[L'11 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Monticelli. [...] E infine mi sia concesso di soffermarmi sulla Corte costituzionale. È innegabile che, seguendo l'esempio degli Stati Uniti d'America, esempio seguito da quasi tutti gli ordinamenti costituzionali d'Europa, occorra creare una Corte suprema per la custodia della Costituzione, per la vigilanza sulla sua applicazione e per dirimere i conflitti fra i vari poteri dello Stato, per giudicare infine il Presidente della Repubblica e i Ministri.

Si tratta di creare un organo di superlegalità o, come comunemente si dice, si tratta di creare un superpotere. Ma occorre anche qui, secondo la mia opinione, evitare la formazione di un'Alta Corte di carattere politico, sia perché i compiti affidati alla Corte Costituzionale sono di carattere prevalentemente giuridico, sia perché le condizioni politiche e sociali dell'attuale vita italiana non tollererebbero mai una tale soluzione.

[...]

Un ultimo rilievo vorrei fare a proposito della competenza della Corte Costituzionale. Nell'articolo 126 è detto che la Corte risolve i conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni. Ma, onorevoli colleghi, i conflitti di attribuzione, secondo l'articolo 3 della legge 31 marzo 1877, non sono forse devoluti alla cognizione delle Sezioni unite della Corte di cassazione? E il vigente Codice di procedura civile forse non ha confermato tale disciplina? E allora occorre distinguere. Perché, se si intende devolvere alla competenza della Corte Costituzionale questi conflitti di attribuzione, sottraendoli al giudizio della Suprema Corte e spezzando così il principio dell'unicità della giurisdizione, allora sono contrario a tale principio, per i concetti che ho già avuto l'onore di esporre.

Le controversie che possono sorgere non hanno alcuna attinenza con la materia costituzionale, e il potere giudiziario non potrebbe garantire una pronta efficace tutela dei diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, quando la decisione potesse essere rimessa ad un organo estraneo al potere giudiziario. Se, invece, si tratta di un'ambiguità di dizione, se si tratta di una frase poco felice, allo scopo di evitare dubbi e contrasti futuri, occorre dire semplicemente che la Corte Costituzionale risolve i conflitti fra i poteri dello Stato o, tutt'al più, per amore di precisione, i conflitti di elaborazione fra gli organi costituzionali dello Stato, fra lo Stato e le Regioni, fra le Regioni. Ecco le considerazioni a cui si è ispirato il mio emendamento all'articolo 126.

[...]

Martino Gaetano. [...] L'onorevole Vittorio Emanuele Orlando espresse già, nel suo memorabile discorso all'inizio dei nostri lavori sul progetto di Costituzione, la propria ostilità al sindacato costituzionale della legge. Questa ostilità non è di oggi, perché egli già la manifestava, credo, sessant'anni addietro, quando giovane professore di diritto costituzionale nella mia università, scriveva la sua «teoria giuridica delle guarentigie delle libertà». Dalla lettura dei resoconti della Commissione dei Settantacinque ho appreso, inoltre, che l'onorevole Einaudi, nella seduta del 1° febbraio di questo anno, espresse egli pure critiche e riserve notevoli sulla Corte costituzionale. Non ho avuto la fortuna ancora di ascoltare la parola, a questo proposito, dell'onorevole Nitti, però non mi è difficile rendermi edotto del suo pensiero al riguardo, leggendo gli emendamenti che egli ha presentato su questo titolo. L'onorevole Nitti ha presentato quattro emendamenti: uno all'articolo 126: «sopprimerlo»; uno all'articolo 127: «sopprimerlo»; uno all'articolo 128: «sopprimerlo»; uno all'articolo 129: «sopprimerlo». Nessun emendamento ha presentato l'onorevole Nitti, almeno che io sappia, a proposito dell'articolo 130, cioè della seconda sezione del titolo sesto della seconda parte del progetto, quella che riguarda la «revisione della Costituzione». Ciò mi lascia pensare che l'onorevole Nitti sia contrario al controllo giudiziario delle leggi, ma favorevole alla rigidità della Costituzione.

Ora a me pare evidente che il controllo della costituzionalità delle leggi sia una conseguenza necessaria della rigidità della Costituzione. Nelle Costituzioni flessibili, dove praticamente nessun limite è posto all'attività del potere legislativo, in quanto non è fatta una distinzione tra potere costituente e potere legislativo e con l'ordinaria procedura legislativa possono essere approvate leggi costituzionali, evidentemente non può ammettersi nessun sindacato sulla costituzionalità delle leggi, eccetto quello sulla costituzionalità estrinseca, cioè sulla regolarità degli atti attraverso cui si compie la funzione legislativa. Ma nelle Costituzioni rigide quando, se pure il potere costituente non è distinto dal potere legislativo (come nel nostro caso), una procedura particolare, più o meno complicata, per la revisione della Costituzione è fissata, io credo che altrettanto evidentemente si imponga un controllo giudiziario dell'attività del potere legislativo. Questo concetto, del resto, fu affermato in modo estremamente chiaro dal primo giudice John Marshall, il quale presiedette la Corte Suprema federale degli Stati Uniti di America per un lunghissimo periodo nella prima metà del secolo XIX, ed al quale si deve in sostanza tutta l'importanza enorme che ha assunto negli Stati Uniti di America il controllo giudiziario delle leggi esercitate dalla Corte Suprema federale, nell'occasione della famosa decisione sulla controversia Marbury v. Madison (il cosiddetto Mandamus-Case).

«È certo — egli scrisse — che quando uno Stato adotta una Costituzione rigida, automaticamente esso sanziona la superiorità delle norme costituzionali sulle norme legislative ordinarie. Ed infatti, o la Costituzione è superiore ad ogni atto legislativo non conforme ad essa, o il potere legislativo può modificare la Costituzione con una legge ordinaria. Non c'è via di mezzo. Se la prima parte di questa proposizione alternativa è vera, un atto legislativo contrario alla Costituzione non è legge; e se non è legge, può essa, ciò malgrado, avere efficacia, possono i tribunali essere obbligati ad applicarla? In altre parole, può un atto legislativo essere considerato norma produttrice di effetti giuridici, sebbene non sia legge? E quando — egli affermò ancora — nella Costituzione il potere giudiziario è considerato come uno dei poteri fondamentali e indipendenti dello Stato, non c'è dubbio che spetta ai tribunali, nell'esercizio dei loro poteri giurisdizionali, di controllare la validità delle leggi, cioè la loro compatibilità e conformità con le norme della Costituzione».

Di modo che il sindacato giurisdizionale della costituzionalità delle leggi è evidente che discende dalla rigidità della Costituzione, cioè dall'esistenza di quei limiti che la Costituzione pone all'attività del legislatore. Se questi limiti sono superati, allora evidentemente è violato il diritto. Contro gli atti del potere esecutivo, che violano il diritto, il cittadino è garantito attraverso il sindacato giurisdizionale del Consiglio di Stato; non dovrebbe egli essere parimenti garantito contro gli atti del potere legislativo i quali violino la Costituzione? E non è questo tanto più necessario proprio in una Repubblica parlamentare come questa, che vogliamo organizzare col nostro progetto di Costituzione, dove al Capo dello Stato non è attribuita quella superiore funzione della tutela giuridica, cioè del confronto fra la legge e la Costituzione, che è propria della Corona negli Stati monarchici?

Se ho ben capito il pensiero di Vittorio Emanuele Orlando, e degli altri che con lui sono ostili a qualsiasi forma di sindacato giurisdizionale della costituzionalità delle leggi, quest'ostilità deriva soprattutto dalla preoccupazione che, ammettendosi il principio del controllo giudiziario delle leggi, in un certo senso si venga a fornire una scusa legittima per la disobbedienza alla legge, si venga dunque a turbare la tranquillità giuridica dello Stato. Per essa è, infatti, indispensabile che non esistano dubbi sulla validità delle leggi: principio questo ovvio ed indiscutibile.

Ma l'esistenza di un organo particolare per il controllo giudiziario delle leggi non servirebbe appunto ad eliminare qualsiasi possibilità di dubbio? E d'altra parte, l'assenza di questo controllo particolare non equivarrebbe a «proclamare — come scrisse Orlando — il governo dispotico di una maggioranza di Assemblea»?

Qui si è a lungo discusso, a proposito del Titolo IV della prima parte della Costituzione, sul cosiddetto diritto di resistenza, e dubbi non infondati furono espressi da parecchi autorevoli colleghi circa l'opportunità di far menzione nella Costituzione di questo principio, accolto da tempo immemorabile nel diritto pubblico di tutti i paesi. Forse è stato un errore l'averlo incluso fra i diritti politici, cioè l'averlo considerato come un diritto di libertà, mentre esso rappresenta piuttosto — come sostengono i cultori di diritto pubblico dal Casanova al Brunialti, per non citare che i più noti — la «guarentigia comune dei diritti di libertà», cioè una garanzia di libertà, una garanzia costituzionale. Il diritto di resistenza, come garanzia, dei diritti di libertà, è ammesso fin dalle leggi Valerie, trova posto nella «Magna Charta» britannica e nella «Bulla Aurea» di re Andrea II di Ungheria, rappresenta un principio accettato e difeso da tutti gli scrittori di diritto pubblico in tutti i tempi ed in tutti i Paesi, e soprattutto dai Gesuiti.

Ora, il sindacato giurisdizionale della costituzionalità delle leggi non è che l'espressione giuridica continua di questo diritto di resistenza popolare contro l'onnipotenza parlamentare: ne è una prova, vorrei dire ontogenetica, la storia della Costituzione degli Stati Uniti d'America. La separazione delle Colonie del Nord-America dalla Madre Patria fu l'effetto, come è noto, della resistenza popolare contro una legge votata dal Parlamento inglese, la quale imponeva tributi ritenuti arbitrari, cioè tasse sul commercio interno. Infatti, secondo la dottrina allora vigente, era competente il Parlamento della Madre Patria soltanto per le tasse e i tributi che gravavano sul commercio esterno delle colonie (perché considerati di interesse generale), ma non per i tributi gravanti sul commercio interno, per i quali erano competenti le Assemblee legislative delle colonie: questa fu la tesi che sostenne con tanto calore il Pitt alla Camera dei Comuni. È proprio per queste origini, che nel diritto pubblico americano si affermò fin dall'inizio, come fondamentale, il principio del diritto di resistenza popolare contro l'onnipotenza parlamentare; e l'espressione concreta di questo principio si trova appunto nel controllo giudiziario delle leggi, controllo imposto più dal costume del Paese, che dal testo dell'articolo 6 della Costituzione del 1787. E a questo proposito vorrei che mi fosse consentita una digressione: l'onorevole Einaudi, nel suo intervento nella seduta plenaria della Commissione dei Settantacinque del 1° febbraio ultimo scorso, ebbe ad affermare «improprio» il riferimento così frequente al diritto pubblico americano in questa materia. Egli disse che nella Costituzione degli Stati Uniti d'America non esiste niente che possa giustificare il controllo giudiziario delle leggi, eccetto quelle parole del 1° capoverso dell'articolo 6: «questa Costituzione e le leggi che saranno fatte in sua conformità». Egli disse: «Tutto quello che si è fatto è stata l'opera dei magistrati: sono i magistrati che si sono impadroniti di queste due o tre parole della Costituzione ed in base ad esse hanno elaborato il sistema attuale del controllo giudiziario sulla costituzionalità, delle leggi».

Ora, ciò non mi sembra esatto. Anzitutto, secondo l'opinione dei cultori del diritto pubblico americano, la competenza della Corte Suprema federale ad occuparsi della costituzionalità della legge, deriva non tanto dall'articolo 6, quanto dalla seconda sezione dell'articolo 3 della Costituzione, dove si tratta appunto del potere giudiziario, della Corte Suprema federale, e si dice che «esso si estenderà a tutti i casi, in diritto ed equità, che deriveranno da questa Costituzione, dalle leggi degli Stati Uniti, ecc.». Le parole «di questa Costituzione» rappresentano un emendamento aggiuntivo, proposto da William Johnson, ed approvato il 27 agosto 1787 dalla Costituente di Filadelfia, appunto con lo scopo precipuo di confermare questa specifica competenza della Corte suprema federale.

Ma, a parte ciò, è certo che il controllo giudiziario delle leggi era già nella coscienza popolare e che, pertanto, esso deriva più dal costume del paese che dalla lettera della Costituzione. Infatti, i coloni erano già abituati, prima ancora della rivoluzione, a considerare limitati i poteri delle Assemblee legislative. Il controllo giudiziario delle leggi veniva allora esercitato dal Privy Council, che dichiarava invalide le leggi incompatibili con gli Statuti delle colonie e con il Common Law. È certo, infine, che i costituenti del 1787, fin dal primo momento, considerarono come fondamentale per la struttura costituzionale degli Stati Uniti d'America il controllo delle leggi, ciò risulta dalle notizie e dalle indiscrezioni che si ebbero sui lavori dell'Assemblea Costituente del 1787. Come saprete, i lavori dell'Assemblea Costituente non ebbero carattere pubblico, né furono redatti resoconti verbali; non solo, ma sui lavori i costituenti si erano anzi impegnati a mantenere il segreto.

Tuttavia, qualcuno tradì questo segreto. Ciò risulta inoltre dall'interpretazione che della Costituzione diedero gli stessi costituenti. Tre mesi dopo l'approvazione della Costituzione, e cioè nel dicembre 1787, in un discorso alla Convenzione del Delamare per la ratifica, uno dei costituenti, James Wilson, disse queste parole: «Se il Congresso facesse una legge incompatibile con i poteri attribuitigli da questa Costituzione, i giudici dichiarerebbero la legge nulla ed inefficace. Di conseguenza, tutte le leggi del Congresso contrarie alla Costituzione, non avranno forza di legge». E due mesi dopo, il 26 febbraio 1788, un altro costituente, George Bryan scriveva nel The independent Gazetter di Filadelfia:

«Se il Congresso fosse disposto a violare gli articoli fondamentali della Costituzione, le sue deliberazioni non produrrebbero nessuna conseguenza, dato che esiste una barriera, cioè la Corte Suprema dell'Unione, che ha facoltà di determinare la costituzionalità di qualsiasi legge controversa». Questa fu, possiamo dire, l'interpretazione autentica che della Costituzione diedero gli stessi costituenti. Non mi pare, dunque, esatto che l'elaborazione dell'attuale sistema di controllo sulla costituzionalità delle leggi in America sia stata l'opera arbitraria dei magistrati. Se una clausola specifica non fu inserita nella Costituzione, ciò fu perché questo controllo era nella coscienza di tutti, faceva parte cioè di quel patrimonio comune di principî elementari che, per la loro universalità, non avevano bisogno di essere confermati per iscritto. L'opera dei magistrati, e soprattutto di John Marshall, consistette piuttosto nel rivendicare con estrema energia al potere giudiziario questa facoltà in un particolare momento della vita degli Stati Uniti, quando — essendo al potere gli antifederalisti, con Jefferson alla Presidenza — rischiavano di essere allentati i vincoli che univano gli Stati nella Confederazione.

Riassumendo: non vi sono fondate ragioni per ripudiare il controllo giudiziario della costituzionalità delle leggi; vi sono invece serie e fondate ragioni per ritenere che, come espressione giuridica e civile di un indiscutibile diritto di resistenza popolare contro gli abusi del potere esecutivo, esso rappresenti un mezzo adeguato per la stabilità del regime parlamentare.

[...]

Di modo che il principio del controllo costituzionale delle leggi, da affidarsi ad una Corte particolare, ci trova in massima favorevoli; tanto più che esso, come ho detto, è una conseguenza necessaria della rigidità della Costituzione, alla quale rigidità noi liberali siamo pure favorevoli. Dire che questa Costituzione sia tale da soddisfare le aspirazioni liberali, non sarebbe dire cosa esatta. Troppo spesso noi ci siamo trovati in disaccordo con la maggioranza di questa Assemblea, soprattutto a proposito della prima parte del progetto, dove sono formulati principî da noi magari accettabili come tali, ma non accettabili sotto l'aspetto di norme giuridiche vincolative per lo Stato. E tuttavia, non ostante tutto quello che questa Costituzione possa contenere di non gradito per noi, noi desideriamo che essa viva, e che viva nei secoli; noi desideriamo che essa possa rappresentare un'efficiente barriera contro ogni nuovo eventuale attentato alle pubbliche libertà. La Costituzione che noi avevamo prima del fascismo apparteneva al tipo di quelle che si dicono elastiche o flessibili: poteva essere modificata con la normale procedura legislativa del Parlamento. E fu assai spesso modificata, non ostante essa, fosse stata proclamata «legge fondamentale perpetua e irrevocabile dello Stato». Per questo suo carattere di flessibilità essa non rappresentò un serio ostacolo contro tutte quelle innovazioni, che a poco a poco portarono alla completa soppressione delle libertà del cittadino. Perciò, se pure da un punto di vista teorico, si potrebbe sostenere che noi liberali dovremmo essere più favorevoli ad una Costituzione di tipo elastico, la recente esperienza ci induce a schierarci decisamente in favore di una Costituzione di tipo rigido; tanto più che non è possibile evitare il sospetto che pericoli di nuove violazioni dell'ordinamento costituzionale possano sorgere soprattutto in un Paese, come il nostro, uscito appena, si può dire, da una guerra disastrosa e così agitato da contrastanti passioni. Se, per esempio, fosse vero quello che di questi giorni si dice e cui si accennava ieri in un giornale del pomeriggio (La Repubblica), che cioè alcuni colleghi nostri si propongono, in sede di compilazione della legge elettorale per il Senato, di introdurre con un artificio il sistema proporzionale, che è stato già respinto dall'Assemblea Costituente, non dovremmo noi vedere in questo un indizio di una naturale, involontaria, incosciente disposizione, che è in noi fin da ora, di violare questa carta costituzionale che così faticosamente siamo venuti elaborando?

Occorre poi aggiungere che l'esistenza di una Corte costituzionale per il controllo giurisdizionale delle leggi è resa inevitabile dall'ordinamento regionalistico che abbiamo adottato. Contrasti inevitabilmente sorgeranno fra gli organi politici centrali e quelli decentrati; e un equilibrio, una armonia del sistema statale non potranno essere assicurati, senza l'esistenza di un sindacato imparziale, cioè di un controllo giurisdizionale.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti