[Il 28 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Dugoni. [...] D'altra parte, quando si crea questa mentalità miracolistica della Regione che consiste nel dire — perdonatemi, se insisto nella polemica, ma è una polemica costruttiva, cordiale, che getta un ponte di passaggio e non vuol rompere niente — quando mi si viene a dire da parecchie parti che se ci fossero state le autonomie regionali in Italia, il fascismo non sarebbe mai sorto, onorevoli colleghi, si vengono a dire cose che sappiamo non vere. Sono elementi che possono essere buoni domani per un comizio, per una discussione improvvisata, ma che non resistono alla critica più semplice e più elementare. Che cosa infatti si può opporre ad un tentativo di dittatura? Per resistere ad un tentativo di dittatura non vi sono che tre mezzi: la polizia, l'esercito in funzione di ordine pubblico, le organizzazioni democratiche di massa.

Murgia. Che dipendono dal prefetto.

Dugoni. Questo è un altro ragionamento, onorevole Murgia.

Lopardi. Si può abolire il prefetto, senza fare l'autonomia.

Dugoni. Ma sostanzialmente, nel progetto attuale, queste due forze attive antitotalitarie nelle mani di chi sono? Per definizione, senza contrasto, sono nelle mani dello Stato centrale; sfuggono pertanto alla Regione. Le forze quindi che domani dovrebbero sbarrare la strada al fascismo restano sempre nelle mani dello Stato centrale.

D'altra parte, all'interruzione che esse sono nelle mani del prefetto noi rispondiamo che siamo tode corde per l'abolizione del prefetto; e noi vogliamo, se si arriva a questo ponte di cui parlavo prima, mantenere la provincia in funzione di ente autarchico, con delegazione al Presidente di rappresentare gli interessi centrali in sede amministrativa.

[...]

Zotta. [...] Vi è un altro punto: la provincia concepita come ente autarchico.

Indubbiamente la Provincia, come ente autarchico nell'attuale sistema legislativo, vive una vita molto grama.

Quali sono le sue funzioni? Fino alla legislazione fascista erano: strade provinciali, assistenza ai mentecatti ed agli esposti. Ed un consesso di 50 o 100 valentuomini si riunivano una o due volte l'anno per discutere su questi gravissimi problemi! Con la legislazione fascista si dette maggiore potere a questa autarchia ed allora espandendosi le attribuzioni dal punto nucleare, le strade giunsero fino ad allacciare i paesi i quali non erano in collegamento con la ferrovia o con altre strade e la materia sanitaria giunse fino a comprendere le provvidenze in tema di malattie sociali (istituti di igiene e profilassi, lotta antirabbica, antimalarica, antitubercolare, maternità ed infanzia). Mi sembra di avere quasi esaurito, se non mi sia sfuggito qualche particolare, i gravi problemi di questo ente, che sparendo lascerebbe nel pianto e nel dolore tanta gente.

Ora questi problemi, per effetto della riforma del progetto, passano alla Regione, la quale con essi riceve tutti gli altri che sono negli articoli 9, 10, 11.

Vi è un punto piuttosto (adesso i buoni amici della Commissione mi consentano un piccolo rilievo critico) nel quale si parla — articolo 120 — di una Giunta elettiva nella provincia. Che cosa fa questa Giunta?

Io non riesco a spiegarmi le funzioni, perché indubbiamente dalla dogmatica del progetto scaturisce che la Provincia non è un ente istituzionale. Non essendo persona non ha organi. La Giunta elettiva provinciale dunque non è un organo della Provincia. Ed allora potrebbe essere considerata come una rappresentanza delle popolazioni dei comuni. Ma per fare che cosa? Questo non è precisato e mi sembra che occorra uno sforzo per trovare un obietto, a meno che non si faccia un'altra disquisizione.

[...]

Einaudi. [...] La Provincia ha sì avuto una vita a sé; misera vita, la quale non regola altro se non i mentecatti, gli esposti e le strade; ed anche sotto quest'ultimo aspetto le grandi vie di comunicazione sono assorbite sempre più dall'ente nazionale della strada.

Per quanto riguarda i pazzi e gli esposti non credo che essi abbiano mai manifestato desiderio di essere aggregati alla regione piuttosto che alla provincia. Qui si discute dunque tra due enti che non esistono, sicché noi siamo liberi di scegliere l'uno o l'altro. Non si tratta di mantenere qualcosa che veramente esista. Le amministrazioni statali, come il Genio civile, il Provveditorato alle opere pubbliche, l'Intendenza di finanza, i tribunali ecc., potranno essere sempre dallo Stato mantenute nei capoluoghi di provincia. La loro conservazione non ha alcuna connessione con il problema che si discute. Dico che sia che si conservi la provincia, sia che si crei la regione, il problema del governo locale rimane; che se questo fosse un elemento di concordia tra le varie parti politiche, siamo liberi di prediligere l'una o l'altra soluzione. Nessuna si raccomanda per lunga e benefica tradizione. Qualche oratore ha ricordato le tradizioni della provincia. Purtroppo trattasi di tradizioni infauste per le fortune del nostro paese.

Non conosco abbastanza la storia delle altre regioni italiane, ma non credo sia molto diversa dalla storia del Piemonte. Nel Piemonte, prima del giorno in cui, il 28 dicembre 1798, dovette sotto l'avanzata delle truppe francesi uscire da Torino il simbolo dell'indipendenza piemontese, prima di quel giorno la provincia non era quella che noi conosciamo. Il vecchio Piemonte vantava una ventina di province, minori di quelle che abbiamo conosciuto come circoscrizioni circondariali; ed accanto al vecchio Piemonte vi erano il marchesato di Saluzzo, la contea di Nizza, il ducato d'Aosta, il ducato del Monferrato, il principato di Alessandria, le terre dell'oltre Po pavese, la Valsesia, e tutte queste piccole circoscrizioni avevano una vita autonoma e vivace. In ogni comune, fino a quel giorno, si radunava non l'assemblea dei consiglieri municipali, ma l'assemblea dei capi famiglia. Tutti i capi di famiglia nei nostri comuni piemontesi, un paio di volte all'anno, si radunavano, come oggi si radunano ancora nei più vecchi Cantoni Svizzeri, non sulla pubblica piazza ma nella chiesa, che era il luogo di adunata comune di tutti gli abitanti della località, e qui discutevano le cose loro, qui nominavano i sindaci, il sorvegliante del cimitero, il maestro elementare e la guardia campestre. Nelle loro piccole cose locali si governavano da sé, senza alcun intervento da parte del potere centrale.

L'intervento moderno del potere centrale nacque il giorno della vittoria di Marengo, quando Napoleone portò le sue armi vittoriose in Italia. Non voglio criticare l'opera feconda, anche per l'Italia, di Napoleone; ma, dal punto di vista delle libertà locali, la sua opera fu nefasta. Egli creò le quattro province piemontesi di Cuneo, Alessandria, Novara e Torino; le creò come divisioni militari: segno di oppressione da parte di una potenza straniera.

Questa fu l'origine infausta delle province del nostro Piemonte e credo che analoga origine le province abbiano avuto nelle altre regioni italiane. Non è necessario dunque avere rispetto per una istituzione non antica come si dice, le cui origini non possono essere care al cuore di un italiano.

Le divisioni militari si trasformarono poi in province; alla restaurazione queste province furono mantenute, poiché erano uno strumento facile di governo, poiché era più facile governare attraverso i comandanti militari di quattro province ed i prefetti di quattro province, di quanto non fosse facile attraverso ai così diversi corpi locali dell'antico regime, ognuno dei quali aveva libertà e franchigie locali; libertà e franchigie locali antiquate, sotto certo aspetto, ma feconde sotto certo altro. Sotto la loro egida si era svolta una feconda vita locale, si era resa possibile la creazione di una classe politica. Se una classe politica abbiamo avuto negli anni del 1830 al 1860 in Piemonte, in parte le origini di essa si debbono ritrovare nella sopravvivenza della vita locale, sopravvivenza che Napoleone prima e la restaurazione poi non erano riusciti ad ottundere e ad abolire del tutto.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti