[Il 4 giugno 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Adonnino. [...] Mi pare che un altro punto andrebbe chiarito su questo articolo. Dice esso, molto opportunamente, che non possono istituirsi dazi di importazione ed esportazione o di transito tra Regione e Regione: tutto deve essere libero. Aggiunge opportunamente che non si possono prendere provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose. Bisognerebbe aggiungere che questa libertà di spostamento e di circolazione è pure per i commerci e per le industrie. Un provetto amministratore e commerciante mi diceva: «Io avrei paura che domani una Provincia mettesse tali restrizioni all'impianto di nuovi tipi di commerci o di industrie nel suo interno, che a uno di fuori — di un'altra Regione — fosse impedito di andarvi». Ora questo è un punto grave che bisognerebbe forse specificare: lo sottometto alla Commissione che ha organizzato con tanta oculatezza questo progetto. In sostanza non vi deve essere nessuna barriera né per i capitali, né per le merci, né per le persone, né per le industrie né per i commerci. Unico corpo siamo e unico dobbiamo permanere. Noi dobbiamo tendere a un decentramento burocratico e amministrativo: dobbiamo tendere ad una legislazione che si adatti alle necessità speciali di larghi territori che chiameremo Regioni. Questa è la Regione che noi vogliamo fondare; in questi limiti modesti e ristretti; ma che aprano nuove vie alla storia d'Italia e diano nuovo impulso al bene comune. (Applausi).

[...]

Titomanlio Vittoria. [...] Io non posso trattare alcune cose pratiche, però richiamo l'attenzione su alcuni punti degli articoli 109, 110 e 111. Ed è logico che una donna debba fermarsi particolarmente sul problema della scuola.

L'onorevole Einaudi, autorevolmente, ha dato il suo contributo in ordine alla scuola ed ha detto che l'insegnante non deve essere un impiegato dello Stato; ha detto che l'insegnante deve sentirsi un apostolo, deve essere del luogo. Il che significa che bisogna vedere la scuola, secondo il pensiero dell'onorevole Einaudi, sul piano locale. Purtroppo noi sappiamo che i maestri, a qualsiasi ordine e grado appartengano, hanno fatto degli sforzi per diventare degli impiegati dello Stato e non vorrebbero adesso dipendere dal Comune, dalla Provincia o dalla Regione.

Conosciamo questa esigenza dell'insegnante, però vi sono alcuni punti della scuola, alcune riforme scolastiche che una volta studiate dal Ministero dell'istruzione, possono e devono attuarsi localmente, tanto più che abbiamo nella riforma scolastica da aggiungere altri particolari, che potrebbero variare nella organizzazione stessa da un punto all'altro. Senza dire poi che si notano nel fanciullo delle differenze, da luogo a luogo, seguendo le tradizioni, le abitudini, le influenze dell'ambiente, che fanno sentire particolarmente la necessità di seguire un metodo, specialmente in materia didattica, che risponda più agevolmente alle sue esigenze, e raggiungere quell'obiettivo verso il quale noi ci orientiamo, cioè la formazione completa dell'individuo, che meglio serva sé e la Nazione, in modo da evitare di trovarsi quindi di fronte a degli spostati che pretendono di raggiungere una meta o una carriera senza avere la preparazione necessaria.

E allora in materia di organizzazione noi vogliamo in primo luogo la scuola materna.

Oggi gli asili dipendono in gran parte dai Comuni e si sono fatti molti sforzi, perché gli asili possano essere portati come dipendenti dello Stato. E sopratutto questa richiesta viene fatta dalla classe insegnante.

Invece, uscendo dall'autonomia comunale, o dalla dipendenza dello Stato, ma portandoci invece sul piano della Regione, noi ci troveremmo di fronte alla realizzazione di due benefici: cioè il beneficio dell'insegnante che tiene ad essere riconosciuto particolarmente nella sua carriera da un ente che è superiore al Comune medesimo, e rientreremmo anche in quella esigenza del fanciullo il quale, specialmente dal punto di vista didattico, deve essere curato con quei mezzi che più rispondono alle possibilità ed alle esigenze del luogo. Vi sono poi, nella scuola primaria, delle altre necessità. Abbiamo in alcuni punti che i corsi non sono completi, arrivano soltanto alla terza classe elementare ed è stata prospettata questa necessità di integrazione perché il fanciullo possa arrivare almeno alla quinta classe elementare.

Ma si domanda: è possibile questa realizzazione, è necessaria in tutti i punti d'Italia? Abbiamo nel programma della riforma scolastica le classi post-elementari perché attraverso lo studio dei commissari ed attraverso gli articoli che sono stati già approvati, abbiamo sentito la necessità di prolungare gli anni di studio del fanciullo. Le classi post-elementari dovrebbero portare probabilmente ad otto anni la frequenza scolastica obbligatoria: obbligatorietà che potrebbe non essere richiesta in tutti i punti d'Italia. Da regione a regione variano queste esigenze.

Senza dilungarmi per quanto riguarda la scuola primaria, e quindi senza accennare alle scuole sussidiarie ecc., faccio solo notare un'altra cosa nel campo della scuola professionale o, meglio, seguendo l'articolo 110[i], in quanto riguarda l'istruzione tecnico-professionale. Nell'Italia meridionale, per esempio, noi abbiamo una abbondanza di scuole classiche: seguendo una statistica, che potrebbe essere portata a conoscenza di tutti, notiamo una scarsezza, in alcuni punti, di corsi agrari, di scuole o di istituti agrari, laddove l'elemento è eminentemente rurale. Abbiamo alcune città o zone in cui vi è una scarsezza di scuole o corsi o istituti di indole industriale.

Questo dice che, pur rientrando questa riforma tecnico-professionale nel programma generico che è stato per lo meno elaborato dal Governo, noi dovremo molto attendere per la sua realizzazione mentre più sentita è questa richiesta nell'Italia meridionale e più se ne sollecita la immediata soluzione.

Oltre quello che riguarda la scuola, aggiungo qualche cosa per quanto riguarda il problema femminile nel campo del lavoro e dell'assistenza. Vi sono luoghi in Italia in cui le donne si dedicano particolarmente ad alcuni lavori maschili, per esempio la donna contadina dedita ai lavori specifici dei campi, cioè non la massaia, ma la donna che sostituisce l'uomo anche nel più duro lavoro campestre.

Ora, la preparazione della donna, dal punto di vista tecnico non c'è, non c'è nessuna scuola che la prepari, non c'è alcun ente che l'assista nei suoi vari molteplici bisogni relativi al lavoro e alla sua vita familiare e sociale. Vi sono donne operaie (fabbriche, stabilimenti): le troviamo in alcune città e capoluoghi di provincia e non in piccole località. Anche in questi casi mancano gli enti di assistenza. Vi sono le donne artigiane: in alcune zone c'è la lavorazione della canapa, in altre zone ci sono le risaiole. Di qui la necessità di assistere le une e le altre, sia con la preparazione tecnica che con l'assistenza benefica, morale e sociale. Vi sarebbero altri punti da ricordare, dal punto di vista femminile: almeno l'igiene, la sanità pubblica, di cui troviamo tante variazioni da una zona all'altra d'Italia.


 

[i] Il resoconto stenografico riporta erroneamente «115».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti