[Il 22 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Non essendo presenti gli onorevoli Manzini e Mancini, iscritti a parlare, si intendono decaduti.

È iscritto a parlare l'onorevole Pignedoli. Ne ha facoltà.

Pignedoli. Mi appresto a parlare davanti all'Assemblea Costituente, con molta modestia, su un problema che mi appassiona profondamente, il problema della scuola, e soprattutto della scuola in un suo aspetto particolare, il problema della cultura universitaria, e, se possibile, della ricerca scientifica.

Ma poiché ho la parola, personalmente, anche ai di fuori del senso di rappresentanza di un Gruppo, perché i sentimenti sono vivi negli uomini e gli uomini non li possono nascondere, io devo con l'occasione esprimere il mio vivo rincrescimento personale per l'episodio di stamane. Sono certo che il gruppo democristiano esprimerà il suo disappunto in maniera ufficiale...

Presidente Terracini. Onorevole Pignedoli, lei ha chiesto di parlare sul progetto di Costituzione. La prego di attenersi all'argomento. Non è questa la sede per delle proteste. Il Regolamento le lascia molti altri mezzi e se ne valga.

Pignedoli. Mi attengo scrupolosamente all'avvertimento del Presidente, nonostante che altri oratori abbiano preso spunti vari per divagazioni.

Presidente Terracini. Il punto che lei ha toccato non può essere tema di divagazione, ed io ritengo che non sia questa la sede opportuna. Lei sa che alcuni suoi colleghi hanno preso altra iniziativa.

Taviani. Avremmo desiderato la stessa energia stamani da parte della Presidenza.

Presidente Terracini. Sta bene; si accontenti che ci sia nel pomeriggio.

Taviani. Purtroppo, a nostro danno.

Presidente Terracini. Prosegua, onorevole Pignedoli.

Pignedoli. Nel parlare del problema della scuola, mi sento veramente onorato e commosso, poiché sono un giovane rappresentante degli uomini della scuola, ma uno che sente profondamente i problemi della cultura e della ricerca scientifica come vita della sua vita, uno che sente come sia assolutamente necessario il potenziamento della scuola e dell'alta cultura, per la ricostruzione nazionale e per la ripresa di quel posto che il nostro Paese merita nel mondo.

Sento la commozione più profonda nel parlare della scuola, perché, dopo gli interventi di illustri oratori, che mi hanno preceduto, è apparso sempre più chiaro come la scuola con i suoi uomini, che si sono sacrificati, che hanno sofferto e tuttora soffrono, sia degna della massima attenzione e degna di essere considerata elemento fondamentale della ricostruzione della nuova Repubblica italiana.

Infatti, questa scuola, che da varie parti viene criticata, per la quale si sente la necessità di riforme e di provvidenze, questa scuola, nonostante i difetti e le manchevolezze, ha pur conservato un alto senso di dignità morale, anche in mezzo a tutte le difficoltà, ed ha espresso nei momenti più gravi della vita nazionale gli spiriti, che hanno saputo battersi e sacrificarsi, per le più grandi idee ed anche per le più impellenti, eroiche necessità della ripresa nazionale.

I problemi della libertà, della scuola privata e dei rapporti colla scuola di Stato, sono stati già ampiamente considerati; e poiché non è il caso di allungare la discussione inutilmente, io non me ne occuperò con particolare rilievo.

Molti oratori ne hanno parlato con convinzione, con argomenti significativi; ma è certo che l'elevato discorso del professor Colonnetti ha messo in rilievo il fatto fondamentale che, acquisito il senso della libertà, gli uomini, i capi famiglia, i loro figli hanno il diritto di scegliersi quella scuola, che più ritengono atta a formare il carattere della nuova generazione e la sua struttura spirituale.

È qui che la libertà della scuola assume quel carattere fondamentale, per il quale i democristiani si sono battuti, anche se questa lotta, anche se queste convinzioni hanno indotto molti spiriti a pensare che i democristiani sostenessero questi principî, per ragioni, che sono state adombrate variamente, o che sono state apertamente dichiarate nel corso di questa discussione, non del tutto di convincimento profondo.

Noi abbiamo esaminato i molti suggerimenti che ci sono venuti; abbiamo ascoltato i molti contributi ed abbiamo apprezzato questi contributi.

Io ho apprezzato, in particolare, nella mia modestissima capacità di giudizio, alcuni contributi. Se non sono stati, forse, sufficientemente da altri ricordati, mi permetterei di sottolinearli io.

Davo dichiarare che quell'accenno dell'onorevole Pajetta alla necessità di potenziare, di assistere le istituzioni sportive (ed è proprio uno che si accinge ai primi passi della carriera universitaria che lo dice) quell'accenno dell'onorevole Pajetta alla necessità di mantenere e di potenziare le istituzioni sportive per il bene della nostra gioventù, mi ha particolarmente convinto.

Di un altro accenno sono particolarmente convinto, quello che mi pare sia uscito dal pensiero della collega Bianchini e di altri oratori, quando si parlava della necessità di avvicinare gli studenti, gli allievi al mondo del lavoro.

Nel passato, che ha portato l'Italia alla rovina, ce n'era stato un tentativo. Senza voler insistere in una continua accusa del passato, che finisce per non essere più efficace, c'era stato un tentativo, quello di obbligare gli studenti universitari al lavoro, a turni di lavoro nelle fabbriche. Ma questo fu fatto con scarso senso di serietà.

Direi che è assolutamente necessario che gli studiosi prendano contatto diretto col mondo del lavoro, perché io, che ho la possibilità di osservare la mentalità degli studenti universitari delle facoltà scientifiche, ho potuto constatare che gli studenti universitari, anche alla fine dei loro studi, si trovano dinanzi alla continua accusa di non essere a contatto con la vita pratica del lavoro, con le nozioni pratiche; non solo, ma si trovano molte volte in questa situazione, di non comprendere, forse, sufficientemente quello che è lo sforzo degli uomini di cui essi sono chiamati ad essere i dirigenti. La necessità, quindi, del lavoro per gli studenti, direi, di tutte le categorie. E non è questo un atteggiamento di facile demagogia: è l'atteggiamento di chi è, invece, profondamente convinto che in questa Repubblica fondata sul lavoro è assolutamente necessario che gli uomini della cultura si sentano sempre più completamente degli autentici lavoratori.

Ho seguito anche gli interventi degli onorevoli Preti, Ruggiero, del Sottosegretario Bernini e dell'onorevole Codignola e, con particolare direi quasi affettuosa attenzione, quello dell'onorevole Malagugini. In questo intervento del professor Malagugini, mio avversario politico, insieme ad un notevole senso i equilibrio nel trattare i problemi della scuola e nell'affermazione di certe ideologie, sulle quali siamo in campo avverso, c'era però quel senso profondo di ammirazione per la vita della scuola, quel senso che fa dire agli uomini della scuola, che sono disinteressati, che sono una categoria diseredata di lavoratori: «Se tornassi a nascere, farei ancora il professore».

Questa affermazione che è così profonda, così poetica nella sua convinzione, si inserisce nel mio spirito; ed anche io — questa è la mia convinzione, collega Malagugini — sono certo che gli uomini della scuola devono vivere per la scuola, e soltanto perché sono capaci di vivere in maniera necessaria per essa, e soltanto perché la scuola è la loro vita e la loro passione, è il tormento della loro esistenza, il sacro tormento della loro esistenza, essi sanno essere veramente degli educatori.

Molto spesso credo che i miei avversari abbiano potuto osservare che la serenità delle nostre discussioni è un elemento fondamentale per la vita del nostro Paese. Ogni possibile frattura che si determina nella vita democratica è un danno per il nostro Paese, e dovunque possiamo trovare dei denominatori comuni di azione e di giudizio, là si deve orientare la nostra attenzione. Per questo io non attacco i miei avversari, ma mi limito a dire che ho ascoltato con grande dolore certe affermazioni, per esempio, degli onorevoli Preti, Ruggiero, Codignola, nelle quali si è notata questa frattura di pensiero che ci divide, direi, dal punto di vista più schiettamente spirituale. Alcuni oratori, poi, nel corso della discussione, e non soltanto della discussione sulla scuola, ma della discussione sui problemi della famiglia — e questo lo dico per inciso — ci hanno dato dei consigli apprezzabilissimi e ci hanno detto che noi non dobbiamo insistere con intransigenza. Su certe posizioni della nostra dottrina, ci hanno consigliato, mi pare che ieri lo dicesse l'onorevole Macrelli, a vincere sì, ma non a stravincere. Questo sentimento, onorevoli colleghi, non c'è in noi. Si è detto che noi vogliamo stravincere. Ma cosa direste, onorevoli colleghi, di un partito che in sede politica — e mi permetto di insistere sulla mia dichiarazione — assume la difesa dei fondamentali principî del Cristianesimo, religione della grande maggioranza del popolo italiano, cosa direste di questo Partito se cedesse tutti i momenti su quelle che sono le fondamentali posizioni della trincea spirituale sulla quale e nella quale è chiamato a combattere? Molte volte, ed io l'ho sentito nell'aria, qualcuno ha fatto fra noi confusione fra la Democrazia cristiana ed il Cattolicesimo. Noi non presumiamo di essere i rappresentanti autentici del Cattolicesimo. Da molti ci si è obiettato che siamo tutti cattolici, perché in Italia la maggioranza è composta di cattolici. È certo. Ma proprio per questo, perché non presumiamo di essere gli unici rappresentanti del Cattolicesimo, ma sentiamo di avere l'aspirazione profonda ad esserne difensori, proprio per questo noi resistiamo, anche se saremo battuti, su quelle che sono le posizioni fondamentali di quella dottrina che è argomento della nostra fede e delle nostre immortali speranze.

Ho ascoltato con grande rispetto l'esposizione di uno studioso, di un professore universitario, di parte socialista: il professore Giua. Io conoscevo il professor Giua attraverso il suo lavoro, sapevo che la sua sarebbe stata — è stata ugualmente ma, sarebbe stata ancor più — una grande carriera di studioso, se non fosse stata ostacolata, ferita, direi pugnalata per ragioni politiche.

Io ammiro l'uomo e lo studioso e se mi sono permesso durante il suo discorso di fare una doppia interruzione è stato perché nel campo specifico della mia ricerca — della mia modesta ricerca — ho sentito la necessità di affermare alcune idee.

L'onorevole Giua ha parlato degli ostacoli frapposti dalla Chiesa alla cultura, alla grande cultura, alla ricerca scientifica, alle scoperte scientifiche nei secoli ed ha parlato della questione eliocentrica e geocentrica, questione che assume un suo carattere di vasta polemica nel periodo doloroso del processo di Galileo. Il periodo doloroso, la pagina dolorosissima del processo di Galileo è riconosciuta perfettamente anche da me come tale, ma non dobbiamo dimenticare che la scienza è in evoluzione continua e che talvolta è pur lecito agli uomini della Chiesa porre delle barriere spirituali a quelle che possano essere interpretazioni contro la fede delle recenti scoperte scientifiche. La Chiesa non ostacola le scoperte scientifiche e la ricerca scientifica, ma talvolta, quando un risultato positivo ottenuto in un determinato momento dello sviluppo scientifico sembra diventare argomento contro le verità della fede, allora è necessario ed è naturale che la Chiesa metta in guardia i suoi fedeli. (Interruzioni — Commenti).

Non è per questo che la ricerca si ferma, ed è tanto vero questo che la meccanica moderna, come io ho asserito, ha scoperto, e questo senza possibilità di errori, che indubbiamente le posizioni assolute che asseriscono l'esistenza di centri fissi e di corpi rotanti intorno ad essi, sono, per lo meno, superate.

Quando io invocavo la teoria della relatività, in fisica, dicevo appunto che non è possibile asserire l'esistenza di centri fissi, né di riferimenti privilegiati e che la pagina di Galileo, pur essendo dolorosa, non escludeva la nostra possibilità di dire oggi che, dal punto di vista meccanico, Galileo, non asseriva la piena verità scientifica. (Commenti Interruzione dell'onorevole Giua).

Sono stato in quel momento interrotto e mi si è parlato di meccanica dei quanta dall'illustre onorevole Giua, ma la meccanica dei quanta, e la meccanica relativistica sono due cose ben distinte, e sappiamo perfettamente che esiste una meccanica di Dirac che è la sintesi della meccanica dei quanta e della meccanica relativistica, proprio perché su determinati problemi, i rapporti tra la meccanica dei quanta e la meccanica relativistica esigono una sintesi talvolta conciliativa. (Interruzioni — Commenti).

Presidente Terracini. Si tratta di argomenti che non possono offendere alcuno e perciò provocare reazioni. Non interrompano, quindi.

Pignedoli. C'è una questione che è stata introdotta molte volte nelle disquisizioni moderne anche filosofiche, una questione che dal punto di vista della cultura, dello spirito e della fede, ci interessa profondamente. Quando è stato scoperto — e qui, onorevole Giua, parlo proprio della meccanica dei quanta! — quando è stato scoperto il principio di Heisenberg, detto anche principio di indeterminazione, che sta alla base della meccanica quantistica moderna e della moderna fisica teorica, si è detto che questo principio abbatteva il principio di causalità. Oggi noi sappiamo che il principio di Heisenberg non abbatte il principio di causalità; anzi ne è una conferma. Ma, in questa limitatezza delle posizioni scientifiche ad un determinato momento, onorevoli colleghi — non ho nessun atteggiamento polemico, anche se, talvolta la passione trasporta la mia voce e il mio pensiero — in questa limitatezza per cui l'evoluzione scientifica è sempre in corso, è sempre immanente nel nostro spirito; non sentite la limitatezza delle nostre cognizioni, la limitatezza del nostro spirito stesso, la limitatezza della nostra capacità di ricerca, che aspira alla verità suprema ed aspira ad essere capace di raggiungerla?

Se, eventualmente, fosse che, della realtà esterna non conoscessimo che relazioni quantitative, non sarebbe davanti al mondo della cultura ancora profondamente vero che c'è una verità che aleggia al di sopra delle formule e di là dalle esperienze, quella verità alla quale lo spirito umano tende con ascensione drammatica, e verso la quale esso è continuamente teso con delle aspirazioni che raggiungono talvolta il vertice del dramma? Io non credo di aver asserito per questo la necessità di una confessionalità della scuola, onorevoli colleghi. Ma io mi domando quale valore avrebbe dinanzi all'educazione dei giovani il nostro aver insegnato la teoria dell'evoluzione, quella superata, onorevole Giua, di Darwin, quella superata di Lamarque, o quella della ologenesi di Rosa, o quella della cosmolisi di Blanc, alla quale anche modernissimi studiosi cattolici danno il loro assenso; cosa avrebbe giovato insegnare le funzioni ellittiche o lo spazio tetradimensionale, se non sentissimo che c'è una verità più alta alla quale aspiriamo, e che la scuola in fondo — non vorrei essere frainteso, non vorrei che la mia attuale incapacità ad esprimermi mi portasse ad espressioni inesatte — deve pure avere — sì, deve avere — una fede; perché se il giovane non sentisse che oltre il dramma della vita, oltre le disquisizioni, oltre la morte, oltre la miseria, oltre i provvedimenti che noi siamo chiamati ad adottare per un popolo, o eventualmente, se si arriverà ad una situazione universale, più umana, per l'umanità, oltre questi provvedimenti, c'è sempre qualche cosa che sfugge alla giustizia, alla verità, all'equità, alla carità, alla vita del genere umano; cosa imparerebbero questi giovani, se non delle formule aride che si risolvono in morte, come è morte quella del nostro corpo dal punto di vista schiettamente materiale? (Applausi al centro).

Io mi richiamo a quello che un grande scienziato italiano — gli scienziati sono sempre al di sopra delle vicende politiche, e l'Italia dovrà saperlo una volta per sempre; e sentiamo che lo sa, che gli scienziati sono sempre al di sopra delle vicende politiche — mi richiamo a quello che Guglielmo Marconi disse in un Congresso scientifico abbastanza lontano, ma abbastanza vicino, nel quale, posto dinanzi dal punto di vista direi elettromagnetico, al problema della vita, sentiva che in quel problema della vita si arrivava in fondo al vertice delle nostre speranze, del nostro tormento, della nostra ricerca, come davanti ad un muro, ad una barriera insormontabile, sulla quale sta scritta una piccola parola tremenda; quella parola che noi abbiamo la volontà, la fede, la necessità di affermare nel nostro insegnamento, quella piccola parola tremenda che è: Dio.

Il doloroso andarsene degli scienziati italiani, onorevoli colleghi, è un altro punto che voglio richiamare all'Assemblea Costituente italiana. Gli scienziati se ne vanno dall'Italia per ragioni di trattamento, per ragioni proprio inerenti alla possibilità di vivere. E qui non c'è nessuno spunto polemico; qui siamo tutti uniti in una grande considerazione di Patria e di giustizia umana. Gli scienziati se ne vanno, ma il doloroso calvario degli scienziati, che se ne vanno all'estero e che la Patria perde, dovrà essere finito una volta per sempre.

La Repubblica democratica italiana dovrà provvedere ai suoi ricercatori, dovrà provvedere a questi suoi lavoratori della mente; dovrà provvedere a questi suoi figli più eletti.

Io non mi sento mai così me stesso come davanti al lavoro umano, al lavoro umano che va dalla ricostruzione di un ponte al lancio di una funivia, ma che nella sua estrinsecazione più alta, è la «Nona» o la Divina Commedia: e, quando mi trovo di fronte ad una grande manifestazione artistica, mi sento profondamente lieto.

Dovrà finire dunque questo esodo e la Repubblica italiana dovrà impegnarsi a lottare, non dico a promettere di risolvere con faciloneria il problema, ma dovrà impegnarsi a far di tutto perché spiriti eletti non debbano emigrare lontano.

Per questo io mi sono permesso, onorevoli colleghi — e sto finendo — mi sono permesso di presentare un emendamento. Ho visto un altro emendamento, successivo, proposto dall'illustre Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed un altro ancora presentato da altri onorevoli colleghi, mi pare dal professor Firrao, dell'Università di Napoli, e dall'onorevole generale Nobile. Ma mi sono permesso di mantenere il mio primo emendamento, che è leggermente diverso.

Esso è così concepito: «La Repubblica protegge e promuove con ogni possibile aiuto la creazione artistica e la ricerca scientifica». Esso non è in contrasto con la prima parte dell'articolo 27, in cui si dichiara che l'arte e la scienza sono libere. L'arte e la scienza sono libere per la loro stessa natura; noi lo sappiamo bene! Ma l'asserire, come comma aggiuntivo, che la Repubblica protegge e promuove la creazione artistica e la ricerca scientifica non è, evidentemente, una negazione del primo comma dell'articolo, ma anzi, una integrazione, direi necessaria, del comma stesso.

Ho finito. Sulla tomba di Isacco Newton, il genio altissimo, che ha onorato tutto il mondo scientifico, sta scritta un'espressione nella quale è detto che l'umanità tutta si gloria di averlo avuto figlio.

Noi siamo al di fuori e al di sopra di ogni esasperato spirito nazionalistico anche dal punto di vista della rivendicazione, dinanzi al mondo delle nostre glorie scientifiche; ma noi sentiamo, però, che la tradizione italiana, che la gloria di Leonardo, quella di Galileo, la gloria di Volta e di Pacinotti, di Ferrari, e di Marconi non sono tali da poter essere dimenticate dinanzi al mondo e sentiamo ancora più che è necessario tutelarne lo spirito e la grandezza.

Per questo io non ho mai plaudito sufficientemente e non avrò mai sufficientemente approvato quella dizione del nostro progetto costituzionale, nella quale si parla di aiutare i giovani migliori, anche se privi di mezzi, anzi soprattutto se privi di mezzi, a raggiungere le alte espressioni della cultura e le altissime posizioni dell'insegnamento e della ricerca scientifica.

A questo la scuola italiana, onorevoli colleghi, deve assolutamente impegnarsi e la Repubblica deve lavorare con ogni mezzo, e gli uomini che hanno la responsabilità delle decisioni in questo campo dovranno agire con intensa passione e con alta convinzione; perché, onorevoli colleghi, io sono certo di non usare espressioni di esasperato nazionalismo, ma di dire semplicemente la verità; non esalto infatti glorie militari o fatti che si sperdono nelle lontananze della storia o della leggenda, ma esalto glorie effettive della nostra stirpe.

Io vi dichiaro: la Repubblica difenderà e proteggerà i ricercatori e gli studiosi e avvierà i giovani migliori alle altissime posizioni, da cui poi, brillerà il loro genio, perché se si spegnesse la civiltà scientifica italiana, ne avrebbe grave pregiudizio la civiltà del mondo. (Applausi al centro Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Marchesi. Ne ha facoltà.

Marchesi. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Quale uno dei due relatori sul tema della scuola, parlerò con la maggiore brevità possibile sugli articoli 27 e 28, che hanno già suscitato vivo dibattito. Questi due articoli sono il prodotto faticoso di una lunga discussione e di un accordo tentato, ma non sempre chiaramente raggiunto.

Malgrado qualche represso malumore, l'accordo è stato quasi unanime sul primo comma dell'articolo 27 che riecheggia l'articolo 142 della così nota Costituzione di Weimar; «L'arte e la scienza sono libere». È stato mosso qualche appunto al tono enfatico di questa introduzione. Ma l'enfasi, onorevoli colleghi, non è sempre inutile. Qualche volta giova, quando si voglia da un principio generalmente riconosciuto ricavare una conclusione sicura, quando si voglia allontanare il sospetto che le manifestazioni individuali artistiche e scientifiche possano, in momenti gravi di fazione, essere costrette a preordinati fini politici.

Passiamo alla parte sostanziale dell'articolo, a quella che investe la sua produttività legislativa e comincia con affermare la funzione scolastica dello Stato.

Su questo punto l'opposizione, almeno l'opposizione palese, viene dalle più risolute frazioni autonomistiche, le quali intenderebbero sottrarre alla diretta amministrazione dello Stato, interi ordini di scuole o particolari tipi di scuole; ed il nembo regionalistico non è ancora passato oltre gli edifici scolastici nazionali.

L'articolo 111 (permetta onorevole Presidente che io faccia un accenno a questo articolo, che se anche non appartiene al titolo in discussione, ha con esso necessari legami) parla di norme legislative, di integrazione e di attuazione in materia di istruzione primaria e media che la Regione ha potestà di emanare. Voi sapete, onorevoli colleghi, che attuare significa dar vita e vigore ad una disposizione di legge, ma può significare anche negar vita e valore. In materia di istruzione, attuare vuol dire assumersi intera la responsabilità di far sorgere una scuola, in tutto il suo complesso di cose e di uomini, dalle nude parole di un articolo di legge. La scuola non è da trattare alla stregua di un collegamento stradale o di un regolamento di acque. La scuola è il massimo e, dirò, l'unico organismo che garantisca l'unità nazionale. Essa non prepara il sardo, il siciliano, il ligure, il piemontese: prepara il cittadino italiano; e da essa vengono e si propagano per tutte le regioni d'Italia le migliori energie del Paese. Allo Stato ne spetta, dunque, l'ordinamento e l'attuazione, perché lo Stato è l'unico organismo che abbia tutti i mezzi e tutti i poteri per assolvere quest'opera capitale in tutte le contrade d'Italia. La regione potrà arricchire i propri istituti di educazione, dotarli di nuovi locali, di nuovi corredi scientifici, magari di nuove funzioni; potrà istituire scuole di perfezionamento, di avviamento al lavoro, di artigianato, scuole agrarie, con vitti. Le regioni che meglio provvederanno all'incremento dei propri istituti scientifici ed educativi ne avranno perciò maggior decoro e vantaggio; ma lo Stato non può delegare ad esse tutto il potere di attuazione dei propri ordinamenti.

Riconosciuto per unanime consenso il diritto della Repubblica di organizzare la scuola statale in tutti i suoi gradi e i suoi tipi, si giunge all'istituto della scuola privata: cioè al punto della massima controversia. Questo nostro dibattito sulla scuola ha, come penso, un'importanza assai notevole nella storia della nostra Carta costituzionale. Primi fra tutti, i colleghi democristiani sentirono l'enorme valore del problema scolastico, obbedendo alle secolari tradizioni della Chiesa che nella scuola ha visto sempre, e a ragione, lo strumento massimo della sua propagazione spirituale e del suo dominio non soltanto spirituale. Sennonché, nella politica scolastica, la Chiesa dal 1929 in poi ha perduto quella cautela e quell'accorta misura che spesso la distingue nelle situazioni più delicate e di fronte agl'interessi più gravi. Quali siano i propositi della Democrazia cristiana, possiamo vedere non già dagli articoli venuti su attraverso tortuosi e oscuri adattamenti, ma da quelli presentati nella loro formulazione originaria dal Relatore che della Democrazia cristiana è una delle menti più lucide e riflessive. Dice l'articolo 2 della relazione Moro: «Lo Stato provvede all'istruzione con scuole proprie e degli enti autonomi. Lo Stato concederà sussidi alle scuole private in ragione del numero dei frequentanti e del rendimento didattico accertato negli esami di Stato». Qui con minore durezza di linguaggio si risente ciò che affermava il programma democristiano nell'aprile del 1946: «Libertà della scuola è lotta — udite bene — lotta per i diritti della scuola privata contro i monopoli scolastici (cioè le scuole pubbliche) che avviliscono la cultura».

E questo era detto in un tempo in cui la rete delle scuole religiose aveva acquistato, mercé la politica filogesuitica del fascismo, una imponente estensione.

In un articolo da me proposto, e che tornerò a proporre, si affermava che la scuola privata ha diritto alla piena libertà di insegnamento. Ritenevo in tal modo di aver soddisfatto ad una fondamentale esigenza educativa.

Ma quell'articolo non fu preso in molta considerazione dai colleghi democristiani della prima Sottocommissione; e me ne rendo conto; essi alla libertà di insegnamento non mostrano un volto troppo sorridente: essi che debbono giudicare e giudicano come nocivo all'educazione morale e intellettuale della gioventù quanto non si riporti alla suprema norma religiosa della Chiesa cattolica.

La Chiesa è un'istituzione divina, ed ha l'unica verità: la quale — qualunque cosa si dica — importa un'unica libertà, quella di propagare il vero e non di propagare l'errore.

Quella che voi chiamate libertà, onorevoli colleghi democristiani, è semplicemente tolleranza, concessione alle necessità dei tempi che vi costringono a penose sopportazioni.

Nel discorso tenuto in Senato il 25 maggio 1926 in difesa del Concordato, il capo del governo e del fascismo — non abbiamo paura di risuscitare certi morti — vantava la liberalità e la modernità delle scuole cattoliche, le quali ammettevano lo studio di Spinoza, di Bentham, di Kant, e persino di Rousseau, e riconosceva pertanto la possibilità di conciliare l'insegnamento religioso con la filosofia e con le altre discipline.

Il Pontefice Pio XI, uomo di alta sapienza, che conosceva il valore delle parole e sapeva pensare prima di scrivere, rifiutando quella lode scervellata, nella sua lettera-messaggio al Cardinale Segretario di Stato, diceva:

«La dottrina di Kant ed altre aliene dalla buona filosofia scolastica e cattolica sono studiate non a segno di avvicinamento, ma per scrupolosa esigenza di magistero, che non consente combattere ciò che bene non si conosce, e per ineluttabile necessità di imposti programmi».

E a proposito di libertà di coscienza, nello stesso solenne documento del giugno 1926 affermava che «in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola, in forza del mandato di Dio, con che viene riconosciuto che in uno Stato cattolico libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e le leggi cattoliche».

La Chiesa ha parlato in termini che non potrebbero avere più di chiarezza e più di autorità.

Che il pensiero pontificio non sia da relegare sotto la lucerna solare del 1926, attesta il programma della Democrazia cristiana dell'aprile 1946, dove si dice che: «non è possibile parlare di verità, prescindendo dalla Somma Verità; non è possibile insegnare la morale, prescindendo dal Sommo Bene»; attesta il recentissimo voto di un'Associazione nazionale per la Scuola italiana che si dichiara ricca di oltre un milione di aderenti, ed è evidentemente ispirata ai principî dell'Azione cattolica.

Questa Associazione reclama che la libertà d'insegnamento, affermata nella prima parte dell'articolo 27, sia limitata all'istruzione universitaria e ne siano escluse la scuola primaria e la scuola media, in cui «i docenti — sono le parole testuali — devono rispettare le convinzioni morali e religiose delle famiglie».

Lasciando da parte la morale, che non può essere proprietà esclusiva della Chiesa cattolica né può trovare nella Chiesa cattolica i soli modelli da offrire alla gioventù, lasciando da parte la morale, questi docenti, devono, secondo il voto di quell'Associazione, non soltanto rispettare i principî religiosi delle famiglie, ma neppure ignorarli. Devono essere, dunque, nella scuola non solo maestri, ma parroci. Attraverso questi suoi organi, autentici, se anche non autorizzati, il cattolicesimo non si difende, ma assalisce. Con l'avventata proposta di soppressione del primo comma dell'articolo 27 i signori dell'Associazione nazionale hanno scoperto interamente il loro proposito di ridurre la scuola elementare e media a scuola confessionale.

E qui permettetemi, onorevoli colleghi, che io manifesti un sospetto: che cioè oggi in tutta la vita politica italiana si vagheggi un tentativo di pianificazione cattolica: che si voglia dare allo Stato quella spiritualità, che secondo i cattolici, lo Stato non possiede e può venire soltanto dalla Chiesa; una specie di revisione neogiobertiana e neoguelfa, operata dai gesuiti.

Non sono parole avventate queste mie e non è oscuro il loro pensiero. Il pensiero è questo: che ad un'Italia peccatrice, disfatta ed umiliata dallo straniero, non resta che una sola via di salute: ritornare ad essere la sede centrale della cristianità cattolica: avere a supremo moderatore il Sommo Pontefice; ritrovare la propria grandezza in quel Papato che trasse un tempo alla penitenza di Canossa un imperatore straniero, che levò un tempo il grido di «fuori i barbari», che levò penultimo contro la disperata ferocia germanica la potentissima mano disarmata in difesa di Roma e dell'Italia. Questa è la via segnata all'Italia dai padri dell'ordine di Gesù. Ma io dico che in questa Repubblica pontificia non ci sarebbe posto per milioni di italiani; come non ci sarebbe posto per quelle riforme sociali che voi stessi, colleghi democristiani, avete annunciato di volere; come non ci sarebbe posto per quella libertà di coscienza, e di pensiero, senza cui non c'è possibilità di vita civile.

Onorevoli colleghi, consentite che io torni ad affermare il dovere altamente civile dello Stato nel provvedere alla educazione nazionale. Quest'affermazione ritengo necessaria dinanzi al diritto che sulla scuola italiana accampa senza oscurità né reticenze la Chiesa cattolica, la quale per bocca del Pontefice suo nel giugno 1929 proclamava che «per una logica necessità» derivante dai Patti lateranensi, «il pieno e perfetto mandato educativo non spetta allo Stato, ma alla Chiesa, la cui educazione ha preparato la civiltà moderna in quanto essa ha di meglio e di più elevato». Or bene, io dico che anche oltre i confini della civiltà cattolica il pensiero moderno ha saputo levare la sua luce intellettuale di arte e di scienza, di progresso civile e sociale, a cui non il Santo Uffizio, ma la coscienza di tutto il genere umano ha dato e darà il suo riconoscimento.

Per noi, libertà della scuola è garantire libertà ad insegnanti ed alunni, perché tutte le forze del pensiero abbiano valore: fra le quali è il pensiero cattolico, di cui non vogliamo né possiamo disconoscere i meriti; quel pensiero cattolico che con Agostino, nello splendore dell'Africa cristiana, iniziava la filosofia moderna.

La Democrazia cristiana per libertà della scuola intende un complesso di diritti che va dall'aperta confessionalità — che non contestiamo in nessuna maniera — al conferimento legale dei titoli di studio e al godimento legale del pubblico danaro.

Il principio che si intende affermare, sotto un trasparentissimo velo che ora s'innalza ora si abbassa, è che lo Stato debba provvedere alla pubblica istruzione mediante scuole proprie e scuole private, considerate queste ultime nell'ineffabile documento dell'Associazione nazionale quali «scuole a sgravio». Ne consegue che lo Stato debba finanziare — pure vigilandola — la scuola privata, come sovvenziona altri servizi che, per essere esercitati da privati non cessano perciò di essere pubblici. E ciò perché lo Stato, avendo dato il permesso di vita alla scuola privata, ha così lasciato ai cittadini libertà di scegliere, per la istruzione dei propri figli, quella scuola che preferiscano, e deve perciò rendere effettiva questa libertà, sussidiando la scuola privata e mettendola in condizione di potere scegliere gratuitamente o senza troppo gravi tributi, tutti quelli che la preferiscano alla scuola di Stato.

Il ragionamento sarebbe valido, se la scuola pubblica fosse una scuola confessionale o una scuola di Partito, o una scuola con determinati indirizzi religiosi o politici. Ma questo non è: nella scuola di Stato si può entrare con animo tranquillo: essa è asilo di tutte le coscienze ed è la scuola di tutti i cittadini. E il cittadino che preferisce la scuola privata alla pubblica, obbedisce a una preferenza che deriva da comodità e non da necessità.

Non si parli di monopolio di Stato. Questa parola monopolio suona impropria ed ingiuriosa. Sarebbe monopolio se tutte le scuole fossero in mano dello Stato, se lo Stato assumesse esso solo la funzione scolastica; lo Stato lascia la scuola privata accanto alla scuola pubblica. Sia libera la scuola privata di scegliersi i suoi insegnanti e i suoi metodi di insegnamento. Si moltiplichi pure la scuola confessionale. Noi auguriamo ad essa buona fortuna. Tanto meglio per gli scolari e per la società se l'educazione sia tale da assicurare una feconda attività dell'intelletto ed una solida preparazione scientifica. La scuola privata goda dei propri meriti e della propria meritata fortuna, senza chiedere nulla allo Stato. Il quale, con l'istituto provvidenzialmente selettivo dell'esame di Stato, toglie alla pubblica scuola il diritto di conferire i più validi e conclusivi titoli di studio, la mette sullo stesso livello della scuola privata e ne fa un organismo concorrente e non privilegiato di preparazione scientifica. L'istituto della parificazione o del pareggiamento potrà continuare a sussistere, se il legislatore lo riterrà opportuno; ma in sede costituzionale faremo bene a tacerne.

L'esame di Stato, da sostenersi in sede statale, sarà uno degli strumenti principali che apriranno le scuole alle migliori e più scelte energie del Paese. La selezione che vogliamo noi dovrà consistere nel dirigere ed avviare tutte le attività dei singoli per quelle vie in cui potranno più degnamente operare e progredire.

Selezionare non è costituire la folla dei reietti e degli umiliati; è disperdere la folla degli spostati, che si va facendo sempre più paurosa. D'altra parte si sente la necessità di fare avanzare verso i gradi superiori della cultura quelli che ne sono stati esclusi non per difetto d'ingegno, ma per difficoltà economiche finora insuperabili.

Questo è un punto veramente nuovo della nostra Costituzione. Il 1° comma dell'articolo 28 dice: «La scuola è aperta al popolo». Frase demagogicamente presuntuosa ed irrisoria, se non corrispondesse a un intimo convincimento e ad una ferma risoluzione. E sarà compito e onore dell'Assemblea legislativa affidare a quest'articolo la risoluzione del problema scolastico che implica il rinnovamento di tutta la vita nazionale. Da secoli, onorevoli colleghi, il figlio del contadino e dell'operaio continua a fare il contadino e l'operaio. Nessuno vieta al figlio del contadino e dell'operaio di salire al grado di primo ministro o diventare scienziato ed artista di eccezionale valore, nessuna legge lo vieta, nessun padrone di fabbrica o di terra lo impedisce; lo impedisce un padrone inesorabile e invisibile: la tirannia del bisogno. Non è un problema sentimentale questo; non si tratta di generosità d'animo che apra al povero la via della elevazione economica e intellettuale; non si tratta di un beneficio che la fortuna dei pochi debba concedere alla miseria dei più. Se si trattasse di un beneficio noi lo respingeremmo risolutamente. Noi combattiamo per la conquista di diritti; e ogni beneficio è, sotto certi riguardi, una negazione di diritto, perché ogni beneficio è revocabile. (Applausi).

Non ci illudiamo, onorevoli colleghi, che si possa presto giungere a siffatto ordinamento, non ci illudiamo che la norma scritta del legislatore possa corrispondere subito alla indicazione costituzionale. Non abbiamo la storditezza di dimenticare la situazione economica del nostro Paese, il quale ora deve lottare per la sua esistenza e domani, siccome speriamo, per la sua prosperità. Sappiamo che l'unico lavoro ammissibile oggi è quello di iniziazione e di manutenzione, perché l'attività scientifica italiana non abbia a perdere i suoi maggiori e più accreditati centri di studio. Si pensa a futuri collegi universitari, a nuove case di studenti che dovranno un giorno degnamente e nobilmente accogliere e addestrare una scelta gioventù studiosa. Nobilissimo proposito che è facile, che è doveroso vagheggiare oggi, ma che è difficile, se non forse impossibile, attuare. Abbiamo in Italia scuole magnificamente attrezzate. Ricordo la Scuola normale superiore di Pisa, che al vanto della sua tradizione non è mai venuta meno, che raccoglie ancora oggi studenti venuti da tutte le parti d'Italia. A queste scuole si dia ogni mezzo perché continuino non soltanto a vivere, ma a prosperare. Sarebbe imperdonabile colpa far perire o deperire i centri di studio meglio avviati e corredati per somministrare inutili boccate di ossigeno a istituti che non hanno possibilità di sostenersi. Dobbiamo resistere a questa snervante e pigra tentazione delle elemosine disordinate. La scienza non può vivere di elemosine accattate mese per mese. È dura la conclusione che si ricava dalla situazione presente, ma noi abbiamo bisogno oggi di contrazione e di selezione. Mentre vengono meno i mezzi della ricerca scientifica, nella maggior parte delle Università italiane, e crescono invece a ondate di migliaia gli studenti, i quali dovranno precipitare nella voragine della disoccupazione, bisognerà provvedere energicamente perché la scuola si contragga e la selezione degli studenti avvenga nel loro stesso interesse.

Scuole di lavoro, di artigianato, di preparazione tecnica, sono necessarie ora all'Italia e alcuni saldissimi centri di studi scientifici superiori, che siano base di successivi sviluppi.

Chi pensa diversamente può essere sospettato di voler abbandonare ad altri poteri l'altissimo compito nazionale della pubblica istruzione.

Ho abusato della vostra pazienza. Io vi propongo di accettare l'emendamento proposto all'articolo 28, dove è detto che spetta allo Stato il compito di conferire i titoli legali di studio e di abilitazione professionale.

Onorevoli colleghi, la scuola, in ogni ordine e grado, ha bisogno di comporsi subito rigorosamente in organo di preparazione scientifica e di selezione personale. Se questa necessità non è ancora bene intesa da quanti devono provvedere alla sua funzione, ogni speranza di risanamento morale, sociale, economico della nostra gente è perduta. E non la borghesia, né i ceti intermedi, i quali nell'organismo scolastico hanno trasfuso la propria infermità, ma il popolo lavoratore, attraverso la degradazione della scuola, sarà ancora una volta tradito, perché soltanto la scuola rigorosa e disciplinata può dare al popolo lavoratore i più validi e non ancora sperimentati strumenti di elevazione e di emancipazione. (Vivi applausi a sinistra — Congratulazioni).

Presidenza del Vice Presidente Pecorari

Presidente Pecorari. È iscritto a parlare l'onorevole Ayroldi; non essendo presente, si intende decaduto.

È iscritto a parlare l'onorevole Monterisi. Ne ha facoltà.

Monterisi. Non vi nascondo, signor Presidente, onorevoli colleghi, la mia emozione nell'accingermi a parlare per la prima volta in quest'Aula di Montecitorio.

Non sono né un giurista, né un oratore. Ma ho idee precise e profonde convinzioni. E voi onorevoli colleghi, mi ascolterete benignamente. Per ben intenderci su quanto vi dirò, è necessario stabilire un concetto fondamentale sulla famiglia cristiana.

Si è affermato da taluno che l'idea religiosa è ormai sorpassata. Niente di più falso: l'idea religiosa è vivissima nel nostro popolo, tanto vero che, nelle passate elezioni, tutti i partiti hanno in mille maniere dichiarato la loro religiosità, la loro cattolicità, e si è detto persino che sarebbe stato bene interrompere le prediche religiose da parte dei sacerdoti mentre i candidati tenevano i loro discorsi e comizi.

Si è detto da taluno che i problemi materiali stanno mille volte al di sopra dei problemi spirituali. No; per noi non è così. Pur essendo rispettosi di tutte le ideologie, per noi il problema si imposta in un modo perfettamente contrario.

Non già che noi vogliamo trascurare i problemi materiali, noi cerchiamo anzi di elevare il più possibile le classi umili. Ma, al di sopra dei problemi materiali, poniamo quelli spirituali. Noi diciamo che non l'individuo è per lo Stato, ma lo Stato per l'individuo. Perciò lo Stato deve far sì che l'individuo raggiunga il fine per cui è stato creato: la salvezza eterna.

Ecco perché noi vogliamo la santità della famiglia, la purezza dei nostri figli e delle nostre fanciulle che formano la gemma più bella del sacrario domestico. Conosciamo tutti tante povere famiglie nelle quali non vi è alcun freno morale. I capi di casa sperperano i loro guadagni in bettole e bagordi e naturalmente le mogli trescano alle spalle del marito e le figliole alle spalle dei genitori.

Noi vogliamo conservare integra la santità di tutta quanta la famiglia italiana.

Siamo per questo contrari al divorzio, che mina alle basi stesse la famiglia. Si vorrebbe da taluno ammetterlo in determinati casi. Sono i cosiddetti divorzisti moderati. Essi ammettono come motivi plausibili di divorzio tre cause pietose fondamentali: cause di ordine legale, morale, fisiologico.

Se si ammettesse il principio del divorzio anche ridotto, la società non farebbe che precipitare moralmente sempre più in basso e le passioni prenderebbero al più presto un terribile sopravvento, con immensi disastri per le famiglie.

Uno dei casi più pietosi è, per i divorzisti moderati, rappresentato dalla moglie di colui che è stato condannato all'ergastolo. Perché obbligarla, si dice, a continuare a portare un nome disonorato, a conservare una forzata castità sempre in pericolo? Se concedessimo quel divorzio, il povero ergastolano, perderebbe oltre alla libertà, anche gli unici affetti sacri rimasti, cioè quello della moglie e dei figli.

Forse quel disgraziato, in un momento di follia, di incoscienza, ha commesso un delitto, mosso proprio dall'interesse stesso della famiglia; e noi verremmo col divorzio a privarlo della stessa famiglia causa della sua sventura.

Si legge nella vita di Bartolo Longo «il padre dei figli dei carcerati», la grande commozione che provavano i prigionieri quando qualche volta riuscivano a vedere, anche per qualche istante, i loro cari, ed egli asseriva che il pensiero della famiglia era per essi l'unica forza di riabilitazione. E noi vorremmo col divorzio, togliere loro questa grande possibilità di rinascita!

Si suole dire da taluno che si impone il divorzio almeno in caso di adulterio. Allora noi premieremmo colui o colei che ha commesso l'adulterio e l'aiuteremmo a spezzare proprio quella catena che non vuole più sopportare. Questi avrebbe sempre un premio del male fatto, anche se la legge proibisse l'unione fra gli adulteri, perché riacquisterebbe l'agognata libertà.

Altra causa che si vuole addurre per la concessione del divorzio sono le malattie croniche o infettive o l'impotenza. Non c'è cosa più inumana, più anticristiana di questa.

Il povero coniuge ridotto in cattive condizioni di salute perderebbe l'assistenza ed il conforto del coniuge sano, quando maggiore è il bisogno, mentre pure col matrimonio i due coniugi si sono giurati amore eterno.

Anche nel caso dell'impotenza, non è giusto che il divorzio sia accordato, perché l'impotenza stessa potrebbe essere causata da ragione di ordine superiore, come il servizio della Patria o altro superiore dovere. Si avrebbe allora che mentre la Patria elogia come eroe il suo soldato, la moglie lo abbandona per passare ad altre nozze. Sono questi i casi in cui si impone il sacrificio personale, poiché è mille volte meglio che si sacrifichi qualcuno per la massa e non che la massa sia sacrificata all'interesse di qualcuno.

La Chiesa per questo ha sempre condannato il divorzio. Si è insinuato da taluni che la Chiesa accorda facilmente il divorzio, ma questo è una falsità. Io so, per mia esperienza personale, che tutte le volte che mi sono occupato perché fosse annullato qualche matrimonio ho sempre trovato le più grandi difficoltà. Del resto, per convincersi della inflessibile opposizione della Chiesa, basta dare uno sguardo all'opera sua attraverso i secoli. La Chiesa è stata sempre coerente a sé stessa circa l'indissolubilità del matrimonio, perché connessa alla sua stessa divina costituzione. La Chiesa ha ricevuto la sua legge da Cristo e non può violarla. Verrebbe meno alla sua missione!

Quando Cristo venne sulla terra, la morale del mondo pagano era molto bassa. Eppure Egli è riuscito ad affermare la purezza dei costumi e la santità della famiglia, è riuscito a richiamare tutti a quella grande virtù che è la purezza cristiana. È questo uno degli argomenti in favore della divinità di Cristo, perché soltanto Dio poteva in un mondo così corrotto svolgere tale grande opera di purificazione.

La Chiesa ha sempre sostenuto che anche in caso di infedeltà non è lecito il divorzio; che la moglie sposi un altro uomo o che il marito sposi un'altra donna.

Scorrendo la storia della Chiesa, troviamo che nel quarto secolo San Girolamo e Sant'Agostino sono apertamente contro il divorzio. San Girolamo dice che anche se il marito è scellerato, adultero, la moglie non può contrarre altro legittimo matrimonio. Sant'Agostino dichiara che anche in caso di sterilità l'uomo non può lasciare la propria moglie per sposare un'altra.

Nel concilio di Trento fu affermato chiaramente: «Sia anatema a colui che dice che la Chiesa erra nell'insegnare che il matrimonio non può essere risolto per adulterio, neanche a favore del coniuge innocente».

Anche nei tempi moderni Pio XI insegna che non si può, per adulterio, e tanto meno per altre ragioni, concedere il divorzio. E Pio XII dice che nessuna potestà al mondo può concederlo, neanche «la nostra di Vicario di Cristo».

La Chiesa soltanto per necessità contingenti si mostrò tollerante con i primi imperatori cristiani, ai quali era impossibile promulgare leggi eccessivamente coercitive ai loro popoli, cui in materia di morale tutto era lecito.

Con questi accorgimenti la Chiesa è riuscita a far penetrare il concetto della indissolubilità del matrimonio nel mondo pagano.

E non ha esitato, per difendere l'indissolubilità del matrimonio, ad ergersi contro i re. Innocenzo III ingiunse a Filippo Augusto di Francia di riprendere Ingeburga, dicendosi anche pronto a versare il suo sangue se Filippo avesse reagito.

Clemente VII si oppose a Enrico VIII, che aveva ripudiato Anna d'Aragona per sposare Anna Bolena. Il Pontefice, richiesto di annullare il primo matrimonio, gli rispose il famoso «non possumus». Per cui Enrico VIII diventò apostate dalla Chiesa cattolica, e suscitò una persecuzione nella quale il Vescovo Giovanni Fischer e Tommaso Moro furono martirizzati.

Napoleone I pretendeva la soluzione del suo matrimonio con Giuseppina di Beauharnais e quello del fratello Girolamo con la Patterson. Pio VII gli rispose: «Mi renderei colpevole dinanzi al tribunale di Dio».

La Chiesa, onorevoli colleghi, è stata sempre inflessibile di fronte al divorzio e quando la si accusa di averlo comunque favorito si asserisce cosa del tutto falsa, se non calunniosa. Ed è per questa inflessibilità della Chiesa che noi vogliamo l'indissolubilità del matrimonio.

Noi cattolici siamo contrari al divorzio, perché è contrario alla natura del matrimonio, che richiede la perpetuità dell'amore. Il divorzio è il più grande nemico del focolare domestico. Il divorzio è contro gli interessi della società civile, perché disorganizza la famiglia, e quindi lo Stato, economicamente e moralmente. Siamo contrari al divorzio, perché anticristiano.

Il divorzio è antinazionale, perché finirebbe senza dubbio col creare il dissidio fra la Chiesa e lo Stato. Si spezzerebbe la unione con tanto sforzo ottenuta.

Infine, il divorzio distrugge uno dei fini principali del matrimonio: l'educazione dei figli. Non è ammissibile che i figli possano essere educati come si conviene, se i genitori si separano.

Ed ora passiamo all'argomento della scuola, connesso con quello della famiglia.

Le famiglie cattoliche hanno tutto il diritto a che la scuola continui a dare ai fanciulli l'educazione che esse hanno cominciato a dar loro nell'età più tenera.

Io domando per quale motivo il padre cattolico, per mantenere i propri figli ad una scuola cattolica, debba affrontare una spesa due o tre volte superiore a quella che sopportano coloro che mandano i loro figli alla scuola di Stato; giacché le scuole sono mantenute col contributo che pagano anche i cattolici, i quali costituiscono la maggioranza della Nazione.

Noi vogliamo anche nella scuola di Stato l'insegnamento religioso, perché quelli che non possono permettersi il lusso di frequentare scuole cattoliche, ricevano ugualmente l'istruzione religiosa.

Si parla di libertà di coscienza. Ma io domando: forse la Chiesa impedisce la libertà di coscienza? Basta che i genitori lo richiedano ed i loro figli sono esonerati dal frequentare l'insegnamento religioso.

Non si pretende che i bambini imparino per forza i comandamenti di Dio. La libertà religiosa esiste per tutti.

Gesù non ha mai comandato come Maometto la guerra agli infedeli. Egli ha detto: andate e predicate, istruite tutte le genti; offrite la pace; e se non la vogliono, essa tornerà su di voi; andate nelle città e nei villaggi, e se non vi ricevono, scuotete la polvere dai vostri calzari e andate altrove.

E poi, perché tanta ostilità contro questo insegnamento religioso? Si ha proprio paura che i figli imparino i comandamenti di Dio: cioè, a rispettare la madre e il padre, a non dire falsa testimonianza, a rispettare la roba e la donna degli altri?

Ricordo, a proposito, un grazioso episodio, capitatomi quando ero studente a Torino. Una mattina, rincasando, portavo con me il mio libro di preghiere, che posai sul tavolo. Dopo poco mi raggiunse un giovane collega, il quale, vedendo quel libro legato in pelle nera e col dorso d'oro, stese la mano per prenderlo. Allora si costumava burlare coloro che andavano in chiesa (30 anni fa); io lo pregai di non toccarlo. «Lascia stare» — gli dissi — «non è libro d'ingegneria; è un libro di preghiere». Egli insistette; lo prese e l'aprì a caso. Si fermò a leggere i comandamenti di Dio. Si parlava dei doveri dei genitori verso i figli e viceversa, dei doveri che hanno i padroni verso i servi e viceversa; dei doveri dei governanti verso i sudditi e viceversa. Gli venne spontanea la domanda: «Chi li ha scritti?».

Gli risposi: «Li ha dati Dio a Mosè tanti e tanti secoli addietro».

«Non ne ho mai sentito parlare». E si indugiava a rileggerli e a meditarli, finché uscì in questa magnifica osservazione che io non dimenticherò mai: «Ma come? Ci hanno insegnato tante cose belle a scuola, ci hanno insegnato di matematica, di fisica, di italiano e di latino e non potevano anche insegnarci questi principî che, se fossero seguiti da tutti, trasformerebbero questa terra da una gabbia di belve feroci, in un paradiso terrestre?».

Egli usciva precisamente da una di quelle scuole agnostiche che ora si vorrebbero ripristinare.

Si parla di scuole confessionali, quasi siano la peste della società e rappresentino un pericolo per l'Italia. Io ho avuto la fortuna di essere educato nella scuola confessionale, dai Gesuiti: non vi nascondo — e lo posso dire con coscienza, ora nella maturità della vita — che conservo di quelle scuole il più grato ed il più bel ricordo. In quelle scuole si faceva a gara a chi studiava di più; i nostri superiori avevano un'abilità tutta speciale per animarci allo studio. Io ho sostenuto molti esami da privatista, in quattro scuole e in diversi centri d'Italia. Pur non volendo disconoscere le benemerenze delle scuole statali, ricordo che tutte le volte che ci siamo presentati agli esami il programma da noi svolto era molto superiore a quello svolto presso le scuole che ci ricevevano per gli esami di Stato.

Il ricordo più bello che ho dei tre anni di liceo in collegio è la purezza che vi esisteva: posso dire che in tre anni non un discorso osceno si è fatto fra di noi, e notate che, da 15 a 18 anni, i discorsi osceni formano il pane quotidiano e inzuccherato dei ragazzi. Questo perché i nostri superiori ci guardavano e ci guidavano con occhio paterno e vorrei soprattutto ricordare il nostro direttore, il padre Peano, per la cura che aveva delle nostre anime e della nostra purezza.

Sono proprio queste scuole che hanno servito a formare la nostra intelligenza e la nostra coscienza, e voi vorreste loro negare la parità con quella di Stato?

Presidente Pecorari. I suoi ricordi personali sono molto preziosi; però il tempo è già passato e la prego ai restare in argomento.

Monterisi. Onorevole Presidente, questi argomenti rientrano nel problema della scuola.

Io ricordo anche con commozione gli Esercizi Spirituali che facevamo in collegio. Se l'onorevole Lussu conoscesse da vicino cosa sono questi Esercizi Spirituali — una fra le più belle pratiche della vita cattolica, — nulla avrebbe da dire contro quei genitori che ai figli procurano così grande spirituale beneficio. E questo lo posso assicurare io che ho organizzato tanti corsi di esercizi. Quante volte gli uomini sono venuti a ringraziarmi piangendo per il grande vantaggio ricevuto! Quante volte sono venute le mogli a ringraziarmi della riacquistata pace domestica! «Mio marito era un forsennato; è tornato un agnello».

Si è detto che se noi insistiamo su queste nostre richieste si scatenerebbe dell'anticlericalismo. Non capisco perché le nostre richieste dovrebbero scatenare l'opinione pubblica contro la benemerita classe dei sacerdoti! I sacerdoti sono figli delle nostre famiglie, sono nostri fratelli, così come le religiose sono nostre sorelle. Quando oggi rappresentano quei sacerdoti come nemici dell'operaio, non possiamo reprimere lo sdegno, perché noi siamo i testimoni della loro miseria e delle strettezze in cui tante volte si dibattono. Nella classe dei sacerdoti le deficienze non mancano; ma nel complesso è la più rispettabile classe della società.

Questi sacerdoti, quante volte in tempo di guerra hanno offerto il proprio petto per salvare i propri fratelli! Ricorderò soltanto l'episodio di Trani; dove cinquanta cittadini stavano per essere giustiziati dai tedeschi. Soltanto per l'intervento personale dell'Arcivescovo Monsignor Petronelli e del suo Vicario Monsignor Perrone, i quali offersero coraggiosamente il loro petto ai tedeschi, furono lasciati in vita.

Le suore poi sono tante volte anime eroiche che dedicano tutta la loro esistenza, per amore di Cristo, ad assistere malati ed ogni sorta di infelici, senza nessuna retribuzione.

Presidente Pecorari. La prego di restare al tema. Tenga presente che la mezz'ora è passata.

Monterisi. Onorevoli colleghi, la lotta violenta di tanti oratori contro l'indissolubilità del matrimonio e l'insegnamento religioso è difficile a comprendere.

Per spiegare questo atteggiamento è proprio necessario rifarsi alle parole di Cristo.

«E sarete a tutti in odio nel nome mio!» «Se hanno perseguitato me che sono il Maestro, perseguiteranno anche voi!». Se l'Assemblea accetterà che il matrimonio sia dissociato e impedito l'insegnamento religioso, non è difficile prevedere una lotta tra lo Stato e la Chiesa, lotta che presto o tardi si muterebbe in una vera e propria persecuzione.

Noi non ce ne meraviglieremmo. La Chiesa conta 2000 anni di lotte e di trionfi. Essa è l'incudine che riceve tutti i colpi senza restituirli, ma sulla quale si infrangono tutti i martelli. Dobbiamo solo constatare dolorosamente che nulla ha insegnato ai moderni persecutori le esperienze del passato anche recenti.

Presidente Pecorari. Onorevole Monterisi, la prego di concludere.

Monterisi. La Chiesa è stata sempre combattuta, ma ha sempre vinto. Quante volte, battuta, sembrava che stesse per sommergersi! Ma la storia ci insegna, senza tema di smentite, ininterrottamente, che, all'indomani dei loro effimeri trionfi, i nemici di Dio e della Chiesa mordevano la polvere accecati dallo splendore della divina promessa, mentre sulla barca di Pietro, che navigava vittoriosa tra gli scogli celanti le mille insidie, garriva al vento il fatidico gagliardetto su cui brillava sempre più fulgido il divino motto: Non praevalebunt. (Applausi al centro).

Presidente Pecorari. È iscritto a parlare l'onorevole Cavallotti. Ne ha facoltà.

Cavallotti. Mi ero domandato, mentre preparavo questo mio intervento, se l'articolo 26 avrebbe suscitato lo stesso interesse di altri articoli, ma debbo rilevare che l'articolo 26 della Costituzione non ha suscitato nell'Assemblea lo stesso interesse che hanno suscitato altri articoli forse perché alla povera salute è capitato di trovarsi tra la famiglia e la scuola, tra la dissolubilità e l'indissolubilità del matrimonio da una parte, e la scuola parificata e la scuola statale dall'altra.

Sicché dalla lotta sostenuta fra i diversi gruppi politici su questi argomenti, la povera salute ne è uscita malferma, almeno nella discussione. Io avevo risposto di sì alla mia domanda, perché il diritto alla salute è il primo fra tutti i diritti, e, secondo me, il problema della salute investe problemi di diversa indole: economica, sociale, etica, politica quindi.

Avevo risposto sì alla mia domanda perché il patrimonio salutare del popolo di questa terra, dove cittadini di tutte le nazioni vengono per ricuperare la salute, questo patrimonio è molto scadente ed è proprio su questa terra salubre che le masse lavoratrici perdono la salute. Ho risposto ancora di sì alla mia domanda, perché mi sono ricordato dell'episodio storico del dottor Championner, medico francese del secolo scorso, il quale, parlando col suo monarca, ironizzando sulle nuove teorie bacteriche di Pasteur e sulla relazione disastrosa fatta da Lister circa la salute dei cittadini francesi di quell'epoca, ebbe a dire: «Dicono che il vostro regno stia per essere disgregato da una miriade di esseri diabolici, i bacteri; e medici e scienziati affermano che l'unica politica vostra dovrebbe essere quella di ridonare la salute al popolo francese».

Io vorrei riportare qui, in Assemblea, la frase di Championner, con un solo cambiamento, e non dispiaccia alla destra, quella della parola regno in repubblica. Passiamo all'argomento.

Quando si discute il progetto di Costituzione, diversi possono essere gli obiettivi, perché diverse sono le ideologie a seconda dei diversi gruppi politici, diversi sono gli spunti tattici e le linee strategiche, ma c'è un punto che accomuna tutti i diversi gruppi politici, ed è la base di partenza: cioè la reale condizione dei fatti, la situazione nella quale ci troviamo, la realtà obiettiva. E se per altri settori che non siano quello della salute, l'interpretazione di questa base di partenza può essere diversa, a seconda dei diversi gruppi politici, per quel che riguarda la salute abbiamo degli interpretatori che possiamo definire imparziali, cioè i medici, i sanitari, gli scienziati.

E permettetemi, onorevoli colleghi, di dire brevissimamente qualche cosa sullo stato di salute attuale del popolo italiano, perché è su questo che dobbiamo basarci per fissare i principî costituzionali a questo proposito. Non vi tedierò con numerose cifre statistiche anzi desidero farvi un quadro panoramico impressionistico; mi limiterò a ricordarvi che annualmente muoiono in Italia cinquantamila persone di tubercolosi. La cifra è stata fornita qualche settimana fa dall'Alto Commissariato per la sanità; e attualmente sarebbero tubercolotici circa 500 mila italiani. E mi permetterò anche di ricordarvi che, se è vera la tesi che per ogni tubercolotico censito vi sono cinque o sei sfuggiti all'indagine, noi ci troviamo di fronte ad una massa di italiani malati di tubercolosi che va dai due ai tre milioni.

Mi permetterò anche di ricordarvi che muoiono in Italia ogni anno più di cento e sei bambini lattanti su mille nati in quell'anno. Mi permetterò anche di ricordarvi il grande aumento, la grande diffusione delle malattie infantili, per noi doppiamente dolorose, perché minano il nostro popolo nel suo germoglio, nelle sue radici; e dolorose anche perché dobbiamo riconoscere che se i bimbi oggi stanno peggio di prima, se muoiono, è per colpa dei grandi. E volevo anche dirvi che certe malattie che noi medici vedevamo raramente nei nostri ospedali, nelle nostre cliniche e che chiamavamo curiosità, rarità cliniche, non sono oggi più curiosità né rarità perché affollano i nostri ospedali.

Questa è la situazione di fatto della salute del popolo italiano. E la ragione di tutto questo deve essere ricercata nel tenore di vita del popolo italiano, delle masse lavoratrici italiane: tenore di vita fatto di case-tugurio, dove il sole entra raramente, dove ci si dimentica delle più elementari norme di igiene. Se volete prove tolte da una inchiesta fatta nel 1934, vi dirò che da essa risultava che in quell'anno un milione e 400.000 abitazioni erano senza latrina e un milione e 800.000 abitazioni senz'acqua; vi dirò che risultava anche che a Napoli più di 30.000 persone dormivano in più di dieci nella stessa stanza. Oggi, con le bombe piovute dal cielo e le granate mandateci da cannoni nemici ed amici, Napoli ha perso il suo triste primato, l'ha ceduto all'Italia tutta, Napoli si è nazionalizzata nella sua sciagura.

Tenore di vita, quello del popolo lavoratore italiano, fatto di cinghie più o meno strette, ma sempre piuttosto strette che poco; e le pance vuote sono tristi complici di malattie. Tenore di vita, infine, fatto di alimentazione unilaterale, fatto di insopportabili ricordi fisici e morali di questa guerra che abbiamo passata.

Di fronte a questo patrimonio salutare così scadente, di fronte a quei 500.000 tubercolotici diagnosticati e ai due o tre milioni di tubercolotici presunti, abbiamo in Italia 60.000 letti sanatoriali; anzi, forse sono ancora di meno in questo momento, perché proprio questa mattina è venuta la notizia che tremila letti di un complesso sanatoriale milanese verranno a mancare per ragioni economiche.

Di fronte a ciò, vi è una carenza di letti ospedalieri, per cui siamo scesi, in alcune regioni italiane, al mezzo per mille, quando la media delle nazioni civili è del sei per mille.

Di fronte a ciò, vi sono le visite, le cosiddette visite assicurative, le quali sono caratterizzate dalla mancanza di fiducia dell'assistito verso il medico da una parte; e dall'altra, dalla molta fretta del medico che ha un numero eccessivo di malati da visitare.

E ancora vi sono numerose file di troppo ingenue medicine, lo ha già ricordato ieri il collega onorevole Spallicci, e vi sono anche numerose file di altrettanto ingenui sciroppi che formano la farmaceutica delle classi meno abbienti. Vecchi decotti dell'illusiva scienza medica del secolo scorso, nuove soluzioni che hanno una proprietà, quella di nuocere. Vi è poi un insieme di organismi assistenziali i quali lavorano autonomamente, ciascuno per proprio conto, qualche volta anzi addirittura in contraddizione l'uno di fronte all'altro. Tutti quanti poi fanno questo bel servizio, di far girare l'ammalato da un istituto all'altro, prima di ricoverarlo, prima di aiutarlo. E accanto alle istituzioni controllate dallo Stato, vi sono le cosiddette istituzioni private — i cosiddetti istituti di beneficenza — con le loro crisi spasmodiche di attività e quelle negative di afflosciamento. La mia critica può sembrare superficiale, ma investe diversi settori.

Questa mia critica, onorevoli colleghi, investe prima di tutti gli altri, il settore economico. Forse qui parlo in anticipo sul titolo terzo del progetto costituzionale: ma non voglio dire che poche parole. Ho detto che la mia critica investe particolarmente il settore economico perché, a proposito del problema della salute, c'è da rispondere ad una domanda cui ancora non abbiamo risposto per altri problemi: chi paga? Chi paga quella che possiamo definire la ricostruzione della salute? Noi sosteniamo che i lavoratori non debbono pagare più, come hanno pagato sino ad ora; noi sosteniamo che quella aliquota, cosiddetta assicurativa, non debba essere più sottratta dal salario, ma debba anzi essere parte integrante del salario stesso.

Ma, in pratica, come possiamo rispondere alla domanda poc'anzi formulata: chi paga? Ci sono patrimoni che si possono far gravare di molte imposte; ci sono oggetti di lusso i quali possono essere sottoposti a tassazione; tassazione su coloro che adoperano il superfluo, in vantaggio di coloro che domandano la salute.

La mia critica investe anche il settore tecnico-organizzativo. Voi sapete che in Italia esiste una medicina propria delle classi lavoratrici: essa è la medicina assicurativa. Tale medicina oggi dà ben scarsi risultati, e vi sono alcuni che trovano a decine a decine le ragioni della deficienza di questa medicina assicurativa: mancanza di persone capaci che l'amministrino, mali burocratici, mancanza nell'amministrazione e direzione, degli interessati, i lavoratori. Ma c'è anche un altro male, la cui guarigione dovrà risultare, io lo spero, nel progetto di Costituzione, ed è questo: la mancanza di fiducia che il malato ha verso il medico cosiddetto assicurativo.

Dobbiamo svelarci, colleghi medici, ai colleghi deputati? Facciamolo.

Noi abbiamo la brutta abitudine di prescrivere delle medicine. Qualche volta le prescriviamo sicuri che esse facciano bene all'ammalato; molte volte ci illudiamo semplicemente che esse possano recargli giovamento; e qualche altra volta ancora prescriviamo medicine, perché dobbiamo ben dare qualche cosa in cambio dell'emolumento della nostra visita.

Ma, oltre a queste medicine, noi medici siamo convinti dell'esistenza di un'altra medicina, della quale non possiamo segnalare il significato scientifico, che la prassi giornaliera ci dice esistere: la fiducia del malato verso il medico. Quando c'è la fiducia nel medico, l'ammalato guarda verso la guarigione; quando la fiducia nel medico non c'è, l'ammalato guarda verso la morte.

Che cosa vuol dire questa fiducia? Questa fiducia vuol dire libera scelta, da parte dell'ammalato, del medico che lo deve curare.

Ed a questo proposito sono stato incaricato dall'Associazione dei medici liberi professionisti della provincia di Milano e poi ancora dal Consiglio dei Medici fiduciari delle Casse Mutue, di esporre all'Assemblea Costituente i desideri di questi sanitari, e cioè che il progetto di Costituzione garantisca il rapporto di fiducia fra medici ed assistiti. Qualunque sia la organizzazione futura sanitaria, si deve garantire questo al malato, di scegliere il medico che desidera.

La mia critica investe anche il settore morale. Ho parlato della esistenza di istituti cosiddetti di beneficenza, più o meno privati della carità. In regime di liberazione dal bisogno, quale è quello che noi vogliamo instaurare in Italia, questa assistenza caritatevole, paternalistica non deve più esistere. Essa era stata motivata nei secoli scorsi da due ragioni, una ragione che definirò di ordine egoistico e l'altra ragione squisitamente economico politica.

La prima ragione è questa: certi benefattori e certe benefattrici hanno voluto fare una virtù personale di un dovere di solidarietà ed hanno creduto di potersi fare perdonare così nell'al di là di certi peccatucci che avevano commesso nell'al di qua. Insomma, le istituzioni caritatevoli fanno per costoro da anticamera del Paradiso.

La seconda ragione è una ragione squisitamente economico-politica e ce lo dice il fatto che troviamo a capo di questi istituti, il capitale industriale, bancario ed agrario. Chi non vuole riconoscere la necessità di soddisfare i diritti dei lavoratori, elargisce elemosine.

Desidero ricordare ai colleghi deputati, che le ragioni addotte non sono state partorite in questo momento dalla mia mente, ma sono state scritte da un sociologo, che masticava poco Marx, da un sociologo del secolo scorso, il Viganò, nel 1869. La mia critica investe infine il settore economico professionale medico. Sarò breve su questo punto. Due parole per significarvi quale triste vita conducono molti gruppi di medici. A Milano, dodici medici reduci e partigiani, hanno lasciato il bisturi e lo stetoscopio, perché, visto che l'uso di questi strumenti non riusciva a sfamarli, hanno preferito indossare i cinturoni dei metropolitani notturni.

Se questa è la situazione sanitaria, quali sono gli obiettivi che dobbiamo prefiggerci? Io direi che è sostanzialmente uno: quello di garantire la sicurezza sanitaria della popolazione su una base di solidarietà. Badate, che il concetto assicurativo ha ancora in sé qualche cosa di egoistico. Il concetto di solidarietà è qualche cosa di molto più avanzato del concetto assicurativo, perché esso pretende una fusione fra classe e classe, fra categoria e categoria, fra sano ed ammalato. Se noi vogliamo dare uno sguardo panoramico mondiale alla situazione, possiamo vedere come la questione è stata risolta dalle altre Nazioni, come questo problema della salute è stato risolto, perché, non si sta male soltanto in Italia. E se non vogliamo guardare verso le nazioni progredite dell'Est, dell'oriente, verso la Nazione socialista sovietica, verso la repubblica democratica jugoslava, perché qualcuno potrebbe obiettare che quando guardiamo da quella parte abbiamo gli occhi abbacinati dal sole di quella società, — e noi controbattiamo che v'è qualcun altro che ha gli occhiali affumicati dallo scetticismo e dalla prevenzione denigratrice — guardiamo pure verso occidente, guardiamo all'Inghilterra, per esempio.

Questo paese ha creduto di risolvere, o ha risolto, il problema della salute del suo popolo, costituendo un servizio sanitario nazionale e cioè mettendo tutti i sanitari a servizio dello Stato. Questo si è fatto in Inghilterra, ma alla Camera dei Comuni vi è stato qualcuno che si è opposto al nuovo tipo di organizzazione sanitaria inglese, in difesa dei privilegi dei cosidetti liberi professionisti inglesi.

Ha risposto loro, e duramente, il signor Lasky ammonendo i medici poco patriottici ed umanitari che non si servono contemporaneamente due padroni, l'umanità sofferente e l'oro, o l'uno o l'altro.

Vi è un altro Paese, la Nuova Zelanda, che ha un servizio nazionale sanitario già in efficienza da circa 10 anni. La popolazione di quella nazione dal momento in cui nasce, anzi ancor prima di nascere, dal momento in cui è nel ventre della madre al momento in cui muore, è sicura di avere la sua assistenza sanitaria gratuita. Io ho ricordato questi esempi perché, se noi vogliamo garantire ai lavoratori e alle loro famiglie un'assistenza degna d'una nazione civile è necessario che la sanità pubblica sia, nella nuova riforma, pianificata ed organizzata su nuove e più allargate basi. Assistenza collettivistica, quindi, della quale non conosco che due tipi, o l'assistenza nazionale, tipo quella che è stata effettuata in Inghilterra, oppure l'assistenza nell'ambito del lavoro, cioè l'assistenza assicurativa estesa anche ai lavoratori indipendenti ed alle famiglie di questi lavoratori.

L'Inghilterra ha scelto la prima strada; ma le condizioni esistenti in Italia oggi sono molto diverse da quelle esistenti in Inghilterra, e pertanto la riforma sanitaria inglese fa parte di un vastissimo piano, il modificato piano Beveridge, mentre in Italia ancora non abbiamo alcun piano.

E poi c'è una ragione storica che ci deve far propendere verso l'assicurazione del tipo lavorativo. Vi ricordo a questo proposito le gloriose e vecchie mutue di soccorso dei nostri lavoratori, quelle mutue di soccorso che segnano un'evoluzione nella fase produttiva del nostro Paese, e cioè la fase di passaggio dalla produzione agricola all'agricola-industriale. Quando sono cominciate le prime officine, quando sono cominciate le prime industrie e i lavoratori si sono accorti che i legislatori non pensavano ad assicurarli contro l'incapacità lavorativa per malattia, essi hanno fatto una cosa molto semplice, col buon senso e lo spirito di previdenza che caratterizza la nostra gente: si sono assicurati da soli ed hanno creato le mutue di soccorso, quelle associazioni tanto utili e così ben funzionanti, anche se stemmate con la ingenua stretta fra due mani, simbolo della solidarietà umana.

Voglio trovare in esse il principio sancito dall'Unione sovietica: «La difesa della salute dei lavoratori spetta ai lavoratori stessi».

Un valoroso collega, l'onorevole professore Caso, disse giorni fa all'Assemblea: «Come uomo e come medico io difendo nell'intimo della mia coscienza i miei colleghi e soffro nel vedere i miei valorosi colleghi ed i lavoratori stretti nelle maglie della speculazione, da parte di intriganti che pullulano nelle organizzazioni assistenziali».

Ho voluto ricordare le parole dell'onorevole Caso, ed ho voluto ricordare anche le mutue di soccorso fra lavoratori, non per capriccio, perché e l'osservazione d'un medico e la citazione storica debbano persuaderci che se vorremo nel futuro avere organizzazioni assistenziali ben funzionanti, bisogna mettere a capo di esse, coloro che sono direttamente interessati, i lavoratori. I lavoratori sanno difendere la loro salute, perché sanno ch'è il patrimonio più prezioso.

Di fronte a tutto ciò, alla reale situazione sanitaria, salutare ed assistenziale, s'erige nella sua asciuttezza l'articolo 26, che è tutto da rivedere. Ed infatti gli emendamenti che ad esso sono stati proposti non vanno sotto il nome di emendamenti, ma di vere e proprie sostituzioni. È dunque un articolo tutto da rifare. Comunque critichiamolo.

L'articolo 26 dice che la Repubblica tutela la salute, promuove l'igiene e garantisce le cure gratuite agli indigenti. In questa formula evidentemente gli onorevoli costituenti, o meglio la Commissione compilatrice del progetto, ha creduto di vedere anche l'azione preventiva medica. Ora, noi medici diciamo che vogliamo vedere in una Costituzione che ha un valore storico qualcosa che sia più incisivo nei riguardi della protezione della salute. Perché non bisogna dimenticare che la medicina ha fatto una svolta da parecchi anni ad oggi, ed è diventata soprattutto preventiva. Noi ci inchiniamo di fronte alle grandi scoperte della scienza moderna, alla scoperta della penicillina e della streptomicina anglosassoni, e della gramicina sovietica. Ma sappiamo che molto di più di queste scoperte vale la possibilità, socialmente parlando, di poter effettuare periodicamente visite odontoiatriche o visite radiologiche per l'apparato respiratorio. Quindi l'articolo 26 dovrebbe fare un'affermazione più marcata dell'opera preventiva in difesa della salute.

In questo articolo si parla di cure gratuite agli indigenti. Ma quali cure? La Costituzione francese è più coraggiosa. Parla infatti di «tutte le cure che la scienza offre». E anche noi dovremmo avere questo coraggio, e garantire ai lavoratori la protezione della loro salute con tutti i mezzi messi a disposizione della scienza. Non si può continuare soltanto con la somministrazione delle solite medicine a base di calcio o coi soliti sciroppi di poligala; l'assistenza sanitaria non può conoscere la relatività e la sperequazione: si deve dare tutto e a tutti in eguale misura.

D'altra parte non si può continuare con la vecchia formula paternalistica che parla di poveri e di indigenti. Perché se è vero che l'iter di un lavoratore può essere interrotto da una infermità e la sua capacità lavorativa può esserne diminuita o addirittura annullata, è altrettanto vero che quel lavoratore deve restare sempre per noi un lavoratore che ha diritto all'assistenza, e non essere considerato come un povero. Egli ha diritto ad essere assistito finché non riacquisti la capacità di tornare al lavoro. Del resto, il concetto della cura gratuita agli indigenti urta contro il principio dell'articolo 31, il quale dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro ed esige da tutti i cittadini il dovere di svolgere una attività. Il concetto della indigenza deve essere bandito. È un concetto che urta anche contro l'articolo 34, che, parlando dell'assistenza ai lavoratori, sconfigge il vecchio criterio della povertà ed innalza il nuovo concetto della solidarietà.

Dirò per ultimo qualcosa su quel comma dell'articolo 26 che parla di pratiche sanitarie lesive della dignità umana. Viene spontaneo di domandarsi che cosa ci stia a fare questa dichiarazione. E lì per lì confesso che ho pensato che la Costituente volesse dichiarare guerra alle innocenti cannule da clistere, ree di alto tradimento per aggressione alle spalle della dignità umana. Ma non era questa, evidentemente, la ragion d'essere del comma. Forse si è pensato alla sterilizzazione, forse all'aborto; forse qualcuno ha pensato a certe pratiche mediche che oggi sono riti religiosi, come la circoncisione, che possono venire interpretate come violazione della dignità personale.

Crediamo che questo comma non debba entrare nella Costituzione e che, se mai, di proibizione dell'aborto o della sterilizzazione si debba occupare la legislazione ordinaria.

Credo di avere messo l'Assemblea a conoscenza di quello che il partito comunista vorrebbe che fosse la Carta costituzionale riguardo la tutela della salute.

Mi auguro di essere stato felice nel rendere quello che io sento come medico e come studioso di problemi sanitario-sociali; e mi auguro anche di essere stato felice nell'esporre quello che sento come uomo politico, rappresentante delle masse lavoratrici.

Spero che quel punto di incontro, di cui ha parlato il compagno Togliatti, in un suo discorso in questa Assemblea, punto di incontro dei diversi raggruppamenti politici, si possa trovare a questo proposito.

Mi auguro che il popolo italiano possa avere tra qualche giorno la notizia che, al di fuori d'ogni ideologia e d'ogni strategia, l'Assemblea Costituente, all'unanimità, ha sancito il diritto alla salute per il popolo italiano, sulla base della solidarietà, contro qualsiasi speculazione, contro qualsiasi sopraffazione ed egoismo, per l'unione intima dell'umanità cosiddetta ricca all'umanità cosiddetta povera, dell'umanità sofferente all'umanità sana, dell'umanità dolente all'umanità gioiosa (Applausi).

Presidente Pecorari. È iscritto a parlare l'onorevole Rivera. Ne ha facoltà.

Rivera. Nessuno degli oratori ha trattato, mi sembra, un argomento straordinariamente delicato, quale quello delle relazioni tra la politica e la scuola; o meglio, tra governi ed uomini di pensiero...

È invero questo un argomento difficile a trattare; tuttavia, ritengo che una parola da questa Assemblea debba partire, perché il passato qualcosa ha insegnato: la necessità della difesa del pensiero e degli uomini di pensiero.

L'articolo 27 dice che l'arte e la scienza sono libere. È una frase che piace ed è capace anche di creare simpatie; non ho detto che serve per attirare le masse.

Ma, onorevoli colleghi, mi sembra talmente lapalissiano e pleonastico dire che la scienza è libera, che, forse, si poteva fare a meno di metterlo nel progetto.

E, del resto, vorrei sapere chi dei proponenti di questa norma, di questo principio, sarebbe in grado di incatenare la scienza e l'arte: la scienza e l'arte sono libere senza la nostra proclamazione. Amici e colleghi, non sono liberi, invece gli artisti e gli scienziati, perché questi possono essere incatenati, possono essere minacciati, possono essere irreggimentati. E, forse, il ventennio fascista qualche cosa ci ha insegnato in merito.

Noi vogliamo che quello che è accaduto in passato non si ripeta in avvenire, sebbene in quella forma e con quei dettagli non possa ripetersi. Il regime fascista aveva inaugurato un sistema, nei riguardi degli intellettuali, che io vorrei ravvicinare a quello della carota e del bastone: cioè, andare incontro a questa gente con delle lusinghe, minacciando i riottosi.

Questo principio della carota e del bastone, enunciato recentemente fuori d'Italia ed a carico di italiani, era stato dunque qui precedentemente già applicato; ma neppure in questo il fascismo fu originale, perché, se riandiamo nei tempi, troviamo una norma non troppo dissimile nel parcere subjectis et debellare superbos. Proprio questo fu fatto contro gli intellettuali italiani.

Non condivido l'opinione di un collega dell'altra parte, il quale ha detto che gli intellettuali italiani hanno dato spettacolo poco decoroso nei riguardi del fascismo. Onorevoli colleghi, ricordiamo tutte le fasi della pressione fascista sopra gli intellettuali; essi presentarono all'inizio una resistenza unanime agli allettamenti del fascismo, per una ripugnanza istintiva, per una assoluta incompatibilità di fini e di scopi, tanto che fu necessario trovare dei mezzi straordinari per piegare questi studiosi, questi ricercatori, questi letterati. Si creò all'uopo l'Accademia d'Italia, con un numero di posti limitato, con il titolo di eccellenza, con emolumenti per quell'epoca non indifferenti; e bisogna riconoscere che questa Accademia servì di attrattiva per molti e di indebolimento notevolissimo di tanti caratteri.

Poi venne l'obbligo della tessera: chi non aveva la tessera non poteva partecipare a concorsi universitari, non poteva, se già era universitario, prendere parte a commissioni giudicatrici, non poteva essere trasferito nella sede desiderata, non poteva avere chiamate dalle Facoltà, non poteva entrare nelle Accademie, ad eccezione di quella fascista! E la tessera cominciò ad apparire come una ineluttabile necessità anche per coloro che avevano vinto i concorsi a cattedre particolari, sicché allora fu giocoforza a molti di entrare nel branco dei tesserati (Interruzione a sinistra). Ma ci furono ben cento professori universitari che non si sono iscritti, pure con la minaccia di dover perdere il posto e il pane.

Una voce a sinistra. Quelli hanno onorato l'Italia!

Rivera. Benissimo. Ne eravamo circa cento, e questa è una percentuale che non si trova in nessun'altra categoria di dipendenti dello Stato. Questa è la verità. Mi si dirà che si era in pochi (e, certo, non eravamo molti) ma una pagina di fierezza è stata scritta da parte di questa categoria.

Poi venne lo «scandalo» del giuramento. Il giuramento fu veramente la prova del fuoco dei caratteri di acciaio, perché non giurare significò perdere il pane. E con tutto questo ci furono undici professori universitari i quali non riuscirono a tranquillizzare la propria coscienza con l'argomento, pur valido, della nullità del giuramento coatto, e si rifiutarono di giurare. Qualcuno diede le dimissioni, altri furono dimessi d'autorità per non aver voluto giurare e tra essi mi piace mentovare il nostro collega alla Costituente Vittorio Emanuele Orlando. Uno tra questi undici uomini di acciaio mi piace però di porre come alla testa della sparuta pattuglia, perché egli affrontò, pur privo di qualunque mezzo di fortuna, la miseria e la fame, piuttosto che piegare la propria coscienza ad un giuramento, per il quale sentiva una naturale invincibile repugnanza e che gli sembrò un atto di viltà. Questo leone veggente fu Gaetano De Santis, che, cieco e vecchio, fu cacciato dalla cattedra amata, e, a fianco della sua Donna, affrontò lunghe e tristi giornate. Gaetano De Santis è tale uomo che, al solo nominarlo, il corpo accademico della università di Oxford, alcuni mesi fa si è levato in piedi. È scritto in una cronaca medioevale, a proposito di una persona degna di rispetto, così:

E fuvvi attor lo buon Renzo di Nuccio,

ch'era tal'huom da tollersi il cappuccio.

In mezzo agli italiani c'è ancora qualcuno al cospetto del cui nome, in segno di omaggio, i sapienti di Oxford sentono il dovere di tollersi il cappuccio. Questa è la bella novella che gli intellettuali italiani possono oggi dare all'Italia nuova, a fascismo tramontato.

Forse, più di una persona avrebbe dovuto compiere questo gesto coraggioso. Ma ci basta che ve ne siano stati undici per dire che non tutta la fierezza italiana è morta in quella circostanza. Questo, onorevoli colleghi, volevo dire, non per ricordare i meriti di questi o di quello, ma per rievocare episodi i quali ci fanno sollevare un po' il capo in questo momento di avvilimento e di depressione e ci incoraggiano a tenerci fermi sulla via della resurrezione scientifica.

Io questo dico anche perché gli episodi riportati reclamano che i cultori di scienza siano rassicurati, che il loro pensiero e la loro attività non saranno più fuorviati da interferenze politiche: ricordo che la politica è mutevole e capricciosa. Coloro che si affaticano dietro la ricerca per il vero ed il giusto abbiano l'assicurazione che mai più sotto il Governo attuale e sotto i Governi che si succederanno, gerarchie burocratiche o politiche possano influire sulla loro attività.

Voi mi direte che questa è storia passata, è fascismo, queste sono influenze sotterrate e che ormai la politica non influirà più sullo studioso e sulla attività degli uomini di scienze e di lettere. Ma così non è.

Questa l'attività del fascismo e in breve la efficace pressione che il fascismo ha esercitato sopra gli intellettuali, instaurando una specie di anti-democrazia progressiva, cioè una forma antidemocratica, la quale è diventata progressivamente più severa ed ha indotto una parte degli intellettuali a piegarsi al capriccio del dittatore.

Quelli però che hanno bruciato qualche granello di incenso sotto le nari del tiranno, sacrificando il loro decoro, sono stati solo una piccola parte della grande massa degli studiosi italiani.

Con la politica si può dunque influire nefastamente sopra uomini di scienza e vorrei aggiungere, come ulteriore esemplificazione, alcuni episodi recenti.

Voi sapete, onorevoli colleghi, che l'Accademia dei Lincei fu soppiantata dall'Accademia d'Italia. Ora, soppressa l'Accademia d'Italia, l'Accademia dei Lincei è stata ricostituita e questo fatto è stato salutato con gioia da tutto il mondo; ma — poiché c'è sempre qualche cosa di amaro in tutte le più belle risoluzioni — proprio alla vigilia dell'inaugurazione dell'Accademia dei Lincei abbiamo assistito con dolore alla defenestrazione di alcuni accademici, persone assolutamente superiori, note e stimate in tutto il mondo, le quali sono state cacciate in maniera da farci arrossire. (Interruzioni all'estrema sinistra).

Marchesi. Non offenda il responso di un Comitato in cui sono rappresentanti degni di altissima stima.

Rivera. Io non offendo nessun comitato, che del resto non ho neppure nominato. Ho nominato solo l'Accademia dei Lincei da cui sono state espulse persone insigni.

Marchesi. Lei avrebbe tutte le buone ragioni per non parlarne. (Commenti).

Rivera. Signor Presidente, io qui sopporto interruzioni interessate da parte di qualcuno. (Interruzioni all'estrema sinistra).

Presidente Pecorari. Non raccolga le interruzioni e cerchi di restare in argomento.

Marchesi. Rispetti la più alta e gloriosa Accademia d'Italia.

Rivera. Mi dispiace moltissimo, onorevoli colleghi, di dire qui queste cose, ma con ciò io non intendo ferire l'onorabilità di nessuno e tanto meno l'Accademia dei Lincei, che io stesso ho ricostituito. Vi prego prima di giudicare di aspettare che io finisca di esporre i fatti. Non vi impressionate ed adombrate se qui si viene a dire qualche cosa che possa dispiacere a voi o ai vostri amici. Qui si tratta di portare una parola severa sopra un costume che deve tramontare e di invocare da questa Assemblea un'opera di giustizia. Io questo discorso non lo sto facendo per ottenere qualche cosa dall'Assemblea. Sto mostrando come la politica, onorevole Marchesi, interferisce sulle questioni scientifiche. Vede, onorevole Marchesi, come sono garbato, dico solo interferisce!

Presidente Pecorari. Scusi onorevole Rivera, veda di restare in argomento. La sua mezz'ora è quasi terminata.

Rivera. È poco più di un quarto d'ora che parlo, signor Presidente.

Presidente Pecorari. Continui, e non raccolga le interruzioni.

Rivera. Obbedirò, signor Presidente e non le raccoglierò più. Come dicevo, sono state cacciate dall'Accademia dei Lincei senza essere neppure avvertite che contro di esse si stava procedendo, delle persone come quelle che io adesso nominerò.

Marchesi. Sono state cacciate da uomini come Luigi Einaudi e come Vittorio Emanuele Orlando. (Commenti).

Rivera. Risponderò in seguito per non raccogliere la sua interruzione. Le persone messe fuori dell'Accademia sono: Riccobono, Ussani, Paribeni, Bruni — che è morto nel frattempo — Longo, Santi Romano, Lo Surdo, Puccianti, Severi, nomi ben noti e rispettati da tutti in Italia e fuori.

Marchesi. Li ha pronunciati lei questi nomi.

Rivera. Abbiate pazienza; poi giudicherete e direte se ho sbagliato.

Presidente Pecorari. Ritorni all'argomento; non faccia una discussione.

Rivera. Queste persone sono state messe fuori dall'Accademia senza essere state interrogate e perciò alcune di esse sono state colpite per fatti non esistenti, cioè per imputazioni che non le riguardano.

Presidente Pecorari. L'ha già detto; ritorni all'argomento, e vi resti.

Rivera. Ed all'Assemblea bisogna aggiungere anche che esse tuttavia sono state conservate all'insegnamento! Dunque sulla capacità e sulla correttezza di questi espulsi si può giurare. Essi, che sono capaci e degni di educare e di insegnare ai giovani, non sono capaci e degni di sedere in una Accademia a studiare?

Queste sono — mi direte — esagerazioni di una Commissione come dicevo, rispettabilissima e che io rispetto, nelle persone che la costituiscono; ma tutto questo ha potuto — e ritorno al mio tema — tutto questo, io dico, ha potuto avvenire perché il Governo (io non faccio di ciò a quel Governo o a questo un rimprovero o un appunto) è entrato nella materia a legiferare sopra la condotta dell'Accademia, sopraffacendo i diritti di questa, rispettati per secoli da tutti i Governi, col mezzo di un decreto luogotenenziale (12 aprile 1945, n. 178) col quale si davano pieni poteri a sette saggi, per un giudizio inappellabile. (Commenti Interruzioni a sinistra).

Ora, questi pieni poteri, esercitati con questo sistema di non interrogare neppure le persone colpite, questi pieni poteri rappresentano indiscutibilmente da parte del Governo una interferenza (Interruzioni a sinistra).

Lasciatemi andare avanti.

Capua. Quando dice qualche cosa che dispiace a quel settore, non lo lasciano parlare. Lasciatelo parlare!

Rivera. Questo giudizio è inappellabile, questa esclusione è definitiva e queste persone che non sapevano neppure di che cosa erano state imputate, si trovano fuori da un'Accademia, alla quale esse erano arrivate per meriti scientifici riconosciuti in Italia e all'estero.

Onorevoli colleghi, la politica ha successivamente interferito ancora, perché è stata fatta la ratifica di questa disposizione.

Presidente Pecorari. Questo non entra nella discussione, nel tema della Costituzione.

Rivera. Signor Presidente, il tema è questo: «Interferenze della politica con la scienza e gli istituti scientifici». Se lei crede che non entri nell'argomento in discussione, io posso anche tacere. Però, onorevole Presidente, questo è un tema molto geloso e Lei se ne è evidentemente accorto dai risentimenti che sono esplosi qui in mezzo, ma è necessario che esso, una volta tanto, sia discusso qui alla Costituente. È un fatto generale deplorevole questo, onorevoli colleghi, che la politica, i Ministri, la burocrazia, intendano prevalere sugli studiosi; è un fatto per il quale io invoco che nella Costituzione vengano modificate queste disposizioni. (Interruzioni a sinistra).

Marchesi. C'è un'interpellanza da lei presentata e da me pure, alla quale risponderà il Ministro della pubblica istruzione.

Rivera. Discuteremo anche l'interpellanza, che fu presentata da me, se ben ricordo, nel luglio del 1946, e che a tutt'oggi attende di essere discussa; ma intanto, onorevole Marchesi, veda, c'è un altro guaio che ha fatto il Governo — io me la prendo con gli organi governativi in genere, non con questo Governo — cioè che attraverso questa disposizione è stato possibile che i posti lasciati liberi dai vecchi accademici siano stati occupati da altre persone (Interruzione dell'onorevole Marchesi).

Io mi felicito di vedere l'onorevole Marchesi ora divenuto socio ordinario dei Lincei!

Egli potrà parlare in difesa di tutto quanto quello che crede, ma io devo parlare in difesa di eccelsi studiosi ingiustamente estromessi da quel vetusto e glorioso consesso che essi onoravano.

Marchesi. Ma in sede di interpellanza. (Commenti Interruzioni).

Presidente Pecorari. Continui, onorevole Rivera.

Rivera. Quella che io vorrei che fosse ratificata nella nuova Costituzione è l'indipendenza degli organi dell'alta cultura, sia Accademie, che Università. Ed è per questo che io ho proposto un emendamento che discuteremo di nuovo a suo tempo.

Presidente Pecorari. No, no: lo discuteremo adesso.

Rivera. Passiamo ora a dire due parole sulle Università. Le Università non sono state mai così dipendenti e così a disposizione della burocrazia e dei ministeri, come da quando si è detto che esse sono autonome. È una fatalità, ma l'autonomia è andata proprio sfumando da quando essa è stata proclamata.

C'è poi una uniformità che dà luogo a gravi inconvenienti. Tutte le Università ci si presentano nei loro ordinamenti parallele ed eguali, giacché le Facoltà hanno programmi identici in tutte le Università. Ciò contrariamente alla tradizione del nostro Paese, in cui persino certe scuole medie apparivano specializzate, così come era per le scuole nautiche e le scuole di agricoltura, per esempio, specializzate per l'enologia o per altre branche, tutto oggi raso in una uniformità desolante.

Orbene, l'Università è stata — uso una parola impropria — pianificata. In conseguenza, durante il ventennio fascista che cosa si è visto che può succedere? Succede il fenomeno che, quando una personalità ricopre, per esempio, la carica di Ministro, vede anche la sua scienza ingigantita ed impone allora una moltiplicazione della disciplina propria, come è accaduto, ad esempio, per l'economia agraria, che è stata scissa in tre discipline. Si è poi trovato il modo di trasformare in materia di insegnamento, cioè in una vera disciplina, metodi o mezzi di studio. Il guaio è che quando una di queste... materie è entrata in una Università, entra poi di diritto in tutte le altre! Questi poi sono inconvenienti minori, perché il più grave inconveniente che noi ritroviamo nelle Università è questa burocrazia onnipotente, che decide tutto, giacché i Ministri passano, ma la burocrazia resta e non si muove foglia che Roma non voglia!

Ora noi chiediamo che le Università diventino veramente autonome, che cioè questa autonomia non sia una burla, che cioè il Governo, lo Stato — ho sentito parlare dello Stato qui dentro con una grande devozione e questo mi ha fatto paura — che cioè lo Stato dia i fondi, ma che poi le Università possano governarsi da sé.

Le lettere che dalle Università sono inviate al Ministero, sono intestate al «Superiore» Ministero: c'è invero negli studiosi ancora una specie di timor panico nei confronti del Ministero. Onorevoli colleghi, se noi riusciremo a riportare le Università nostre alle antiche tradizioni di indipendenza e di autonomia, faremo cosa veramente saggia. Una volta le Università si governavano da sé e si strappavano i docenti al suon di fiorini. A Perugia c'era un grande giurista, al quale fu offerta dallo Studio bolognese una somma di fiorini d'oro veramente notevole: immediatamente Perugia corse ai ripari, per tenerselo, offrendo altrettanto, e, poiché la prudenza non è mai troppa, incaricò anche gli studenti di sorvegliare questo prezioso personaggio, perché non le sfuggisse.

Questo episodio rivela quale è il lievito maggiore perché si possa dagli studiosi meglio operare, e produrre: lo stimolo della concorrenza. Ma si devono anche avere le spalle sicure, si deve esser certi cioè che domani, mutando Governo, non si soffrano affronti e scapiti, come noi abbiamo sofferto durante il periodo fascista. Questo bisogna assicurare. Io non dico che debba tornare un governo fascista, ma può venire un governo di partito, di qualunque partito. Togliamo il sospetto che la politica possa, in questo o in altro modo, interferire in mezzo agli uomini di studio: diamo a costoro l'autorità vera, la persuasione, cioè, che essi sono superiori, al di sopra e fuori della politica; altrimenti la politica, come è successo recentemente, sacrifica alcuni dei nostri migliori.

Onorevoli colleghi, io sarò più breve di quello che il Presidente crede. Io devo soltanto ricordare un altro fenomeno che sta avvenendo nelle nostre Università. Voi sapete che cosa era l'istituto della libera docenza nel medio evo. In quell'«oscuro» medio evo, vi erano i docenti, gli equiparati, i pareggiati, che rappresentavano, ed hanno rappresentato pure in tempi non tanto lontani, un istituto di concorrenza fra gli insegnanti.

Oggi la libera docenza che sta diventando? Il libero docente è l'assistente che fa la sua carriera e, ad un certo punto, raggiunta la libera docenza, rimane l'assistente ossequioso del principale. Non esiste affatto parità di diritti reali tra titolare e docente libero.

Orbene, questo istituto della libera docenza oggi è rovinato, non serve più alla nobile gara per la quale sorse ed è avvilito, anche per la interferenza della politica.

Non ho bisogno di ricordare ad una Assemblea colta, come questa, quanto onore, quanta gloria hanno dato al nostro Paese le nostre Università medievali, che si governavano da sé democraticamente. Lo dimostra un piccolo dettaglio: la nomina del Rettore fatta dagli studenti. Vorrei proporre di ritornare all'antico, affidando agli studenti, che del resto sono i migliori giudici delle nostre capacità, la nomina alla massima carica delle Università.

Onorevoli colleghi, io ho fede, ho sicurezza che se noi alle Università daremo quella certezza di indipendenza, quell'assoluta dignità, quel rispetto che meritano gli studiosi d'Italia, potremo rivedere quella epoca gloriosa, nella quale dall'Italia si spandevano le notizie di fatti e di principî nuovi, qui trovati o scoperti, nella quale qui nascevano gli uomini grandi, rimasti tuttora famosi nelle lettere, nelle scienze e nelle arti. Ciò avveniva quando l'Italia era divisa.

La nostra speranza è che questa fiammella della speculazione scientifica, che è stata sempre viva, non si debba spegnere ora. Del resto, perfino quella che è chiamata la civiltà meccanica, ha vagito qui in Italia. Se io vi parlo delle onde elettromagnetiche del Righi, del tubetto di Calzecchi-Onesti e poi aggiungo a questi nomi quello di Marconi, voi vedete che proprio in Italia è nato quel gruppo di conoscenze, da cui è qui scaturito il più efficace mezzo di comunicazione fra gli uomini.

Questa è l'Italia e questa Italia dobbiamo salvare dal disastro che la minaccia. Oggi tante bandiere si ammainano dalle nostre navi, tante bandiere si ammainano dalle nostre coste, ma se questo fuoco dell'intelletto, questa fiamma di ricerche ancora arde, questo fuoco riescirà ancora ad illuminare il mondo; in tal modo l'Italia avrà avuto la sua rivincita, rimanendo ancor più grande nei secoli. Noi non dobbiamo togliere i fuscelli a questo fuoco che arde tuttora, ma anzi dobbiamo aggiungerne altri e attivare il fuoco col nostro soffio, perché solo attraverso questa superiorità del nostro pensiero noi possiamo riconquistare al nostro Paese quella grandezza che sembra perduta. (Applausi).

Presidenza del Presidente Terracini

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Moro. Ne ha facoltà.

Moro. Onorevoli colleghi. Io dovrei, come relatore, esporre in questa sede il punto di vista della maggioranza della Commissione, o almeno di quella che fu la maggioranza della Commissione e sono veramente preoccupato di non riuscirvi adeguatamente. Molti oratori infatti sono intervenuti con grandissima competenza in questo dibattito e vi hanno apportato elementi tali, che oggi l'esposizione del punto di vista della maggioranza della Commissione dovrebbe essere una risposta adeguata a quanti hanno parlato in questa Assemblea sul tema della scuola. Ma io non credo di avere a disposizione tanto tempo quanto sarebbe necessario a questo fine ed ho poi un altro motivo di perplessità. Siamo di fronte al tema della scuola, che è veramente suggestivo. La tentazione sarebbe di spaziare, come qualcuno degli oratori ha fatto, nel campo meraviglioso dell'educazione, di esporre i nostri propositi di fronte al problema dell'educazione che si propone in questo momento con particolare vivezza per il nostro Paese. Ma non ho neppure per ciò il tempo sufficiente e dovrò limitarmi ad alcune osservazioni le quali rispondono, per grandi linee, alla esposizione degli avversari del punto di vista della maggioranza della Commissione.

Ma non posso trascurare di rilevare la umanità del tema che oggi ci occupa. La scuola è cosa nostra. Tutti siamo passati per la scuola e molti di noi, membri di questa Assemblea, vivono ancora in essa, sentendola come l'espressione più nobile della loro vita. Quando si parla di scuola, si parla di cose semplici e buone, di cose pure. Bisognerebbe saper trovare per esse parole veramente umane. Ed io credo che ne siano state pur pronunciate durante questo elevato dibattito sul tema della scuola. Ma forse non tutto è stato sentito in termini di umanità. Mi pare che abbia pesato su di noi come l'ombra creata da un dissidio, che si è fatto sempre più aspro, fra i sostenitori, come si è detto, della scuola di Stato e i sostenitori dei diritti della scuola non statale; o, come si esprimeva l'onorevole Calosso, fra i sostenitori della scuola di Stato e i sostenitori della scuola cattolica.

Tutto ciò ci ha in qualche modo distratti dal nostro obiettivo, forse anche un po' per colpa nostra; e vorrei, con tutta sincerità, domandare perdono all'Assemblea, se da parte nostra, anche per necessità polemica, è stato accentuato questo dissidio e si è trascurato un problema che dovrebbe trovarci tutti egualmente concordi, il problema della scuola senza qualificazioni, della scuola nella quale riponiamo veramente ogni nostra speranza, perché quando siamo di fronte alla scuola, veramente si accende o si riaccende la speranza.

Pensiamo in questo momento, al di là delle necessità contingenti del dibattito, alla sorte della scuola in Italia; pensiamo a quello che essa può rappresentare per la ricostruzione spirituale del nostro paese; ai mezzi più opportuni, nella maggiore concordia possibile degli spiriti, perché la scuola sia quello che deve essere, quello che vogliamo, con ferma volontà, che sia.

E un'altra cosa io vorrei dire preliminarmente. Io credo, a nome anche dei miei colleghi, di dover rendere omaggio alla scuola dello Stato. La scuola dello Stato ha in Italia una grande tradizione ed una solida struttura e può rendere veramente grandi servigi al paese. Non si è nel vero, quando ci si presenta come nemici della scuola di Stato. Noi la rispettiamo, e, aggiungo di più, noi la sentiamo nostra. È veramente un pregiudizio quello che ci presenta come antistatalisti, per costume, per consuetudine. Ricordo le parole dell'onorevole Nenni, riprese sia nel suo giornale, sia in questa sede, da altri oratori a proposito dell'articolo 7 ed a proposito della scuola. Si dice che noi democristiani vorremmo umiliare lo Stato. Non è vero. Noi attribuiamo allo Stato ed alle sue istituzioni, e quindi anche alla scuola di Stato, una straordinaria importanza nella vita umana. Noi crediamo nello Stato che, pur con tutte le sue insufficienze, che sono ad esso connaturate, resta una forma elementare ed essenziale di solidarietà umana, alla quale non possiamo rinunziare.

Si potrebbe dire: «Voi non rinunziate allo Stato, perché anche lo Stato è uno strumento della vostra conquista».

Io rispondo: «Non rinunziamo allo Stato ed alle sue istituzioni, perché crediamo che lo Stato sia una indispensabile, doverosa forma di solidarietà umana. E certamente noi, che abbiamo un'idea del mondo e cerchiamo di tradurla coerentemente in tutta la vita, operiamo nello Stato per ispirarlo in tutte le sue istituzioni alla nostra idea del mondo». È, prima che un diritto, un dovere, dal quale nasce quel rispetto sincero di cui parlavo poc'anzi, quell'impegno leale di azione politica che s'inquadra perfettamente nello spirito cristiano.

Spero quindi che i miei colleghi vogliano darmi atto che noi non vogliamo né umiliare lo Stato né depotenziare la scuola dello Stato.

Anche la scuola dello Stato è nostra. La frequenta il popolo italiano, che sappiamo essere nella stragrande maggioranza cattolico. Se noi dovessimo rivendicare la nostra presenza soltanto nell'ambito della scuola non statale, dovremmo dire che la nostra gioventù che ha una fede, la nostra gioventù che frequenta la scuola dello Stato, non è più nostra. Sappiamo che invece essa è nostra. Ed abbiamo, perciò, anche nei confronti della scuola statale, una posizione di grande rispetto, di umano e cristiano rispetto.

Le nostre rivendicazioni sul tema della scuola si esprimono in due semplicissime formulazioni.

Noi chiediamo la libertà della scuola e chiediamo — aggiungo — una libertà effettiva della scuola; espressione, quest'ultima, che ha dato luogo, forse più di ogni altra, ad equivoci e che perciò mi riprometto di spiegare nel corso della mia esposizione.

Noi rivendichiamo dunque la libertà della scuola di fronte alla libertà nella scuola dello Stato, di cui hanno parlato tanti autorevoli colleghi.

Questo richiamo comune, sia pure con accenti così diversi, alla libertà, in questo tema suggestivo dell'educazione, non può certamente destare sorpresa. Parliamo di libertà noi, parlano di libertà i nostri colleghi. Non può stupire, perché noi siamo di fronte alla educazione, nella quale, per così dire, l'idea della libertà è assolutamente connaturata; siamo di fronte ad un processo che crea spiritualmente l'uomo, che, ponendolo a contatto colla realtà, lo rende cosciente di sé e del mondo, padrone di sé, veramente uomo.

Dire umanità vale quanto dire libertà; dire educazione, che forma l'uomo, vale quanto dire libertà, senza della quale l'uomo non esiste. Che cosa costituisce il punto di divario — che io voglio esaminare con la maggiore serenità — tra noi ed i colleghi?

Mi pare che nella posizione dei nostri avversari vi sia accenno ad una integrazione di questa idea elementare della libertà connaturata coll'uomo e col processo di educazione che crea l'uomo, quando si parla di libertà nella scuola dello Stato; la quale permette che nel suo ambito si elevino tutte le voci, si espongano tutte le teorie, si prospettino tutte le verità. Quando si parla della scuola dello Stato, come quella nella quale confluiscono tutte le opinioni e tutti gli orientamenti, e cioè altrettanti sistemi di educazione, altrettanti processi educativi, si dice evidentemente che la libertà in materia di educazione non si può raggiungere, se non quando la libertà umana che si va svolgendo attraverso il processo educativo sia socialmente ambientata, quando vi sia un ambiente nel quale la educazione umana si possa compiere liberamente.

Io ricavo dalle vostre stesse elaborazioni, amici, questa idea fondamentale, che io, nel suo nucleo, accetto. Accetto l'idea di un confluire di diverse correnti e di diversi sistemi verso la persona umana, che trova così un ambiente sociale (ed è il punto di divario che poi cercherò di chiarire meglio) nel quale essa possa scegliere il suo orientamento educativo.

Che cosa noi rigettiamo? Rigettiamo l'idea dello schematismo dell'iniziativa statale; rigettiamo l'idea che soltanto nello strumento coordinatore obbligato dell'iniziativa statale debbano confluire e comporsi in unità le varie correnti di educazione, i diversi orientamenti e sistemi. Rigettiamo l'idea che contemporaneamente in qualsiasi età tutte quante le voci, tutti quanti gli orientamenti debbano giungere — e certo in modo disordinato — alla coscienza malleabile dell'educando. Accettiamo sì questa idea che non vi è libertà in materia di educazione, se non vi è pluralità di correnti e di iniziative educative, ma neghiamo che la libertà si realizzi attraverso l'ordinamento, che lo Stato pone nella sua scuola, delle varie correnti educative.

Cioè, a noi sembra essenziale, perché vi sia una vera libertà in materia di educazione, che sussista accanto all'iniziativa statale — nella quale le diverse correnti educative confluiscono in un modo tipico — una molteplicità di iniziative educative ed una possibilità effettiva di scelta da parte (per ora, diciamo così) di coloro i quali sono interessati al processo di educazione.

Del resto, noi abbiamo affermato più volte la libertà di pensiero e di espressione del pensiero, della quale l'insegnamento è altissima manifestazione. Il ritrovarsi in altri, il completarsi in altri in quella tipica comunione di spiriti che caratterizza l'insegnamento è una forma speciale, la più nobile e responsabile, di libera espressione del pensiero.

Ora, io non dubito sia vera l'affermazione che è stata fatta ripetutamente in quest'Aula, che cioè nella scuola dello Stato sia fatta salva questa libertà. Ma non credete che, diventando esclusiva la cornice dell'iniziativa statale, nella quale si inquadrano le diverse libertà di esprimere il proprio pensiero nella forma tipica dell'insegnamento, questa libertà verrebbe in qualche modo sminuita? Lasciamo che nella scuola di Stato confluiscano tutte le correnti di pensiero e tutte le verità che vogliono espandersi per formare l'uomo, ma non obblighiamo a entrare nell'insegnamento di Stato coloro che sono posseduti da questa nobilissima ansia di dare agli altri, al di fuori di ogni schema obbligato, la verità nella quale essi credono. Tutti hanno diritto d'insegnare, il quale diritto però, per quanto ho detto, non sarebbe pienamente riconosciuto, se tutti fossero costretti a ricorrere all'iniziativa dello Stato. E tutti hanno, correlativamente, il diritto di scegliere quell'indirizzo educativo che meglio risponda alle proprie esigenze spirituali ed ai propri orientamenti.

Noi, a questo proposito, parliamo di diritti della famiglia. Qualche osservazione è stata fatta su questo punto e c'è stato detto, se non sbaglio, dall'onorevole Preti, che noi ci riferiamo alla famiglia per ragioni tattiche, perché in realtà dietro la famiglia noi facciamo avanzare la Chiesa con la sua pretesa ad educare, a possedere cioè l'anima dei giovani. Ma questa nostra presunta tattica del silenzio sulla Chiesa sarebbe talmente trasparente, talmente ingenua, che noi — credetemi — non vi potremmo ricorrere con speranza di successo. Noi parliamo della famiglia, perché effettivamente abbiamo per essa il rispetto più profondo. Benché, in effetti, nella maggioranza dei casi l'orientamento della famiglia coincida con quello della Chiesa che accoglie le energie spirituali e conserva le tradizioni più sacre del popolo italiano, tuttavia la famiglia può avere un diverso orientamento, che noi crediamo di dover egualmente rispettare. E per noi i diritti della famiglia sono, per così dire, una cosa sola con quelli dell'educando. Io vorrei saper trovare a questo punto parole adeguate per spiegare questa che è per me, assai più che una convinzione razionale, come un'intuizione che mi guida con la sicurezza profonda e riposante che sa dare una fede.

Io ho sentito l'onorevole Codignola, e poi l'onorevole Bernini nel suo chiaro discorso, parlare di un arbitrio possibile della famiglia. È vero, si è detto, che qualora lo Stato non rispettasse la libertà della coscienza che si svolge, commetterebbe un atto di arbitrio; ma di fronte a quest'arbitrio dello Stato ve ne può essere un altro ancora più grave, ancora più pericoloso: l'arbitrio della famiglia, della famiglia nella sua ristrettezza mentale, nella sua incapacità tante volte di elevazione morale, nella sua visione ancora troppo particolaristica della vita. Ebbene io vi dico qui non la mia convinzione razionale soltanto, ma sopratutto la mia fede nella famiglia, in quella che io chiamerei una compenetrazione vitale tra l'anima del fanciullo e la sua famiglia. Questa compenetrazione vitale, che a me pare cosa veramente ineffabile, è il mistero luminoso della famiglia; una appartenenza vigorosa e pur delicata dell'uomo al più piccolo, al più elementare, al più umano dei gruppi sociali, un'appartenenza dell'uomo che non ne spezza ma ne consacra la libertà. Credo perciò, guardando la cosa da questo punto di vista, di non dover neppure distinguere tra un diritto dell'educando e un diritto della famiglia.

Io ho distinto nella mia iniziale relazione in sede di Commissione e, parlando allora da giurista, dicevo che, come per altri aspetti fondamentali, anche per questo, si doveva riconoscere alla famiglia, costituita come entità, un potere di rappresentanza dell'educando. Ma ora, parlando in questo senso, io credo veramente di non poter più distinguere da un punto di vista, vorrei dire umano — spero che voi mi comprenderete — il diritto del fanciullo ad essere educato e il diritto della famiglia di scegliere il suo orientamento educativo, di ritrovare nella scuola di propria fiducia sé stessa. Non si può distinguere, perché sono veramente una cosa sola. Vi è questo punto centrale, vi è questo punto fermo che nella libertà della famiglia dobbiamo riconoscere realizzata veramente la libertà del fanciullo.

Io ricordo le parole dette dall'onorevole Giua, il suo accenno all'educazione chiusa che viene impartita nella famiglia e, per la famiglia, nelle scuole che ne riscuotono la fiducia. Ritornava su questo tema anche l'onorevole Codignola, parlando di educazione monopolistica o catechistica. La scuola cattolica, come è stata chiamata con un senso pungente, darebbe un'educazione chiusa, catechistica, monopolistica di fronte alla libera educazione dello Stato. Il quale, inquadrando in quella cornice, di cui parlavo poc'anzi, le libere iniziative educative, permette che esse confluiscano e contemporaneamente giungano all'anima del fanciullo. L'onorevole Codignola, chiarendo questo punto, diceva che nelle scuole dello Stato noi abbiamo più precisamente un metodo di ricerca della verità. Quello che conta non è che sia insegnata una verità; se si vuole veramente educare alla verità, importa abituare al metodo critico della ricerca.

Voi vedete come si insinua, a questo punto, un orientamento particolare che merita tutta la nostra attenzione. Permettete quindi che dica qualche parola su questa pretesa educazione chiusa. Ed allora, onorevoli colleghi, guardiamo alla realtà delle cose, guardiamo alla nostra esperienza di uomini. Crediamo davvero che ad un fanciullo si possa dare in pasto tutta la verità ad un punto, crediamo d'avvero che egli in quella età possa essere chiamato a scegliere con discernimento critico quale è la sua verità, quella nella quale egli debba credere, quella che lo accompagni per tutta la vita?

Se abbiamo senso di realtà, mentre ciò riconosciamo per i gradi più alti dell'istruzione, dobbiamo ritenere che la libertà sia salva, quando onestamente sia dato un primo indirizzo, un primo orientamento, che faccia nascere nel fanciullo che si apre alla vita una fede basilare, quella fede che magari si trasforma nel gioco della vita e si completa e si affina, ma non si perde mai. Dare una fede al principio della vita significa formare un'anima forte per una vita dura. Noi sappiamo che nessuna educazione chiusa in fondo riesce a sottrarre l'anima del fanciullo a questo flusso perenne della vita, a questa straordinaria prova della vita. Credete davvero che gli uomini restino sempre con quelle idee che hanno ricevuto in un momento e che non le mettano per un'esigenza spontanea, sotto la pressione della storia che passa ogni giorno, che non le mettano al vaglio della realtà? Credete che gli uomini non ritornino su se stessi? Vi è una prova della vita che rende impossibile ogni educazione chiusa. Ma quando noi diciamo: «Lasciate che la vita venga con la sua prova, quando il tempo è giunto», non vi domandiamo di uccidere la libertà del fanciullo, ma di preparare una base sulla quale la vera, la critica libertà del fanciullo possa svilupparsi al momento opportuno.

Io credo anche ad una misteriosa comunione delle idee e non mi pare sia necessario che vengano tutte presentate alla mente del fanciullo ad un punto. Vi è veramente una misteriosa comunicazione nel mondo dello spirito. Lasciate che insegnino uomini diversi, di diversa fede, lasciate che diano diverse verità; non è necessario che giungano a quell'anima tenera in un momento solo. Lasciate che si svolgano; sono nell'aria; questa complessità della vita si respira, e man mano che si va avanti, il giovane capisce. Lo sappiamo; chiunque abbia — io ne ho un poco — esperienza della gioventù sa bene che nessuno si ferma in questo cammino della vita; sa che vi è un momento di crisi, nel quale veramente questa esigenza critica — in questo caso, giusta — si presenta; e allora il possesso della verità diventa definitivo.

Lo Stato educatore. Ne hanno parlato tanti onorevoli colleghi: Preti, Binni, Bernini, Codignola. Io vi dico sinceramente la mia opinione: credo che lo Stato possa anch'esso educare; credo in questa, vorrei dire, superindividualità dello Stato; questo suo andare al di là degli interessi particolari, dei particolari orientamenti.

C'è un profondo motivo di vero in quella osservazione che è stata fatta, mi pare, nella sua relazione dall'onorevole Marchesi, che io voglio qui ringraziare per la sua bontà, per la sua affettuosità, per la cordialità della sua collaborazione, data in tutti questi difficili mesi del nostro lavoro di Commissione. Questa idea era in un suo articolo nel primo progetto da lui presentato, quando l'onorevole Marchesi diceva: «Lo Stato ha il compito essenziale dell'istruzione, perché rappresenta, al di là delle classi, delle famiglie, delle regioni, un'idea universale». Io non posso non riconoscere questa verità. Certamente; e per questo apprezziamo lo Stato — l'ho detto prima. È un'esperienza umana lo Stato che ci dà questa prima idea; questo primo lampeggiamento di un'esigenza universale, alla quale noi ci dobbiamo piegare, di una realtà superindividuale che in qualche modo ci comprende; ma non posso riconoscere allo Stato — mi dispiace di usare una brutta parola — il monopolio dell'educazione, una capacità eminente, quasi esclusiva, di educare, perché, accanto alle esigenza di universalità che lo Stato sa far valere quando è democratico, quando rispetta l'uomo, vi sono altre esigenze di universalità che sono altrimenti proposte.

La nostra vecchia idea del pluralismo giuridico non è una cosa giuridica, è una cosa squisitamente umana; è l'idea della complessità degli ordini che sono nella vita. E la complessità degli ordini umani, badate, non è fuori dello Stato, il quale prende posizione, li riconosce, si coordina ad essi e li coordina a se medesimo. Lo Stato non è veramente democratico, se è di fuori da questa realtà, se si chiude in se stesso, se non conosce altro che se stesso.

Vedete, quando io sento parlare di laicismo, quando io sento parlare di questa chiusura dello Stato il quale non si riconosce negli altri ordinamenti, non si ritrova in altre forme di relazione umana, in altre intuizioni universali che corrispondono all'esigenza universale dell'uomo, io mi spavento.

Vi deve essere un principio di coordinamento dello Stato con le altre iniziative sociali che operano sulla vita morale dell'uomo. E soltanto riferendoci ad esso, noi possiamo comprendere quale è il punto in cui lo Stato, da legittimo educatore, diventa sopraffattore della personalità che viene separata da altri ambienti che sollecitano l'uomo all'universale.

La vera libertà, per la quale oggi combattiamo, è nel superamento di ogni esclusivismo, tanto che, anche in materia scolastica, lo Stato possa essere il sapiente coordinatore delle varie energie morali che si sprigionano nell'ambito della vita umana e della storia. Questo è l'unico modo per non chiudersi in un recinto, dove, appunto per il suo esclusivismo, lo Stato cessa di essere un autentico educatore.

Mi pare che queste idee dell'importanza, della straordinaria importanza dello Stato nella vita umana da un lato e dall'altro, dell'insufficienza dello Stato guardato nella sua esclusività, siano presenti quotidianamente nella nostra esperienza di uomini. Quando noi, onorevoli colleghi, poniamo un problema di libertà, noi non poniamo soltanto un problema di libertà politica, ma più largamente un problema di libertà umana.

Ed è appunto questa esigenza di libertà umana che comprende la libertà politica e la supera (la supera in un'ansia di liberazione che non è soltanto liberazione nell'ambito dello Stato ma anche, in alcuni momenti, per taluni aspetti della nostra personalità, liberazione dallo Stato), è appunto questa liberazione che rappresenta l'insufficienza dello Stato e delle iniziative dello Stato, in questa cosa meravigliosamente varia, stupendamente libera, che è la vita umana. Soltanto in questo riconoscimento di una realtà più larga che comprende lo Stato la soluzione del problema della libertà politica implica anche l'integrale soluzione del problema della libertà umana.

Il pericolo di una dittatura, intendete nel senso buono, come cosa che va al di là delle vostre intenzioni, si annida in questa idea dello Stato esclusivo educatore. Si annida come un pericolo che noi dobbiamo combattere.

Quando l'onorevole Codignola parlava della libertà delle iniziative scolastiche che si ha nell'ambito dello Stato e diceva che questa libertà è la libertà del metodo critico, quasi senza accorgersene, io sono certo, passava a contrapporre ad una verità un'altra verità considerata comprensiva ed essenziale. Questa libertà del metodo, questa libertà della critica noi sappiamo che giunge a qualche cosa. Noi sappiamo che qui si può annidare, contro le vostre intenzioni, onorevoli colleghi, un dogmatismo, che finirebbe per svuotare la scuola dello Stato di quel senso di libertà che veramente la innalza nella considerazione di tutti noi e ci permette di dire che noi rispettiamo la scuola dello Stato e rendiamo omaggio ad essa.

Noi siamo, onorevoli colleghi, raccolti qui, proprio per evitare questo pericolo, proprio per evitare le punte estreme. E da parte nostra crediamo sinceramente di aver fatto delle rinunzie. Non vi abbiamo chiesto, se non di riconoscere questa libera realtà della vita spirituale, che con parole così inadeguate e così povere io ho cercato di esprimere, e di costruire un sistema costituzionale in tema di scuola che sia imperniato sul parallelismo fra la iniziativa statale e la iniziativa non statale.

E qui io farò una rapidissima corsa attraverso la struttura giuridica che la Commissione ha elaborato su questo punto.

Mi pare che il carattere dominante di questa sistemazione sia appunto il parallelismo fra la iniziativa pubblica e la iniziativa privata, restanti ciascuna nel proprio ambito, riconosciuta allo Stato legislatore tuttavia quella certa preminenza alla quale noi non ripugniamo e che si concreta nel suo potere di ordinare con norme generali la materia della istruzione e di controllare, nella forma che dirò fra poco, la concessione dei titoli di abilitazione professionale e di accesso a taluni ordini di scuole. Naturalmente dovevamo chiedere, come abbiamo chiesto, libertà per gli enti e per i singoli di gestire scuole ed istituti di educazione, i quali, fin quando non richiedano particolari riconoscimenti dello Stato, debbono essere assoggettati soltanto alle norme per la tutela del diritto comune e della morale pubblica. Espressione questa, nella sua complessità, da non sottovalutare, in quanto per essa si permette allo Stato un controllo della serietà, della moralità e della efficienza, nel senso più elementare della parola, delle scuole, le quali, al di fuori di ogni specifico riconoscimento, realizzano la libertà di insegnare al di fuori della iniziativa statale.

Abbiamo aggiunto un'altra richiesta, la richiesta del diritto costituzionalmente garantito alla parificazione. E su questo punto, sia pure fra parecchie incertezze e dopo una discussione estremamente lunga, noi giungemmo ad una sistemazione che raccolse i voti pressoché unanimi della Commissione. Io ricordo che votarono contro soltanto l'onorevole Basso e l'onorevole Cevolotto, mentre l'onorevole Togliatti, l'onorevole Iotti e l'onorevole Marchesi, mostrando un senso squisito di comprensione, del quale io do loro atto con un vivo ringraziamento, ritennero dopo le nostre spiegazioni, che furono esaurienti e sincere, di dover riconoscere il diritto alla parificazione.

Alla fine l'onorevole Marchesi fece alcune riserve di carattere interpretativo, se non sbaglio. Io ho sentito, a questo proposito, osservare da qualche parte che noi vorremmo cristallizzare l'istituto della parificazione così come è confusamente preveduto da alcune disposizioni attuali.

Io rispondo che ho sempre creduto, svolgendo attività costituzionale, di dover impegnare la legge futura, ma di non essere comunque impegnato dalla legge presente. Anche quando, per una necessità direi terminologica, si adopera un'espressione la quale ricorre già in disposizioni legislative, la Costituzione non fa per ciò riferimento ad esse, e la legge resta libera di disciplinare l'istituto nel modo più conforme alle esigenze che si vogliono realizzare.

Nessuno di noi ha voluto far riferimento agli attuali istituti del pareggiamento o della parificazione. Si è voluto soltanto sancire il principio che vi siano delle scuole non statali le quali, dando speciali garanzie di efficienza didattica, possano ricevere un particolare riconoscimento dallo Stato. Il riconoscimento in che cosa si concreta? Si concreta evidentemente nel potere, nei limiti che la legge stabilirà, di accompagnare, direi, per un certo tratto lo studente nel corso di studi che esso segue mentre, opportunamente intervallati, si interpongono alcuni esami di Stato per una rinnovata prova dell'efficienza didattica della scuola e del rendimento degli studi che in essa si compiono.

Esami di Stato. Anche su questo punto si sono dette cose che non corrispondono alla nostra intenzione. Io noto che nella nostra prima formulazione, quella concordata con i nostri colleghi ed amici del Partito Comunista e con gli altri amici della Commissione, si parlava di esami di Stato solo, come si diceva, per l'ammissione agli studi superiori, espressione questa forse non del tutto esatta. Ma in una successiva formulazione, cedendo alle insistenze dell'onorevole Basso, il quale parlava a nome del Partito socialista, abbiamo creduto di aggiungere la possibilità di far sostenere esami di Stato anche in alcuni gradi intermedi, nel passaggio di ordine o di grado di scuola, tanto che un controllo dello Stato si compia periodicamente nelle scuole parificate.

Ho sentito far riferimento a quell'esame di Stato addomesticato che sarebbe in vigore in questo periodo. Che io sappia l'esame di Stato che si fa adesso secondo particolari procedure obbedisce ad una esigenza puramente temporanea, in relazione alle disponibilità del bilancio statale in questo momento.

Quando parliamo di esame di Stato, ne parliamo nel suo significato essenziale che abbiamo indicato nel termini più netti nell'articolo 27 in cui si parla di un imparziale controllo e di garanzia della collettività. In ciò si concreta quella parità che sembra cosa tanto misteriosa. L'esame di Stato serve per un imparziale controllo, perché per esso lo Stato opera non in veste di organizzatore delle sue scuole, ma in una luce più alta, in un altro aspetto della sua personalità, tanto che le diverse scuole, statali e non statali, sono di fronte alla sua imparzialità in posizione eguale. Esame di Stato che, nell'atto stesso che raggiunge questo obiettivo, realizza la garanzia per la collettività. Non potete lamentare che si voglia abbassare il tono degli studi, che si voglia compromettere la serietà della scuola, quando chiamiamo lo Stato a controllare attraverso l'esame che la libera scuola sia veramente scuola seria ed efficiente.

Non si pietrifica nulla, onorevoli colleghi. La Costituzione è spesso presentata, per ragioni polemiche, come una cristallizzazione definitiva, dimenticando che si può sempre rivedere in relazione a nuove esigenze sociali in contrasto con i principî in essa contenuti. Ma, esclusa questa assurda cristallizzazione, non possiamo dimenticare, quando parliamo di parificazione e di esami di Stato, che noi con essi garantiamo essenziali libertà in materia di educazione e non possiamo per ciò far rinvio alla legge.

Un altro punto ancora: le provvidenze dello Stato che permettano agli alunni meritevoli e bisognosi di raggiungere i gradi più elevati dell'istruzione.

Su questo punto vi fu accordo unanime, ed anche, se non sbaglio, l'onorevole Basso votò a favore. Si disse che queste provvidenze dello Stato debbono essere a favore degli alunni non soltanto delle scuole statali ma anche di quelle parificate, proprio perché vi sono quei controlli di cui ho parlato e che assicurano del buon rendimento di esse. Anzi fummo proprio noi ad escludere le scuole meramente private che non possono dare le garanzie giustamente richieste.

Ma qui s'inserisce il problema dei sussidi. Si è detto che abbiamo fatto entrare il sussidio per la finestra, quasi di nascosto, e si è aggiunto che questa richiesta di sovvenzioni non ha fondamento logico. Io dico all'onorevole Codignola, che ha prospettato questo problema, che una base logica vi sarebbe, perché si potrebbe dire che le imposte sono pagate da tutti i cittadini; e che, in conseguenza, coloro i quali preferiscono ricevere il servizio in altra forma, che non sia quella dell'iniziativa statale, possano richiedere che dei sussidi vadano in quella direzione.

Ma noi non abbiamo bisogno di appoggiare sulla logica questo problema, perché non l'abbiamo proposto.

Abbiamo chiesto soltanto che, laddove lo Stato ritenga — e sarà, non ci illudiamo, un fatto limitato, nella attuale situazione economica del Paese — di aiutare persone che siano particolarmente meritevoli di raggiungere i gradi più alti dell'istruzione, non si debba obbligare queste persone, cui vanno i sussidi dello Stato, a frequentare necessariamente la scuola di Stato.

Qui, amici miei, è la parità bene intesa; qui, e nelle altre poche cose che ho dette, è quella misteriosa libertà effettiva, che spaventò in sede ci commissione i nostri colleghi, e mi pare che abbia spaventato anche l'Assemblea.

Libertà effettiva che cosa vuol dire? Che cosa c'è sotto questa idea d'una libertà effettiva? Vi è questa realtà molto semplice. Se voi riconoscete alla scuola il diritto di operare, ma, al tempo stesso, le impedite ogni movimento, la mettete in condizione costante di sperequazione, la soffocate attraverso la richiesta di particolarissime condizioni, a questa scuola avete dato una libertà teorica e non effettiva. Ed a partiti, i quali sanno bene quale differenza vi sia tra una libertà teorica ed una libertà effettiva, verso la quale avanza il nostro Paese in sede sociale e politica, io credo di non dovere aggiungere altre parole di spiegazione.

Un ultimo accenno ed ho finito.

La scuola è aperta al popolo.

I meritevoli, e soltanto i meritevoli, hanno diritto di raggiungere i più alti gradi dell'istruzione.

Ho appena bisogno di dire che questa norma ha trovato consenzienti i democristiani, preoccupati essi, come sono per loro naturale tendenza, per loro programma, d'un contemporaneo svolgersi di esigenze economico-sociali e di esigenze spirituali.

Noi crederemmo di aver dato al popolo soltanto una mezza libertà, fino a che non avessimo assicurato ad esso la capacità di capire e di progredire nella vita dello spirito.

Su questo punto vi è dunque il più pieno accordo da parte nostra.

Ed è veramente in questo impegno che noi tutti assumiamo il motivo determinante di quella concordia degli spiriti, alla quale accennavo all'inizio come ad una esigenza alla quale nessuno di noi dovrebbe derogare. Una concordia d'intenti bisogna che si stabilisca di fronte ai problemi della scuola.

Non vorrei che ci separassimo e che questa legge costituzionale, così importante, si separasse da noi, per iniziare la sua vita nel nostro popolo, senza che sia dissipata l'ombra d'una discordia e d'un senso di amarezza che pesano su di noi.

In quest'impegno di combattere una battaglia per la scuola — ed io direi — per la scuola libera e per la scuola efficiente, per una scuola che serva veramente al popolo, troviamoci uniti. Domani noi continueremo questa battaglia appena ora iniziata. Si tratta di concretare le grandi linee programmatiche della futura legislazione e della futura azione concreta. Noi dovremo incontrarci ancora e vorrei che ci incontrassimo senza amarezza, con una completa fiducia per combattere questa comune battaglia di libertà, di progresso e di avanzamento spirituale per tutto il popolo italiano. (Vivi applausi al centro Molte congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Corsanego. Ne ha facoltà.

Corsanego. Onorevoli colleghi, l'ora tarda mi costringe a ridurre il mio compito, che era già umile per sé, perché, dopo aver inteso l'amplissima discussione che è stata fatta in quest'Aula da colleghi autorevoli di tutti i settori dell'Assemblea, in ordine ai problemi della famiglia, io devo soltanto dare delle modeste spiegazioni che giustifichino — come relatore e facente parte della prima Sottocommissione — la formulazione che abbiamo dato ai problemi della famiglia nella presente Carta costituzionale, per sottoporli al vostro vaglio e alla vostra approvazione.

Qualche collega ha osservato che gli articoli sono stati presentati quasi di sorpresa. Un deputato, da questi banchi, ha detto: «Un bel giorno ci siamo trovati davanti a questi articoli; speriamo che la Commissione ce li spieghi».

Noi ricordiamo che gli articoli sono stati preceduti ed accompagnati da quattro relazioni; gli articoli del titolo riguardante i rapporti etico-sociali sono stati lumeggiati dalla relazione dell'onorevole Signorina Iotti, dalla mia relazione, da quella del Professor Marchesi e da quella del collega Moro; di più, le quattro relazioni sono state riassunte in quella del Presidente della nostra Commissione, onorevole Ruini. Aggiungo che tutti i deputati hanno avuto a disposizione i verbali delle Sottocommissioni e quindi la presidenza dell'Assemblea ha posto in grado tutti quanti i colleghi di conoscere la genesi, non soltanto di ogni singolo articolo ma, oserei dire — attraverso le numerose discussioni — di ogni singola parola e di ogni singola virgola.

Mi devo occupare soltanto degli articoli sulla famiglia, perché di quelli sulla scuola vi ha parlato il collega ed amico Moro.

Una prima consolante affermazione, un primo consolante risultato, che è un risultato notevole, oltre che politico, un risultato morale: sia nella Sottocommissione, sia nella Commissione dei 75, sia in questa stessa Aula, da tutti i banchi e recentemente, mi pare ieri, dalla onorevole Nadia Spano, abbiamo avuto un unanime riconoscimento dell'importanza della famiglia nella vita sociale. Tutti hanno riconosciuto che si tratta di un'istituzione fondamentale, di una pietra su cui si costruisce l'edificio sociale, che se essa vacilli o si sgretoli con essa pericola e crolla l'intera società civile. Ora, lo Stato non è soltanto un insieme di palazzi, di ministeri, di ponti, di strade, di aule giudiziarie o legislative; lo Stato è prima di tutto un aggregato di famiglie viventi sullo stesso suolo, legate da vincoli di affetto, di fede, di cultura, di tradizioni domestiche; è un insieme di individui che sono riuniti intorno a tanti focolari, per cui lo Stato e la Nazione prendono il dolce nome di Patria, la terra dei padri.

Lo Stato di fronte a questa famiglia, a questa istituzione fondamentale, ha l'interesse di tutelarla e di difenderla. Viene qui subito una prima questione: la Costituzione si deve occupare della famiglia? Ci sono delle voci discordi su questo argomento, e taluna, anche molto autorevole, che vorrebbe cancellare dalla Carta costituzionale le norme sulla famiglia, riservandole soltanto al Codice civile. Come rispondiamo a questa obiezione? Innanzitutto col fatto: dopo la guerra del 1914-18 le Costituzioni che si vennero man mano formando e promulgando hanno dettato nei loro articoli norme sulla famiglia. Così la Costituzione jugoslava, così la irlandese, così la spagnola del 1931, così quella di Weimar, così il progetto del Giappone. Questo è un dato di fatto; ma c'è un motivo più profondo. Troppo abbiamo sofferto nel ventennio passato, troppo siamo stati scottati dal puro arbitrio del legislatore in ordine alla famiglia. Una gentile collega, da codesti banchi di sinistra, ci ricordava che il legislatore, appunto approfittando del silenzio dello Statuto Albertino in ordine alla famiglia, ha potuto dettare una serie di norme che violavano la libertà della famiglia: ha potuto fare obbligo a talune classi d'individui di sposarsi, pena il non far carriera, ha fatto divieto ad altri individui, per esempio agli ebrei, di sposarsi in terra italiana; ha stabilito divieti di nozze con stranieri ed ha ordinato nel Codice civile l'educazione fascista dei figli. Ora, questo totalitarismo noi vogliamo che mediante gli articoli della Costituzione non sia più possibile, cioè noi vogliamo impedire che un'effimera maggioranza parlamentare, e, peggio, un decreto del potere esecutivo, possa scardinare l'istituzione fondamentale della società, che è la famiglia.

Si è detto che la formula: «La famiglia è una società naturale» non è felice. Quanti si sono fermati su questa formula! Io confermo che la formula a me non sembra felicissima. Non era la formula che noi avevamo presentato per prima. Io ne avevo presentata un'altra, e precisamente questa: «Lo Stato riconosce la famiglia come unità (o istituzione) naturale e fondamentale della Società» che poi, attraverso il vaglio delle discussioni, ha subìto tante varianti fino a diventare questa: «La famiglia è una società naturale». Noi troveremo certamente una via di accordo. Prendendo in considerazione i vostri emendamenti e ascoltando le voci che ce li illustreranno, troveremo insieme una formula migliore.

Però quello che importa è di affermare nella Carta Costituzionale che lo Stato non crea i diritti della famiglia, ma li riconosce, li tutela e li difende perché la famiglia ha dei diritti originari, preesistenti, e lo Stato non deve fa altro che dare loro la efficace protezione giuridica.

Il legislatore non può «il libito far licito in sua legge». Qui noi stiamo costruendo una Carta costituzionale la quale codifica, cioè dà forma giuridica, ai diritti di libertà: diritti di libertà della persona, diritti di libertà del lavoro, diritti di libertà umana, diritti della famiglia che sono anteriori alla legge positiva scritta. Non facciamo qui la disquisizione teorica sulla esistenza, e sul significato che gli studiosi danno alle norme di diritto naturale; è certo che la legge scritta deve conformarsi a certe norme che preesistono al legislatore, che sono anzi le sue ispiratrici. Avviene questo anche quando si codificano norme particolari, quando per esempio nel Codice penale si pone la discriminante della legittima difesa e si dice che si può impunemente uccidere il fur nocturnus che viene durante la notte a turbare i nostri sonni, a rubarci il nostro peculio. Che cosa fa il legislatore in questo caso? Il legislatore non fa altro che dare formula giuridica a un diritto preesistente, Ulpiano stesso fin dai suoi tempi lo aveva insegnato: vim vi repellere licet idque ius naturae comparatur.

Noi siamo contro il concetto fascista: «tutto per lo Stato, tutto nello Stato, nulla contro lo Stato», e respingiamo la dottrina totalitaria la quale, considerando lo Stato unica fonte di diritto, vorrebbe che individui ed enti possedessero solo quel tanto di diritti che allo Stato — feudo del partito dominante — piacesse consentire. Voi sapete, e l'abbiamo già detto e ripetuto tante volte, che apparteniamo alla scuola moderna che riconosce la pluralità degli ordinamenti giuridici. Ma qualunque definizione l'Assemblea trovi da sostituire a questa formulazione dell'articolo 23, qualunque sia la definizione che si scolpirà nella nuova Carta costituzionale, ammonisca che la famiglia è una istituzione con norme originarie che lo Stato deve tutelare con la sua potestà legislativa. Alla prima formula che, come Relatore, avevo suggerito, qualche onorevole collega — mi pare l'onorevole Badini Confalonieri — propose di sostituire la parola «nucleo» alla parola «società». Io ho pensato che «società» potrebbe essere forse efficacemente sostituita con la parola «istituzione», cioè «la famiglia è una istituzione». Ripeto, vedrà quale dovrà essere la formula, purché il principio sia affermato decisamente.

A questo punto, in seno alla Commissione, sono sorti dei dissensi, e si sono manifestati su alcuni di questi particolari: prima di tutto sull'articolo 24 il quale dice, come tutti sapete: «Il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Su questo punto ci siamo trovati tutti d'accordo, perché l'articolo riecheggia le più legittime aspirazioni moderne della donna. Debbono essere abrogati per sempre quegli istituti, come l'autorizzazione maritale, che ponevano la donna maritata in una condizione inferiore e ne facevano una perpetua minorenne. Noi vogliamo affermare quindi il valore della madre nella famiglia come centro dell'unità; nei casi di premorienza del marito la donna accentra in sé la patria potestà. Sul primo punto, quindi, l'accordo è stato completo. Ma l'accordo non è stato raggiunto sul secondo comma, in quanto che con la frase: «la legge ne regola le condizioni al fine di garantire (accantoniamo per un momento la vexata quaestio dell'indissolubilità del matrimonio) l'unità della famiglia», noi intendiamo rimandare alla legge tutte le norme con le quali, regolando l'esercizio della patria potestà, non venga sconvolta la naturale gerarchia della famiglia, dove, di regola, il padre deve condividere con la madre diritti ed obblighi.

È un antico vezzo dir male dei giuristi; ma è proprio non tener conto delle esigenze giuridiche il voler affermare in ogni campo la parità assoluta dell'uomo e della donna nella famiglia. Altri colleghi illustri e valorosi hanno affermato che giuridicamente non si possono negare queste esigenze: che ci vuole pure qualcuno nella famiglia che dia il cognome, che scelga il domicilio, che abbia il diritto di rappresentanza, che amministri i beni dei minori.

Anche qui noi troveremo la formula per salvaguardare le due esigenze: da un lato, la parità sociale e giuridica dei coniugi, e dall'altro, la necessaria unità della famiglia che, come ogni società bene ordinata, ha bisogno di esprimere un capo, sia pure il più comprensivo e il più amorevole.

E veniamo alla parte più incriminata, rapidamente, come l'ora ne sospinge. «La legge regola la condizione dei coniugi a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio».

Si rassicurino i colleghi che io non voglio a quest'ora tarda riprendere, neanche in sintesi gli argomenti divorzisti o anti-divorzisti; mi occuperò di questo tema soltanto in ordine alla sua inserzione nella Carta costituzionale.

Ma anche qui cominciamo dal fatto. È stato detto da qualcuno, anzi ripetuto da voci autorevoli: «Perché volete inserire nella Costituzione l'indissolubilità del matrimonio? Nessuna Costituzione ne parla». Ed è una grave inesattezza che si è detta. Parlano dell'indissolubilità del matrimonio, o per ammetterla o per respingerla, alcune Costituzioni: per esempio, quella d'Irlanda. È accaduto qui — permettete una parentesi — un errore curioso: poiché tra le bozze che la Presidenza ci distribuisce, la parola Irlanda, per un errore di stampa, era diventata «Islanda», questo errore materiale fece dire all'onorevole Preti che la Costituzione islandese, cioè degli esquimesi, era una Costituzione la quale non poteva essere tenuta in eccessivo conto come modello. È un lapsus — ripeto — dovuto ad un materiale errore di stampa.

Parlano quindi del divorzio: la Costituzione d'Irlanda, quella del Brasile, quella spagnola del 1931, quella del Nicaragua del 1941, il progetto giapponese, ecc. E non hanno il divorzio nella loro legislazione non soltanto la Spagna, il Portogallo, ma il Brasile, l'Irlanda, l'Argentina, il Canada francese, il Cile, la Columbia, l'Ecuador, il Perù, il Paraguay.

Dunque, non è vero che nessuna Costituzione parli del divorzio.

Si dice, d'altronde, che non è questo un argomento attuale; lo ha detto il Ministro Gullo: non è attuale, non è sentito. In parte possiamo essere d'accordo; anzi, direi, che in gran parte siamo d'accordo che l'argomento del divorzio non è sentito specialmente dalle classi lavoratrici; non è certo una delle rivendicazioni del nostro popolo, oggi, il divorzio; sono ben altre le aspirazioni: le classi lavoratrici desiderano delle riforme agrarie, desiderano delle riforme industriali; desiderano un migliore tenore di vita; desiderano l'adeguamento dei salari alle necessità della vita. Queste sono le vere aspirazioni delle classi lavoratrici italiane.

Allora, chi desidera il divorzio in Italia? Sono alcune classi strigliate di uomini oziosi che vanno ostentando la loro sfacciata ricchezza in un Paese povero, trascinando la vita da un albergo internazionale ad un altro; che danno spettacolo inverecondo nel portare a spasso i loro intrighi d'alcova e che chiamano in aiuto la legge per sanzionare i loro amori di mano mancina e per legalizzare i loro adulterî. (Applausi al centro).

Questi sono coloro che chiedono il divorzio.

Una voce a sinistra. I ricchi vanno all'estero e divorziano ugualmente.

Corsanego. Basta negare la cittadinanza a coloro che l'hanno perduta a questo scopo: il rimedio è subito trovato.

A Roma è nato una specie di comitato divorzista. Ora, per mostrare quanto sia poco consistente e artificioso questo movimento, riferirò un episodio di cui ho avuto notizia per la mia professione di avvocato. Il presidente di questo comitato è stato citato in giudizio per 10.000 lire di pigioni arretrate ed è stato sfrattato per morosità.

Non dobbiamo nasconderci però che c'è stato un discorso che questa Assemblea ha ascoltato con tutta l'attenzione che meritava, un discorso che ha fatto impressione nell'aula e nel Paese per l'autorità del giurista, per l'arguzia del dicitore, per l'abilità del polemista; e questo discorso è stato stampato nei giornali con grossi titoli a caratteri di scatola, in cui si dice che il divorzio c'è già in Italia, ma che è solo per i ricchi e non per i poveri; e si dice ancora che questo illustre onorevole denunzia all'Assemblea Costituente l'ipocrisia dell'articolo 24, che vieta il divorzio in quanto tale articolo mira a introdurre nella Costituzione della Repubblica italiana la indissolubilità del matrimonio, mentre essa è invece praticamente lettera morta nel diritto canonico.

Ora, di fronte a questa grave affermazione, noi abbiamo il dovere di rettificare. Prima di tutto, non fa meraviglia che i profani confondano il divorzio con la dichiarazione di nullità del matrimonio. Ma quello che fa meraviglia è che un giurista di così chiara fama contribuisca a mantenere l'equivoco.

Tupini. E con ostinazione.

Corsanego. E la meraviglia delle meraviglie è costituita dalla seguente affermazione dell'onorevole Calamandrei: che la statistica degli annullamenti di matrimonio ci insegna che presso a poco questi avvengono in numero tale che equivarrebbe a quello che avremmo in Italia se fosse apertamente consentito il divorzio.

Ipocrisia dunque dell'articolo 24. Non basta; ma è stata ripetuta qui la leggenda che solo i ricchi avrebbero ingresso nei tribunali ecclesiastici e che l'indissolubilità matrimoniale è in pratica lettera morta nel diritto canonico.

E di fronte ad una esegesi elegante, ma unilaterale, delle norme che regolano la delicata materia, l'Assemblea è rimasta veramente impressionata. Abbiamo infatti sentito dire: ma è così semplice ottenere un annullamento di matrimonio, che è poi un divorzio travestito. Basta che i coniugi escludano positivamente, all'atto della celebrazione, la sua indissolubilità, o la sua unità, o il suo fine primario, e il matrimonio è nullo:

E qui siamo pienamente d'accordo: la dottrina è esatta. Bisogna soltanto osservare con quale difficoltà si riesca a provare in giudizio questo interno moto dell'animo e della volontà. Dinanzi ai tribunali ecclesiastici deve ciò essere dimostrato con prove che siano al di sopra da ogni sospetto e veramente concludenti. La dimostrazione deve mettere fuori dubbio che gli sposi abbiano avuto al momento del matrimonio la intenzione di escludere il diritto e l'obbligo relativo ad uno dei tre beni medesimi e non del semplice esercizio del diritto o adempimento dell'obbligo.

Ed allora i giuristi capiscono per esperienza come questa sottile distinzione renda estremamente difficile dimostrare che un dato matrimonio è veramente nullo ed ottenere quindi una sentenza favorevole.

Ma, continua, impressionando l'Assemblea, l'onorevole Calamandrei: sapete che questa prova si può precostituire? Anzi, vi sarebbero, secondo lui, degli uffici che egli non osa chiamare legali (e fa bene, perché, se esistessero, non meriterebbero questo nome) dove si può fabbricare una specie di assicurazione preventiva contro l'indissolubilità del matrimonio. Si firma una carta con cui due coniugi si impegnano di dichiarare a suo tempo che essi avevano posto una di queste condizioni alla base del loro contratto matrimoniale, e quando uno dei due coniugi, o entrambi, vorranno interrompere la loro convivenza, andranno nella cassaforte della banca, caveranno fuori il documento e con questa prova precostituita otterranno la nullità matrimoniale, la quale altro non è che un divorzio camuffato.

Ora il professor Calamandrei ha affermato una verità di diritto sostanziale, ma ha taciuto una verità di diritto processuale, cioè si è dimenticato che nel Codice di diritto canonico, c'è il canone, cioè l'articolo 1971, il quale è molto chiaro e lampante a questo riguardo: esso nega l'azione di nullità del matrimonio al coniuge colpevole, cioè a colui che ha posto maliziosamente la condizione di nullità; cosicché, se il coniuge si precostituisse con questa burletta la prova, esso avrebbe la matematica certezza che non potrebbe ottenere la sentenza di nullità. Questo per un preciso divieto del diritto canonico processuale; ripeto: canone 1971. Ed anche nei rari casi nei quali il colpevole è solo uno dei due coniugi, e quindi il coniuge innocente ha diritto di agire, in questi casi sono talmente guardinghi i giudici ecclesiastici nell'ammettere questa prova che non solo sono rarissime le sentenze affermative a questo riguardo, ma spesso, quando la sentenza è pronunziata per una causa colpevole, si aggiunge una clausola poco comoda per chi volesse trasformare la nullità in divorzio, una clausola che vieta ai coniugi il secondo matrimonio.

Dunque non è così facile operare un annullamento burletta.

Vi ha poi parlato il professor Calamandrei di un altro caso. Egli vi ha detto: Immaginatevi come è larga la Chiesa in materia di dispensa matrimoniale per quanto riguarda il matrimonio rato e non consumato; per esempio, due coniugi si sposano, e dopo aver detto il loro sì fatale, uno dei due coniugi va a chiudersi in un convento, entra nella Compagnia di Gesù, e la Chiesa pronunzia la nullità di questo matrimonio rato e non consumato. Vedete che grave rischio per la indissolubilità del matrimonio? Quante volte, voi che avete assistito a tanti matrimoni, avete visto che la sposa o lo sposo, dopo la cerimonia, si è precipitato a rinchiudersi in una cella monastica? Ma sono questi i surrogati del divorzio? La cosa ha un'importanza teorica; perché viceversa il Codice di diritto canonico vieta l'ammissione in noviziato nei conventi a chi è coniugato. Vero è però che a questo divieto si può dare dispensa, ma la dispensa non viene concessa senza il consenso dell'altro coniuge e quindi essa è analoga a quella del matrimonio rato e non consumato chiesta per via ordinaria.

Ma è proprio vero che ci sia soltanto per i ricchi questa nullità matrimoniale ed è vera la gravissima affermazione che in Italia si fanno annullamenti tali che se ci fosse il divorzio il numero sarebbe presso a poco eguale? Io non riesco a capire come possa essere sfuggita una così grave inesattezza ad un uomo del valore del professor Calamandrei.

Si dice che le statistiche dicono quello che si vuole. Però in questo caso sono talmente evidenti, che non c'è nessuna forzatura di parte, nessuna tesi precostituita che possa farle tacere. È di dominio pubblico qual è il numero dei divorzi nei paesi in cui esiste il divorzio: sono a diecine di migliaia i divorzi; ed in America a centinaia di migliaia. Basta ricordare l'Inghilterra che ha cominciato modestamente nel primo anno in cui funzionò la legge sul divorzio con 850 divorzi ed oggi ne ha cinquantamila all'anno. Basta sapere, come ha detto un collega in questa Assemblea, che oggi in America si ha un divorzio ogni tre matrimoni.

Ed allora volete sapere quali sono le statistiche delle nullità matrimoniali che si ottengono dai tribunali ecclesiastici? Le ha già accennate un collega che ha ripetuto le cifre. Io posso precisarle.

In Italia ci sono 18 tribunali regionali che sono autorizzati a conoscere le cause di nullità matrimoniale. Sapete, tutti insieme, quante sentenze di nullità matrimoniali hanno pronunciato nell'ultimo decennio? E badate che queste mie affermazioni sono facilmente controllabili da un lato civile, perché queste nullità sono trascritte nei registri dello stato civile, e poiché attraverso la domanda della Corte di appello competente si ha la trascrizione nei registri dello stato civile, lo Stato viene a controllare giorno per giorno e mese per mese il numero delle sentenze di nullità che vengono pronunciate.

Ora, nel 1936, in tutta Italia furono pronunciate 32 sentenze di annullamento, nel 1937, 34, nel 1938, 45 e così negli anni successivamente 36, 45, 41, 47, 27, 30, 39 e nel 1946 in cui l'influenza della guerra e di tutte le sciagure morali che l'hanno seguita ha fatto alzare il numero, 77. Questo risulta dalla seguente tabella dei matrimoni dichiarati nulli o dispensati perché rati e non consumati in Italia:

Anno Matrimoni
nulli
Matrimoni
dispensati
1936 32 35
1937 34 25
1938 45 31
1939 36 22
1940 45 35
1941 41 42
1942 47 32
1943 27 52
1944 30 26
1945 39 25
1946 77 62

Queste cifre, sommate con quelle degli anni 1929-1935 insieme alle dispense per matrimonio rato e non consumato, ci danno questo totale: in 17 anni, cioè dal giorno in cui è andato in vigore il Concordato fino ad oggi, in Italia sono stati annullati 1156 matrimoni, con una media, compresi i rati e non consumati, di 68 annullamenti all'anno, dico 68, il che significa che, poiché in questo lasso di tempo si sono celebrati in Italia 5.750.000 matrimoni, siamo alla percentuale del 0,02 del totale dei matrimoni. Questa è la minaccia che il diritto canonico fa all'indissolubilità del matrimonio e domando all'equanimità dell'Assemblea se dopo queste cifre, che, ripeto, sono facilmente controllabili attraverso l'autorità civile, sia lecito affermare, e sia serio anche dal punto di vista scientifico, proclamare che l'indissolubilità matrimoniale è in pratica lettera morta nel diritto canonico. (Applausi).

C'è ancora un altro punto, onorevoli colleghi, sul quale le cifre parleranno. Si dice: Ma le nullità di matrimonio sono monopolio dei ricchi. Invano tutti gli anni il Decano del Tribunale della Sacra Rota, che è il più autorevole dei Tribunali ecclesiastici che pronunciano nullità matrimoniali, invano si dà premura di pubblicare la statistica delle sentenze uscite, e di fare la proporzione tra quelle che hanno ottenuto esito favorevole a gratuito patrocinio e quelle che l'hanno ottenuto senza essere ammesse al gratuito patrocinio. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Ora, bisogna che i colleghi sappiano, e io ne farò tema di un mio intervento in sede di discussione sulla magistratura, perché l'esempio meriterebbe di essere imitato dai tribunali civili, che non c'è nessun tribunale al mondo dove il gratuito patrocinio funzioni in modo così perfetto come nei tribunali ecclesiastici. Innanzi tutto gli avvocati, qualunque sia il loro grado, la loro età, la loro abilità, si tratti di avvocati principi o di novellini, sono tutti obbligati dal Tribunale a difendere le cause dei poveri, e questo obbligo è tanto stretto che se un avvocato ha contemporaneamente una causa in cui è difensore di fiducia e un'altra in cui è difensore di ufficio per gratuito patrocinio, il pubblico Ministero o, più esattamente il difensore del vincolo, o il promotore di giustizia, sorveglia le comparse conclusionali dei poveri e le rimanda indietro se non sono redatte con la dovuta diligenza.

Non basta. Le spese dei tribunali ecclesiastici sono elevate, perché elevato è il costo della stampa e davanti al Tribunale della Sacra Romana Rota, tutti gli scritti periziali, le testimonianze e le difese vanno stampate, e tutti sanno quale sia oggi il costo della stampa. Orbene, cosa fanno i tribunali ecclesiastici e il Tribunale della Sacra Romana Rota? Pagano a loro spese la stampa e, mentre per una causa di fiducia, dato l'alto prezzo della stampa, qualche volta si permette che gli scritti siano dattilografati, nelle cause ammesse al gratuito patrocinio gli atti sono tutti stampati a spese del Tribunale.

Non solo. Quando un avvocato non compie il suo dovere nel gratuito patrocinio, viene severamente ammonito e si arriva fino al punto di cancellarlo dall'albo.

Voi dite: in pratica come funziona tutto questo?

In pratica, ecco anche qui delle statistiche. Ma, un momento, mi sono dimenticato di aggiungere che dagli onorari che si ricevono dai clienti abbienti gli avvocati sono costretti a depositarne una parte al Tribunale della Sacra Romana Rota a favore delle cause dei poveri.

Dicevo che ci sono anche qui delle statistiche.

Vediamo una statistica nota: non è una novità, perché ogni anno tutti i giornali portano un piccolo trafiletto — che nessuno legge — nel quale la Sacra Romana Rota dà conto delle sue cause. E voi sapete che il Tribunale della Sacra Rota giudica in seconda o terza istanza le cause di tutto il mondo.

Prendiamo un anno qualunque: il 1940. Le cause di nullità di matrimonio furono 78; ammesse al gratuito patrocinio 33. Nel 1943 le cause furono 91; ammesse al gratuito patrocinio 40.

Ma c'è una cifra ancor più significativa. Voi potete domandare: è più facile ottenere un esito favorevole quando il cliente è di fiducia o quando c'è il gratuito patrocinio?

Rispondo con le cifre:

 

Tributiate della Sacra Romana Rota

Anno

Cause di nullità di matrimoni

Ammessi al gratuito patrocinio

Decisioni negative

Decisioni affermative

gratuito patrocinio

fiducia

Totale

1936

75

38

41

19

15

34

1937

74

40

49

17

8

25

1938

70

39

43

21

6

27

1939

56

25

41

10

4

14

1940

78

33

54

14

10

24

1941

86

39

56

19

11

30

1942

80

38

55

19

16

35

1943

91

40

45

20

26

46

1944

67

30

36

14

17

31

1945

81

38

42

13

26

39

1946

75

36

45

17

13

30

 

833

396

507

183

152

335

 

Ecco, quindi, la cifra totale: nel decennio 1936-1946 il Tribunale della Sacra Romana Rota ha pronunziato, su 833 cause, 335 sentenze affermative. Come vedete, la maggior parte delle cause fu respinta. Di queste 335, 183 erano di poveri, a gratuito patrocinio; 152 avevano il difensore di fiducia. Quindi la maggioranza assoluta delle sentenze affermative, uscite dai tribunali ecclesiastici, sono a favore dei poveri. Come si può ancora sostenere che soltanto i ricchi hanno ingresso nei tribunali ecclesiastici?

Ed allora, arrivati a questo punto, noi dobbiamo rispondere ad un'altra obiezione.

Si dice: «Voi sostenete che nella Costituzione deve essere affermata la indissolubilità del matrimonio per esclusivi motivi confessionali, religiosi e cattolici, in quanto per voi il matrimonio è un Sacramento; perché vi preoccupate dei matrimoni che non sono Sacramento?»

Rispondiamo: «Certo, per noi cristiani il matrimonio è un Sacramento — e non sarò certamente io a sminuire il valore di questa affermazione, perché non erubesco Evangelium; però, non è vero che noi chiediamo di introdurre l'indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale per puri motivi religiosi; la chiediamo anche per motivi civili, per un criterio sociale, perché vogliamo l'indissolubilità del matrimonio per tutti: vogliamo, cioè, che questo istituto salvaguardi l'unità della famiglia italiana; e non è affatto vero che sono soltanto i cattolici praticanti che hanno sostenuto, come giuristi, la indissolubilità del matrimonio, come si è ripetuto diverse volte in quest'aula. Basterebbe ricordare l'origine del nostro Codice civile. Il Codice civile, nato nel 1845-66 introdusse per la prima volta il matrimonio civile in odio alla Chiesa, dopo le leggi eversive del Siccardi, cioè per fare un contro altare al matrimonio religioso; e il Codice si occupava unicamente del matrimonio civile, non del matrimonio Sacramento. Eppure, quel Codice civile affermava la indissolubilità del matrimonio; e non erano certo democristiani i suoi compilatori.

Il Vigliarti dichiarava, con parole testuali: «non per motivi religiosi, ma per motivi dettati dall'interesse della società civile, abbiamo sancito nel Codice la indissolubilità del matrimonio».

Quando noi pensiamo che giuristi insigni come il Gabba, il Codacci Pisanelli, il Salandra, Paolo Emilio Bensa, come Luzzatti, Polacco e Sonnino, che essendo israeliti, non potevano certo tenere in considerazione il matrimonio Sacramento; quando uomini come Morselli, illustre psichiatra positivista, come Zerboglio, deputato socialista, si sono dichiarati apertamente, con scritti notevoli con interventi efficaci, anche nelle aule del Parlamento, contrari all'istituto del divorzio, non si può sostenere che soltanto per motivi confessionali si vuole la indissolubilità del matrimonio.

D'altronde, noi la sosteniamo nell'interesse della società civile, perché siamo uomini cogli occhi aperti, siamo uomini politici, che viviamo nel 1947. E, volgendo lo sguardo intorno, a tutti i Paesi che hanno il divorzio, noi sentiamo il grido raccapricciante di quei reggitori di popoli che sono spaventati dalla devastazione che il divorzio ha portato nel loro istituto familiare. Sono le voci più autorevoli che vengono dagli Stati Uniti, dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Olanda, e, recentemente, dall'Assemblea politica del Brasile, dove è stato affermato il pericolo della dissolubilità del matrimonio. Abbiamo lo stesso esempio della Russia; l'abbiamo sentito dall'onorevole Nobile, della Russia che, dopo aver ammesso il divorzio nel modo più largo, lo ha poco per volta ristretto in modo sempre più severo, perché la stessa Russia si è accorta dello sfacelo che il divorzio portava alla istituzione della famiglia.

E allora, mentre in tutto il mondo s'è fatto l'esperimento, e l'esperimento è stato disastroso tanto da arrivare negli Stati Uniti ad uno scioglimento su ogni tre matrimoni, noi che siamo immuni da questo tarlo sociale, dovremmo cercare adesso di fare un esperimento che il mondo ha già fatto e dovremmo marciare sulla rovinosa china, su cui gli altri tentano ormai di porre dei freni, forse troppo tardi?

Un onorevole collega ha dichiarato, come argomento da tenere molto presente: «Ma, badate, che in fondo quasi tutti i Paesi civili hanno il divorzio». Noi abbiamo visto con quali risultati.

Ma non è questo un argomento. C'è un altro istituto che quasi tutti i Paesi civili del mondo hanno nelle loro leggi e nei loro codici, ed è la pena di morte. Ed è orgoglio della tradizione giuridica italiana di resistere alla corrente universale e di insegnare la superiorità civile delle nostre leggi, non dando ingresso alla pena di morte nella nostra Costituzione e nel nostro ordinamento giuridico. (Vivi applausi al centro).

Analogamente, noi avremo questa superiorità civile su tutte le altre legislazioni; e perché noi che siamo stati attraverso i secoli i maestri di diritto nel mondo, perché dovremmo oggi diventare i discepoli e non opporre invece, col nostro esempio, con la nostra dignità, la indissolubilità del matrimonio? Noi vogliamo questo per tutte le famiglie, qualunque sia la forma di matrimonio a cui esse accedano: lo vogliamo per tutti.

Quando si è parlato in questa Assemblea, in senso divorzista, si sono fatti dei casi pietosi che noi riconosciamo: il solito ergastolano, i reduci, che effettivamente meritano una seria considerazione. Ma non si è posto mente che la risoluzione di qualche caso singolo sarebbe talmente pregiudizievole per quel bene comune che deve essere sempre presente agli uomini e al legislatore. Non soltanto nel matrimonio indissolubile ci possono essere dei singoli sacrificati. Quando il giudice infligge una pena a un delinquente viene sempre sacrificato il coniuge innocente e ne soffrono i figli. Sono infiniti i casi della vita in cui il bene comune prevale sulla così detta felicità dell'individuo. Eppure, la legge resiste ad ogni seduzione di natura sentimentale, per mantenere l'interesse comune al di fuori e al di sopra dell'interesse dei singoli.

D'altronde, troppo spesso si sono citati, anche con accenti di eccessiva leggerezza per la gravità dell'argomento e la solennità di quest'Aula, si sono citati casi di corruzione femminile, di adulteri frequenti. Ora, permettete ad un italiano ed a un padre di famiglia che ha vissuto tutte le tragiche vicende della guerra e del dopoguerra, di affermare che, nonostante che sulle nostre terre siano passate tante truppe straniere ed abbiano portato devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, sia permesso affermare nel Parlamento italiano che la maggior parte delle famiglie italiane è sana, che la maggior parte delle donne italiane ha compiuto con eroismo il suo dovere; sia permesso affermare che le madri, le figlie, le spose sono state degne del grande momento storico. (Applausi al centro).

Non sono soltanto quelle poche donne leggiere, che hanno violato la santità di un giuramento che devono essere presenti al nostro pensiero. Il nostro omaggio e la nostra ammirazione devono andare a tutte le madri e a tutte le spose che hanno piuttosto sofferto ogni sorta di disagi e la fame, ed hanno mantenuta accesa e pura la fiaccola del loro focolare. (Vivi applausi al centro).

C'è finalmente, ed ho finito signor Presidente, il delicato articolo sui figli illegittimi, il quale ha dato luogo, e giustamente, a dissensi ed a riserve. Hanno diritto questi figli naturali di veder cadere gli ostacoli che si frappongono al loro ingresso nella vita sociale e nella vita civile, hanno soprattutto diritto, specialmente i bambini nelle scuole, di veder cancellato dalla loro pagella scolastica quel figlio di N.N. che rappresenta per loro un tremendo marchio d'inferiorità di fronte ai propri compagni. Per questo, i figli nati fuori del matrimonio devono avere la certezza che noi li tuteleremo nella Carta costituzionale, come li tuteleremo nella legislazione futura. Certo è però — anche qui i giuristi insegnano, i tecnici del diritto lo sanno — è impossibile materialmente, impossibile giuridicamente, creare per tutti una situazione giuridica identica e ai figli legittimi e ai figli illegittimi. Basterebbe l'esempio dei figli adulterini che, per essere figli di uno solo dei due coniugi, hanno per questo fatto, una diversa posizione giuridica nella famiglia. Quindi, l'assoluta equiparazione urta contro ostacoli di indole giuridica, oltreché di indole morale. Perciò, anche qui col vostro autorevole aiuto, cioè attraverso i vostri emendamenti, attraverso la vostra collaborazione, noi troveremo certo, la formula che da un lato salvaguardi i sacrosanti diritti dei figli nati fuori del matrimonio e dall'altra non porti attentati alla famiglia legittima.

Osservando con sguardo sintetico gli articoli che verranno sottoposti al vaglio della vostra critica e della vostra approvazione, voi potrete vedere inserita nella Costituzione la disciplina della famiglia, ma vorrei, — e ve lo dico con animo commosso di italiano — vorrei che l'inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale non fosse considerata una vittoria della Democrazia cristiana. No, noi non vogliamo aggiudicarci il monopolio di pretendere che siamo solo noi custodi del focolare e della famiglia italiana. Siamo tutti noi, dal settore dell'estrema sinistra a quello dell'estrema destra, tutti noi legittimi rappresentanti del popolo italiano, che sentiamo il desiderio che la famiglia abbia nella Carta costituzionale la sua tutela giuridica. Lo vogliamo tutti, senza esclusività di partito; non è il trionfo di una parte politica l'inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale. No, onorevoli colleghi, è veramente il popolo italiano, nella sua espressione più alta e più nobile, che è quella dei suoi focolari, è il popolo italiano che entra così, attraverso le sue ben salde famiglie costituite, nella Carta costituzionale. Anche quando i nostri operai vanno a lavorare all'estero, destano l'ammirazione dello straniero, perché essi ricordano la famiglia lontana, spediscono a casa i loro risparmi, anelano a ricostituire la famiglia, o facendola seguire con loro la via dell'esilio, o ritornando alla terra natia, perché è troppo connaturato nelle nostre tradizioni l'amore per la famiglia, considerata da tutti — non soltanto da questi banchi, ma da tutti — come il porto di rifugio che si abbandona (per necessità di studio o di lavoro o di servizio militare) con rimpianto ed al quale si pensa sempre con nostalgia, e nella quale si ritorna sempre con entusiasmo e con commozione. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

Tupini, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Tupini, Presidente della prima Sottocommissione. Desidero comunicare all'Assemblea che, da parte della Commissione, non si intende, in sede di discussione generale, di aggiungere nessun'altra parola a quelle che hanno pronunciato i Relatori onorevoli Marchesi, Moro e Corsanego, e che noi ci riserviamo soltanto, in sede di emendamenti, di dire quello che potremo dire a nome della maggioranza della Commissione, per arrivare a quelle conclusioni che riteniamo compatibili con le discussioni che le avranno precedute.

Presidente Terracini. Dichiaro chiusa la discussione generale. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16 per lo svolgimento degli emendamenti e le votazioni relative.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti