militari (il quarto), 60 di spese degli interni e della giustizia (poco più del decimo), con altri minori gruppi. Anche qui le categorie che potrebbero in parte passare sono i lavori pubblici (100 miliardi, il quinto del totale), l'agricoltura (6 miliardi, l'1 per cento), ed in parte ben minore l'istruzione (25 miliardi, il 5 per cento). Debbo dichiarare che per gli ultimi esercizi il Ministero dei lavori pubblici, nella sua lentezza, non fornisce ancora le statistiche della distinzione fra i gruppi di opere; così che non è possibile una valutazione abbastanza approssimata come pel 1938-39. Ad ogni modo, anche applicando le proporzioni di quell'esercizio, le spese da passare alle Regioni non dovrebbero complessivamente superare dal 5 al 10 per cento le intere spese dell'Italia. Debbo poi fare un'altra dichiarazione; anche per rispondere ad una domanda che mi fece alcuni giorni fa l'onorevole Porzio. Vi è un fatto nuovo: vi è la ricostruzione. Quasi tutte le spese di lavori pubblici sono oggi di ricostruzione. E sono spese che non si possono addossare alle Regioni; rimangono in ogni caso allo Stato; do piena assicurazione all'onorevole Porzio che con la nuova Costituzione non si è inteso addossare queste spese eccezionali alle Regioni. Lo Stato potrà bensì, se crede, valersi degli enti locali, della Regione, quando vi sarà, come ora può — per una legge da me promossa — valersi delle Province e dei Comuni; un savio decentramento sarà molto opportuno. In un mio recente discorso sul programma di governo mi sono lagnato che non vi sia fatto sufficiente ricorso; ma sarà sempre lo Stato che dirigerà, spenderà e sarà responsabile. Stabilito ciò, onorevoli colleghi, vedete che le spese che passerebbero alla Regione in regime 1945-46 sarebbero proporzionalmente minori di quelle che fossero passate nel 1938-39.

Ho voluto dare la dimostrazione, e credo di esservi riuscito, che, come ordine di grandezza, non sono cifre che possono spaventare. Il passaggio di funzioni e di spese sarà sempre delicato e non agevole; ma non presenterà ostacoli insuperabili.

Bisognerà naturalmente far fronte con corrispondenti entrate alle spese che spetteranno alle Regioni. Partiamo anche qui dall'esercizio 1938-39. Su 27 miliardi di entrate effettive vi erano 500 milioni di imposte dirette immobiliari (fondiaria e fabbricati, e cioè il 2 per cento dell'entrata totale), e la ricchezza mobile con 4 miliardi e 200 milioni (il 15 per cento dell'intera spesa). Se si fosse, nel 1938-39, istituita la Regione avremmo potuto attribuirle quanto lo Stato incassava dalle immobiliari (è noto che la maggior parte di ciò che i contribuenti pagano pei fondi e pei fabbricati va oggi come sovrimposta ai Comuni ed alle Province). Col passaggio in pieno di queste imposizioni si sarebbero attuate idee che sostenemmo ai nostri giovani anni, Bonomi con un bel libro ed io con alcuni studi su riviste. Se poi, oltre al passare i tributi reali, avessimo attribuito alla Regione una quota di ciò che riguarda l'altro tributo diretto dell'imposta sulla ricchezza mobile, si sarebbero coperte tutte le spese spettanti alla Regione, che abbiamo calcolate attorno ad 1 miliardo e mezzo (lire 1938).

Ho parlato di quote della ricchezza mobile, perché è imposta diretta, e non vi nascondo che, senza fare anticipazioni avveniristiche, mi sembra logico e desiderabile, quando si addivenisse ad una concreta sistemazione di tutte le finanze statali e locali, assegnare alla Regione ed agli altri enti locali le tre cedolari — fondiaria, fabbricati e ricchezza mobile — per edificarci sopra, come progressiva sul reddito, una grande imposta di Stato. Prescindendo da ciò, se invece di una quota della ricchezza mobile, sceglierete una quota di un'altra imposta erariale, otterrete lo stesso risultato di provvedere alle entrate della Regione.

Con lo schema che vi ho tracciato, riferendomi al 1938-39, allo Stato sarebbero restati i 12 miliardi delle indirette (affari e consumi, che erano il 40 per cento del totale); i 4 miliardi e mezzo dei monopoli e del Lotto (il 15 per cento); ed altre ancora. E cioè la gran massa delle entrate, con le quali lo Stato, oltre a provvedere ai suoi servizi, avrebbe potuto: a) assegnare alle Regioni i contributi speciali per scopi determinati oltre le funzioni normali; b) provvedere alle spese delle funzioni che avesse delegate volontariamente alle Regioni.

Vi risparmierò, onorevoli colleghi, altre indagini ed altre cifre. Vi dirò solo che nel 1945-46 le imposte dirette — tutte e tre — hanno dato soltanto 22 miliardi; ed è da temere che in tal misura non basterebbero a coprire le spese delle Regioni. Ma nel bilancio 1946-1947 si calcolano 66 miliardi; ed il loro gettito va aumentando così che il timore sembra superato.

Ho parlato del complesso delle Regioni. Naturalmente non tutte le Regioni presentano le stesse esigenze e le stesse proporzioni di spese e di entrate. Vi sono Regioni che per la situazione più arretrata in cui si trovano hanno bisogno di maggiori attività e lavori, e d'altra parte con le fonti tributarie assegnate alle Regioni più ricche non riuscirebbero a provvedere alle loro funzioni normali. Entrerà qui in azione, nella quota di contributo, la gradazione che consentirà di raggiungere un equilibrio. Si sono fatti scandagli per alcune Regioni, e si stanno ancora raccogliendo elementi. Ma penso di aver assolto il compito che per ora mi proponevo: dissipare l'impressione che non si potrebbe far fronte alle spese delle Regioni senza mettere a soqquadro e senza devastare il bilancio dello Stato e la finanza ordinaria.

Ho finito. Parto sempre dal concetto: la Regione c'è, e dobbiamo fare in modo che funzioni il meglio possibile.

Contro la creazione della Regione vi sono motivi etico-politici, perché si teme che possa incrinare ed insidiare la compagine dell'Italia. Noi abbiamo affermata l'unità e indissolubilità dello Stato; e la difenderemo sempre con ogni fermezza, regionalisti ed antiregionalisti. Abbiamo intanto dato alla Regioni funzioni e poteri, limitati in modo che non vi sia il pericolo di turbare l'ordinamento unitario.

Vi sono poi, contro la Regione, apprensioni di ordine amministrativo ed economico. La necessità del decentramento l'hanno proclamata tutti, anche coloro che non vorrebbero la formazione di un ente autonomo, ma uno spostamento d'uffici governativi nelle Regioni. Dovremo fare anche ciò, per le funzioni che restano allo Stato. Quando fui ai lavori pubblici, istituii i Provveditori regionali alle opere. Qualcosa di corrispondente si potrebbe fare in altri rami, se non per tutti, per molti Ministeri, al fine di mettere gli organi dello Stato a contatto con i bisogni e le richieste locali. Su questi punti l'accordo è pieno. Ma sono molti a temere che il decentramento amministrativo, a base burocratica, non basti; e che lo spostare in loco i funzionari del Governo non vinca le abitudini, le resistenze, le lentezze proprie della burocrazia. Si sostiene che è opportuno dar voce e peso più diretto alle forze vive della Regione, con una savia e contenuta autonomia dell'ente regionale.

Questa tendenza ha vinto. Tutta l'Assemblea, tutto il Paese devono inchinarsi, e collaborare sinceramente e fervidamente perché l'esperienza riesca. La nostra Costituzione avrà molti difetti; ma — soprattutto in questo Titolo — si ispira a criteri di elasticità. La Regione nasce e comincia a muoversi con passi saviamente misurati. Sta a lei stessa di guadagnare, gradualmente e sperimentalmente, la possibilità di maggiori conquiste. (Applausi).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti